20 dicembre 2012 Gilberto CALCAGNINI

La lezione ha per argomento la storia della tradizione del presepe, a partire dai primi reperti catacombali, attraverso la natività dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni; il presepe vivente di Greccio - che presepe non era perché privo di elementi essenziali quali il Bambin Gesù, la Madonna e San Giuseppe - allestito da San Francesco il 24 dicembre 1223 nello speco di Greccio; le sculture di Niccolò Pisano nel pulpito del Duomo di Siena (1268); il gruppo scultoreo del presepio commissionata nel 1289 dal Papa francescano Niccolò VI ad Arnolfo di Cambio per la Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, su fino ai presepi napoletani.



È, infatti, a Napoli che, verso la metà del Cinquecento, con l'abbandono del simbolismo medioevale, nasce il presepio moderno. La tradizione ne attribuisce il merito al fondatore dell’Ordine dei Chierici Teatini, S. Gaetano da Thiene, che, mosso dalla sua grande venerazione per il mistero della Natività, allestiva nel 1534 nell’oratorio di Santa Maria della Scaletta presso l'Ospedale degli Incurabili di Napoli, un grande presepio con figure lignee fisse, abbigliate secondo la foggia del tempo.



Si iniziava cosí la storia del presepe napoletano che troverà la sua massima espressione nel presepe del XVIII secolo, ricco di fede e di cultura laica, carico di simboli religiosi e di raffinate citazioni pittoriche, che in successivi allestimenti di fattura ottocentesca, cambiava spirito e iniziava a percorrere la strada che privilegiava il genere popolare e la parodia.



Non per niente l’architetto municipale di Napoli, Michele Cuciniello, uomo di numerosi interessi e cospicue fortune, appassionato collezionista di pastori e oggetti del presepe napoletano del XVIII secolo, era solito dire che «fare il presepe equivale a tradurre il Vangelo in dialetto napoletano».

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Il Presepe, sacralità del nascere

(1° inserto)



È purtroppo attuale lo scandalo suscitato dalle notizie, riportate con particolare zelo e risalto da organi d’informazione televisivi e della carta stampata, sui casi di pedofilia verificatisi in varie parti del mondo nelle file dei sacerdoti della chiesa cattolica.



Notizie che feriscono dolorosamente la coscienza di ogni essere umano degno di questo nome e, a maggior ragione, di chi, come il sottoscritto, si professa credente di una religione che fa dei bambini – ben al di sopra di quanti, al suo interno, possono recare loro offesa - i veri protagonisti di ogni salute e salvezza dell’umanità.



Perché il bambino, per noi cristiani cattolici, è il prodigio offerto all’umanità per la sua salvezza e che trova la sua massima espressione nel presepe, dove tutti onorano il bambino al quale Maria ha offerto il suo verginale grembo e il padre putativo, Giuseppe, la sua protezione.



Infatti, chi fra noi, in occasione delle feste di Natale, non ha sostato, almeno una volta nella sua vita, davanti a un presepe a guardare alcune statuine di coccio o di cartapesta che, appoggiate su uno strato di muschio e sullo sfondo un cielo di carta turchina, raffiguravano, silenziosi e immobili attori di quell’ingenua rappresentazione: il bambino Gesù, la Madonna sua madre, San Giuseppe, il bue, l’asinello e, in atteggiamento di riverente stupore, un gruppo di umili pastorelli.



Sono questi gli elementi che ripetono quelli delle prime rappresentazioni paleocristiane della Natività e dell’Epifania, le cui fonti storiche sono, oltre ai Vangeli di Luca e Matteo (che narrano della nascita di Gesù, dell’annuncio ai pastori, della visita dei Re Magi con i doni), gli scritti apocrifi, quali il Protovangelo di Giacomo e il Vangelo arabo dell’infanzia, che introducono elementi come, ad esempio, la presenza di un’ostetrica al parto di Maria!



Affermazione che costituisce quasi un’eresia alla luce delle elaborazioni teologiche del XIII secolo di San Tommaso d’Aquino e di San Bonaventura da Bagnoregio sulla verginità post-parto della madre di Gesù.



Ricordo inoltre la Tredicesima omelia su Luca del Padre della Chiesa Orìgene di Alessandria (185 – 254) che rifacendosi ai commentari alle profezie di Isaia (1, 3) e di Abacuc (3, 2), poi accolte nel resoconto apocrifo della Natività dello Pseudo-Matteo (14,1) aggiungeva la presenza del bue e dell’asinello.



È impossibile fissare una data di origine del presepe, ma una testimonianza significativa per stabilirne la storia è rappresentata dall'affresco (datato appena cento anni dopo la morte di Cristo) che si trova nelle catacombe di Priscilla a Roma (2° inserto).



È la prima opera dove la Madonna è raffigurata con in grembo il Bambino, nella posizione abituale della Presentazione ai Re Magi.



Dobbiamo fare un salto di quasi due secoli per trovare una delle piú antiche rappresentazioni del presepe nel fregio, scolpito con la tecnica del bassorilievo, sulla parte destra del coperchio del sarcofago di Adelfia e Valerio (risalente al IV secolo) scoperto nel 1872 nelle catacombe di San Giovanni a Siracusa.



La scena rappresenta l’adorazione dei Magi integrata dalla presenza del presepe (3° inserto).



A sinistra si riconoscono i tre Magi, che avanzano con i loro doni: il primo reca due fiale di mirra; il secondo, rivolto all’indietro, sei grani d'incenso; l'ultimo regge una corona d'oro e solleva la mano destra a indicare la stella che li ha guidati nel cammino.



A proposito del numero dei Magi ricordo che esso cambia secondo le varie rappresentazioni dell’Epifania: ad esempio, sono soltanto due nelle catacombe di Pietro e Marcellino, mentre sono quattro nelle catacombe di Domitilla.



Comunque il numero piú diffuso è il tre perché tale è stato fissato da San Leone Magno, quello che ha convinto Attila e suoi Unni ad andarsene dall’Italia (secolo V).



Di fronte ai Magi è rappresentata un'esile tettoia, coperta con tegole e coppi, che ripara Gesù bambino, avvolto nelle fasce e posto a giacere dentro una larga cesta di vimini intrecciati; lo scaldano il bue, in primo piano, e l'asino, posti ai piedi del bimbo.



Come già detto, i Vangeli tacciono la presenza del bue e dell'asino.



La presenza della tettoia è invece conforme alla versione figurativa dell'evento propria dell'Occidente, poiché in Oriente, quando la scena non è ambientata all'aperto, viene rappresentata normalmente la grotta.



Immediatamente a destra della tettoia, appare uno dei pastori (di cui ci parla il vangelo di Luca 2, 4-19) ai quali l’angelo ha annunciato la nascita di Gesù; indossa una tunica (detta esomide perché lascia scoperta una spalla), regge il tipico bastone ricurvo (pedum), e si volge verso la Vergine, con la quale si chiude la composizione.



Maria è seduta, completamente avvolta in un’ampia sopraveste (detta palla forse perché ricopriva la pelle, con cui potrebbe avere in comune l’etimologia) usata dalle matrone romane, e volge lo sguardo verso la tettoia, porta la mano destra all'altezza del seno, e con la sinistra si appoggia alla roccia che le serve da sedile.



Interessante sarà anche osservare che dal III-IV secolo fino al XIII, non poche rappresentazioni della Natività in bassorilievo esistenti in Italia presentano la Vergine distesa accanto al Bambino poggiato nella mangiatoia e costituiscono perciò una testimonianza dell’influenza esercitata, specie nell’Italia mediterranea, per diversi secoli dalla Chiesa di Oriente.



Infatti, in seguito alle polemiche tra la Chiesa di Antiochia e quella di Alessandria, cioè tra Nestorio il quale, tenendo distinte le due nature, divina e umana di Cristo, sosteneva che Maria era Madre di Gesù-uomo e non di Gesù-Dio, e Cirillo, il quale insisteva sulla divinità di Maria, risultò, in un primo momento, prevalere la tesi di Nestorio che, per quanto solennemente condannata nel concilio di Efeso del 431, influenzò ancora per lunghi secoli gli artisti dei paesi del Medio e lontano Oriente, compreso Giotto (4° inserto) che nella sua Natività della Capella degli Scrovegni (1304-1306) dipingeva, come possiamo vedere, la Madonna coricata sulla paglia accanto a Gesù Bambino, e (5° inserto), sperando che possiate perdonarmi un cosí presuntuoso e irriverente accostamento, il sottoscritto in una statuina modellata con le sue mani per un presepe di qualche anno fa.



