SCOTANO E GUADO – DUE PIANTE PREZIOSE E RICERCATE DAL XIII AL XVII SECOLO

di Sante FINI 

Lo Scotano.  Cotinus Coggygria
Prima di dare inizio a questa conversazione ringrazio il prof. Ambrosini, o molto più semplicemente l’amico di vecchia data Valentino, tutto il Comitato Operativo per avermi dato l’opportunità e , soprattutto, l’onore di tenere questa conversazione e, naturalmente, ringrazio tutti voi per la presenza e la pazienza che metterete per ascoltarmi. L’argomento  che tratterò  toccherà superficialmente diversi ambiti che spaziano  dalla botanica, all’economia, alla tecnica del colore dei tessuti, alla storia, e soprattutto alla storia e all’economia del nostro territorio, a ridosso dell’Appennino. 
Una  infiorescenza  del Guado
Riguarderà due piante: Lo scotano ed il Guado due piante di fondamentale importanza nella vita economica e sociale, non solo del nostro territorio e di altre ragioni  dell’Italia dove venivano coltivate, ma anche di gran parte dell’Europa occidentale.
Sin dai tempi più antichi la nostra civiltà ha sviluppato tecniche di tintura utilizzando una gamma di specie  erbacee presenti sul territorio, come la reseda, la robbia, il guado,  lo scotano che erano piante da cui si estraevano i  colori principali utilizzati nella tintura fino al XVIII secolo: il rosso, il giallo, il blu, il primo estratto dalle foglie e dai gambi della reseda, il secondo dalle radici della robbia, il terzo dalle foglie del guado. Dalla macerazione delle foglie, della corteccia e dei rami dello scotano veniva estratto un colore purpureo.

Oltre a quelle  già elencate, esisteva anche una moltitudine di altre essenze officinali utilizzate in tintoria, come lo zafferano, la ginestra, il cartamo, l’edera, l’ortica, e tante altre ancora che non sto ad elencare.

Una  giovane pianta del guado
Lo scotano in autunno
Tra tutte queste piante lo scotano e soprattutto il guado hanno assunto una particolare importanza in quanto hanno rappresentato per i territori di coltivazione una vera e propria ricchezza, tanto che il guado era definito “oro blu”. Poiché nel vasto territorio a ridosso dell’Appennino umbro-marchigiano (Montefeltro, Massa Trabaria, Vaccareccia, zona cagliese) era fiorente una intensa coltivazione delle due piante, ho ritenuto interessante approfondirne la conoscenza e l’uso.

Iniziamo a parlare dello Scotano il cui nome  scientifico  è “Cotinus Coggygria” o “Rhus Cotinus” di Linneo. Cotinus è il nome che Plinio attribuiva a questo  arbusto  appenninico dal quale si ricavava un colorante purpureo. Questa  pianta oggi  viene indicata anche con altri nomi, come Albero della nebbia, Sommacco selvatico (nella zona di Trieste).


 Albero della nebbia. Viene indicato con questo nome perché nel momento in cui è in piena vegetazione si formano delle  fitte, ma allo stesso tempo leggiadre, quinte,  che, a causa dei molti pennacchi,   conferiscono alla pianta un aspetto
nebbioso.




E’ un arbusto cespuglioso a foglie caduche, le cui radici  sono capaci di insinuarsi profondamente tra le rocce. Può raggiungere i 2,50 metri di altezza, ama i climi continentali, ma cresce bene anche nei paesi mediterranei fino a 800 m. s.l.m.





Le sue foglie sono ovali, di color verde chiaro,  con nervature pennate ben evidenti e sono opache su ambedue le pagine.









In autunno, prima di cadere, le foglie assumono colori vivaci, tendenti al marrone ed al rosso vivo.









I  fiori sono giallo verdastri in pannocchie,  con terminali irregolari, molto piccoli. (10/20cm.)











I frutti sono drupe a forma di cuore o di pera, rugosi , radi, dapprima verdastri, poi neri e lucidi.













Come già ho accennato, lo scotano è una pianta spontanea, ma fino al XVIII secolo veniva anche coltivata con la messa a dimora  delle pianticelle. Più spesso però si preferiva allargare l’acceppamento in terreni che avevano naturalmente questa vocazione. Si usava, quindi, piegare i rami fino a toccare terra in modo che le piantine si moltiplicassero spontaneamente per talea. In quattro o cinque anni la piantagione era pronta da sfruttare. Il terreno veniva zappato dalle donne che, verso settembre, con una roncola, tagliavano la ceppaia formando dei “fascetti” o manelle. 


