DANTES JUDEUS.

Publichiamo con piacere il pur corposo abstract relativo al libro "DANTES JUDEUS" che l’autore Prof. Angelo Chiaretti ci ha voluto generosamente anticipare ad introduzione della sua lezione che terrà presso di noi giovedì 25 novembre 2021.


Un nuovo sorprendente percorso dantesco: nelle vene dell’Alighieri scorreva sangue ebraico!

La realtà è solo quella fetta di verità che ci è dato di vedere. Il resto è dietro l’angolo

Con questa massima di Claudio Misculin si apre il libro di Angelo Chiaretti Dantes Judeus. Un nuovo sorprendente percorso dantesco: nelle vene dell’Alighieri scorreva sangue ebraico !

Chiaretti, presidente del Centro Studi Danteschi San Gregorio in Conca, ha abituato i suoi lettori a Lecturae Dantis inaspettate, ma questa volta il suo folle volo si è spinto veramente in alto mare aperto, accompagnandoci dove solamente una piccioletta barca può giungere per gustare il pane degli angeli

In effetti, Giovanni Boccaccio dice testualmente che il Poeta aveva caratteri somatici anomali per un fiorentino o un italiano: Pelle di colore bruno, occhi grandi, barba nera e fitta,  capelli ricci e neri, naso curvo, volto lungo, corporatura bassa e curva, memoria prodigiosa, intelligentissimo, riservato, travolto dalle palpitazioni amorose, preparatissimo nell’Antico e Nuovo Testamento[..], caratteristiche, universalmente riconosciute al tipo ebraico. Una seconda testimonianza dell’epidermide scura dell’Alighieri l’abbiamo dalle donne di Verona, che così commentavano, vedendo Dante passare per strada: Donne, vedete colui che va nell’inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono? Alla quale una dell’altre rispose semplicemente: In verità tu dèi dir vero: non vedi tu com’egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è là giù?

Eppure nessuno ci ha mai fatto caso !

I PIERLEONI L’avvincente discorso di Chiaretti parte da una ricerca genealogica (mai condotta prima), che dimostra come la famiglia degli Alighieri discese dagli Elisei (che cambiarono cognome quando nel XII secolo da Roma si trasferirono a Firenze), discendenti dai Frangipani, che a loro volta erano imparentati con i potenti Pierleoni, residenti a Roma nel Quartiere Ebraico del Teatro di Marcello, dove erano attivi come prestatori di denaro.

Veniamo al punto. Quando, attorno al 1317, Dante invia l' Epistola a Cangrande della Scala, dedicandogli la terza cantica della Commedia, inizia dicendo: Ego sum florentinus natione non moribus !  L'affermazione ha dell'incredibile: Io sono nato a Firenze -dice il Poeta- ma i miei costumi non sono fiorentini, i miei modi non sono fiorentini, le mie aspettative, le mie tendenze, le mie competenze, non sono fiorentine! Dunque, al fine di celebrare con mente e cuore nuovi questo Settimo Centenario, è giunto il momento di chiarire quali fossero quei mores di cui Dante si vantava.

Due ipotesi complementari si impongono: 

I^ Ipotesi: quei mores, conducono direttamente a Roma, caput mundi, poiché la genealogia di Dante porta, per bocca sua e dei suoi biografi, direttamente alla Città Eterna. Ne abbiamo riscontro immediato proprio da Brunetto Latini, che nel canto XV dell’Inferno dice che Firenze ha ormai perduto ogni dignità e che la pianta gentile (=Dante) nella tradizione della vita e nel sangue conserva integra l'antica virtù, in mezzo al letame di una città dissoluta e sconvolta. 

II^ ipotesi: rinnegando la propria identità morale di fiorentino, pur nato sulle rive dell’Arno, Dante potrebbe aver pensato, con perfetta cognizione di causa, a quel sangue che, genealogicamente, gli scorreva nelle vene e che attraverso Elisei,  Frangipani e Pierleoni conduceva direttamente ad una discendenza ebraica ! 