Solo dopo il XIII secolo, con l’affermarsi del culto mariano a seguito delle già ricordate elaborazioni teologiche di San Tommaso e di San Bonaventura, si ritenne che il parto della Vergine non potesse essere considerato alla stessa maniera di quello di una comune mortale.



Da allora Maria e Giuseppe furono rappresentati in ginocchio, adoranti, mentre scomparivano dalle rappresentazioni anche le levatrici, la nutrice, Eva, la Sibilla, personaggi che avevano trovato spazio in tali raffigurazioni, come (6° inserto) il presepe di avorio della Cattedrale di Massimiano (546) a Ravenna o (7° inserto) il presepe scolpito nel 1268 da Niccolò Pisano sul pulpito del Duomo di Siena.



Dunque, sin dai primi secoli dell’era cristiana, la nascita di Gesù, evento centrale della redenzione del genere umano, fu raffigurata a mezzo di affreschi, bassorilievi e incisioni su pareti, sarcofaghi e formelle, inseriti in edifici del culto.



Tali testimonianze, numerosissime ed anche molto interessanti, perché l’evolversi della loro iconografia interesserà anche lo sviluppo del presepe, non possono tuttavia essere considerate presepi.



Cosí come può essere considerata solo una tradizione, poeticamente e devozionalmente accettabile, l’affermazione, altrimenti difficilmente sostenibile poiché priva di alcune presenze essenziali sulle quali ritornerò in seguito, che San Francesco abbia inventato il presepe!



È comunque storicamente accertato, come riportano Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, e, piú tardi, San Bernardo da Bagnoregio, che nella notte di Natale del 1223, (8° inserto) il Santo ha fatto celebrare una Messa in questa piccola nicchia naturale situata sulle pendici del monte Lacerone, vicino a Greccio (a circa 18 km da Rieti), dove entravano a malapena il celebrante, lui stesso che fungeva da chierico, e un bue e un asinello, appositamente portati per l’occasione, che mangiavano del fieno da una piccola mangiatoia.



Illuminavano questa scena di umiltà evangelica le torce degli abitanti del posto (quasi tutti pastori e contadini).



Il rito della celebrazione della Messa nella grotta di Greccio, si collegava ad una tradizione risalente al 25 dicembre dell’anno 326 d.C., quando Anastasia, sorellastra dell’imperatore Costantino, faceva celebrare la prima Messa di Natale della storia in una cappella situata alle pendici sud occidentali del Palatino, nucleo originario della Basilica di Sant’Anastasia[1].



Un’altra tradizione, cui ho già fatto cenno, che fa parte della storia del presepe è quella della “tettoia” in legno retta da tronchi di albero, che Papa Liberio (352- 355) aveva fatto erigere a Roma in una Basilica, detta dal suo nome “liberiana”, che sorgeva nei pressi se non, come sostiene qualcuno, nello stesso posto in cui, tra il 432 e il 440, papa Sisto III farà costruire il primo nucleo dell’attuale Basilica di S. Maria Maggiore.



Dunque, una tettoia retta da tronchi d’albero, quasi lo schema essenziale di una stalla, posta davanti ad un altare presso il quale, il 24 dicembre di ogni anno, si celebrava la Messa di mezzanotte.



Altre “tettoie” furono erette in S. Maria in Trastevere a Roma, in S. Maria della Rotonda a Napoli, e in varie chiese di altre città.



Si sa pure che Papa Gregorio II (731-734) fece sistemare sotto la tettoia di S. Maria Maggiore una statua d’oro della Madonna con il Bambino, e che anche in altre chiese furono collocati sotto tali tettoie pitture o statue che ricordavano il Sacro Evento.



In conclusione, l'allestimento a Greccio di questa nuova grotta di Betlemme, merita di essere ricordato soprattutto come un ottimo esempio per la continuità di un rito emozionante nel gesto e nel significato, o tutt’al piú come una sacra rappresentazione, ma non come presepe, poiché mancavano le presenze, essenziali, del Bambino Gesù, di Maria e Giuseppe.



Non va tuttavia sottaciuto un altro fattore, quello delle leggende fiorite sui presunti miracoli collegati a questo evento.



Miracoli di cui narra Tommaso da Celano nella sua “Vita prima di Francesco”, là dove scrive che «[…] uno dei presenti [Giovanni Velita, signorotto di Greccio], uomo virtuoso, ebbe una mirabile visione. Vide nella mangiatoia giacere un fanciullino privo di vita, e Francesco avvicinarglisi e destarlo da quella specie di sonno profondo».



Visione che, prosegue la narrazione, sarebbe stata «confermata anche dai miracoli che ne seguirono: come quello della paglia di quel presepio, che serviva per sanare in modo prodigioso le malattie degli animali e ad allontanare le pestilenze, per la misericordia del Signore».



Verità o leggenda, la Santa Notte di Greccio ha avuto certamente grande risonanza e potrebbe aver stimolato l’allestimento di presepi, perché è fuor di dubbio che l’Ordine Francescano fu il primo a favorirne la diffusione.



Ma da questo, a pretendere che la data del 24 dicembre 1223 segni la nascita della tradizione del presepe, ce ne corre!



Anche perché il presepe non ha una precisa data di “nascita”, ma si è andato formando attraverso vari usi, tradizioni, costumi, addobbi, pitture, nelle chiese e nelle sacre rappresentazioni, finché, col passare del tempo, il termine presepe (o presepio) che in latino significa greppia, mangiatoia e, in seguito, per traslato, stalla, grotta, è stato riservato soltanto alle rappresentazioni plastiche a tutto tondo, sia della sola scena della Natività, sia a quelle in cui sono state aggiunte altre scene, quali l’Annuncio ai pastori, l’Adorazione dei pastori o dei Magi, ecc.



A questi criteri di visibilità risponde innegabilmente il gruppo scultoreo del presepio commissionata nel 1289 dal Papa francescano Niccolò VI (1288-1292), ad Arnolfo di Cambio per la Basilica di Santa Maria Maggiore, in omaggio alla devozione delle reliquie della mangiatoia e delle fasce del Bambino Gesù, che fanno della basilica mariana la Betlemme d'Occidente.



Il presepio, in origine custodito nell'antico sacello, costruito verso la metà del V secolo, e dedicato al culto della grotta della Natività, fu poi smembrato da Domenico Fontana durante i lavori per la realizzazione della cappella del Santissimo Sacramento, voluta da Papa Sisto V (1585-90), e i suoi resti si trovano oggi nel museo della Basilica (9° inserto), dove si possono ammirare i tre Re Magi, con vesti e scarpe in un rude ma elegante stile gotico, e S. Giuseppe, che ammirano attoniti e riverenti il miracolo del Bambino in braccio alla Madonna: statua questa, per secoli ritenuta tardocinquecentesca, ma una rilettura, fatta durante i lavori di restauro compiuti nel 2005, ha messo in evidenza che si tratta in verità della scultura originale del Presepe di Arnolfo “riscolpita” sul lato frontale secondo lo stile in voga nel 1590.



Concepite nello spazio, le figure - in origine policrome - rispettano il criterio di visibilità e mostrano i rilievi non finiti in alcune parti.



Vale la percezione del tutto tondo, l'illusione che rende possibile scorgere il volume anche dove non c'è.



La visibilità è un principio e una tecnica, misura e composizione, senso plastico e pittorico, canone armonico tra le nobili arti di scultura, pittura e architettura, che ritroveremo a tale sublime altezza, secoli dopo e con altre intenzioni, nell'arte di Michelangelo.



