27 marzo 2014 Educazione al consumo di pesce povero: quale strategia di comunicazione?

di Graziella Picchi
Tratto da: "Romani pesci - Da Paolo Giovo agli odierni ristoratori" a cura dell'Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, ROMA 2011
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Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Direzione Gener-pesca



IL  MERCATO  DEL   PESCE: TRADIZIONI,
CONTRADDIZIONI  E  PROPOSTE  OPERATIVE.

Tradizioni

Pescatore-Ortolano

“La spiaggia tra terra e mare, la foce di un fiume a volte canalizzato, il porto: sono questi i riferimenti comuni ad una terza società che, accanto a quella rurale e urbana, caratterizza le Marche lungo i 174 chilometri di costa, per lo più bassa, e le fa anche adriatiche”[1].

Questa terza società era quella costituita dai pescatori, che lungo i 174 chilometri di costa, a bordo delle loro barche  contribuirono, con il loro lavoro al benessere delle popolazioni costiere e dell’entroterra, per non dire dell’equilibrio biologico del mare. C’erano anche i pescatori senza barca, che muniti di attrezzi di facile fattura catturavano Arselle, Telline, Cannolicchi, immersi nell’acqua fino all’inguine, mentre in apnea pescavano Mitili, Ostriche, Tartufi e, quando andava molto bene anche qualche Aragosta. Di questa categoria di lavoratori l’acuto studioso marchigiano Sergio Anselmi[2], docente di Storia economica e direttore dell’Istituto di Storia economica e Sociologia dell’Università di Ancona, scomparso nel 2003, ha sottolineato i tratti antropologici più interessanti dei pescatori: 

“Il contatto con l’elemento liquido, gli incontri nei porti, le occasioni offerte dal rapporto con la città, “i caffé della marina” ad esempio, le relazioni politiche col primo socialismo anarchico, il mutuo soccorso, ecc. ne fanno un ceto con particolare peculiarità. Sono fieri della discendenza marinara, dicono di non aver padroni, perché il mare è di chi lo sa navigare, sono più alfabetizzati dei contadini. Come i nobili, alzano una insegna, la vela colorata con l’emblema della famiglia: la mezzaluna, una croce, la stella, il sole, il delfino, l’angelo Gabriele, il drago, la spada, ecc., di diverso colore su fondo arancione, spesso con i segni dell’araldica (palle, bande, galloni), a volte una scritta di protesta”[3].

I pescatori che avevano in prossimità della costa un pezzo di terra, grande come un orto, non disdegnavano affatto di fare, quando non andavano in mare, gli ortolani. Li chiamavano pescatori-ortolani, e vivevano alle foci dei fiumi con

“…barche di canne e tela cerata, calano nasse per seppie, barattoli da guàttoli, affondano lenze con decine di ami per la cattura di anguille, infilzano, restando in ginocchio sul minuscolo e instabile trabiccolo, passere e sogliole, ben visibili sul fondo, quando l’acqua dell’Adriatico era ancora trasparente”[4].