Tuttavia, non sono bastati 700 anni per chiarire la sorgente di tanto genio, anche se una semplice carrellata genealogica e molti documenti rivelano palesemente che:

a.                Gli Alighieri  discesero dall’ebreo Baruch di Pietro di Leone, che nell’ XI secolo si convertì al Cristianesimo, cambiando il proprio nome in Benedetto Cristiano ed originando la famiglia dei Pierleoni (Petrus Leonis), i potentissimi giudei che a Roma abitavano (ed abitano) nel palazzo e nelle case costruite sulle rovine dell’Anfiteatro di Marcello, cuore pulsante del Quartiere Ebraico! 

b.               Le attività degli Alighieri, i quali si dedicavano per tradizione familiare al commercio del denaro, indubbiamente garantirono alla famiglia una certa agiatezza: Tutti gli Alighieri si impicciarono in operazioni quali l'usura e la compra-vendita di beni immobili e Prato pare esser stato il loro terreno preferito anche per mezzo di alleati.

Risulta, dunque, importante sottolineare che la Corporazione a cui Dante si iscrisse, al fine di candidarsi al Governo di Firenze, non si chiamava Corporazione dei Medici e Speziali, come si è legge un po’ ovunque, ma Ars et Universitas Medicorum, Spetiariorum et Merciariorum, la qual cosa ci permette di sottolineare, per l’ennesima volta, come gli Ebrei fossero particolarmente attivi, ab antiquo, nella strazzeria, cioè nel commercio di tessuti ed abiti usati! Quando alcuni dei Pierleoni, già cristiani conversi si trasferirono dalla Città Eterna a Firenze, si presentarono come Frangipani (sopranome parlante e non casuale, che rimanda al  gesto eucaristico compiuto dal Cristo nel corso dell’Ultima Cena).  E per volontà di uno di loro, chiamato Eliseo, non l’antico cognome ritennero (Boccaccio) e divennero gli Elisei, il cui più celebre rappresentante è certamente quel Cacciaguida di Adamo trisavolo di Dante, al quale sono dedicati ben tre canti del Paradiso (XV-XVI-XVII) nei quali, trattando della genesi degli Alighieri, egli  parla a lungo di sé (ma è la voce di Dante!) e di suo fratello Moronto: dice di essere nato a Porta san Piero, dove si  cambia [denaro ad usura n.d.r.] e merca. Tuttavia Cacciaguida (e con lui i commentatori danteschi fino ad oggi!) si guarda bene dallo spingersi più indietro nel tempo e dal fare riferimento ai suoi antenati ebrei, dicendo testualmente che chi fossero e da dove venissero è cosa onesta tacere più che trattare:

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annual gioco.

Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.

 

PELLE NERA !: Boccaccio fa discendere Dante dalle famiglie romane di Pierleoni e Frangipani, nel momento in cui narra la riedificazione di Firenze ai tempi di Carlo Magno: infra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della riedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade e datore al nuovo popolo delle leggi opportune […] venne in Firenze, secondo ne testimonia la fama, un giovane per origine de' Frangiapani, nominato Eliseo; il quale, che cagione se 'l movesse, di quella divenne perpetuo cittadino; del quale rimasi laudevoli discendenti et onorati molto, non l'antico cognome ritennero, ma da colui che quivi loro aveva dato principio prendendolo, si chiamarono gli Elisei. De' quali, di tempo in tempo e d' uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse un cavaliere per arme e per senno ragguardevole, il cui nome fu Cacciaguida, il quale per isposa ebbe una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara, della quale forse più figlioli ricevette. Ma, come come che gli altri nominati si fossero, in uno, sì come le donne sogliono essere vaghe di fare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi maggiori, e nominollo Aldighieri, come che il vocabolo poi, per sottrazione d'alcuna lettera, rimanesse Alighieri.

Dunque, l’appartenenza alla religione ebraica degli antenati del Poeta sfumò in una conversione al Cristianesimo, provocata dalle discriminazioni sempre più aperte riservate dalla Chiesa Cattolica ai giudei, ma anche dal fatto per cui (sono parole di Dante, si badi bene) in quegli anni il populus Dei, amato dal Signore, non era più Israele bensì i discepoli di Cristo: Israele è certamente un popolo eletto, ma essi hanno perduto tale primato dopo la venuta del Redentore..

Tuttavia, il sangue che scorreva nelle loro vene, il loro codice genetico, rimase intatto sia per quanto riguarda le fattezze fisiche che quelle intellettuali ebraiche. 

Relativamente alle prime, in questi 700 anni ci si sia dimenticati di un particolare di non poco conto: il colore bruno dell’epidermide del volto! Sentiamo ancora Giovanni Boccaccio: Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo, e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri.