Un altro presepe, che potremmo collocare, insieme a quello di Arnolfo di Cambio, fra i più antichi presepi conosciuti al mondo, è esposto alla Pinacoteca di Bologna, dove si trova in deposito provvisorio, in attesa di ritornare al suo posto, in una delle cappellette della Chiesa del Martirio, nella speranza che qualcuno trovi i fondi necessari per finire gli indispensabili lavori di restauro del complesso della Basilica di Santo Stefano di cui quella chiesa fa parte.



Si tratta (10° inserto) di un complesso di cinque figure staccate, a grandezza naturale, le uniche rimaste di un’Adorazione dei Magi intagliata in legno da ignoti artisti bolognesi.



Un’opera pregevole per la sua fattura e, soprattutto, per la colorazione originale ancora intatta che copre l'intera superficie delle statue, eseguita in epoca posteriore (1370) dal pittore, anch’egli bolognese, Simone Filippo Benvenuti (1330-1399) detto Simone dei Crocefissi.



Ci trasferiamo ora da Bologna a Napoli, sulle tracce di quello che resta del presepe donato nel 1340 dalla moglie di Roberto d’Angiò, la Regina Sancia, alle suore Clarisse di Napoli per la loro Chiesa, naturalmente dedicata a Santa Chiara, appena costruita.



È forse opportuno, a questo punto, ricordare che, fra il 1310 e il 1340, la Beata Sancia, Regina di Maiorca – nata regina (1285) e morta “Sorella Chiara” (1345) – insieme al devotissimo marito re Roberto d’Angiò, faceva edificare a Napoli il complesso monastico di Santa Chiara.



Di questo presepe, anch’esso a figure staccate, in legno, dipinte e miniate con motivi geometrici coevi, è purtroppo giunta a noi solo l’effige di una Madonna giacente, ora esposta al locale Museo della Certosa di S. Martino dove, unica superstite dell’intensa produzione presepiale per chiese e committenti privati, anche spagnoli, del ‘400 napoletano, corre il rischio di passare inosservata a fronte della grandezza e spettacolarità degli altri presepi esposti nelle sale di quel museo, (11° inserto) a cominciare dalle 12 statue scolpite in legno nel 1478 da Pietro e Giovanni Alemanno (padre e figlio di chiara origine lombarda), per il presepe della Chiesa di S. Giovanni Carbonara.



In origine il presepe era composto di quarantuno statue, a grandezza quasi naturale e dipinte da tale Francesco Fiore, disposte in un'ampia e complessa scenografia, della quale, come di tutte le scenografie di presepi anche dei secoli successivi, nulla è rimasto ed è possibile solo formulare ipotesi.



Ma lasciamo per un poco i presepi napoletani e risaliamo la penisola su, fino all’Oratorio della Chiesa di S. Giuseppe di Urbino, (12° inserto) per ammirare, in fondo a un piccolo locale con volta e pareti trattate a stucco per simulare una grotta scavata nella viva roccia, il presepio con statue a grandezza naturale, anche queste in stucco, capolavoro che l’urbinate Federico Brandani (1525-1575) ha realizzato fra il 1545 e il 1550 su commissione di Guidubaldo II Della Rovere.



E giacché siamo da queste parti, facciamo anche una capatina alla Rocca Brancaleoni di Piobbico, dove troviamo altri stucchi eseguiti da Federico Brandani nell’ultimo anno della sua esistenza (1575) fra i quali (13° inserto) il presepe che potete ammirare in questa fotografia.



Continuando nel nostro ideale pellegrinaggio nell’Italia centrale, ecco (14° inserto) nel Duomo di Modena il bellissimo presepe (1527) del massimo esponente della scultura monumentale in terracotta, il modenese Antonio Begarelli (1499-1565): un vero gioiello con le figure della Madonna soavemente adorante, e San Giuseppe e gli stessi animali interpretati in atteggiamento naturale, non convenzionale.



Sempre nel duomo di Modena, un altro gruppo presepiale opera di un esponente del cosiddetto “rinascimento realistico”: il modenese Guido Mazzoni (1450 – 1518) soprannominato il Paganino o il Modanino, famoso per i suoi gruppi di statue policrome a grandezza naturale, sparsi in molte chiese del centro nord, raffiguranti il Compianto del Cristo morto, dove, grazie al suo straordinario talento artigianale di plasticatore in grado di lavorare magistralmente la terracotta e alla policromia dei rivestimenti pittorici – che gli consentono una forte resa naturalistica dei tratti anatomici e degli abbigliamenti - riesce non solo a cogliere meticolosamente i dettagli delle figure che mette in scena, ma anche a dar forma ai moti dell’animo secondo una grammatica attinta dall’osservazione della vita quotidiana.



Ce ne offre un esempio (15° inserto) l’immagine, che ora vi mostro, dello splendido gruppo policromo situato nel Duomo di Modena, in cui l’evento dell’adorazione della Madonna col bambino da parte dei due committenti (forse i conti di Guastalla), è trasformato in episodio di vita quotidiana dal particolare, sullo sfondo a sinistra, della goffa fantesca (16° inserto) che soffia su un cucchiaio per raffreddare la pappa alla giusta temperatura prima di imboccare il bambino Gesú; particolare che ha suggerito all’umorismo popolare di battezzare il gruppo con il titolo di “Madonna o Presepe della pappa”.



Questo esempio di realismo aneddotico, insieme al fatto che il Mazzoni ha lavorato per qualche tempo (1491- 1492) a Napoli alla corte di Ferdinando I, mi offre il pretesto per tornare a parlare del presepio per antonomasia, quello napoletano.



È infatti a Napoli che, verso la metà del Cinquecento, con l'abbandono del simbolismo medioevale, nasce il presepio moderno.



La tradizione ne attribuisce il merito al fondatore dell’Ordine dei Chierici Teatini, S. Gaetano da Thiene[2] che, mosso dalla sua grande venerazione per il mistero della Natività, di cui aveva già dato prova in Santa Maria Maggiore a Roma, allestiva nel 1534 nell’oratorio di Santa Maria della Scaletta presso l'Ospedale degli Incurabili, un grande presepio con figure lignee fisse, abbigliate secondo la foggia del tempo.



S’innescava cosí fra le chiese e i monasteri di Napoli una gara a chi costruiva il presepe piú bello, ma bisognerà attendere il secolo successivo per l'affermarsi del presepio a figure articolabili, che poteva essere smontato e rimontato ogni anno, detto perciò “mobile”, il cui primo esempio fu quello allestito dai padri Scolopi[3] nel Natale dei 1627.



Nella storia dei presepi napoletani famosi incontriamo il personaggio della duchessa di Gravina, Felicia Maria Orsini, che le cronache del tempo cosí ci presentano:



«Moglie senza desiderarlo, rimasta presto vedova e senza prole, tutta si dedicò alla pietà. Un suo congiunto voleva obbligarla a seconde nozze e, sul rifiuto di lei, giunse a dirle che le avrebbe fatto trovare in letto il nuovo marito. Ma essa gli fece [sapere], che le bastava l'animo di farlo ammazzare. […] Morì nel 1647, 2 febbrajo in Napoli, e volle esser sepolta coll'abito delle oblate di santa Francesca Romana nella chiesa da essa fondata.»



Poco prima di morire, la pia duchessa di Gravina commissionava, per la chiesa di Santa Maria in Portico, all'artista Pietro Ceraso, caposcuola dei cosiddetti "figurari", un presepio con figure a grandezza naturale, ricoperte di ricche stoffe e adornate alla maniera barocca spagnolesca.



Di quel presepe, formato da ben 15 figure, ci sono pervenuti solo quattro elementi: il bue, l'asino, il re Mago giovane ed il bambino detto della duchessa.



Nel 1690 i padri di Santa Maria in Portico decisero di ampliare e rinnovare il presepe, affidandone il compito allo scultore veneto napoletanizzato Giacomo Colombo.



Il Colombo, che aveva già realizzato varie figure terzine (così dette perché alte ⅓ del naturale) e una serie di sculture per alcune chiese meridionali, creò nuovi personaggi, in linea con i cambiamenti del tempo: fra i quali, la coppia dei vecchi con il nipotino, e (17° inserto) la "foritana", cioè donna venuta da fuori le mura della città, e il giovin signore, la cui testa rapata evidenzia l'abitudine dell'epoca alla parrucca.