Quando il raccolto era diventato ben secco, si batteva con i frusti o correggiati. Dopo che la scotano  aveva riposato nei sottotetti ben arieggiati, aveva luogo il pestaggio o follatura, eseguita dagli uomini, i quali, con speciali mazzuoli di legno detti macchi, battevano lo scotano in un lungo tronco scavato. Il prodotto, minutissimo e omogeneo, veniva imballato ed era pronto per la vendita. Questa pianta era ritenuta talmente pregiata che al tempo della raccolta, se non vi erano spazi chiusi sufficienti a contenerla, qualche buon parroco di campagna ne permetteva il deposito dentro la chiesa, suscitando i rimproveri dei superiori “nec introducatur scotanum”.  Siamo nel 1566. Lo scotano era talmente apprezzato che  diversi Statuti ne regolamentavano la raccolta e il commercio. Tutta la pianta è ricca di oli essenziali, del gruppo della trementina e dei tannini. Dello scotano erano particolarmente usate in medicina la corteccia e le foglie essiccate, la prima con proprietà febbrifughe, le seconde con doti astringenti ed emostatiche.  Raccolto e ridotto in polvere serviva nell’ambito della conciatura delle pelli al vegetale, ( due erano i sistemi di conciatura delle pelli: conce al Vegetale  in cui   venivano usati elementi di natura vegetale, e conce grasse o minerali, in cui venivano usati alcuni sali minerali come l’allume, o il solfato di rame), perché ricco di tannino, soprattutto nelle foglie. Viene usato per tale scopo per la prima volta dai monaci colombaniani del Monastero di Bardolino. Per questi motivi lo scotano era molto richiesto.  Per il suo riscontro economico, Signori,  feudatari, monasteri e anche privati avevano, nelle loro proprietà, degli appezzamenti di terreno dove veniva coltivato, chiamati scotanare, scotanacce, scotanate. Nella Provincia di Pesaro e Urbino, tra i comuni di Montefabbri e Montebaroccio, si trova il convento francescano di S. Maria di Scotaneto, così chiamato perché  i fianchi del colle erano ricchi di cespugli di scotano, oggi chiamato del Beato Sante, dal Beato frate che ci abitò. A dimostrazione dell’importanza e della forte incidenza economica che questa pianta rivestiva, nell’inventario dei Beni mobili degli ultimi Brancaleoni eseguito nel 1729, si legge che in una determinata stanza sottotetto del Palazzo comitale erano ammassate “Sessanta some di Scotano”.

 Nel cagliese  lo scotano era particolarmente diffuso tra Cagli, Smirra, Secchiano,  Pianello, dove, oltre alla piante  spontanee che crescevano nei pendii  aridi e rocciosi,  veniva coltivato  nelle “Scotanare”. Il Gucci, riferendosi all’anno 1570, negli annali (1574) così scrive: L’imposte che egli mise (riferendosi al Duca Guidobaldo II) a Cagli, furono queste, cioè sopra lo  scotano un giulio per soma di 300 lb (libre), il nuovo (Duca Francesco Maria II) che a Cagliesi fece molte grazie, ai quali levò l’impositioni posti già da suo padre sopra la mercanzia de panni e de corami, e sopra lo scuotano, e guato, e sopra la gabella ordinaria del Vino, il che fu gran contento a tutta questa nostra città”.
Era C OLTIVATO nella Vaccareccia, soprattutto nel territorio di Piobbico ed Apecchio, nella Massa Trabaria.

L’ampiezza  e l’alto numero delle scotanare ed il loro riscontro economico nel territorio cagliese è testimoniato da numerosi documenti (denunce, monitori, Testimonianze ecc.) alcuni dei quali  ho di seguito riportato: 

 Anguilla  di Secchiano / Teste

“ Io faccio ogni sorta di mestieri ma il più mi esercito nel maneggiare le bestie da soma carreggiando legne, grani e scuotani  portandoli alla Pergola, et in altri luoghi”.  in un campo delli miei che si chiama il campo della Scotanara”..         (ACV. Atti Crim. anno 1616-1619,  pag 24) 1619

Pegno per avere battuto lo scuotano in giorno di festa
Die 21 7bre 1626

Francesco F……. di Pesaro -  Barigello.
faccio sapere a VS qualmente avendo avuto ordine dal Sigr Vic° di far il pegno a quelli , che non guardavano la festa di oggi  S. Matteo, sono andato nella Contrada di Guazza posta nella Città di Cagli dove ho trovato che Da Felice di Carlo e sua figliola, Donna Marchegina di Barbetta, e sua figlia che battevano lo scuotono in mezzo la strada, che l’avevano battuto et lo raccoglievano per riporlo in casa gli ho fatto  il pegno a detta Da Marchegina e sua figliola, et questo perché avendo avuto l’ordine essendo io passato per guazza due, o tre volte l’ho trovate, che battevano, e poi me l’hanno confessato loro proprio, et detto scuotano era in mezzo la strada dove lo battevano con scandalo pubblico et disprezzo della festa.