Vediamo, dunque,  di prendere in esame i principali passaggi di tale fondamentale documento:

-Fu il nostro poeta di mediocre statura = una semplice osservazione chiarisce che, in genere, gli appartenenti al Popolo di Israele non raggiungono particolari altezze in quanto a statura fisica.  

-Ebbe il volto lungo = I principali trattati di fisiognomica dicono che il viso degli Ebrei è lungo ed il profilo molto stretto, con sopracciglia fortemente pronunciate e riunite sulla radice nasale. 

-Naso aquilino =  si tratta della celebre shnobel ebraica. Le fattezze del cosiddetto naso ebraico sono quelle stesse che si riscontrano nel tipo armenoide: un naso ben pronunciato, rivolto verso il basso con la punta e a dorso convesso, tanto che di profilo ne risulterebbe la figura di un numero 6. J. Jacobs lo riassume così: punta piegata verso il basso, simile a un gancio, e le ali sono sollevate. 

-Gli occhi anzi grossi che piccoli = Il volto dell’ebraico medio è caratterizzato da occhi  grandi e ciglia piuttosto lunghe, rinforzati dallo spessore e pesantezza delle palpebre, specie quella superiore.

 


 Shnobel ! (naso ebraico)

 

-E il color bruno e i capelli e la barba crespi e neri = Il colore della pelle è olivastro, abitualmente più scuro di quello delle popolazioni circostanti.

La barba ricciuta, anche se rasata, è così densa da produrre un colorito nero-bluastro.   

Barba ebraica


 IL DANTE DI ORVIETO

(Palazzo Comunale)


 SI NOTINO IN ALTRO A DX DANTE ALIGHIERI E GUIDO NOVELLO DA POLENTA, ENTRAMBI BARBUTI

(Affreschi - distrutti dalla guerra nel 1944- nella Chiesa di S. Maria in Porto Fuori, Ravenna. 

Ed il colore bruciato della pelle è una caratteristica propria dei più antichi ceppi etnici di Israele, non certamente di un fiorentino ! La storia di Mosè (in egiziano = figlio) narrata in Esodo (secondo libro della Torah) è a tutti nota nello svolgimento dei fatti, ma è densa di significati nascosti: la razza assiride originariamente presentava pelle bruna, testa di forma lunga e un po’ depressa, statura media e alcuni caratteri equatoriali (capelli crespi, labbra tumide, accenni di parziale prognatismo). Questi caratteri equatoriali degli Ebrei potevano essere spiegati dal loro antico contatto con l’Egitto. 

Nel 1921 si provvide ad una ricognizione delle ossa del Poeta, incaricando G. Sergi dell’Università di Roma e F. Frassetto dell’Università di Bologna. Ricomposto definitivamente lo scheletro, i due studiosi provvidero a redigere una dettagliata Scheda, dalla quale risultò che:

  • Dante era piccolo di statura e misurava circa un metro e 64 cm. di altezza; il suo cranio era tipicamente dolicocefalo mediterraneo, cioè allungato e stretto, e la sua capacità era di 1.700 cm. Cubici; la fronte era ampia e la faccia lunga e cavallina, formando dagli zigomi al mento quasi un triangolo; gli occhi e la bocca risultavano piccoli; Il naso grande ed aquilino con l’osso leggermente spostato; la laringe robusta; la mandibola inferiore sporgente rispetto a quella superiore, forse per la mancanza degli incisivi caduti con gli anni; il corpo era magro e angoloso; il colorito della pelle olivastro; nero quello dei capelli e della barba.
  • Le caratteristiche morfologiche delle ossa mostravano chiaramente che durante la vita aveva sofferto di artrite, uricemia ed altre malattie circolatorie; era di statura media ed aveva curva la schiena e cadenti le spalle, sì da apparire invecchiato anzi tempo […], aveva il cranio dolicomorfo, molto capace e di notevole peso. La faccia, come nella iconografia tradizionale, era alquanto allungata […];  vasta, diritta ed alta era la fronte; alte le orbite, aquilino e vigoroso il naso, grandi e sporgenti gli zigomi: complesso armonico di caratteri scheletrici a cui si associano, generalmente, pelle bruna e capelli neri, quali notò il Boccaccio. Dante, dunque, per questi caratteri appartiene indubbiamente alla stirpe mediterranea, stirpe meravigliosa di cui Egli fu certo tra i più gloriosi rappresentanti.