Segno questo della teatralità del presepio napoletano, arricchita dalla tendenza a mescolare il sacro con il profano, a rappresentare in ogni arte la quotidianità che animava piazzette, vie e vicoli.



Nel Settecento il presepio napoletano visse la sua stagione d'oro, uscì dalle chiese, dove era oggetto di devozione religiosa per entrare nelle dimore dell'aristocrazia. Nobili e ricchi borghesi gareggiarono per allestire impianti scenografici sempre più ricercati.



Giuseppe Sammartino (18° inserto), quello del Cristo velato che si trova nella Cappella Sansevero a Napoli, forse il più grande scultore napoletano del Settecento, abilissimo a plasmare figure in terracotta, diede inizio a una vera scuola di artisti del presepio.



La scena si sposta sempre più al di fuori del gruppo della Sacra Famiglia e più laicamente s'interessa dei pastori, dei venditori ambulanti, dei Re Magi, dell'anatomia degli animali.



Nonostante Luigi Vanvitelli avesse definito l'arte presepiale "una ragazzata", tutti i grandi scultori dell'epoca si cimentarono in essa fino all'Ottocento inoltrato.



Le monumentali statue a tutto tondo furono sostituite da manichini in legno, scolpiti da valenti artisti.



Questi manichi, di altezza inferiore al naturale, erano dotati di giunti a snodo e quindi potevano essere variamente atteggiati; avevano parrucche, occhi di vetro, parti nude policromate, e un corredo di abiti.



Innumerevoli furono gli scultori d’importanti monumenti e statue che si dedicarono anche alla scultura, in legno, di tali manichini: Domenico Di Nardo, i già menzionati Pietro Ceraso e Giacomo Colombo, il quale, trasferitosi a Genova, diede poi notevole impulso alla produzione del presepe in Liguria.



Assumono, ora, un importante rilievo la scenografia, la prospettiva, l’illuminazione, con lampade e specchi riflettenti, e finti damaschi che inquadrano il presepe come una scena teatrale.



Sono evidenti, dunque, i caratteri del barocco imperante: spettacolarità, senso del movimento, tendenza al naturalismo, a preferire, cioè, la realtà circostante e non più i canoni della liturgia e delle opere sacre, ma quelli estetici del tempo.



Col passare degli anni, il Presepe finiva per diventare un motivo di prestigio personale con il risultato che molte volte non era piú giudicato in base al suo effettivo pregio artistico, ma su simpatie personali per l’uno o l’altro proprietario, con conseguenti dispute che, nei casi piú estremi, si risolvevano in sfide e duelli.



Nessuna meraviglia pertanto, quando, durante le mie ricerche, ho letto che a Napoli, nel XVIII secolo, fu tale la frenesia per il Presepe da indurre qualche appassionato a rovinarsi finanziariamente per le eccessive spese che esso comportava.



Ma ritorniamo a parlare degli aspetti dell’evoluzione tecnica dell’allestimento dei presepi.



Apprendiamo cosí che, verso la fine del XVII secolo, l'artista napoletano Michele Perrone, spinto dalla necessità di soddisfare una richiesta via via più numerosa ed estesa, ideò un manichino di altezza inferiore di quello a snodo, con l'anima di filo di ferro dolce ricoperta di stoppa, per il quale erano scolpiti in legno soltanto la testa e gli arti.



Fu un’innovazione importantissima perché, consentendo estrema mobilità e duttilità di atteggiamento a ciascuna figura, conferiva veridicità, naturalezza alla scena di cui faceva parte e creava l'avvio al presepe rococò (XVIII secolo).



Siamo cosí arrivati al presepe napoletano del secolo d’oro che, ricco di fede e di cultura laica, carico di simboli religiosi e di raffinate citazioni pittoriche, cambiava spirito e iniziava a percorrere la strada che privilegiava il genere popolare e la parodia.



La "scena della taverna", (19° inserto) che in origine doveva ricordare il particolare del racconto evangelico (v. Luca 2,7: «Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.»), era assurta, con la sua crescita sproporzionata, al ruolo di spettacolo dominante, centro fascinoso e ammaliatore ma decisamente fuorviante.



Lo stesso dicasi del proliferare di figure affaccendate nel fare il proprio mestiere e a vendere, vendere tutto il pensabile e l’inimmaginabile, che distoglieva l’attenzione dello spettatore, relegando in secondo piano la Natività.



Questo corso diventava il favorito, e rompeva, con il proprio incedere, l’unicità, la compattezza, la concettualità della grande macchina scenica, e si rivelava sempre più vicino al gusto delle masse - inclini al piacere per l’episodio, per la scenetta di costume - evidenziando la mancanza di una regia sentita e motivata, capace di gestire la difficoltosa, polimaterica presenza di paesaggi, pastori, e accessori, finendo con il mettere sempre più in disparte quello che in origine era stato il fulcro, la ragione unica dell’allestimento di un presepe: "Il Mistero della Natività"; che diventava, oggettivamente, mero pretesto per tanta ostentazione.



Se ne ha una dimostrazione visitando, nei locali del Museo Nazionale di San Martino di Napoli, (20° inserto) la mostra permanente di un presepe di valore storico e artistico inestimabile, allestito il 28 Dicembre del 1879 con figure, piú di 300 pezzi, donate da Michele Cuciniello, architetto municipale, uomo di numerosi interessi e cospicue fortune, appassionato collezionista di pastori e oggetti del presepe napoletano del XVIII secolo.



I pastori, gli animali e gli accessori sono databili tra la seconda metà del Settecento e i primi dell’Ottocento.



Le scene furono progettate e realizzate dallo stesso Cuciniello, dall'architetto Fausto Niccolini, dal drammaturgo Luigi Masi e da Luigi Farina.



Il presepe (il cosiddetto scoglio) è formato da diverse scene, fra queste (21° inserto) la Natività posta su un rudere di un tempio distrutto, simbolismo questo assai diffusamente impiegato nei presepi del Settecento per indicare la fine dell’antico mondo pagano e l'avvento del Cristianesimo.



Una moltitudine diversificata di personaggi del popolo, come i nani, le donne con il gozzo, i pezzenti, i tavernari, gli osti, i ciabattini, ovvero la rappresentazione degli umili e dei derelitti - le persone tra le quali Gesù nasce - anima l'intera scena.



Non per niente il bravo don Michele Cuciniello era solito dire che «fare il presepe equivale a tradurre il Vangelo in dialetto napoletano».



Di tutt’altro avviso, lo studioso Raffaello Causa, il quale nel 1972 scriveva che: «... voce tipica della cultura artistica nella Napoli del Settecento [...] il presepe che diremo "cortese" per differenziarlo dal vecchio presepe di chiesa [...] si rivela esperienza mondana, sostanzialmente disincantata e laica, gioco alla moda della corte, dell'aristocrazia e dei ricchi borghesi [...] disimpegno di élite cui si attendeva nelle ore sfaccendate del giorno [...]».



La favola del presepe "cortese", espressione diretta di una società giunta al crepuscolo, si chiudeva definitivamente con la partenza dei Borboni da Napoli.



Nel corso dell'800, con l'ascesa della borghesia sempre più folta e attiva, nascono i "pastori" - come venivano indifferentemente chiamate statue e figurine per il presepe - tutti di terracotta, di varia qualità e misura, accessibili a tutte le borse e l’allestimento del presepe diventava quindi una tradizione familiare.



Ed è proprio all’importanza che il tradizionale allestimento del presepe ha avuto nel mio ambiente familiare, che mi accingo a dedicare l’ultima parte di questa conversazione.



Correva l’anno 1938 o 1939, quando il mio cugino Ercolani Giuseppe, familiarmente Pino, di sedici o diciassette anni più grande di me, ci regalava un presepe fatto di figurine ritagliate da qualche fotografia d’immagini sacre e incollate su sagome di compensato rifilate con il traforo.