Querela

Istanza contro M.ro Baldo Fornaciaio

Per danni dati al Grano, Moco, e Scotani in località sopra S. Geronzo nei beni S. Margherita uniti al Vescovado.

Die Giovedì 7 Giugno 1629

Tommaso Felice de mte lavoratore dell’Illmo et Rmo Vescovo di Cagli / querela
…“Faccio sapere a vs. come io son lavoratore ne i beni di S. Margherita uniti al Vescovado di Cagli, tra quali beni vi è un monte di terre sodive, nel quale mro Baldo di Gio: Nicola da Cagli senza licenza alcuna vi cava la pietra per sevizio della sua fornace, non solo pregiudica alle ragioni di d° Vescovado con cavare d. pietra con propria autorità ma anco danneggia i beni di detto Vescovado col buttare da d° monte d. pietra al basso dove sono i seminati, i grani e moco posti avanti la Chiesa di S. Gheronzo, e danneggia anco i scotani posti in detto Monte con buttare giù detta pietra, e perchò faccio Istanza, che contro il d° Baldo si proceda conforme alla giustizia/ et che siano condannati a rifare ogni danno che c’è del Vescovado, et da me suo lavoratore”

Sono registrati due trasporti di scotano, la prima di due some, da portare a Perugia,  a seconda di quattrocento libbre (190 chili circa) da portare a Cortona


                  Adi 6 7bre 1635
   Il Sigr Vicario fece fede come Simone di Bastiano da Morlecchio
            contà di Perugia partiva a questa Città con some due
                  di scotano di Monsre Illmo per condurre a Perugia
                      havuto dal M(aest) ro di Casa di detto Monsre.

                 Adi 18 7bre 1635
  fatta fede ad Instaza del Sigr Canco Fransco  Bonclerici de Perotti da
          questa Città parte da questo luogo Domenico di Maria Perugino
          Mulatiero con una soma di scuotano di peso libre quattrocento
          spettante a detto Sigr Canco per condurlo a Cortona in servitio
          di esso Sigr Can(oni)co  (La Soma era considerata di ca. 190 Kg.)
                                       (ACV. Cartella Suppliche e concessioni varie, cartella interna n°3)

        

1661
Felice Arsenio di Smirra viene imprigionato perchè trovato che batteva lo scuotono nella sua ara nel giorno della fiera di Santa Maria delle Stelle

Acta Testium

9 Settembre 1661
Francesco Lorenzi Pubblico (2Baiolo di Cagli / Teste

Ieri sera nel tornare dalla fiera di Monte Martello con il bargello di questa Città, et suoi Sbirri, quanto fossimo di là dal fiume sentissimo che di là dal fiume  in un ara si batteva, come si suol battere il grano, non ostante, che ieri fosse la festa della Nata della Beatissima Vergine di precetto, onde passammo il fiume, et ce ne andammo a quella volta, cioè ad un’Ara sopra il fiume, et sotto la Smirra, che Felice d’Arsenio nella qual’ Ara trovassimo, che vi era lo scuotano parte battuto, e parte da battere stratato, et vi erano due frusti et un cappello da uomo, che era il cappello di Felice quale, come anco sua moglie, che si erano subito ritirati, che ci avevano aver veduti et erano fuggiti dall’Ara, et perche il Bargello voleva il pegno per non averla lui con il battere guardata la festa, non gli lo volse dare, et perciò lo condusse prigione a Cagli, et ben vero, che doppo esser legato, et postegli le manette avrebbe dato il pegno, ò sicurtà, ma il Barigello non volse altro, ma lo condusse prigione come ho detto. Quando arrivammo li all’Ara non trovammo alcuno, che battesse, ma però andammo a detta Ara, perche li sentiva da Noi il battere, e non altrove, et detti Felice et sua moglie essendosi accorti di Noi e Corte, se ne erano fuggiti, et non li potemmo coglier nell’Atto della battuta, ma appunto ve erano due frusti nell’Ara pronti al battere per due persone come erano loro, e il Cappello, qual era del detto Felice”                    