Le ossa e il teschio di Dante Alighieri

(da G.Mesini, La tomba e le ossa di Dante, Ravenna, A.Longo Editore)

In quell’occasione i commentatori definirono Dante il Mosè della letteratura italiana, anche per la quantità di citazioni bibliche presente nelle sue opere. Per tutto ciò, la Bibbia potrebbe essere considerata come ipotesto della Divina Commedia, che ribadisce il meccanismo del contrappasso espresso in alcuni Midrashim ebraici, posteriori all’età talmudica.

Essa contiene, infatti, una sequenza di situazioni (Abramo, Mosè, Passaggio del Mar Rosso, le 42 tappe per giungere dall’Egitto alla Terra Promessa, deportazione a Babilonia, distruzione del Tempio di Gerusalemme, passaggio del Mar Rosso, morte dei contemporanei di Mosè, conquista della Palestina, battaglia degli Ebrei di Gedeone contro i Madianiti, loro leggi sui sacrifici, esilio in Babilonia, celebrazione della Pasqua, fame spaventosa durante l'assedio di Gerusalemme da parte di Tito)  e concetti ebraici non più fraitendibili : 

a.             Il celebre incipit dell’opera Nel mezzo del cammin di nostra vita è una citazione da Isaia, (38.10) e la stessa idea che il personaggio Dante cominci il viaggio a trentacinque anni, cioè a metà del corso della vita umana, proviene dal Salmo 90,10 in cui si spiega che la durata della nostra vita è di settant’anni.

b) Tra le molte interpretazioni della minacciosa ed oscura apostrofe Papè Satàn, papè Satàn aleppe!, gridata da Pluto nel IV cerchio dell’Inferno ed immediatamente interrotta dall’intervento di Virgilio, mi piace sottolineare quella di F. Servi, secondo cui il testo va inteso in ebraicoPo po Satan, po po Satan aluf, cioè Qui qui Satana, qui Satana è principe, come già fece a suo tempo Michelangelo Lanci.

c) Alla stessa maniera, anche quando Dante e Virgilio lasciano le Malebolge e s’accostano al pozzo di Cocito, intorno al quale, simili a torri, stanno i giganti che hanno osato sfidare le divinità, il primo di loro, Nembrot, se ne esce con un grido aspro ed apparentemente misterioso: Raphèl maì amècche zabì almi !Anche in questo caso, l’espressione di Dante non è casuale (e nel nostro discorso estremamente significativa!), poiché Nembrot nella tradizione medievale era ritenuto l’ideatore della Torre di Babele, costruita per raggiungere Dio, che punì i suoi costruttori con la confusione delle lingue. 

d) Nel canto XXVII del Purgatorio, Dante sogna le bibliche sorelle Lia e Rachele, entrambe mogli di Giacobbe, presentandole rispettivamente come simboli di vita attiva e di vita contemplativa, secondo la più perfetta esegesi ebraica. E ’importantissimo sottolineare come, tutte le volte che Dante sogna, lo fa in omaggio ad una precisa convinzione del suo tempo, per dire che quanto visto in sogno si avvererà: dunque  Lia e Rachele sono ambasciatrici ebraiche dell’imminente ingresso di Dante converso nel Paradiso Terrestre, dove le incontrerà sotto le vesti di Matelda e Beatrice !

Il nome Rachel in ebraico significa pecora candida, una pastorella di greggi, la cui bellezza era celebre  per il colore bianco brillante della pelle ed il carattere sereno e adorabile. Lia significa, invece, stanchezza, derivanti dall’ansia di non essere bella come la sorella. Tuttavia, Lia aveva ricevuto da Dio la grazia di essere feconda ed avere figli, mentre a Rachele era stato negato il dono di essere madre. Dunque, tale diversità diede luogo a  profonde tensioni fra loro, ma anche fra i componenti delle due famiglie: Lia e Rachele appaiono come la più lampante dichiarazione di cristiano converso che Dante potesse operare nella Divina Commedia !

e) Nel parlare di Giacobbe e della scala aurea, lungo la quale scendono e salgono fra terra e cielo le anime di beati e santi, Dante colloca in Paradiso anche Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Sara, Rebecca, Giuditta, Ruth e i Patriarchi delle 12 Tribu` discendenti da Giacobbe: Cristo l’ebreo, trionfante dopo la Resurrezione, li trasse tutti fuori dal Limbo, dove erano rimasti fino a quel momento, per portarli nella Candida Rosa fra santi e beati !