È questo il primo presepe di cui io serbo il ricordo, che fu relegato in soffitta quando, qualche anno dopo, un amico di mio padre, Tommaso Fucili, emigrato a Milano dove lavorava come rappresentante di giocattoli, ci spediva per le feste di Natale, insieme ad un bel panettone Motta, il primo della mia vita, una serie di statuine di cartapesta comprendente, oltre alla Sacra Famiglia, pastori con relativo gregge, e, sulle orme del presepe napoletano, scene di vita campestre fra le quali, se ben ricordo, anche una lavandaia che sciacquava il bucato in un laghetto dove galleggiava un’anatra con una nidiata di paperotti delle dimensioni di un chicco di granturco, e naturalmente i Re Magi che, in sella ai loro cammelli, seguivano la strada loro indicata da una stella cometa.



Da allora la passione per il presepe non mi lasciava piú, anzi cresceva quando, intorno agli anni Cinquanta, Don Salvatore Scalognini, un sacerdote della parrocchia di Santa Maria del Porto di Pesaro, dove la mia famiglia si era trasferita dal natio paese di Pennabilli, mi chiamava a collaborare, con il compito di modellare le pecorelle, con un gruppo di miei coetanei, allievi della Scuola d’Arte Mengaroni, ai quali aveva affidato l’incarico di preparare le statue per un presepe da allestire in una sala della casa parrocchiale.



Incominciai cosí a familiarizzare con l’argilla e a cercare di modellare, in tutta segretezza, figurine dei personaggi del presepe.



Era l’inizio della mia attività di presepiaro, svolta fra un esame e l’altro del mio corso universitario per la laurea in Chimica Industriale a Bologna, attività che esercitavo soprattutto in casa di una giovane, che dalla sua veste di “garzone di bottega”, come lei stessa compiaceva definirsi, sarebbe poi assurta a quella di moglie: Ivana Baldassarri.



E fu nel soggiorno della casa di Ivana, che nel Natale 1958, fresco di laurea, ho allestito questo presepe (22° inserto), che misurava circa 3 metri di larghezza, con il quale il duo Baldassarri-Calcagnini partecipava al Concorso Presepi indetto dall’ufficio diocesano e vinceva la sua prima medaglia d’oro assegnata da una commissione che comprendeva, fra gli altri, i pittori Alessandro Gallucci e Werther Bettini.



Da allora la storia si ripeteva, con alterni risultati, per diversi anni, finché, verso la metà degli anni Novanta, il Concorso Presepi chiudeva per vari motivi la sua storia.



Ma non è il ricordo di queste gratificazioni del mio ego esibizionistico a costituire il motivo che mi spinge, come il famoso protagonista di Natale in casa Cupiello, a continuare, dopo tanti anni, la tradizione familiare del presepe.



A costo di passare per un sentimentalone, vi confesso che ogni volta che metto mano all’allestimento di un nuovo presepe, mentre sono intento a costruire paesaggi a base di pezzi di polistirolo espanso stuccati con impasti di scagliola e colorati con pennellate di idropitture, ed a piazzare lampadine per creare effetti luminosi, il mio pensiero va ai momenti in cui, anni addietro, i miei figli Francesco e Mariastella, e dopo di loro, i miei nipoti, Laura, Chiara e Andrea, il giorno di Natale, (23°, 24°, 25° inserti) ritti in piedi su una sedia davanti al presepe, recitavano al Bambino Gesù la filastrocca che avevano imparato dalle loro maestre.



Altri tempi!



Al giorno d’oggi, purtroppo accade che, in nome di un malinteso senso di accoglienza verso i figli di migranti che professano un altro credo religioso, certi insegnanti delle scuole primarie si dichiarino contrari all’allestimento del presepe e ai canti natalizi, mentre non hanno alcuno scrupolo a proporre, nientemeno come un fatto culturale (!?), le zucche vuote, i mostri e le streghe di Halloween.



Ma fra qualche giorno è Natale: dunque bando alle malinconie e pace in terra agli uomini di buona volontà!

Gilberto Calcagnini






17 dicembre 2012 Normando LOMBEZZI



"Abracadabra" 
Stregonerie, sabba, magiche noci di Benevento tra Catria , Nerone e Monte Cucco.



Excursus storico antropologico sulla figura della strega come espressione di primordiali ed imponderabili paure legate al culto delle forze naturali , atteggiamenti misogeni cristiani , ricerca di capi espiatori su cui convogliare i malesseri del gruppo.



10 dicembre 2012 Leonello BEI

Cagli in riferimento alla battaglia di Tagina (552 d.C.) e alla morte di Totila, re dei Goti.


Un prologo sugli argomenti che determinano la nascita di Apecchio, l’antica viabilità territoriale, un breve sunto sulla dominazione gotica in Italia e le nuove scoperte riguardo la battaglia di Tagina e la morte del re Totila, le quali coinvolgono direttamente Cagli, Acqualagna e Furlo, producendo per questo le varie testimonianze storiche reperite in merito.

GUARDA I VIDEO

Le origini di Apecchio

Dalla Apecchio umbra alla Massa della Vaccareccia

La battaglia di Tagina


La fine di Totila e la sua sepoltura a Cagli




6 dicembre 2012 Gabriele BARUCCA

Visita guidata a Recanati:

"Museo Diocesano, Museo Civico, Cattedrale, sulle tracce di Lorenzo Lotto".

Cattedrale di San Flaviano e Museo diocesano

Nel piccolo atrio che precede il "Sancta Sanctorum", ci sono i sarcofaghi del Cardinale Angelo da Bevagna Vescovo dal 1383-1412, del vescovo Nicolò delle Aste da Forlì che iniziò il Santuario di Loreto (m. 1469) e del Papa Gregorio XII che rinunciò al papato e fu Vicario generale per la Marca (m. 1417). Il soffitto a cassettoni fu fatto eseguire dal cardinale Galamini nel 1620. Il vecchio Episcopio, risalente come l´antica Cattedrale al '300, è ora adibito a Museo Diocesano di arte sacra, ricco di dipinti (sec. XIV-XVI), sculture, reperti archeologici, preziosi reliquiari ecc.

Il Museo raccoglie opere d'arte sacra tra cui una "Sacra Famiglia" su tavola di Daniele da Volterra, una "Madonna" attribuita al Mantegna, una "Madonna" del Sassoferrato e una "Santa Lucia" del Guercino.


Pinacoteca Civica Villa Colloredo Mels Lotto e Museo Uncini



Il museo è diviso in tre sezioni: una archeologica che espone reperti rinvenuti in occasione di scavi nel territorio recanatese; una d´arte moderna in cui sono conservate opere che vanno dal XIII sec. ad oggi, tra le quali spiccano le prestigiose tele di Lorenzo Lotto (il Polittico di San Domenico, la Trasfigurazione, il San Giacomo e l´Annunciazione), un polittico di Pietro di Domenico da Montepulciano e una Presentazione al Tempio attribuita al Pomarancio; infine uno spazio adibito a mostre temporanee.


GUARDA I VIDEO




I PARTE
 

II PARTE



III PARTE



IV PARTE



GUARDA LA PALA DI SAN DOMENICO
AD ALTA DEFINIZIONE

(usa le icone che compariranno sotto la pala per ingrandire e per spostarti da un particolare ad un altro)






3 dicembre 2012 Ferdinando DE ROSA

“ Le cinque stele trovate nel territorio di Pesaro e Novilara: possibile interpretazione”

L’origine della parola acqua in diversi ceppi linguistici antichi e la toponomastica che residua lungo le nostre coste adriatiche, ci fanno ipotizzare che le spiagge adriatiche erano un approdo commerciale frequente per le popolazioni marinare del mediterraneo orientale fenicio e successivamente di quelle greco-doriche.



La relazione inquadra il nostro territorio appenninico in epoca pre-romana, che era abitato dagli Umbri appartenenti alla “Tota Ikuvina”, ed ipotizza il possibile stanziamento delle varie “Trifu” che erano situate a cavallo dell’Appennino intorno a Gubbio e che costituivano l’insieme politico religioso attorno a questa città.



Le deduzioni fatte derivano dalla lettura delle tavole Ikuvine (la più antica circa III-IV secolo a.C), e così possiamo avere un quadro di riferimento temporale del nostro entroterra che può paragonarsi e rapportarsi alle popolazioni che abitavano la costa.