L’orgoglio di appartenenza dei lavoratori del mare era molto alto, ritenendosi più evoluti dei campagnoli, in virtù della loro vita sociale e di relazioni molto più dinamica e diversificata di quella dei contadini.   
Così a primavera, aprile/maggio, quando erano pronti i primi teneri e dolci piselli, il pescatore-ortolano iniziava la pesca delle seppie con le nasse,  barchetta a remi dal fondo piatto, facile da tirare fino a terra. Incastravano tra le reti rami di alloro potati nell’orto, come richiamo per il deposito delle uova delle seppie, irresistibilmente attratte da questa terrestre pianta aromatica. I pescatori/ortolani non si spingevano mai oltre un chilometro dalla costa, ma rimanevano vicino ad essa. Oltre alle nasse usavano anche la sciabica da spiaggia per catturare Triglie ad agosto, Zanchetti, pesce azzurro e in genere tutti i pesci che stanno vicino alla costa. Quando non riuscivano a vendere tutto il pesce pescato per tirare su qualche soldo, lo cucinavano per casa abbinandolo ai prodotti dell’orto: piselli, fave, carciofi, cavolfiori, peperoni, pomodori, prezzemolo, timo, maggiorana, rosmarino, salvia e molto altro ancora, dipendeva dal pescato, dalla stagione, da quello che rimaneva invenduto nell’orto. E così hanno visto la luce ricette davvero straordinarie come, ad esempio, le Seppie coi piselli, la Rostita, la Mormora ingluppata di cui parleremo in seguito. Degli pescatori-ortolani ce ne parla Rolando Ramoscelli[5], che per decenni ha cucinato una infinità di piatti con i pesci poveri dell’Adriatico, forniti da questa speciale categoria di pescatori. “L’Ortolano-Pescatore organizzava la pesca secondo le stagioni, proprio come obbligava il lavoro di ortolano: Seppie a primavera, Lumachine a fine inverno-primavera, con piccole nasse metalliche, dette cestini, con dentro un’esca che di solito è un pesce azzurro un po’ andato perché così attira di più le lumachine, pur conferendo loro un sapore pungente di “pescino”[6]. I pesci li prendeva con il cogollo,rete a camere consecutive che imprigiona i pesci; la pesca con la sciabica detta tratta; tramaglio (tremaglio) tre teli di rete uno vicino all’altro, i due esterni con maglie grandi e tese, quello interno con le maglie piccole e non tese; retino, rete di sbarramento, selettiva per taglia, che cattura i pesci che entrano nella maglia con la testa e non con la pancia, per cui restano incastrati[7]. Tra tutti questi modi di pesca la tratta è quella più spettacolare, osservabile dalla spiaggia: “A volte nelle reti non c’era nulla, a volte la pesca era copiosa, specie quando il pesce azzurro di piccole dimensioni, facile preda dei pesci più grossi, nei bassi fondali sabbiosi veniva da questi spinto fino a riva, cadendo più facilmente nella tratta. Un rito che si ripeteva dalla primavera a tutto l’estate. Un’altra pesca spettacolare”, continua il nostro interlocutore, “…era quella relativa all’arrivo dei piccoli pesci tra le secche; il pesce era così numeroso che l’acqua sembrava ribollire, buligava, nel gergo marinaro della costa fanese. La gente entrava nell’acqua con canestri e catturava abbastanza pesci per una cena preparata nei seguenti modi: se il pescato era abbondante si cocevano alla griglia; se i pesci erano pochi si marinavano che così facevano più companatico[8]. I piccoli Spratti finivano in padella in frittata, ma infinite erano le ricette con questi pesci a cominciare dal  brodetto di Sardoncini e cavolfiore, un accostamento perfetto per Fano, nota per la produzione di cavolfiori che esporta in tutta Europa, piatto che se ben calibrato è da novelle cucine. Sgombri freschi e piccoli, i Suri, Sugarelli, di una certa misura si facevano arrosto, bolliti al forno con patate e pomodori, rugù di pesce con piselli e fave. Una minestra di riso, rimasta memorabile nella mia esperienza di chef, era fatta con seppie e piselli. Un altro piatto dove il pesce e l’orto formavano un connubio perfetto era la peperonata con gli Sgombri: sulla peperonata si adagiavano le carni di Sgombro già scottato e spinato, poi in forno per 10 minuti. Se si sostituivano gli Sgombri con lo Scorfano il piatto era ancora più buono. La scarpetta in questi casi col pane di casa era d’obbligo. La Sarda, spinata e cucinata dopo due ore dalla pesca, indorata con uovo e pangrattato era fritta nell’olio. Negli anni ’60 nelle zone di costa, quando la pesca era abbondante il pesce si vendeva a piatto, neanche con la bilancia e la frittura di Sardoncini si faceva con lo strutto. Il pesce risultava così più croccante, perché il punto di fumo è più alto dell’olio, e sette, otto Sardoncini con due belle fette di pane saziavano anche gli appetiti più robusti. Con questi pesci, che avevano il grande pregio di essere freschissimi, si facevano dei primi piatti davvero strepitosi, sia asciutti che in brodo”. In certi periodi di pesca abbondante il pesce era fritto nelle piazze durante i mercati  e le fiere e allora il pesce di poco valore trovava una eccezionale valorizzazione monetaria: pesce Azzurro, Zanchetti, Sogliole, Busbane, Paganelli[9], Seppie, Galere (fettucce rosa), qualche Merluzzetto, dentro grossi cartocci di carta paglia, avidamente consumati dai montanari che scendevano a valle durante la fiera dei mercati del bestiame. Tra strette di mano, e una pacca sulle spalle, che coronavano la riuscita della vendita o l’acquisto di una Marchigiana o una Sopravvissana, venivano mangiati quintali di fritto di mare, cotti nello strutto, abbondantemente salati e con l’osteria a portata di mano dove consumare, in religiosa compagnia di compari, amici, familiari e l’immancabile quartino di vino, bianco o nero non faceva differenza, questa leccornia portata dalla costa. “In famiglia, per chi non poteva abusare di fritture e sughi densi, c’era il brodo di pesce fatto con le Mindole (il mendolame prende il nome da Menola, nome italiano di un tipo di pesce molto spinoso ma assai gustoso), nella cassetta ci mettevano il Risso, lo Zerro, il Carlino (piccolo Sargo), l’Occhiata, e la Mormora. Questi erano pesci da brodo, da bollire poi con le erbe aromatiche e gli ortaggi di casa. Quando era pronto si filtrava stringendo tra le mani il pesce cotto sminuzzato, in modo di avere un brodo più saporito. Nel brodo si cocevano i quadrucci oppure ci si metteva a bagno del pane secco. Il brodo di “lusso” era fatto con la testa del pesce Rospo, la Mazzola o Gallinella, il pesce Lucerna o Bocchiucava. Una volta bolliti, la polpa era recuperata per farne polpette, o condita con olio come companatico. La parte più ordinaria di questi pesci era la Busbana o il Morgan o Moletto, pescato al largo. Lo stesso uso degli altri ma non la stessa funzione gastronomica/nutrizionale, come nel caso dei pescatori di San Benedetto del Tronto, che spinavano Busbane o Merluzzetti gialli, li insaporivano con acqua di mare, li esponevano al vento sulla barca e in 24 ore si seccavano.  Si consumavano con mistrà allungato con acqua come fanno i francesi con il pastis e i frutti di mare in Normandia. Quando secchi erano meglio conosciuti col nome di Alfacetti o Alfacetto. Un altro brodo da “sballo” è quello fatto con i granchi rossi quando hanno le uova. D’obbligo cuocerci i passatelli o i cappelletti farciti con la polpa del Paganello. Il brodo di Scorfano era riservato allo zio monsignore o zio d’America, che si ottiene con un bilanciamento di sapori che comprende tutto il pesce”[10]. Ma la ricetta è top secret!. Il nostro chef ci regala un’altra chicca fatta con la Mormora, uno Sparide dell’Adriatico tra i più saporiti: la Mormora ingluppata, di cui riportiamo la ricetta. “Anche il Pagello, una Mindola cresciuta,  è adatto a questa preparazione.  Tra i pesci azzurri la Chieppa o Salpa in italiano è quello meno consumato, perché molto spinoso e con pochi stimatori. Va meglio per la Guglia, pescata con metodi antichi con rete di superficie, che i pescatori pescavano con la Guslara. E’ un pesce con la spina di color smeraldo. Tagliata a rocchi, insaporiti con il classico pangrattato delle arrostite marchigiane, si aggiunge del pomodoro che da un colore rosseggiante. Salvia, cipolla, pomodoro e un goccio di vino bianco e quando bolle si buttano le canocchie vive, coprendole subito. Si chiamano Canocchie alla Sant’Andrea, patrono dei pescatori, che,  pare sia stato ucciso così, bollito”[11]. Nelle zone adriatiche ogni famiglia ha le sue ricette e, secondo Rolando Ramoscelli, gli pescatori-ortolani della costa hanno consentito, con le loro fatiche, di variare la dieta dei lavoratori dell’entroterra, che, come tutti i cristiani, avevano ben 180 giorni di vigilia in un anno e potevano contare solo sul pesce salato del nord Europa. Dalla costa, gli pescatori-ortolani invece inviavano ben altro: pesce azzurro, vongole, seppie, ecc. Il pesce azzurro, per la caratteristica biochimica degli acidi grassi omega 3, è buono solo quando è appena pescato e cucinato. Il tempo che passa tra la pesca e la messa in tavola oggi è troppo lungo e il sapore si altera al punto da non essere più appetibile, specie ai giovani. Tra i pescatori circola infatti un detto che ad ogni ora che passa il pesce azzurro perde una qualità; così dopo 24 ore le ha perse tutte. Per questo il suo consumo è oggi in ribasso. Ma ci sarà qualche altro motivo? E’ noto che l’uomo si nutre anche di simboli, e il colore del pesce azzurro ricorda il colore dell’ossido di rame, che rimanda alle polente di mais cotte nei paioli fatti di questo metallo. Il colore dell’ossido, molto simile all’azzurrino del pesce di cui parliamo, le Guglie,  è secondo Piero Ricci[12], un colore ancora percepito come repellente nell’immaginario della gente, tanto che per sdoganarlo e immetterlo nel filone alimentare, c’è voluto l’azzurrino gelato dei Puffi. Ci pare una osservazione interessante. Tornando al tempo che fu “Ogni stagione aveva la sua frittura: a primavera c’era il pesce azzurro, la Papalina, oggi è proibito pescarla e lo Spratto; in estate il Rosciolo (triglia), più il pesce azzurro; in autunno la Triglia, il pesce azzurro, le Zanchette, le Busbane, Paganelli, Merluzzetti, Calamaretti, Seppie giovani, ecc.; in inverno lo stesso dell’autunno, a gennaio il Bianchetto, a novembre c’erano ancora i Paganelli, buoni perché avevano il giallo (uova), quindi più saporiti. E poi la Razza che si mangiava con la salsa dei peperoni, broccoli bolliti, uova sode.  Non si usava nei brodi ma solo nei brodetti. La Boga sfilettata e arrotolata (involtini) su se stessa con erbe aromatiche era una favola. I pesci più piccoli erano fritti e poi marinati e si davano come antipasto”[13].