f) Nel canto XXVIII del Purgatorio, Matelda intona un salmo di Salomone tratto dal Cantico dei Cantici (in ebraico shìr hasshirìm, Cantico sublime): in esso, sulle corde del liuto e dell’arpa e al suono della cetra, una sposa esulta per le mirabili opere di Dio e recita Quia delectasti me, Domine, in factura tua, et in operibus manuum tuarum exultabo. / Quam magnificata sunt opera tua, Domine. (Poiché tu m’hai rallegrato con le tue meraviglie, o Signore; io canto di gioia per le opere delle tue mani).

g) Nel canto XXIX del Purgatorio Dante vede arrivare all’orizzonte un misterioso corteo, con al centro un carro (il quale ha tutte le caratteristiche della merkabath ebraica) trainato da un grifone: ai commentatori è sfuggito che quel grifone è l’esatto corrispondente dei Cherubini, nella tradizione ebraica posti a guardia della Porta dell’Eden simili a grifoni. Il corteo si rivela una processione mistica, aperta da sette enormi candelieri multicolori che innalzano la loro fiamma fin nell’alto dei cieli e portati cantando Osanna e Benedicta tue ne le figlie d’Adamo. Sul significato della parola Osanna abbiamo detto più sopra, mentre l’appello alle figlie di Adamo per riferirsi a Maria di Nazareth appare veramente sorprendente ed inedito, poiché nelle donne bibliche (figlie d’Adamo) dell’antico Israele è facile ravvisare le prefigurazioni storiche della Vergine Maria, in una chiara tipologia, sulla attesa del Messia contenuta nell’Antico Testamento. Inseriti in tale contesto quei sette candelieri diventano, con perfetta evidenza, i sette bracci della Menorath (in ebraico significa luce), candeliere ordinato da Dio a Mosè per ricordare il Roveto ardente, in cui il condottiero del popolo di Israele udì risuonare la voce di Dio sul monte Horeb. Da sempre, esso costituisce il simbolo di Israele, per cui Salomone fece collocare dieci Menorath all’interno del Tempio di Gerusalemme.  E sono stati i commentatori stessi, compresi Pietro e Jacopo Alighieri, a fornirne il mascheramento dantesco più opportuno, affermando che quei sette candelieri rappresenterebbero i sette doni dello Spirito Santo  oppure….. le  sette stelle dell'Orsa Minore!                   

h)Subito dopo, nel canto XXX, nodo cruciale dell’intera Commedia, il corteo si arresta ed uno dei ventiquattro seniori, che rappresenta il Cantico dei Cantici, invoca la discesa di Beatrice dal cielo cantando per ben tre volte il salmo Veni sponsa de Libano (La Regina di Saba, dalla misteriosa pelle nera ?!).

i) Nel canto VII del Paradiso, l’imperatore Giustiniano, roteando su se stesso alla maniera dei Dervisci, canta una lode a Dio che risuona così:

 Osanna, sanctus Dabaoth

Superillustrans claritate tua

Felices ignes horum malacoth !

[Salve, o santo Dio degli eserciti]

Che illumini dall’alto con la tua chiara luce

I beati splendori di questi regni.]

Nel testo della preghiera, colpiscono tre parole ebraiche, felicemente fuse a quelle latine:

-Osanna:nella liturgia ebraica significa Dona la salvezza e viene insistentemente ripetuta in occasione della Festa delle capanne, celebrata per ricordare la vita del popolo di Israele nel deserto durante il lungo viaggio verso la Terra Promessa. Si tratta di una scenografia particolarmente suggestiva (che dovette colpire la sensibilità di Dante), poiché i fedeli, cantando e danzando, costruiscono capanne di rami e paglia, all’interno delle quali, per sette giorni, consumano i loro pasti. Dante potrebbe aver partecipato ad alcune di queste sacre rappresentazioni se, nell’incredibile Padre Nostro coraggiosamente riscritto in Purgatorio XI con nuove parole rispetto a quello canonico, descrive il miracolo della caduta della manna dal cielo sugli Ebrei esuli nel deserto.