In questo periodo infatti le vallate a cavallo dei Monti dell’Appennino erano abitate dalle popolazioni di “nomen” umbro, mentre nelle zone costiere erano presenti popolazioni italico-greche doriche- parzialmente stabilizzate o in parte in migrazione verso il sud (Japigi ?).



Segue una panoramica delle stele trovate nel territorio di Pesaro e Novilara e che possono essere datate fra il VI ed il V secolo, di cui le due più interessanti conservate al Museo Pigorini di Roma, la Stele Navale trovata in Valmanente ora presso il museo Archeologico Oliveriano di Pesaro insieme ad un altro frammento e due conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Ancona.



Fra le due realtà rappresentate passano alcune generazioni e quindi possiamo sostanzialmente ipotizzare che ci siano stati contatti e rapporti di vicinato con scambi di merci.



Viene offerta una interpretazione della stele figurata denominata “Battaglia navale” e la traduzione delle parti scritte presenti nelle altre stele, con un alfabeto greco antico, scritto ancora da destra verso sinistra e con una lingua ipotizzata in un misto di greco dorico e italico.



In particolare viene proposta la traduzione della stele “Merpon” che consta di 12 righe e che, tradotta nell’ipotesi proposta , permette di descrivere un importantissimo episodio della vita del defunto a cui si riferisce la stele e conseguentemente della vita della città di Pesaro.



Questa stele viene attribuita circa al 530-520 a. C. e quindi sappiamo dell’esistenza di una città (Isairon) non ancora completamente fortificata, quindi in quel periodo all’inizio del proprio sviluppo economico, importante tanto che due secoli dopo sarà attraversata dalla più importante strada dell’impero romano e sarà sede di municipio.



Le parole, in particolare i verbi, sono interpretati come derivati dalla lingua dei Dori ed altre sono assimilabili all’italico antico e questo ci induce ad ipotizzare la presenza di una popolazione che ha una notevole attività commerciale marittima, tramite fra i popoli dell’entroterra e quelli di oltremare, sia Greci/Dori che Iapodes che erano stanziati nell’Istria, con anche qualche elemento etrusco, come possiamo ipotizzare da una parola etruscheggiante presente in una stele.


Ferdinando De Rosa       




29 novembre 2012 Maria LENTI

I SASSI DI MATERA: PATRIMONIO DELL’UMANITA’

(Notizie tratte da Wikipedia)

I Sassi di Matera sono stati iscritti nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel 1993. Sono stati il primo sito iscritto dell'Italia meridionale. L'iscrizione è stata motivata dal fatto che essi rappresentano un ecosistema urbano straordinario, capace di perpetuare dal più lontano passato preistorico i modi di abitare delle caverne fino alla modernità.



I Sassi di Matera costituiscono un esempio eccezionale di accurata utilizzazione nel tempo delle risorse della natura: acqua, suolo, energia.



La città della pietra, centro storico di Matera scavato a ridosso del burrone, è abitata in realtà almeno dal Paleolitico: alcuni tra i reperti trovati risalgono al XIII millennio a.C., e molte delle case che scendono in profondità nel calcare dolce e spesso (calcarenite) della gravina, sono state vissute senza interruzione dall'età del bronzo (a parte lo sfollamento forzato negli anni cinquanta). La prima definizione di Sasso come rione pietroso abitato risale ad un documento del 1204.



I Sassi di Matera sono un insediamento urbano derivante dalle varie forme di civilizzazione ed antropizzazione succedutesi nel tempo. Da quelle preistoriche dei villaggi trincerati del periodo neolitico, all'habitat della civiltà rupestre di matrice orientale (IX-XI secolo), che costituisce il sostrato urbanistico dei Sassi, con i suoi camminamenti, canalizzazioni, cisterne; dalla civitas di matrice occidentale normanno-sveva (XI-XIII secolo), con le sue fortificazioni, alle successive espansioni rinascimentali (XV-XVI secolo) e sistemazioni urbane barocche (XVII-XVIII secolo); ed infine dal degrado igienico-sociale del XIX e della prima metà del XX secolo allo sfollamento disposto con legge nazionale negli anni cinquanta, fino all'attuale recupero iniziato a partire dalla legge del 1986.



I Sassi sono davvero un paesaggio culturale, per citare la definizione con cui sono stati accolti nel Patrimonio mondiale dell'Unesco.



Il Sasso Barisano, girato a nord-ovest sull'orlo della rupe, se si prende come riferimento la Civita, fulcro della città vecchia, è il più ricco di portali scolpiti e fregi che ne nascondono il cuore sotterraneo.



Il Sasso Caveoso, che guarda invece a sud, è disposto come un anfiteatro romano, con le case-grotte che scendono a gradoni, e prende forse il nome dalle cave e dai teatri classici. Al centro la Civita, sperone roccioso che separa i due Sassi, sulla cui sommità si trova la Cattedrale.



Infine di fronte, sul versante opposto della Gravina di Matera, l'altopiano della Murgia che funge da quinta naturale a tale scenario, con le numerose chiese rupestri sparse lungo i pendii delle gravine protette dall'istituzione del Parco archeologico storico-naturale delle Chiese rupestri del Materano, detto anche Parco della Murgia Materana.



Un paesaggio in parte invisibile e vertiginoso, perché va in apnea in dedali di gallerie dentro la pietra giallo paglierino del dorso della collina, per secoli difesa naturale e ventre protettivo di una città che sembra uscita dal mistero di una fiaba orientale.



"Grotte naturali, architetture ipogee, cisterne, enormi recinti trincerati, masserie, chiese e palazzi, si succedono e coesistono, scavati e costruiti nel tufo delle gravine" scrive Pietro Laureano nel suo libro Giardini di pietra.



26 novembre 2012 Valentino AMBROSINI

I tesori dell'UNESCO: Milano, da
Santa Maria delle Grazie al
Cenacolo vinciano.


VISITA VIRTUALE A SANTA MARIA DELLE GRAZIE



22 novembre 2012 Roberto FIORANI

In viaggio con Don Cristobal Colon

(Genova, 1451-Valladolid, 1506).

 
1- ORIGINI E FORMAZIONE.



Colombo nasce a Genova nel 1451 da Domenico e Susanna Fontanarossa, umili tessitori. In famiglia 1 sorella (Bianchinetta) e 2 fratelli (Bartolomeo e Diego). Genova allora era una città di circa 50.000 abitanti, con grande tradizione marinara. Autodidatta per istruzione, marinaio in età giovanissima (14 anni). Uomo di “grande intelletto ma di poca istruzione” (amico religioso). Con le compagnie genovesi, in particolare la Ditta Centurione, traffica e lavora nei porti del Mediterraneo fino al 1477 (26 anni). Di statura alta, colorito sanguigno, occhi chiari. Sostenuto da una fede religiosa (cattolica) onnipresente, non priva di fanatismo e misticismo, mostrava una indomita convinzione nelle proprie idee e una infaticabile loquacità verbale e scritta. Invece di essere soddisfatto dei risultati ottenuti, si sdegnava per i torti subiti. Gli applausi non lo appagavano, le calunnie lo amareggiavano. Personalità complessa e un po’ “mattoide”!



Nel 1477 si trasferisce a Lisbona e inizia a navigare per le rotte già note del “Mare Oceano” (Atlantico): Islanda, Azzorre, Madeira, Canarie, Golfo di Guinea. Nel 1480 sposa Donna Felipa Moniz, figlia naturale di Bartolomeo Perestrello, piacentino, proprietario del Feudo dell’isola di Porto Santo, nell’arcipelago di Madeira. Da lei, morta prematuramente, avrà l’unico figlio legittimo Diego. Dalla popolana Beatriz Enriquez invece, nel 1488, il figlio illegittimo Fernando. Sarà lui a partecipare giovanissimo all’ultimo viaggio del padre, diventando poi illustre letterato e narratore anche della storia paterna.

 
2- CONOSCENZE GEOGRAFICHE NELLA SECONDA META’ DEL QUATTROCENTO IN EUROPA.