 1-2 Piazzaro o Baiuolo –  Persona giurata -Notificatore del Comune e della Curia Episcopale

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IL GUADO – ISATIS TINCTORIA DI LINNEO

Una coltivazione
Il guado in fiore









La pianta fiorita del guado
Dopo avere approfondito la conoscenza dello scotano  e delle sue qualità e potenzialità nei diversi settori che vanno dalla medicina, alla produttività del colore , alla concia delle pelli, prendiamo in considerazione una delle più antiche fra le piante tintorie: il Guado, l’ Isatis tinctoria di Linneo.
Le sue proprietà coloranti sulla lana erano già citate negli scritti di Gallieno, Discoride e Plinio. La pianta, infatti, racchiudeva nelle sue foglie pigmenti coloranti dai quali si otteneva la colorazione blu più utilizzata dal genere umano. Reperti neolitici di tessuti di lino e  di canapa colorati di blu ne documentano l’uso in un’ampia zona del vecchio Continente. Era particolarmente apprezzata dai Romani, non solo per le sue proprietà tintorie, quanto per quelle medicinali, come astringente, cicatrizzante e contro le dermatiti le piaghe e le ferite.  
il fiore
Il Guado è una pianta erbacea biennale, spontanea, infestante appartenente alla famiglia delle “crucifere” o “ bressacee”, come il cavolo, la rapa la senape, la rucola ed altre piante commestibili. Viene indicata anche con altri nomi: Guado dei tintori, Gualdo, Gastro o Glastro, Pastello, Indaco europeo. E’ stata per diversi secoli l’unica specie vegetale europea in grado di fornire colorazioni estese dall’azzurro al blu, talmente ricercate, soprattutto in epoca tardo medioevale e rinascimentale per il loro valore emblematico di nobiltà, idealismi, pacatezza di trascendenza. Questo spiega perché in alcuni periodi storici il pigmento ricavato dalla pianta acquisì un tale valore da essere riguardato come una sorta di “Oro Blu”

Lo “scapo” (stelo) eretto del guado.
E’ una pianta caratterizzata da uno “scapo” eretto,  che nel secondo anno può raggiungere  l’altezza di 120 cm. E’ ramificato in alto. Ha foglie astate  di colore  vede glauco, cerose, piuttosto strette, lunghe tra i 7/9 cm.

Tra aprile e luglio compaiono  i fiori, di colore giallo vivo, riuniti in densi racemi terminali, munite di quattro petali lunghi 3/4 cm. I frutti sono siliquette (baccelli) pendule, all’inizio verdi e in seguito marroni. 

Le siliquiette contenenti i semi
Questa pianta fornisce una sostanza colorante  celeste e blu, adoperata in un passato più recente per tingere filati o fare tinture cosmetiche. Tale impiego trova testimonianze in reperti tessili risalenti al V sec. a. C. e negli scritti di Giulio Cesare (I sec. a. c.) circa l’uso che ne facevano i Bretoni per tingersi i corpi prima della battaglia, forse per incutere terrore al nemico.


Come già  accennato, durante  il Medioevo ed il Rinascimento, il guado era diventato uno dei prodotti più desiderati e richiesti in Europa e la coltivazione ed il commercio del pigmento fresco fecero la fortuna di molte città europee tra il 1200 ed il 1600, come Erfurt, che era diventata il più grande mercato del guado in Europa. Intorno alla città c’erano altre trecento paesi che coltivavano il guado. Cittadina posta al centro di due assi viari che collegavano  l’Europa da occidente ad oriente (Parigi –Nowgorod)  e da nord a sud (dal Baltico all’Italia), acquisì un notevole potere  politico ed economico, attraverso il guado, facendo della Turingia una delle regioni più ricche dell’Europa centrale.