-Sabaoth: la parola esalta l’onnipotenza di Dio raffigurata nelle schiere angeliche, che costituiscono uno dei fondamenti della religione ebraica, ma sono anche uno dei temi più trattati nella Divina Commedia.

- Malacoth: molto probabilmente Dante ha tratto questa parola (con un errore nella grafia, poiché andrebbe scritto mamlacoth) dal Prologus galeatus fatto da S.Girolamo alla Bibbia vulgata. Significa Dio che regni sulla terra.

l) Nell’angelologia ebraica, Jophiel, il cui nome significa corriere di Dio portatore di bellezza, è rappresentato con indosso una lunga e luminosissima veste bianca, stretta da una cintura d’oro, mentre i capelli appaiono bianchi come la neve, gli occhi fiammanti e nella mano destra stringe sette stelle a sei punte, che rimandano direttamente alla Stella di Davide o Nodo di Salomone: l’intento dantesco di riferirsi all’esagramma ebraico è così lampante e coraggiosamente parlante che ogni cantica della Commedia si chiude con la parola stelle, composta appunto di sei lettere

[…] e quindi uscimmo a rivedere le stelle.

[…] puri e disposti a salire a le stelle.

[…] l’amor che move ‘l sole e l’altre stelle.

La Stella di Davide,  dalle sei punte, con i suoi due triangoli rovesciati, rappresenta l’ideale unione di spirito e materia, la quale idea sta alla base della convinzione ebraica secondo cui il Popolo di Israele sarebbe formato da Eletti.

m) Il pane orzato. Dopo la terribile Decima Piaga, che causò la morte di tutti primogeniti egiziani e risparmiò, invece, quelli ebrei, gli Israeliti, ottenuta la liberazione dalla schiavitù sofferta, prima di intraprendere il viaggio verso la Terra Promessa, non ebbero il tempo di far lievitare il pane a causa della profezia circa l’arrivo imminente dell’Angelo della morte. Così si nutrirono di focacce azzime ottenute con farina di orzo ed erbe amare, fatte di pasta non lievitata. Da quel momento in poi, durante  la Pasqua, gli Ebrei mangiano pane orzato. Nella notte del Venerdì Santo, durante la quale consumò con i discepoli la celeberrima Ultima Cena,  celebrò la Pasqua Ebraica consumando pane orzato e vino, da cui successivamente è derivato l’uso cristiano dell’Ostia Consacrata eucaristica.

Ecco, allora, che nel Convivio, riferendosi metaforicamente alla rivoluzionaria decisione di commentare in lingua volgare le canzoni-vivande e la Commedia, Dante entusiasticamente rilancia l’importanza della celebrazione di quella Pasqua e di quel pane orzato, molto cari al popolo Ebraico, un vero e proprio rito tradizionale. In esso Dante trova profondità, fascino, celebrazione e radici: Questo [il volgare] sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.

E che il viaggio ultraterreno dantesco si svolga proprio durante la settimana di Pasqua è notizia risaputa da tutti !

Giunti a questo punto, direi che il gioco è fatto, tuttavia, insistendo ancora un poco, abbiamo un’ulteriore conferma che gli Alighieri, sull’esempio dei loro antenati, si sono sempre occupati (fino a Dante escluso) di banchi feneratizi, usura, mutui e strazzeria, cioè quel proficuo commercio di abiti usati che ha consentito loro di disporre dei capitali finanziari necessari a gettarsi nei meandri del sistema bancario.

Qualche esempio per tutti: 

a.                  Ben due pergamene, conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca, attestano la partecipazione di Alighiero II, padre di Dante, ad un processo svoltosi in Firenze nel 1254 davanti al Podestà: Anche quando si trovò a vestire i panni di procuratore giudiziale nel tribunale del podestà, Alighiero di Bellincione non esitò a rivelarsi, sotto mentite spoglie, uno speculatore finanziario, sfruttando le difficoltà economiche di un convento, il cui abate aveva fama di essere dedito ai piaceri mondani e dissipatore di denaro. E’ questa l’immagine del padre del Sommo Poeta che emerge dai nuovi documenti, che non solo confermano la sua attività usuraria, ma contribuiscono a precisarla, arricchendola di dettagli e sfumature. Il Tribunale di Firenze, dove costantemente si affrontavano cause per debiti in udienze aperte al pubblico, rappresentava per gli usurai un fertile bacino da cui attingere la clientela e con ogni probabilità era frequentato anche dal padre di Dante in cerca di affari.[…] Niente vieta allora di pensare che Alighiero, presente nell’aula del podestà il 5 settembre 1254, abbia offerto il proprio aiuto all’abate Nicola, tanto carico di debiti quanto di proprietà con cui garantire i mutui. Se questa ricostruzione è esatta, le pergamene lucchesi assumono il valore esemplare di un’attività svolta da Alighiero come usuraio, in forma più o meno continuativa. In cambio di opera e soldi il padre di Dante ottenne verosimilmente la proprietà dell’abbazia e forse, attuando una strategia finanziaria già di famiglia, la rivendette, convertendola in moneta sonante. Le carte d’archivio spiegano che la causa civile fu promossa da due fratelli di Semifonte, città che fu avversaria di Firenze, contro il monastero di San Salvatore di Fucecchio, allora sotto Lucca, e il padre di Dante intervenne come procuratore dell’abate Nicola.