Sulla base classica della Geografia di TOLOMEO (Alessandria d’Egitto, II sec. D.C.) il mondo sarebbe stato una sfera perfetta, con una circonferenza all’equatore di circa 20.400 miglia (stima per difetto). La parte conosciuta si estendeva in una massa terrestre continua dall’estremità occidentale dell’Europa all’estremo limite orientale dell’Asia. Tra i due estremi era frapposto il “mare Oceano”, che si riteneva non molto esteso.



Dai racconti de “Il Milione” di MARCO POLO (fine XIII sec.) si apprendeva che al largo delle coste dell’Asia vi erano 1.378 isole. Inoltre, a 1.500 miglia, c’era l’isola dorata di Cipangu (Giappone). Il Milione è la cronaca di un viaggio a piedi dalla Turchia a Pechino, durato 3 anni e mezzo, con soggiorno in Cina per 17 anni. Contiene informazioni preziose e attendibili circa l’itinerario percorso e le osservazioni dirette; informazioni non attendibili per quanto riferito da ambasciatori e altri mercanti.



Nella mente di Colombo, già marinaio del Mediterraneo e ora ammiraglio del “mare Oceano”, matura il desiderio di esplorare tre possibili mete: Asia, Antipodi, altre isole sconosciute. A questo fine, nel decennio 1480-1490, oltre ai viaggi per mare, Colombo si dedica anche ai libri e alla cartografia.


3- ALLA RICERCA DI UNO SPONSOR (1484-1492).



Portogallo e Spagna sono i paesi europei più interessati, all’epoca, alla navigazione nel “mare Oceano” e a possibili scoperte di nuovi territori. Nulla di fatto nelle trattative con il re del Portogallo Giovanni II, tra il 1484 e il 1485. Quindi Colombo si trasferisce in Spagna alla fine del 1485 o all’inizio del 1486.



Tra il 1486 e il 1487 Colombo elabora una “proposta di traversata del mare Oceano” alla corte reale di Castiglia. Esaminata da una commissione di “savi uomini, dotti magistrati e uomini di mare”, la proposta viene inizialmente bocciata, ma a Corte nasce una “lobby colombiana” che inizia a lavorare mentre la monarchia è fortemente impegnata nella “Reconquista” contro i “Mori”.



Dopo qualche anno e molte fatiche la “lobby colombiana” riesce finalmente a varare un “piano operativo”. Il Tesoriere della Corona Aragonese, Luis de Santangel, mette a disposizione 1.140.000 maravedi (moneta spagnola, coniata in oro e argento, dalla dinastia araba degli Almoravidi). Il consorzio di Quintanilla ne raduna altri 500.000.



Il “via libera” alla spedizione da parte dei sovrani Ferdinando e Isabella arriva dopo la “reconquista” di Granada nel 1492. Con le risorse disponibili (1.500.000 maravedi, in quanto 140.000 erano il compenso personale di Colombo) vengono approntate 3 navicelle: SANTA MARIA, ammiraglia, PINTA, dei f.lli Pinzon, Nina, di Juan Nino. Martin Pinzon, braccio destro di Colombo, arruola dei volontari. Sono circa 88 uomini di equipaggio, distribuiti su 3 imbarcazioni, in parte baschi, in parte di Palos e Siviglia. Le provviste: acqua, vino, olio d’oliva, gallette di pane e farina, pesce salato, lardo affumicato e formaggi. Inoltre s’imbarca abbondante “chincaglieria” come merce di scambio. Con gli stemmi di Ferdinando e Isabella sulla vela maestra, Don Cristobal Colon, Grande Ammiraglio del mare Oceano, Vicerè e Governatore di tutte le isole e le terre (eventualmente) scoperte, è finalmente pronto a salpare.

 
4- PRIMO VIAGGIO (3 agosto 1492-marzo 1493).



Si parte da Palos, porto di Cadice, in direzione Canarie, su una rotta già nota e collaudata: un buon allenamento, nulla di più. Alle Canarie c’è il tempo di fare quattro passi sulla terraferma e ripristinare le vettovaglie. Il 6 settembre inizia la vera traversata, in direzione ovest, verso…l’ignoto!



Conoscenze astronomiche elementari, bussola, comunicazioni a viva voce, clessidre a sabbia rivoltate ogni mezz’ora per misurare il tempo. Tre navicelle in legno, con vele in parte quadrate e in parte triangolari, 88 temerari a bordo, bramosi soprattutto di oro e tesori in genere, durata della traversata 36 giorni. Timori principali: nessuna certezza per alcuno, neppure per Colombo; paura di non potere rientrare sani e salvi; contrasti tra Colombo e Pinzon per la rotta; timore di ammutinamento degli uomini di equipaggio. Nel testo “El primer viaje” (Bartolomeo de Las Casas), il 24 settembre 1492, 18 giorni dopo la partenza, si legge: “ era gran pazzia e un volersi dare la morte con le proprie mani, rischiare la vita per giovare ai folli disegni di uno straniero che era pronto a morire nella speranza di fare di se un gran signore”. E ancora: “ la cosa migliore era gettarlo una notte in mare e spargere la voce che era caduto mentre cercava di fare un rilevamento della stella polare col suo quadrante o astrolabio”. Un’annotazione di Colombo nel diario di bordo: “ mare alto, come non fu mai visto prima, tranne al tempo degli Ebrei quando fuggirono dall’Egitto seguendo Mosè”.



Alla fine della prima settimana di ottobre, dopo un mese di traversata, nasce un aperto contrasto tra Colombo e Pinzon per modificare la rotta. La controversia si attenua nei giorni successivi con l’avvistamento di detriti galleggianti e alcuni uccelli terrestri. Finalmente, alle 2 di notte di venerdi 12 ottobre 1492, il grido liberatorio: “tierra, tierra”!



Dov’erano finiti? Nell’arcipelago delle Bahama, più precisamente nell’isola subito ribattezzata da Colombo “San Salvador”, ma dai nativi chiamata “Guanahanì”. Colombo la descrive di aspetto gradevole, boscosa, ricca di acque e piante da frutto. Quanto ai nativi parla di “genti ignude”, fisicamente normali, di indole pacifica, incorrotti ma facilmente raggirabili (offrivano tesori in cambio di cianfrusaglie!). Dal 15 al 23 ottobre esplora altre 3 isolette vicine: Santa Maria de la Concepcion, Fernandina e Isabela. Il 24 ottobre approda a Cuba, scambiandola per l’isola di Cipangu (Giappone) e ne esplora l’interno. Il 20 novembre Martin Pinzon parte da Cuba in cerca d’oro, senza chiedere il permesso a Colombo che lo accusa apertamente di “ tradimento”! Colombo, a sua volta, lascia Cuba il 5 dicembre e scopre Haiti, ribattezzata Hispaniola. Il primo contatto con gli indigeni avviene nel nord dell’isola, a Port Paix. La vigilia di Natale 1492 c’è il naufragio della Santa Maria, l’ammiraglia, e Colombo rimane solo con la Nina. In accordo con il capo locale, Guacanagarì, decide di istituire a Puerto Navidad un presidio di 39 uomini, dediti alla ricerca dell’oro, in attesa di una nuova spedizione dalla Castiglia. Il 6 gennaio 1493 (befana!) ricompare Martin Pinzon con oro in abbondanza.



Il 16 gennaio si decide il ritorno a casa, con l’oro rimediato e alcuni indigeni imbarcati sulla Nina, la nuova ammiraglia. Ripartono quindi 2 caravelle con 49 uomini di equipaggio. Il 14 febbraio 1493 (San Valentino) una tempesta separa definitivamente le due caravelle. Il 18 febbraio 1493 la Nina approda alle isole Azzorre, già da allora colonia portoghese. Dieci uomini scesi a terra per fare provviste vengono arrestati dai portoghesi e Colombo fatica non poco a liberarli. Ripresa la navigazione, vento e altre tempeste portano la Nina a Lisbona. Il re Giovanni II, che conosceva Colombo e i suoi progetti, lo pose agli arresti. Nel frattempo la Pinta di Pinzon era approdata a Baiona, nei pressi di Vigo in Galizia e Martin era morto poco dopo essere giunto in porto. Colombo rimaneva il solo a potere rivendicare l’impresa. Rilasciato dai portoghesi, riprese il mare diretto a Barcellona dove l’attendevano i sovrani spagnoli (aprile 1493). L’accoglienza fu trionfale e Colombo mostrò a Ferdinando e Isabella l’oro trovato (soprattutto da Pinzon) e gli indigeni nei loro costumi tradizionali.