Nel sud della Francia, , nella terra dell’Occitania rinascimentale, era posto il così detto triangolo d’oro formato dalle città di Tolosa, Albì, Carcasson e nato il “Pays de Cocagne”, “il paese della Cuccagna” sinonimo di paese dell’abbondanza, della ricchezza, dovuta al guado macerato e ridotto in palle dette “Cocaignes”, dove Tolosa e Carcassonne si impongono come cuore del traffico del guado, approvvigionando tutta l’Europa d’Oltralpe, dove si installano quelli che diventeranno i più celebri commerciati tintori della storia, accumulando fortune straordinarie e costruendovi palazzi meravigliosi
In Umbria, nell’ Alta valle Tiberina. A Borgo San Sepolcro si lega la storia di un ricco commerciante di tessuti chiamato Benedetto de’ Franceschi e padre di un certo Piero della Francesca, che non ha disdegnato di fare uso dell’indaco del guado nei suoi dipinti.  
Nel Lazio il punto di riferimento per la coltivazione del guado era la zona di Rieti.  
Nelle Marche la produzione del Guado ha interessato tutta la zona appenninica, dal Montefeltro, alla Massa Trabaria, dalla Vaccareccia alle terre del cagliese, con forti esportazioni verso Firenze e Prato, ma che raggiungevano anche la Dalmazia e la Spagna. In tutta questa fascia appenninica si praticava non solo la coltivazione del guado e dello scotano, ma si praticava la filiera completa, dalla macinazione delle foglie all’estrazione del pigmento, dalla cardatura e filatura delle fibre alla loro tintura, tanto che ben presto  divenne rinomata in tutta Europa.  Anche nella piccola Contea dei Brancaleoni si praticava una intensa coltivazione dello scotano e del guado, ed il commercio dei due prodotti era molto fiorente. 
Da un atto notarile apprendiamo che un certo Felice Felici “estraeva da queste parti grosse quantità  di scotano e di guado fino a venti migliara di libbre per volta, senza fare conto delle partite minori che n’estrevano altri intenti al medesimo negozio”.
Nel Montefeltro il guado diventa l’ “oro blu", risorsa primaria da Urbino a Piobbico, a Cagli, da S. Angelo in Vado a Borgopace, da Urbania a Mercatello sul Metauro, come attestano i documenti d’archivio che descrivono con dovizia di particolare modalità di coltivazione, unità di misura, regole per la conduzione dei maceri o la macinatura delle foglie.



Hindigofera tinctoria
Declino delluso del guado – Verso la metà del XVI secolo l’uso del guado per la produzione dell’indaco inizia a declinare per l’arrivo in Europa di una grande quantità  dell’indaco orientale tratto dall’ “Hindigofera tinctoria”, fatto arrivare  attraverso navi nei porti italiani  soprattutto nel porto di Vanezia. 
Hindigofera tinctoria
Questo nuovo prodotto tintorio, rispetto al guado, presentava il vantaggio di avere un metodo di estrazione molto più semplice ed economico. Per questi motivi, in un tempo brevissimo, sostituì  completamente il guado, il cui commercio si estinse.

Una certa ripresa della coltivazione del guado si verificò durante l’epoca napoleonica, in cui la Francia subì il blocco economico da parte dell’ Inghilterra, quindi non vi giungeva più nemmeno l’indaco orientale. Napoleone ne stimolò la coltivazione e lo usò per tingere le uniformi del suo esercito e ne regolamentò l’uso. A metà dell’ Ottocento, i primi coloranti sintetici ottenuti in Germania (Nel 1856 William Henri Perkin riuscì ad isolare la mauveina o malveina, porpora di anilina, primo colore sintetico) misero fine all’uso dell’indaco sia del guado che di quello orientale. Ben presto però l’uso dei colori sintetici fece emergere problemi di natura ambientale dovuti all’impatto altamente inquinante dell’industria tintoria sintetica.  Crebbe quindi la domanda di tecnologie eco-compatibili per la tintura dei tessuti, e cominciò a sorgere nuovo interesse per i tipi di tintura tradizionale, come vedremo più avanti.

 A questo punto cerchiamo di conoscere le complesse e delicate operazioni necessarie per la produzione della “Polvere tintoria”

Disegno del 1752 in cui vengono raffigurate le  varie fasi della lavorazione del guado dalla raccolta delle foglie, alla macinazione , alla stesura dei pani  in supporti cannucciati.
La prima operazione da compiere era la raccolta delle foglie che venivano staccate o tagliate dal gambo della pianta. Questa operazione non portava alcun danno alla pianta, tanto che la raccolta si ripeteva per sei sette volte a stagione, cioè da aprile  ad ottobre. Ad ogni raccolta le foglie venivano macinate, o meglio, frantumate in un apposito mulino detto “Macina guati”. Le foglie macinate, cioè liberate dal liquame, venivano ridotte ad impasto e divise in pani o palle e poste in appositi areati supporti o cannucciati per l’essiccazione. Una volta asciutte, le palle venivano vendute al conduttore di un “Macero”, che non era altro che un capannone, o magazzino pavimentato. Nei maceri la pasta essiccata veniva frantumata e più volte inumidita con acqua o vino o urina e più volte spostata nell’ambito del macero. Dopo circa un mese di macerazione  la polvere veniva imballata e venduta alle tintorie, ed il macero era di nuovo pronto per essere occupato da altra partita di guado essiccato per ripetere l’operazione di fermentazione.