In barca coi pescatori
Nel passato, quando la pesca era un’attività ancora importante per la sopravvivenza delle persone che ci lavoravano, per l’economia della regione e  l’ecologia del mare, le attività legate a questo lavoro davano ad ognuno dei membri dell’equipaggio una dignità di ruolo, derivante dalla consapevolezza, che svolgendo bene il proprio lavoro si facilitava anche quello degli altri membri. Il saggio Pescatori e trabaccolanti, da cui abbiamo tratto il brano successivo, descrive i modi di spartizione del pescato tra i lavoratori del mare, che ci fa capire perché questo contesto favorisse l’utilizzo di tutte le specie di pesci, e il ruolo non marginale avuto delle donne nell’economia della pesca.  

“Nelle barche si fanno le “parti”, cioè si assegna a ciascuno una quota del ricavato, secondo precisi criteri: tanto al paròne o comandante, tanto al marinaio, tanto al giovanotto, tanto al morè. Una parte va alla barca, per remunerazione del capitale e spese di riparazione. I pescatori hanno tutti, oltre al prenome e al nome, il soprannome, che passa da padre in figlio[14]. […] Le donne dei pescatori partecipano attivamente al lavoro dei loro uomini. Trasportano al mercato il pesce che nelle lunghe condotte delle paranze è inviato a terra giornalmente con la barchetta del “battellante”, aiutano nei momenti della pittura delle vele, della tinta e impermeabilizzazione delle reti, trattano qualche piccola partita di pesce direttamente venduta sulla spiaggia o in banchina, cuciono e rattoppano gli abiti degli uomini di casa, fanno per loro calzerotti, baschi di lana colorata con il nappo in mezzo, maglie e maglioni di lana di pecora, pigiano neve e paglia nelle “conserve” (che serviva anche per trasportare il pesce nell’entroterra N.DR.), dalle quali si trarrà il ghiaccio “nella stagione calda […] Nelle giornate di tempesta aspettano in gruppo sulle spiagge e sui moli sperando di riconoscere presto la vela della barca di casa. Di notte cercano di dirigere la gente in mare verso la riva, agitando fiaccole”[15].

Ciò accadeva non secoli fa ma appena qualche decennio, quando ancora i pescatori, col vento di bonaccia al mattino, verso le nove, facevano la prima colazione con l’arrostita di pesce. Il brodetto invece quando c’era il mare mosso. Al giorno si accontentavano di una alice salata o di un po’ di tonno, ma alla sera la pastasciutta era d’obbligo, sempre col sugo di pesce, anche perché la carne è apparsa sulla scena intorno agli anni ‘50. In pratica si mangiava il pesce tutti i giorni, qualche volta facevano il brodo, ma sempre di pesce era, con il raro privilegio di consumarlo appena tirato su dall’acqua. Per i pescatori, a motivo dell’inquinamento generale del pianeta e con il Po’ che riversa nell’Adriatico ogni schifezza, il sapore del pesce non è più lo stesso di quello pescato quando loro erano appena ventenni. Poi la vita è cambiata, la dieta a base di pesce venne integrata con un po’ di carne e in barca le ricette subirono delle varianti: il pesce qualche volta si lessava, si friggeva o si cucinava coi piselli e le fave, specie le seppie. In pratica le ricette di casa[16].  Non amano parlare dei tempi recenti, perché tutto è cambiato così in fretta da non dare loro tempo di farsene una ragione. Le note vicende degli ultimi tempi, relative al mancato dragaggio dei fondali del porto che impedisce il passaggio delle barche più grosse, costringendoli a un forzato riposo o a cambiare porto, ha tolto ai pescatori della costa adriatica e ai loro figli ogni speranza di futuro sul mare. 

Contraddizioni

 “Dal confine “della Cattolica”, come un tempo si diceva, a quella del Tronto, limite antico del Reame di Napoli, scorrono verso sud le rupi di Focaia, le città di Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, il Conero, e poi Sirolo, Numana, Porto Recanati, Porto Civitanova, Porto San Giorgio, Pedàso, Cupra Marittima, San Benedetto, Porto d’Ascoli. E non pochi castelli aggrappati alla prima linea di colline, sotto le quali si stende il mare e dalle quali nei giorni di particolare luminosità, si vedono i monti  Valebit della costa dalmata. Anche in queste cittadine vivono i pescatori, che ogni giorno, nelle stagioni adatte, scendono sulle spiagge, armano le barche, vanno in cerca del pesce sempre più raro”[17].

Da allora è passato quasi un quarto di secolo, di pesce ce n’è ancora di meno, con il porto di Ancona, “gran porto dell’Adriatico centrale”, in sofferenza già dall’Unità d’Italia, “quando Venezia le soffia il ruolo di primo scalo italiano nel mare austro-balcanico”[18]. Le cittadine costiere complessivamente potevano contare, al tempo del tramonto dello Stato Pontificio, su un numero consistente di barche e battelli da carico e da pesca di circa 1200 imbarcazioni per un peso complessivo di 27000 tonnellate, e 6000 uomini di equipaggio, pescatori compresi[19]. Dunque già alla fine degli anni ‘80 del secolo appena trascorso, il docente di Storia economica, Sergio  Anselmi, sottolineava la perdita di pescosità dell’Adriatico. Anche le imbarcazioni e gli uomini di equipaggio addetti alla pesca erano già di molto ridimensionati, passati al turismo di massa, esploso con il boom economico, che darà il colpo di grazia a tutte le attività pescherecce tradizionali e al loro posto alberghi, attività di spiaggia con la gestione dei filari degli ombrelloni, le cabine e barche da diporto. Per non dire delle possibilità di lavoro offerte dai porti più grandi come quello di Ancona, dove si prendono i traghetti per andare in vacanza e dove approdano navi porta containers, o si costruiscono navi da guerra e yachts da turismo. E sono queste attività che hanno messo fuori uso le antiche e gloriose marinerie pescherecce marchigiane e non.    