Dunque appare realistico che Alighiero II sia stato sepolto in terra sconsacrata, in quanto sospetto militante di fede ebraica e praticante apertamente l’usura nel castello di Montemurlo. Anche il Rossi e lo Zonta, sempre accettando l'idea che il corpo di Alighiero giacesse abbandonato e basandosi su documenti della vita di questi, sostengono che egli fu scomunicato in quanto usuraio. E questa ipotesi fu accettata pure dal Barbi. Ecco perché, agli occhi di Forese Donati (nella Tenzone) Alighiero appare legato da vincoli  e si spiega come alla sua invocazione (Per amor di Dante, scio'mi) egli abbia replicato con  i' non potti veder come, probabile maligna allusione alla precaria situazione finanziaria di Dante.

La frequentazione di questi ambienti poco chiari spiega, tra l’altro, la facilità con cui Dante, all’indomani del 1295, quando ebbe bisogno di denaro sonante, necessario alla sua bruciante carriera politica (come tutti sanno, venne eletto Priore di Firenze nell’estate 1300, anno del Giubileo), ottenne in prestito una gran quantità di fiorini, che…..non restituì mai, anche perché nel 1302 venne cacciato dalla città con una doppia condanna a morte (in quell’anno con la formula comburatur sic quod moriatur e nel 1315 sentenziando caput amputetur a scapulis, cioè rogo e taglio della testa), che ne provocò il quasi ventennale esilio, facile metafora della diaspora delle  Tribù di Israele.

L’elenco delle accuse non gli lasciò scampo: 

  • Aver commesso o fatto commettere frodi o baratterie di denaro o cose in danno dello Stato.
  • Aver riscosso dalla Camera del Comune somme maggiori e diverse da quelle previste negli Stanziamenti.
  • Aver ricevuto denaro o promessa di denaro o altri vantaggi per qualche nuova elezione.
  • Aver commesso, essi, i cinque Priori. o qualcuno di essi, o fatto commettere i predetti reati dando, promettendo o pagando somme o cose o facendo scritte sui libri di qualche impresa, durante il loro pubblico ufficio o dopo di esso.
  • Aver messo una certa quantità di rame nei fiorini al posto dell’oro.
  • Aver modificato il tragitto del nuovo tratto della via di S.Procolo, che da Ponte Vecchio portava verso la campagna, deviando una parte di percorso per farla transitare su terreni di proprietà degli Alighieri e così quindi aumentarne il valore.
  • Essersi opposto alla nostra divina autorità di Pontefice Romano, rispondendo Nihil fiat ! alle nostre giuste richieste. 
  • Aver perseguitato i Guelfi Neri e Messer Carlo di Valois, paciaro in Firenze in nome nostro.
  • Aver favorito amici e parenti nei grandi lavori di sistemazione dei marciapiedi e dell’argine dell’Arno, quando era Ufficiale sopra vie, ponti e piazze della città di Firenze.
  • Aver fatto pratiche di Alchimia e Stregoneria, facendo leva sulle sue conoscenze di erbe, metalli, spezie e formule magiche.