La macerazione delle foglie  creava però gravi problemi  ambientali per le esalazioni mefitiche che emanavano dal macero. Di questo fatto se ne occuparono sia i comuni sia diversi Statuti. Il Consiglio generale di Rieti nel 1564 ordinava di tenere lontani “Magazzini guati ut civitas manteneatur  expurgata et munda de omni fetor”.  Gli Statuti di Città di Castello proibivano di gettare nelle vie  “tenturiam guati vel guati pestum”, mentre gli Statuti della vicina San Sepolcro  permettevano gli edifici per macero solo in un determinato “quartiere”.  Gli Statuti di Teramo (1440) vietavano categoricamente di  macerare il guado all’interno delle mura cittadine.
Nel territorio di Cagli ed  in special modo alle pendici del Monte Nerone, la produzione  del guado, oltre che dalle Riformanze, viene attestato dai reperti litici  (mole) giunti sino a noi  ed anche da un curioso carteggio che merita di essere ricordato. Si tratta di una lagnanza che i cittadini di Cagli, ambientalisti ante litteram, mal sopportando i miasmi prodotti dalla macerazione e trasportati dai  “venti  impetuosissimi”, anche oggi è proverbiale il vento di Cagli, rivolsero nel 1569 al Duca di Urbino perché autorizzasse la costruzione dei maceri solo fuori dalle mura urbane. Il Duca, aderendo all’istanza, ordinò che i maceri stessero lontani almeno un quarto di miglio dalla città. A questo punto,  il Gonfaloniere ed i Priori di Cagli, interpreti questa volta delle rimostranze dei “Guataroli”, si rivolsero di nuovo al Duca perché riducesse tale distanza troppo penalizzante per gli operatori. Allora il Duca concesse a tal Lorenzo, sartore, la costruzione di un macero, a cento passi dalle mura. Mentre Lorenzo lo stava costruendo, ai Priori parve esigua la distanza. Infatti Lorenzo misurò la distanza con “passetti di due piedi, anziché di cinque”. I Priori ordinarono la sospensione dei lavori. Nonostante questi inconvenienti vi erano città o paesi dove il macero era tollerato anche in mezzo alle case, come a Pesaro dove  in mezzo alle case c’era «un magazinettum ad macerandum guata». A Piobbico un macero era posto nell’androne della porta orientale del Borgo, come risulta da un atto notarile del 1° luglio 1499.
Un altro problema era rappresentato anche dai furti che avvenivano nei maceri o nelle tintorie per la facilità dello smercio della refurtiva. Per restare a Cagli, voglio raccontarvi questo fatto.  Il 25 febbraio 1622 un certo Giovan Antonio Ghisello denuncia che dal macero che possedeva fuori  di Porta Nuova, in un luogo detto l’Ara Grande, vennero rubate in più volte, quasi 2.290 libre di guado. Durante le indagini vennero imprigionati alcuni vetturali e mulattieri. Nel frattempo si presentò al Podestà tal Cesare Venturucci, lamentando che anche dal suo ”Magazzeno o cella de’ guati” erano sparite da 4 a 5 mila libre di Guado senza segno di scasso, com’era già accaduta a Ghisello. Nel contempo uno dei carcerati, il mulattiere Ottaviano, “sotto speranza dell’impunità” , svelò i nomi dell’artefice principale e dei suoi complici. I furti erano stati ideati e perpetrati da Ser Angelo Bassi, notaio del luogo, il quale aveva fabbricato le chiavi false dei due maceri, con questo accorgimento e alla presenza dell’Ottaviano, il quale, testimoniando, disse che lui teneva solo la candela,  e così racconta: “Il notaio prese una chiave senza ingegno, la fece nera al lume di una candela accesa, poi la cacciò nella serratura et voltandola restava il segno degli ingegni della chiave et cum la lima poi faceva l’ingegno et intaglio conforme restavano designati in detta chiave”. I responsabili, alcuni furono incarcerati, altri condannati “in pena della Vita”. Ser Angelo, dopo un periodo di latitanza venne graziato dietro il pagamento di 50 fiorini.
Un mulino del guado ricostruito nei giardini pubblici di Piobbico