La parola all’esperto.
Per avere idee chiare sulle cause della perdita di pescosità dell’Adriatico e per capire l’origine delle contraddizioni più stridenti che fanno ributtare in mare il 30% del pescato, costituito per lo più dal cosiddetto pesce povero perché nessuno lo consuma più, nonostante l’impoverimento generale della gente verificatosi in questi ultimi tempi, abbiamo interpellato lo studioso Prof. Corrado Piccinetti, direttore del Centro di Biologia Marina di Fano che ci ha fornito illuminanti argomenti: “Le tecniche di pesca sono diverse e ognuno cattura un certo numero di pesci. In alcuni sistemi di pesca certe specie non vengono più portate a terra e si ributtano in mare senza essere vendute per una serie di motivi: la specie non è più richiesta; per esempio i Sugarelli o Suretti, un pesce azzurro grande come uno sgombro, quando sono di 20 cm non hanno valore commerciale, e così il pescatore li ributta in mare. Le Minole o Mindole, di tre differenti specie, che in Croazia sono molto apprezzate per il loro sapore, non lo sono altrettanto in Italia ma non per il sapore ma per le spine e nessuno le vuole lavorare; ma una volta sfilettate e tolte le lische la carne è meravigliosa. La Cepola, pesce nastriforme rosato, ha una carne molto buona specie fritta, ma meglio ancora da farci il brodo per cuocere i passatelli. Un tempo oltre che per cucinare lo si comprava per il gatto, mentre oggi non viene nemmeno più portato a terra perché la richiesta è bassissima; le Canestrelle, che assomigliano alle Cappesante, sono bivalvi, pesano pochi grammi, e dalla rete vanno tirate su una per una, lavate, messe in un sacchetto e portate a terra. Per i pescatori non ne vale proprio la pena. Questa fatica un tempo era fatta su una barca dove lavoravano sei/sette persone e più, dipendeva dalla grandezza della barca. Aiutava anche il sistema di pagamento dove il pescato veniva diviso tra tutto l’equipaggio, compreso l’armatore, cioè il proprietario della barca per coprire le spese di gestione del mezzo. Dividere però fra sei/sette persone il pesce pescato  ne risultava una parte così piccola che costrinse i pescatori a ridurre l’equipaggio: da sette si passò a sei, cinque, quattro, tre. Oggi la maggior parte delle barche grandi vanno in mare con tre/quattro persone al massimo, due persone sono nelle barchette e nelle barche a strascico una sola persona. Una sola persona dovendo fare tutto il lavoro da sé deve scegliere bene quello che fa e non può raccogliere tutte le specie che finiscono nella rete e finirà per privilegiare le specie che hanno un sicuro mercato: le metterà in cassetta le coprirà di ghiaccio il resto lo ributterà in mare. E’ questo è circa quel 30% del pescato che manca all’appello nei consumi degli italiani. E’ un cane che si morde la coda: il pescatore non trova conveniente prendere il pesce, portarlo al mercato perché il prezzo non è remunerativo; il consumatore non trovandolo più finisce col non richiederlo più. Se nessuno lo chiede neanche i ristoratori lo cucinano più. Così è finito  il consumo di certe specie, con conseguente perdita di sapori e tradizioni straordinarie. Il paradosso è che nel mediterraneo abbiamo più di 500 specie ittiche diverse, ma noi ne consumiamo si e no una ventina. Dove finiscono quando cadono nella rete? Si ributtano in acqua morte, innescando così una catena ecologica perversa, molto diversa da quella naturale: la catena del detrito che viene incentivata in modo anormale. Tutti gli organismi morti, di cui l’Adriatico è ricco, arrivano dai pescherecci e sono cibo prediletto dei granchi, al punto da farli aumentare così tanto di numero da alterare l’equilibrio biologico del mare. I granchi sono come le Canestrelle: se uno ne porta una cassetta al mercato all’ingrosso la può anche vendere, ma se porta tutte quelle che pesca, il mercato crolla e alla terza cassetta il prezzo decresce  e non è più conveniente per il pescatore. Quindi si rischia di faticare per nulla. Ogni zona dell’Adriatico ha le sue specie perché non è che tutti i pesci vivono dappertutto. Ogni pesce ha il suo areale e la sua stagionalità. I pesci si spostano trasversalmente da una costa all’altra. Triglie, Roscioli, Gostinelli, che noi abbiamo sulle nostre coste in agosto settembre, a ottobre inizia la migrazione e a novembre sono sulla costa croata e non sono più accessibili ai nostri pescatori. Le Sogliole nascono sulla costa est dell’Adriatico, ma tornano a crescere sulla nostra costa, per poi tornare a riprodursi di nuovo ad est. Il pesce passa sotto gli occhi dei pescatori seguendo i ritmi stagionali, ed ecco il concetto di stagionalità anche per i prodotti ittici e non solo per quelli della terra. Pescando meno specie il quantitativo totale pescato in Italia sta diminuendo e ricorriamo sempre più all’importazione delle specie, soprattutto  di quelle che non hanno spine, come ad esempio i Cefalopodi - Seppie, Calamari, Totani, Polpi-. Queste sono quasi tutte importate. Poi abbiamo i Gamberi, molto apprezzati sia di allevamento che di pesca. Altre specie sono comode da cucinare, perché pronte da mettere in pentola, come il Tonno, il Salmone, il pesce Spada. In qualsiasi ristorante offrono questi pesci di importazione, ma il Tonno, per esempio, non è quello del mediterraneo, di carne rossiccia, ma quello a pinna gialla i cui filettoni vengono importati sottovuoto e al momento dell’uso tagliati a fette. Il tonno che vive nei nostri mari è una qualità pregiata, quella che lavoravano una volta le vecchie tonnare fisse a costa. Sul mercato internazionale vale molto di più, tanto che i pescatori preferiscono venderlo ai numerosi acquirenti, che non sono pochi e che lo possono pagare, Giappone a parte. Chi non ama consumare il pesce crudo e dunque non percepisce le differenze qualitative e sensoriali si accontenta della scatoletta comprata al supermercato dentro la quale non c’è il Tonno rosso del mediterraneo”[20].
Povero tra i più poveri: il Paganello
E’ emblematica la storia di questo pesce[21] il cui sapore è diverso da specie a specie, circa trenta ma in Adriatico ce ne sono circa 14 specie differenti.  Come ci ha spiegato il professor Corrado Piccinetti, il Paganello (Gobius niger yozzo L.), all’epoca della riproduzione, si divide il territorio, cioè un sasso o un copertone o altri oggetti presenti nei fondali bassi del mare, sui quali le femmine  depongono le uova. “E’ una delle poche specie che ha questa modalità di riproduzione, mentre le altre specie di pesci le depongono in acqua dove rimangono in sospensione galleggiando. Andando e venendo dai luoghi della riproduzione, prima o poi i Paganelli finiscono nelle reti dei pescatori”. I maschi più grossi e più scuri, le femmine più piccole e più chiare se  ne sono pescati in abbondanza nei decenni scorsi, e questa era la loro destinazione d’uso gastronomico:  fritti, come già detto, specie nelle piazze dei paesi durante le fiere e i mercati. “In brodo con i passatelli, oppure dentro un brodetto o una zuppa di pesce, perché anche se le carni si disfacevano nel brodo di cottura, il sapore conferito al sugo era molto più buono. Solo qualche decennio fa se ne pescavano due o tre mila tonnellate all’anno, oggi non se ne pescano più, o meglio si pescano ancora, ma si ributtano sistematicamente in mare e al resto ci pensano i granchi. Le motivazioni del rifiuto sul mercato sono sempre le stesse: ha troppe spine, il bimbo non lo mangia; ci vuole troppo tempo per pulirlo e così via”[22]. Eppure qualche pescivendolo ha trovato il modo di valorizzarlo spinandolo e infilando i filetti in uno spiedino. E’ semplicemente delizioso. Anche in brodo questo pesce da molte soddisfazioni sensoriali, perché è delicato, specie quando vi si cuociono i passatelli, perché come sottolinea il prof Piccinetti nella famiglia dei Gobiformi, le differenze sensoriali si colgono. Quando si stava peggio, alcuni erano così raffinati da cuocere nel brodo di Paganello la varietà di riso detta Originale e lo stesso valeva per il risotto. Il non disporre più di certe specie è una perdita non solo per la cultura, la tradizione, ma soprattutto per il palato non più addestrato a distinguere le minime differenze di gusto tra una specie e un'altra, mentre un tempo le donne dei pescatori, e non solo, erano in grado di distinguerle perfettamente. E il mangiare quotidiano un po’ alla volta ha perso la sua variabilità, il suo spessore sensoriale. In mare c’è una varietà di pesci davvero notevole. “Pensiamo a ciò che abbiamo a terra” sottolinea il biologo marino “Tra tutti gli animali di cui l’uomo si ciba arriveremo si e no a trenta specie. In mare con una sola calata di reti si possono pescare come minimo una trentina di pesci diversi. Se si moltiplica per le stagioni di pesca sono centinaia e centinaia di sapori diversi”.