 
5- SECONDO VIAGGIO (1493-1496).



Confermato Grande Ammiraglio del mare Oceano, Vicerè e Governatore delle Isole da lui scoperte nelle Indie, Colombo comincia subito (maggio 1493) a preparare una nuova spedizione, questa volta in grande stile! Ben 17 navi, con la Nina come ammiraglia e circa 1.300 uomini di equipaggio, di cui 200 volontari e 20 cavalieri. Partecipa anche il fratello minore Giacomo, ribattezzato Diego Colon. Raduno e partenza, come in precedenza, dalle Canarie il 3 ottobre 1493 e arrivo a Dominica, Piccole Antille, il 3 novembre 1493. Scoperta di nuove isole (Puerto Rico, San Juan Bautista e Guadalupe) poi di nuovo a Hispaniola, verso il presidio di Puerto Navidad. Qui l’attende una brutta sorpresa! I 39 spagnoli del presidio, che si erano dedicati a rubare oro e infastidire le donne indigene, erano stati tutti uccisi! Colombo cerca di ricomprare l’amicizia del capo indigeno Guacanagarì regalandogli perline di vetro, coltelli, forbici, campanelli di latta, spilli, speroni e aghi. Fonda la prima città del nuovo mondo, Isabela, il 2 gennaio 1494. Poi, tramite due luogotenenti, Hojeda e Margarit, inizia l’aspetto meno nobile della colonizzazione con la deportazione e l’asservimento degli indigeni. Dal febbraio 1494, mentre Colombo si trattiene alle Antille, inizia un regolare traffico commerciale (e passeggeri) tra Hispaniola e la Castiglia.



Lasciata Hispaniola al fratello Diego e ai due luogotenenti, Colombo con una parte della flotta riprende l’esplorazione di Cuba e Giamaica fino al giugno 1494. Tornato a Hispaniola vi ritrova anche l’altro fratello Bartolomeo. Grande e coraggioso come esploratore Colombo mostra invece innegabili limiti come Governatore. La situazione gli sfugge di mano. Molteplici i fattori: difficoltà ambientali, pochezza di risorse, iniziative autonome dei luogotenenti, costruzione di fortilizi, guerra con gli indigeni che provoca moltissimi morti (50.000?), esazione di tributi, scontento di coloni e religiosi, contagio di sifilide. Tutto ciò determina una inchiesta giudiziaria dei sovrani spagnoli affidata a Juan Aguado nell’ottobre 1495. Colombo allora matura la decisione di rientrare in Spagna (marzo 1496) per meglio difendersi davanti alla Corte reale. Ma questa volta l’accoglienza è molto meno calorosa del primo rientro.



6-TERZO VIAGGIO (maggio 1498-settembre 1500).



Dopo circa 2 anni trascorsi a discolparsi, Colombo organizza una nuova spedizione, dividendo la flotta in 2 gruppi. Il primo diretto a Hispaniola, il secondo, comandato da lui, diretto più a sud, alla ricerca di nuove rotte e scoperte. Dalle Canarie si dirige verso l’isola di Capo Verde per poi virare a ovest. Su questa rotta Colombo incontra difficoltà maggiori per l’assenza di venti e le elevate temperature che causano avarie nelle provviste. Il 31 luglio 1498 sbarca a Trinidad, un’isola situata in prossimità del delta del fiume Orinoco, nell’odierno Venezuela. Proprio mentre naviga davanti alle coste venezuelane Colombo matura una convinzione: “credo che questo sia un grandissimo continente, rimasto fino ad ora sconosciuto”! Poi il 15 agosto 1498 si dirige a nord-ovest verso Hispaniola, anche a motivo della congiuntivite.



Appena ripreso il ruolo di Vicerè e Governatore scoppia la ribellione di Francisco Roldan e la lotta tra questi e Hojeda. Nuova inchiesta dei sovrani. Il loro inviato, Francisco de Bobadilla, nell’agosto 1500 fa arrestare Colombo e i suoi fratelli, Diego e Bartolomeo, e li rispedisce in Spagna in catene!



7- QUARTO VIAGGIO (maggio 1502-novembre 1504).



Nel febbraio 1502 Colombo chiede e ottiene dai sovrani di organizzare l’ultima traversata. Parte con sole 4 caravelle. Lo accompagnano i fratelli Bartolomeo e Diego e il figlio illegittimo Fernando, appena tredicenne. Scopo del viaggio era quello di “andare a perlustrare la terra di Paria”, riprendere cioè le esplorazioni nel mar dei Caraibi, interrotte nel terzo viaggio a causa della congiuntivite. Ormai i navigatori portoghesi avevano accertato che la parte continentale del Nuovo Mondo occupava gran parte dell’Atlantico meridionale. La traversata fu la più rapida di sempre: 21 giorni a partire dalle Canarie. Breve sosta al largo di Hispaniola per “divieto di sbarco” e subito una tempesta tropicale! A fine luglio 1502 Colombo raggiunge Islas de la Bahia, davanti all’Honduras. Da lì ritorna verso est costeggiando il territorio centro-americano fino a Panama. Molti uomini, compreso Colombo, si ammalano di malaria. Nel maggio 1503 altra tempesta tropicale e perdita di 2 navi. Ne rimangono solo 2 e per di più malconce. Colombo le descrive “con più buchi d’un favo d’api”!



E’ del 29 febbraio 1504 il curioso episodio dell’eclissi di luna. Predicendolo il giorno prima, Colombo intimorì gli indigeni e li indusse a sfamarli! Nuovo naufragio in Giamaica. Colombo invia il fido “secondo” Mendez in canoa a Hispaniola per chiedere aiuto. Il nuovo Governatore Ovando fa orecchie da mercante e la nave di soccorso arriva soltanto nel giugno 1504. Finalmente il rientro in Spagna nel novembre 1504. Colombo era così malconcio da potersi muovere solo in portantina. Il 26 novembre muore anche la regina Isabella, suo principale “sponsor”.

 
8- CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.



• Gran viaggiatore in vita, Colombo continua a viaggiare anche…da morto! Sepolto all’inizio presso il monastero francescano di Valladolid, 20 maggio 1506, nel 1509 la sua salma fu trasferita nella cappella di famiglia a Siviglia. Alla morte del figlio legittimo, Don Diego Colon, i suoi resti furono trasferiti nella cattedrale di Santo Domingo (Hispaniola). Nel 1795, all’arrivo dei Francesi, nuovo trasferimento in territorio spagnolo a Cuba (L’Avana). Nel 1898 ultima trasferta verso la cattedrale di Siviglia, ove riposa tuttora.



• Nel 1507, appena 1 anno dopo la morte di Colombo, il professore tedesco Martin Waldseemuller propose che il nuovo continente si chiamasse America in onore di Amerigo Vespucci, navigatore fiorentino, da lui proclamato geografo pari a Tolomeo. In realtà Colombo aveva preceduto Vespucci di 1 anno sulle sponde del continente sudamericano. I due inoltre, Colombo e Vespucci, non solo si conoscevano ma si frequentavano pure. Sei anni dopo, 1513, il professore tedesco ritrattò la proposta e restituì a Colombo l’onore della scoperta, ma ormai… la “frittata” era fatta!



• Nel 1552 lo storico Francisco Lopez de Gòmara scrisse che la scoperta del Nuovo Mondo era il più grande avvenimento dopo la nascita di Cristo, ma negava i meriti di Colombo. Perché questo atteggiamento “ostile” contro Don Cristobal Colon? Perché nella prima metà del Cinquecento i giudizi degli storici furono fortemente influenzati dalla “lite giudiziaria” fra gli eredi di Colombo e i sovrani spagnoli riguardo al mancato adempimento delle promesse reali del 1492.



• Altro elemento sfavorevole le esperienze contraddittorie come Governatore che, tuttavia, nulla tolgono al genio e al coraggio del navigatore.


Roberto Fiorani