Per ben comprendere  l’importanza che l’industria del guado assunse nel territorio del ducato di Urbino, basta leggere      gli esaurienti capitoli dell’arte della lana del 1559, che dettavano prescrizioni relative alla coltivazione ed al commercio del guado, sia esso in pani che macerato (in polvere).
Il Montefeltro e l’alta valle del Metauro, con i centri di Urbania, S. Angelo in Vado, Mercatello,  Borgopace, per la produzione ed il commercio del guado  primeggiavano su tutto il territorio marchigiano.  S. Angelo in Vado si presentava come il punto di raccolta di quasi tutta la valle, figurando ai primi posti nella fornitura  di polvere blu alle industrie tessili  di Firenze e di Prato. I mercanti pesaresi attingevano a piene mani nel territorio della Massa Trabaria per inoltrare il guado a Venezia e persino in Spagna. Un atto notarile del 27 luglio 1559 ricorda che  un tal Matteo, di  Andrea Tortora di Pesaro acquista da Alessandro di Marco di S. Angelo in Vado 20 mila libbre di guado per un valore di 200 ducati d’oro. Nel 1559 Pietro Santinelli, conte della Metola,  vende  diecimila libbre di guado.   
Macina base con canalicoli a raggiera per espellere i liquami prodotti dalle foglie durante la macinatura.
La riscoperta delle macine da guado appartiene a Delio Bischi, veterinario e studioso piobbichese di storia locale, alla cui passione ed opera si deve la riscoperta delle tradizioni del guado, che aveva intuito che queste grosse macine dovevano servire ad un’attività legata ad un processo di macinazione diverso da quello riservato a grano ed olive, data la diversità delle macine del mulino  e del frantoio, diretto invece alla precisa lavorazione di un prodotto dell’agricoltura, fortemente presente nel territorio appenninico. Le ipotesi del Bischi, scarsamente accreditate, trovarono  conferma attraverso l’incisione datata 1752 (diapos. 33) La «Macina guati» era un mulino composto da una base fissa o letto, ricavata da un sol masso di pietra e canalizzata a raggiera verso l’esterno, rozzamente sbozzata e da una macina posta in piedi, mobile e ruotante,  anch’essa ricavata da una pietra monolitica scanalata orizzontalmente, che girava attorno ad un’asta a bandiera  che prendeva la forza per rotolare da un animale «alla stanga», o, quando era possibile. dall’ acqua. Queste macine a coppia erano poste in un locale chiuso o sotto una tettoia. Erano diffusissime  e a disposizione dei soci-coltivatori, perché le ripetute raccolte non potevano attendere oltre un dato tempo per non pregiudicare la qualità del prodotto finito. Il mulino, durante i mesi di riposo, da ottobre ad aprile, poteva servire anche per macinare altri prodotti, ma era nata come macina del guado.  Poiché  nelle nostre zone intensa era la coltivazione del guado ed il riscontro economico importante in ogni villaggio era disponibile una macina,  o di proprietà  o in uso di più famiglie.  Lo studio durantino don Corrado Leonardi afferma che nella corte di Casteldurante nei secoli XIII e XIV vi fossero 41 macine ad guatum.
Macina ruotante – La parte esterna della macina è  provvista di scanalature. Proviene da Rocca Leonella
Con la cessazione di questa industria, le pesantissime macine, divenute inutili ed ingombranti, per la difficoltà di spostamento (avevano un diametro anche di due metri e uno spessore di 40 centimetri, quindi pesavano  da 30/35 quintali) vennero interrate sul posto o relegate ai margini dei campi, dando origine a diversi toponimi, come campo della macina, poggio della macina, permettendone il recupero. Con il passare del tempo alcune di questa macine vennero recuperate, soprattutto le ruotanti perché più massicce e per il loro spessore segmentato sono più decorative delle macine –base, che, oltretutto sono più sottili e con la bordatura rozzamente scalpellata.  Sono state riusate per supporti di croci o, debitamente scavate, per vere di pozzi o per abbeveratoi degli animali

Documenti che comprovano l’importanza economica del guado.


E’ un  «bando sopra il guado» promulgato nel 1462 da Malatesta Novello, Signore di Cesena . Si ordina,  fra l’altro, che ogni raccolta di guado, dopo essere stata macinata per due volte, venga tenuta separata.

Nel 1555 il Duca di Urbino emette «capitoli» sul guado ancora più circostanziati e  allo scopo di tutelare la «reputazione» del prodotto ducale, impone che questo  venga «matricolato».