Quando si dice “non mi piace il pesce”.
Le contraddizioni dei consumatori sono un altro aspetto che in qualche modo viene messo sotto l’impietosa lente analitica del prof. C. Piccinetti.
“Dire che non piace il pesce è davvero fuorviante: quale pesce non ti piace? Non ti piace il sapore di una razza fatta con la salsa di peperoni, non ti piace il pesce bollito, o non ti piacciono le triglie o le sogliole? Senza contare che il pesce non ha ovunque lo stesso sapore. Mentre possiamo distinguere la carne di un agnello da quella di una di pecora, o quella di un vitello da quella di un vitellone, le differenze gustative non si colgono nel pesce, perché non c’è più l’allenamento, come già visto prima. Quando si acquistano dei merluzzetti se sono piccoli ci faccio una frittura, se di 25/30 cm, che di solito si fa bollito per i bambini, anche questo è ancora buono per farlo fritto, ma se è un merluzzo di 40 cm, comincia ad avere un sapore di “baccalà” e non è più la stessa cosa del piccolo merluzzo. Accade così anche per le carni dei mammiferi. Il sapore del pesce cambia con l’età ma anche da zona a zona: una sogliola pescata in Adriatico, dove c’è abbondanza di nutrienti, o un ecosistema ricco dove può mangiare molto, se la pesco nel tirreno dove il pesce ha meno da mangiare, la sogliola è più magra, più asciutta e sa un po’ di fango. Da noi in Adriatico sono più apprezzate perché al gusto risultano più delicate  e “morbide”, e la morbidezza è data dal grasso. Un altro esempio sono le alici che in Adriatico normalmente si fanno in teglia, al forno, arrosto sulla griglia, cotture che le asciugano; nel Tirreno le stesse acciughe pescate a Salerno, a Napoli o a Sorrento che sia, fatte allo stesso modo risultano secche, grinzose, asciutte, stoppacciose, tutti attributi non gradevoli al palato. Quelle dell’Adriatico se si fanno alla pizzaiola non vanno bene perché non pigliano il sapore in quanto il grasso loro ce l’hanno da cedere. Quelle del tirreno fatte così vengono una meraviglia. La specie è la stessa ma l’habitat, più o meno ricco di cibo, fa la differenza perché determina la sapidità delle carni”.

L’inquinamento
Alcuni marinai del porto di Fano sono stati espliciti: il sapore del pesce non è più quello di un tempo. Il prof. Corrado Piccinetti però non è d’accordo con i professionisti della pesca e secondo lui l’inquinamento non influisce sul sapore. Si spiega meglio: “Noi non abbiamo più le specie di grosse dimensioni, perché non gli diamo il tempo di crescere. La crisi di produzione è determinata dal fatto che i pesci non gli facciamo crescere. Quelli nati un anno fa gli abbiamo pescati tutti, cominciando ad ottobre ed andando avanti per tutto l’inverno. Quella quota che rimane non compensa l’eccesso di prelievo e ai pesci non gli si da il tempo di riprodursi in modo qantitativamente significativo per il riequilibrio. C’è un eccesso di pesca. Si potrebbe ipotizzare allora di interdire delle aree per dare modo ai pesci di riprodursi, ma questa strategia è ostacolata dagli stessi pescatori che si troverebbero nella impossibilità di pescare per lunghi periodi. Quando c’è la pesca degli Agustinèl (giovane), Mullus barbatus L., Triglia di fango, ne ammazzano una infinità, non dovrebbero farlo, è vietato, eppure lo fanno. Si butta la rete e viene su ogni sorta di pesci. Si stabiliscono allora delle regole per imporre la maglia larga nella rete e trovano (i pescatori N.d.R.) tutti gli artifici per fare in modo di non far fuggire il pesce piccolo[23]. Occorre fare una riflessione per capire alcune contraddizioni di fondo del mondo della pesca: le risorse agricole non sono di tutti. Si immagina di avere un campo dove c’è dell’uva, delle ciliegie, e tutti si sentono in diritto di raccogliere quello che vogliono!? In questa ipotetica situazione quando mai uno raccoglierebbe una ciliegia o un grappolo d’uva maturo al punto giusto? Ci sarà sempre qualcuno che arriverà prima di noi. Noi siamo in mare e gli spazi di pesca se li prende chi arriva per primo. Se gli spazi vengono assegnati ai pescatori ognuno avrebbe interesse a rispettare  regole che favoriscono la riproduzione e la crescita numerica dei pesci. Non è che in agricoltura se qualcuno è in difficoltà per sfamarsi va a tagliare il grano quando è verde per venderlo come fieno. Nel mare succede proprio questo: se si pesca il pesce non cresciuto, che non ha raggiunto il peso giusto e l’età giusta per la riproduzione,  non dovrebbe avere valore commerciale, così nessuno lo acquisterebbe.
Dalla stessa risorsa si può realizzare sul piano economico molto di più, si tratta solo di darsi delle regole e rispettarle. Regole sulle quali i partecipanti a questa ricchezza si devono accordare per gestirle al meglio. Invece attualmente non c’è accordo di sorta. Per tornare all’inquinamento se ne risente sulla fascia costiera, dove non c’è una pesca produttiva, nel senso che le specie che ci sono nella fascia a un km o due dalla costa, dove arriva l’acqua dei fiumi, sono pesci che si spostano, non stanno fermi. Ci può essere un problema di inquinamento con le vongole, telline, cannolicchi, ecc. Ognuna di queste specie ha una velocità di rinnovamento, cioè il tempo in cui il pesce nasce, cresce, si riproduce; in alcuni casi questo avviene in tempi molto brevi, in altri casi invece ci vogliono quattro/cinque anni, come nel caso del Gattuccio, Palombo, Razza e molti altri ancora. Non solo, l’uovo dopo l’accoppiamento ci mette 8 mesi prima di arrivare alla nascita, mettendo al mondo non più di (9/10 figli per femmina. Con una pressione di pesca elevata quando mai arriveranno alla riproduzione? E anche questo spiega la diminuzione del pesce. Se invece ho una Triglia, una Sogliola, un Nasello con una elevata fecondità, ogni femmina dispone di circa 200.000 uova, e, nel caso della Triglia a un anno e mezzo è pronta per la riproduzione. Queste specie si riproducono con relativa facilità. Altri pesci sono più lenti altri più veloci. Alcuni pesci a un anno finiscono il proprio ciclo biologico e con la riproduzione muoiono. Se peschiamo quando i pesci, seppioline e altro ancora sono molto piccole è chiaro che il pescato sarà sempre meno, se è vero che ad ogni pescato ne preleviamo appena il 2/3% dei nati perché gli altri li abbiamo presi prima. Le specie molto feconde non ne risento le altre molto di più. I pesci a lenta crescita e bassa fecondità ne risentono di più e quelli sono i primi a diminuire fino alla totale scomparsa e pescandone pochi per settimane hanno totalmente perso il loro peso economico”.