IMMANUEL BEN SALOMON: Nel canto V del Paradiso, Dante sbotta in un sonante invito a non vivere falsamente e passivamente la loro fede religiosa, affinché i giudei che sono tra loro (sic!) non se ne prendano gioco. La battuta appare sorprendente, non foss’altro per il contesto in cui viene espressa, ma soprattutto appare plausibile l'ipotesi secondo cui l’Alighieri con l’espressione giudeo abbia voluto indicare non già gli ebrei in generale, ma piuttosto l'amico suo Immanuel ben Salomon ben Jekutiel, autore di un’opera in versi intitolata Ha-Tofet ve-ha Eden (Inferno e Paradiso), contenuta nella anomala XXVIII Maḥberot,  che tratta della vita quotidiana di un poeta nell'Italia del XIV secolo, sconvolta da lotte intestine spesso conducenti all'esilio. Anche Immanuel, come Dante, dovette abbandonare la patria di adozione (Fermo, nelle Marche) a causa dell’accusa di aver sedotto un donna maritata che, poi, per la vergogna si uccise. Per dieci anni, anch’egli andò di città in città, fino a stabilirsi a Verona, presso la corte di Can Grande della Scala, al quale dedicò l’opera Bisbidis. Qui sbocciò l’amicizia con Dante Alighieri.

Dante e Immanuel a Verona

Dice Vittorio Robiati Bendaud: Non dissimilmente da Dante pellegrino, anche Manoello s’intrattiene, nelle viscere della terra, a conversare con i dannati, puniti secondo il modello del contrappasso; ma anche con i beati, in un Paradiso articolato in vari gradi, per essere infine accolto dai Profeti che gli confermano la felicità ultraterrena in virtù della sua opera intellettuale e, specialmente, dei suoi commenti biblici. E anche Manoello, nei regni dei morti, come Dante, ha il suo lampadoforo -il suo Virgilio-, che nelle Mahbaròt si chiama Daniele, ma che sembrerebbe essere proprio Dante Alighieri.


Bosone da Gubbio a Immanuel

( Codice Vaticano Barberiniano Latino n. 3953)

La più ampia opera italiana di Immanuel è il Bisbidis, una frottola, che descrive con vivacità l'animazione delle vie di Verona, dove egli viene suggestionato da suoni, luci, colori, varietà delle genti e  molteplici attività. Immanuel, in uno slancio espressivo, approda ad un linguaggio espressivo fatto di incredibili, clamorose e vivacissime onomatopee (giach giach giach di gente che cammina sul selciato della via, Dudùf dudùf-dudùf di bandiere al vento, muz muz, usu usu, sciuvi vu nelle voci di donzelle e vedove, Stututù ifiù ifiù ifiù-stututù ifiù ifiù ifiù di strumenti musicali, Gegegì gegegì gegegì di stormi che svernano rigando il cielo, Bis bis bis,bisbidis disbidìs di consigli bisbigliati sottovoce dalle donne di corte) e di concetti modernissimi, sempre inerenti il tema del viaggio.

Ed allora, ancora una volta, quasi si sia trattato di un gioco fra i due amici poeti nell’uso della sibilante e dura consonante s, come non rimandare quel Bis bis bis,bisbidis disbidìs ai versi dei canti V e XI del Purgatorio dantesco, nei quali  Dante si sente rimproverare da Virgilio per essersi fatto distrarre, per un verso, dalle voci onomatopeiche delle anime dei morti, che nel silenzio pispigliano oppure, per l’altro, dalla fugacità della fama terrena?:

Perché l’animo tuo tanto s’impiglia

disse ’l maestro, che l’andare allenti?

che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

Colui che del cammin sì poco piglia

dinanzi a me, Toscana sonò tutta;

e ora a pena in Siena sen pispiglia.

Un gioco fonetico di grande suggestione, che Dante ha usato anche in Inferno XXXIV nel descrivere le tre coppie di ali che partono da ciascuna delle tre teste di Lucifero, paragonandole e quelle di un vispistrello.

Immanuel ben Solomon, Sefer Maḥberot. 

(Columbia Rare Book and Manuscript Library )

 Tutto ciò non sorprenda, dal momento che è lo stesso Dante stesso a comunicarci di aver attinto da autori a lui precedenti ed averne ottenuto un succo meravigliosamente gustoso: E per riempire una così grande coppa, non ci limiteremo ad attingere l’acqua del nostro ingegno, ma, desumendo e mettendo assieme da ciò che altri ci forniscono, vi mescoleremo dentro quanto vi è di meglio, così da poterne mescere un dolcissimo idromele. 

 

Angelo Chiaretti 

Presidente del Centro Studi Danteschi San Gregorio in Conca