La mappa dei ritrovamenti delle macine del guado  nel territorio di Piobbico, Apecchio, Cagli e nel Montefeltro ad opera di Delio Bischi.




Foto di macine rinvenute a Piobbico e Cagli.

                                          
Piobbico - Salita di S. Maria – Macina ruotante a sostegno di un pesante obelisco.


Piobbico – Una macina ruotante che sostiene un «trimonti» monolitico davanti alla chiesa di S. Stefano
Cagli – La Torre – La ruotante sostiene una edicoletta

Ruotante scalpellata nel centro e riusata come  vera di un pozzo
                                                                                                                                           
Una  ruotante scalpellata  per uso abbeveratoio


Cagli – Convento dei Cappuccini - Una ruotante a supporto di una colona romana con croce.

Cresce l’interesse per il ritorno all’antico nei campo dei colori

Sulla scia di una maggiore coscienza di tutela dell’ambiente, ma soprattutto della salute  delle persone, si sta riscoprendo l’utilità e l’importanza dell’uso dei colori naturali che potrebbero disporre di una vasto campo di applicazione che si estende dal settore alimentare, del tessile,  della cosmesi a quello farmaceutico e industriale, sostituendo o riducendo i processi chimici inquinanti  e  fortemente dannosi. Per questi motivi la coltivazione del guado sta ritornando prepotentemente alla ribalta, soprattutto in quelle regioni che qualche secolo fa dalla sua coltivazione avevano tratto sostanziali riscontri economici. Nella Francia del sud, dove si erano sviluppati i “paesi delle cuccagna”, oggi si cerca di ricreare le condizioni favorevoli alla coltivazione del guado e di far rivivere i tradizionali metodi  di tintura naturale. A tale scopo è sorta una grossa “Cooperativa agricola delle Piane dell’Ariège” (Capa) che attualmente tratta venti tonnellate circa  al giorno di foglie per estrarre il guado.; ad Albì  Dedier Boinnard fabbrica per l’ Ensba ( Scuola superiore di Belle Arti)  inchiostri per miniature, acquerelli, patelli e pittura ad olio e fervono studi e ricerche  nel campo della moda, alla decorazione esterna ed interna delle case, nella cosmesi, fino ad avere presto l’auto blu pastello. Lo stesso interesse muove la città di Erfurt, dove sono attiva due grosse Società: Il “Centro di ricerca sul Guado” ed il “Centro di ricerca sulle sostanze naturali”.
Anche in tutte le regioni italiane, dove la storiografia attesta la presenza del guado, sono in via di attuazione o lo sono stati, progetti che riguardano la coltivazione del guado e delle piante tintorie in genere,  l’estrazione e l’uso dei relativi colori.

A cominciare dalla Toscana, in cui Leonardo,  attraverso il Codice Atalantico; ci ha lasciato la ricetta “per fare indaco” e ottenerne le diverse gradazioni, con i progetti “ MED-Laine” e “Progetto PRIN”. Nell’Umbria, nell’Altavalle Tiberina, (dove a Borgo San Sepolcro viveva un ricco commerciante di tessuti, che si chiamava Benedetto De’ Franceschi, padre di Piero della Francesca che nei suoi dipinti ha fatto uso dell’indaco da guado), con il “ Progetto Pianta Blu”. Nelle Marche è stato attuato il “Progetto Cilestre” per la reintroduzione dell’uso dei colori naturali  nella produzione industriale. In questo fervore di studi e di ricerche sulle piante tintorie non possiamo dimenticare l’Oasi di san Benedetto a Lamoli di Borgopace, dove trova spazio il “Museo dei colori naturali” che porta il nome  del dott. Delio Bischi, alla cui passione ed opera si deve la riscoperta delle tradizioni del guado. Nel 2008 nasce “Oasicolori” Società Cooperativa di San Benedetto” che opera, attraverso la direzione del dott. Massimo Baldini, per lo sviluppo produttivo dei pigmenti vegetali. Oasicolori opera in un progetto di ricerca industriale “Introduzione dei coloranti naturali  nel settore tessile/abbigliamento marchigiano” 2009-2011, in rete con tre Aziende del settore, quali la tintoria “Le Grup”, “ Arcadia” del marchio commerciale Dondup ed il Lanificio Cariaggi, che è sul mercato con una linea di filato cashmere di altissima qualità tinto con il guado ed altri colori naturali. L’azienda marchigiana Spring Color di Castefidardo sta utilizzando il guado ed altri colori vegetali per una linea di decorazione d’interni e di arredamento di alto pregio.