Proposte operative

Ristoranti e pesci dell’adriatico
Ci chiediamo se i ristoratori sono ancora in grado di cucinare il pesce dell’Adriatico o stanno scivolando verso la banalizzazione delle ricette, privilegiando i pesci importati o in tranci. Secondo il prof. Piccinetti i ristoratori che sanno utilizzare il pesce locale sono sempre meno e il fenomeno non sembra arrestarsi. Cucinare il pesce dell’Adriatico vuol dire andare al mercato quasi tutti i giorni, prendere quello che si trova quel giorno, quindi il menù è all’insegna della variabilità, mentre i clienti chiedono  sempre quelle sei sette specie che il mercato fa fatica a mettere insieme. Così un numero crescente di ristoratori si orienta verso il pesce congelato, pescato in altri mari, lo scongelano e questo è quanto. C’è anche una frazione della  ristorazione che approvvigionandosi di pesce sul mercato internazionale ha ampliato la gamma delle specie ittiche che da noi non esistono. Il salmone  non vive nell’Adriatico e importandolo si è superato il problema della stagionalità perché ci si può contare in ogni momento, cosa fino a trenta anni fa impensabile. La disponibilità della materia prima consente abbinamenti creativi creando profili sensoriali inediti. Un pesce che arriva dal sud America può essere accostato a verdure che arrivano magari dall’Asia, proponendo abbinamenti sorprendenti. C’è un fiorire di cucine che non sono più le nostre cucine tradizionali a cui eravamo abituati. Oggi, relativamente al pesce, la cucina non è poi così mediterranea e la fretta di vivere ha tolto ogni possibilità di sopravvivenza alle ricette tradizionali: tutto deve essere fatto in poco tempo. Il pesce congelato lo possono mangiare anche nell’entroterra.  Lungo la costa il consumatore urbano che vive a Milano o in altre città non marinare, vuole il pesce fresco, che se cucinato e consumato subito dopo la pesca i piatti hanno una caratteristica qualitativa notevole. La freschezza dunque, e non altro, diventa l’attrattiva principale per cui vale la pena fare un bel viaggio lungo la costa adriatica.
A proposito di uno scambio di risorse tra la costa e l’entroterra.

Cosa fare per far tornare a consumare i pesci tradizionali?
Facendo una sintesi di quanto riferito dagli interpellati, pescatori, commercianti, ristoratori, consumatori e il responsabile del Centro di Biologia Marina, prof. C. Piccinetti, sulle strategie da adottare per valorizzare i pesci tradizionali, ne risulta un quadro piuttosto complesso.
Gli addetti ai lavori - pescatori, commercianti, ristoratori e consumatori -  è un pezzo che girano intorno a questo problema e portano ad esempio il caso del pesce azzurro. L’esperienze fatte non hanno dato risultati esaltanti perché gli spot una volta mostravano le immagini di un consumatore che andando al mercato non trovava il pesce azzurro; altra pubblicità mostrava i pescatori che portavano il pesce al mercato ma nessuno glielo comprava. “I tentativi fatti non hanno mai preso di mira tutta la filiera mettendo d’accordo pescatori, commercianti, ristoratori, consumatori su come trattare quel determinato prodotto. Esempio: un ristorante può fare un accordo con un commerciante di pesce per averlo due volte la settimana, non tutti i giorni; il produttore si organizza e per due volte la settimana ci sarà qualcuno che glielo compra e così per tutti gli altri tipi di pesce e non solo per il pesce azzurro” sostiene il prof. C. Piccinetti. Questo garantirà un risultato, in termini economici costante nel tempo ed è quello che ci vuole per un mercato in equilibrio. Se la filiera è ben organizzata e tutti i componenti sono d’accordo sulle strategie, il risultato è garantito, ma se manca uno solo degli anelli i risultati saranno sempre deludenti. Per meglio capire: se i commercianti non sono coinvolti alcune iniziative, relative alla valorizzazione del pesce povero, non potranno essere portate a termine, in quanto normalmente questi non vogliono trattare i pesci poveri con la motivazione che non ci guadagnano abbastanza. L’esperienza e il buon senso suggeriscono un diverso approccio. I pescatori conferiscono il pescato ad un certo prezzo, perché anche loro devono avere i loro benefici economici, il commerciante deve fare un ricarico non tre quattro volte di quello che è stato pagato, ma del 30/40% e non di più. Invece certi pesci da poveri stanno diventando un lusso per molti consumatori: razza, busbane, merluzzetti, tanto per fare qualche esempio. Il ristorante farà un ricarico in base a quello che aggiunge del suo valore, ma soprattutto la pescheria che va a comprare il pesce deve trovarlo a un certo prezzo che non sia esagerato in modo che lo trovi conveniente. Chi lo acquista, sapendo di dover lavorare di più per liberarlo dalle spine, non venga scoraggiato anche da un prezzo eccessivo. In alcuni casi i pesci sono stati sottoposti alle lavorazioni presentandoli già puliti. Ma di solito se non c’è il cliente che lo chiede il pesce non si pulisce prima. E questo è quanto risulta dalle testimonianze degli interpellati.

Cosa fare per far si che il pesce azzurro arrivi fresco in tavola e non quando è già ossidato?
A proposito della percezione della freschezza del pesce, ci fermiamo un attimo sulle modalità di trasporto del pesce dalla costa fino all’entroterra Umbro-Marchigiana, e precisamente a Gubbio, ancora in uso fino a 70/80 anni fa, e cioè tramite carri trainati da cavalli, sui quali si sistemavano le cassette di pesce coperte di neve, prelevata dalle “conserve”. Si arrivava a destinazione un paio di giorni dopo, quando la neve si era già sciolta. Il pesce comunque si vendeva ugualmente. Questa circostanza spiegherebbe, secondo alcuni, perché agli Umbri ancora oggi il pesce piacerebbe (d’obbligo il condizionale) un po’ fatto.
La domanda posta nel titolo del paragrafo ha ottenuto la seguente risposta: “Educare la gente a riconoscere il pesce fresco e consumarlo finché è fresco. Ancora oggi molte persone acquistano il pesce azzurro fresco, tornano a casa, lo mettono in frigorifero e lo tirano fuori un paio di giorni dopo. Il pesce azzurro dicono, i soliti vecchi che non ci sono più, perde una qualità ogni ora che passa. Dopo 24 ore le ha perse tutte, figuriamoci dopo tre giorni, quando acquista quel non so che di “pescino” come dicono i pescatori, che sta “passando”. Al terzo giorno poi si vede l’occhio smorto, incavato, allora è meglio darlo al gatto, sempre che lo gradisca anche lui. Quando è fresco è straordinario e in cucina, sapendolo trattare da grandi soddisfazioni, aspetto salutistico a parte che ruota intorno ai famosi omega tre. Da qui si evince che lo sforzo della filiera pesce deve  essere incentrato sulla valorizzazione della freschezza del pesce e non sulle  furbizie per ingannare i consumatori. C’è anche un’altra possibilità per avere un pesce fresco e cioè quella di aspettare la barca al porto, se ne prende una cassetta e poi si sentirà la differenza di sapore. Al mercato del pesce di Ancona ci sono le cassette di pesce, all’ingrosso, dal peso di 8 chili, che si vendono a 4 € al chilo, quindi cifre modeste. I pescatori non dovrebbero venderlo, ma tramite  amicizia non è difficile l’acquisto, pagandolo qualcosa in più, come 10 € a cassetta. E anche questo è un sistema per studiare la differenza di gusti tra i pesci freschi e quelli che non lo sono più”. E questo è quanto suggerisce Piccinetti per rieducare il palato alla freschezza del pesce appena pescato. Quando è fresco non c’è bisogno di mascherare i cattivi sapori con le essenze delle erbe aromatiche, anche se i loro principi attivi non mascherano i cattivi sapori del pesce non più fresco, ma caso mai neutralizzano le sostanze ossidate, che una volta ingerite creano problemi al processo digestivo. Ed è questo il ruolo delle erbe aromatiche!

Normative inadeguate
A complicare la vita dei pescatori, dei commercianti, dei ristoratori e dei consumatori, ci si mettono anche le Normative Comunitarie, che impediscono di fatto il dragaggio del porto. Per le imbarcazioni di oltre 100 tonnellate di peso il transito nel porto, con i fondali resi intransitabili dalla sabbia sedimentata è impossibile, costringendo i pescatori ad un forzato riposo. Se dai canali del porto si tira fuori la sabbia che si è accumulata con il gioco delle correnti e con le attività dell’uomo e la si butta in mare, si commette un reato sanzionabile. Cosa stabilisce la normativa? Stabilisce che se si prende la sabbia, si analizza, individuando quello che c’è in fatto di inquinamento, compresi i residui di idrocarburi, questo materiale, una volta analizzato, non si può più ributtare in mare, come sarebbe logico, perché una volta tirato fuori dall’acqua si deve scaricare in una discarica, magari per rifiuti speciali, pagando non un tanto a metro cubo ma un tanto al chilo. Ciò rende proibitivi i costi per i pescatori e le amministrazioni locali, comune e regione che devono provvedere. “Questa pulitura, fatta con una certa frequenza”, ci spiega il prof. Piccinetti “si potrebbe anche non portare fuori dall’acqua, ma trascinarla fuori con una corrente e ridistribuirla un po’ più al largo, esattamente come si è sempre fatto con le draghe, prima che arrivassero le norme comunitarie. Si pensi al porto di Ravenna, dove si crea un polmone di acqua che la corrente spinge col flusso di marea, lasciando il porto libero[24]. Nella zona di Fano, con la centrale elettrica del Metauro, il flusso di acqua non è più sufficiente e tenere pulito il fondale dell’imboccatura del porto, tranne quando si verifica una portata d’acqua sufficiente. E così la sabbia si deposita e quando le barche entrano nel porto toccano. Le autorità marittime chiudono il porto lasciando passare solo le barche piccole e le grandi restano fuori, costringendole a cambiare porto con tutto ciò che ne consegue per la pesca, le tradizioni e tutto il resto. Così molte barche hanno smesso di pescare. Un tempo ci pensava lo stato azionando le draghe, e non c’erano tutte queste norme che hanno reso il sistema così complesso da gestire da renderlo ingovernabile. Fino a qualche decennio fa, a tre o quattro miglia al largo, si poteva scaricare dove c’era un fondale più o meno simile alla granulometria del sedimento che in genere sono dei fanghi, buttando così fango su fango. Dopo qualche tempo si ossidavano e l’inquinamento si riduceva fino a scomparire del tutto. Quelle zone erano interdette alla pesca per un po’, e in poco tempo tutto tornava in equilibrio senza danni né per i pescatori, né per i commercianti, né per i consumatori né tanto meno per i pesci. Invece hanno imposto normative che possono andar bene per i rifiuti tossici speciali provenienti da terra, ma siccome nel porto non si scaricano materiali tossici, le normative risultano inadeguate e penalizzano un settore, quello dei pescatori fanesi e non solo, perché tutti i porti d’Italia risentono di questa problematica”. L’intervista è terminata e il registratore spento. L’istituto di Biologia Marina dell’Università di Bologna sorge proprio sul porto. Col professor Piccinetti diamo un’occhiata fuori dalla finestra e ammiriamo la spiaggia di Sassonia, con i sassi illuminati da un pallido sole e poche persone che passeggiano con i cani sulla riva del mare. Con lo sguardo, chi scrive, cerca inutilmente qualche trabucco, la palafitta da pesca che caratterizzava il litorale marchigiano. Così come inutile sarà la ricerca dei  mucchi di reti in riparazione, i velacci, i cesti e cordami, ancore e pennoni,  gli strumenti di lavoro dei pescatori tradizionali della costa marchigiana. E i nuovi?

“I nuovi pescatori, considerati dai vecchi e dagli anziani “rozzi predoni del mare”, quasi non conoscono il mestiere: le loro barche sono confortevoli, riscaldate in inverno e refrigerate d’estate, dispongono di tutto, ma mancano di capobarca o paròni capaci di sfruttare il mare senza distruggere le risorse, come i nuovi coltivatori dei campi, sui quali le macchine e la chimica agiscono indiscriminatamente, massimizzando le rese, arando tutta la terra tutti gli anni, senza darle un attimo di riposo. I nuovi pescatori fanno lo stesso: arano il mare con la forza degli 800-1000 HP, capaci di trainare quattro “gabbie” di tre quattro metri ciascuna, che ripuliscono il fondo di tutto quel che esso genera e ospita con strisce di 12-16 metri. […] Una cultura se ne è andata. Il marchigiano rampante delle altre attività economiche si è fatto sentire anche sul mare…[…] L’impressione è che l’Adriatico, un mare stretto e poco salato, pieno di scarichi, dai fondali bassi, dragato con ogni tempo dai pescherecci, non possa dare ancora per molto il poco che da adesso”[25]. Era l’anno 1986.  

 Bibliografia generale

AAVV.: Storia d’Italia: Le regioni dall’unità d’Italia a oggi – Le Marche a cura di Sergio Anselmi – Giulio Einaudi Editore Torino 1987.

Sergio Anselmi: Sulla pesca dei cannelli, Stampato da Tecnostampa di Ostra Vetere (AN) nel 2004, con il contributo finanziario della Regione Marche.

Sergio Anselmi, La pesca in Italia, in Viaggio nel mondo della pesca, Ente Autonomo Fiera di Ancona,
1990.

Agostino Bagnato, Mare e pescatori nella storia d’Italia, Lega Pesca – L’Albatros, Roma 2007

A cura di Luciano Poggiano, Pesci dell’Adriatico, Quaderni dell’Ambiente, Provincia di Pesaro e Urbino, Bellocci di Fano (PU) 2009.

Gianfilippo Centenni, Romano Ramoscelli, Cucina da Mare Marchigiana, Futura Officine Grafiche – Senigallia 2004

Piero Ricci, Simona Ceccarelli, Frammenti di un discorso culinario, Guerini E Associati, Milano 2000

Itinerari di cultura Gastronomica, L’Italia del pesce, Accademia Italiana della Cucina, Milano 2006

Regione Emilia-Romagna, Il pesce dell’Adriatico nelle ricette dell’Alma, Trebbo di Budrio – Bologna  2009.

Ettore Iani, Devolution ed economia della pesca, Albatros Editore, Roma 2006

Corrado Barberis, F. Donati, Per una sociologia della pesca, Franco Angeli, Milano 1987
Agostino Spataro, Bichara Khader, Il Mediterraneo, Edizioni Associate, Roma 1993
Sergio Angeletti, Ostriche, seppie ed altre delizie, Edizione Tea Pratica, Milano 1994
Sergio Marzocchi, Colori e simboli sulle vele adriatiche, Montefeltro Edizioni Urbino, Urbino 1983
Albina Sogno, Il mare in tavola, Mallucci Editore, Passo Ripe - Ancona 2006
Graziella Picchi, Le acciughe sotto sale, in Atlante dei prodotti tipici: Le conserve, Insor – Agra-Rai-Eri, Roma 2005
Comune di Fano, Regione Marche, Comunità Europea, Sei pesci a stagione, Agenda 2006, Fano 2005




[1] Così scriveva Sergio Anselmi alla fine degli anni ’80 del secolo appena trascorso in Pescatori e trabaccolanti, tratto da Storia D’Italia - le Marche, Giulio Einaudi Editore, Torino 1987, pag. 525.

[2] Tra l’altro Sergio Anselmi, che amava profondamente il mare, era anche un abile pescatore di cannolicchi e ci ha lasciato un gustoso trattato sui metodi di pesca manuale:  Sergio Anselmi: Sulla pesca dei cannelli, Stampato da Tecnostampa di Ostra Vetere (AN) nel 2004, con il contributo finanziario della Regione Marche.

[3] Sergio Anselmi, op. cit., pag. 527

[4] Ibidem, pag. 526

[5] Rolando Ramoscelli, noto chef di San Costanzo (PU), che per decenni ha trattato il pesce povero, appena pescato, dell’Adriatico, poi le difficoltà di reperimento della materia prima di questi ultimi anni, gli fanno abbandonare il pesce e oggi, nel suo ristorante, si degustano piatti a base di carni marchigiane.

[6] Questo termine va inteso come odore di pesce non più freschissimo. 

[7] Intervista a Romano ramoscelli.

[8] Ibidem.

[9] Il Paganello, nelle Marche ha una storia tutta speciale in quanto era il primo pesce che i ragazzi che si avviavano al mestiere di pescatori, pescavano con la canna sul molo.


[10] Intervista a Romano Ramoscelli

[11] Ibidem.

[12] Docente di Sociologia dei Processi Culturali nell’Università di Urbino.

[13] Intervista a Romano Ramoscelli.

[14] Questi i sopranomi: Barbone, Birella, Sibilino, Pellenera, Fiamma, Capitano, Tacca, Scorzone, Calabrese, Poletta, Rum, Stiknik, Tagliavento, Spacca, tutti sottoposti alle varianti dialettali. Capitano e Calabrese frequentano ancora il bar del porto di Fano.

[15] Sergio Anselmi, op. cit. pp. 525/527

[16] Sintesi della testimonianza dei marinai del porto di Fano.

[17] Sergio Anselmi, op. cit. pag. 525

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Già ai tempi della redazione dell’Atlante dei prodotti tipici: le conserve, agli inizi degli anni ’90, segnalammo che il tonno rosso del Mediterraneo finiva quasi tutto sulla mensa dei giapponesi, mentre sulla nostra arrivava il tonno pescato in lontani oceani.  

[21] Questo pesce era il primo pesce che i figli dei pescatori, sui moli delle città marinare, imparavano a pescare con l’amo, per iniziarsi al mestiere dei padri.

[22] Il prof. C. Piccinetti, che fa parte dell’Accademia della Cucina Italiana, è anche un profondo conoscitore della gastronomia del pesce.

[23] Si fa presente che la vendita dei pesci piccoli, pur essendo vietata, gode di un mercato parallelo, non ufficiale, che nel concreto procura un reddito. Anche i piccoli tonni, i merluzzetti, e molto altro ancora, entrano in questo circuito parallelo. 

[24] Questo sistema è in uso da diversi secoli e anche Leonardo da Vinci ha utilizzato questo sistema per tenere aperte le imboccature dei porti.

[25] Sergio Anselmi, op. cit., pag. 528.

[26] Ricetta di Rolando Ramoscelli

[27] E’ quanto afferma Lucio Pompili chef di chiara fama di Cartoceto.

[28] Queste le erbe consigliate: Pimpinella (Sanguisorba minor  e Sanguisorba officinalis L.), rucola selvatica, germogli di cicoria, epilobio (Epilobium montano L.), valerianella, ecc.

[29] Il parangallo è una lunga corda tesa con degli ami per la cattura dei dentici, un pesce scarsamente presente nella parte ovest dell’Adriatico, dove, secondo il Prof. Piccinetti, biologo marino se ne pescheranno si e no una decina all’anno.

[30] La ricetta è stata presa da un testo, pubblicato dalla Regione Emilia-Romagna, dal titolo Il pesce dell’Adriatico nelle ricette dell’Alma, Trebbo di Budrio – Bologna  2009. L’Alma è la scuola di alta cucina, di Parma, diretta da Gualtiero Marchesi.







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