01 marzo 2012 Klodiana BABO

Ascolto guidato della musica per violino.


La lezione si articola in 2 parti,

La PRIMA parte:(visto che vi piace sentire il violino e Klodiana ne è felice) due brani per violino solo, da caratteristiche espressive e formali differenti e curiose (brevi). Ad esempio nel primo brano un violino solo suona 2 voci che danno l'illusione di due violini, e l' altro si può considerare come un racconto "senza parole"...



Johann Sebastian Bach, (Eisenach, 31 marzo 1685 secondo il calendario gregoriano, 21 marzo 1685 secondo quello giulianoLipsia, 28 luglio 1750), è stato un compositore, organista, clavicembalista e maestro di coro tedesco del periodo barocco, di fede luterana, universalmente considerato uno dei più grandi geni nella storia della musica.
Le sue opere sono notevoli per profondità intellettuale, padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi e bellezza artistica.
Bach operò una sintesi mirabile fra lo stile tedesco (di cui erano stati esponenti, fra gli altri,
Pachelbel e Buxtehude) e le opere dei compositori italiani (particolarmente Vivaldi), dei quali trascrisse numerosi brani, assimilandone soprattutto lo stile concertante. La sua opera costituì la summa e lo sviluppo delle svariate tendenze compositive della sua epoca. Il grado di complessità strutturale, la difficoltà tecnica e l'esclusione del genere melodrammatico, tuttavia, resero la sua opera appannaggio solo dei musicisti più dotati e all'epoca ne limitarono la diffusione fra il grande pubblico, in paragone alla popolarità raggiunta da altri musicisti contemporanei come Telemann oHändel
.
Nel
1829 l'esecuzione della Passione secondo Matteo, diretta a Berlino da Felix Mendelssohn, riportò alla conoscenza degli appassionati la qualità elevatissima dell'opera compositiva di Bach, che è da allora considerata il compendio della musica contrappuntistica del periodo barocco
.
A lui è dedicato l'asteroide
1814 Bach
.


Georg Philipp Telemann (Magdeburgo, 14 marzo 1681Amburgo, 25 giugno 1767) è stato un compositore e organista tedesco. Autodidatta, espresse già nell'infanzia una spiccata facilità compositiva e una precoce padronanza di strumenti musicali quali violino, flauto e clavicembalo. Contemporaneo di Bach e Handel, cui lo legava una profonda amicizia, all'epoca della sua vita era molto famoso e considerato uno dei maggiori musicisti tedeschi.
2) G P Telemann - Fantasia per violino solo nr.7 - Dolce

La SECONDA parte: Sarà la parte importante della lezione . Verrà portato un esempio delle prime opere (melodramma) del primo Seicento. Precede l' inizio, da dove comincia la storia della vera opera, intesa come spettacolo per pubblico pagante. L’ Opera in questione è l' ORFEO - Favola in musica di Claudio Monteverdi (musiche), Alessandro Striggio (testo) - prima esecuzione, 24 Febbraio 1607, Mantova palazzo Ducale...




L'Orfeo è un’opera lirica, più precisamente una «favola in musica», di Claudio Monteverdi su libretto di Alessandro Striggio.
Tratta dalla
Fabula di Orfeo di Poliziano, l'opera si compone di un prologo («Prosopopea della musica») e cinque atti. Fu rappresentata per la prima volta il 24 febbraio 1607 nel Palazzo Ducale di Mantova
.
L'opera
L'Orfeo è la prima opera di Monteverdi, considerata il primo capolavoro della storia del melodramma.
Il libretto segue la trama del testo di Poliziano, con poche varianti. La musica, invece, differisce dal libretto nei cori e soprattutto nel finale che nel Libretto vede Orfeo in preda alla furia delle baccanti, mentre nella partitura è un
lieto fine, con l’ascesa in cielo di Orfeo, accompagnato da Apollo
, nella partitura.
La partitura d'orchestra include pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti sono a volte citati (per esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un
clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini
piccoli alla francese») e monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, nonché cori a cinque voci con basso non cifrato.
Lo stile di canto utilizzato può essere distinto in
recitativo, arioso e, nel caso delle arie
, strofico.



Claudio (Giovanni Antonio) Monteverdi (Cremona, 15 maggio 1567Venezia, 29 novembre 1643) è stato un compositore italiano.
Il suo lavoro di compositore segnò il passaggio dalla
musica rinascimentale alla musica barocca. Fu uno dei principali innovatori che accompagnarono l'evoluzione del linguaggio musicale (su questo processo stilistico vedi anche Retorica musicale), insieme al "principe dei musici", Carlo Gesualdo. Monteverdi scrisse una delle prime opere teatrali in cui fosse sviluppabile una trama drammatica, ovvero un melodramma, L'Orfeo, e fu fortunato da godere del suo successo mentre era ancora in vita



Alessandro Striggio (Mantova, 1573 circa – Venezia, 8 giugno 1630) è stato un librettista italiano.
Biografia
Figlio di
Alessandro Striggio il vecchio, è noto per aver scritto il libretto dell'Orfeo di Claudio Monteverdi
.
L'opera Orfeo è importante perché è la prima vera produzione scritta anticipatrice della moderna opera lirica per cui Alessandro Striggio può essere considerato tra i primi librettisti d'opera. Nel prologo vi è la personificazione della musica a voler testimoniare l'importanza di questo elemento all'interno dell'opera.



L’ascolto della registrazione (file video su CD) fatta dal vivo nel 1978 in Svizzera (una delle migliori registrazioni esistenti), sarà solo parziale e verrà commentato. Sarà un riassunto, altrimenti servirebbe troppo tempo per guardarlo e spiegarlo tutto. Rimarranno però disponibili il file video e il libretto, così chi vorrà approfondire potrà farlo in un altro momento o prenderlo a casa e poi restituirlo dopo la visione...).
Per alcune letture sarà presente il nostro Giannicola De Sanctis.



Orfeo (greco: Ὀρφεύς, latino: Orpheus) è una figura della mitologia greca.
Si tratta dell'artista per eccellenza, che dell'arte incarna i valori eterni. I molteplici temi chiamati in causa dal suo mito - l'amore, l'arte, l'elemento misterico - sono alla base di una fortuna senza pari nella tradizione letteraria, filosofica, musicale, pittorica e scultorea dei secoli successivi.
Su di lui si basa la religione orfica.


La storiaOrfeo e gli animali. Mosaico romano di età imperiale. Palermo, Museo archeologico.
Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della Pieria, terra lontana e misteriosa, nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci di provocare uno stato di trance tramite la musica.
Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro (o, secondo altre versioni meno accreditate, del dio Apollo), appartiene alla generazione precedente l'epoca della religione greca classica. Egli, con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto, placava le bestie feroci e animava le rocce e gli elementi della natura.
Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.
Orfeo fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli inferi della Kore.
La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dioniso rinunciando all'amore eterosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calais, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le Baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgilio la causa della sua morte è invece da ricercarsi nell'ira delle Baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.
Le imprese di Orfeo e la sua morteLe ninfe ritrovano la testa di Orfeo (1900) diJohn William Waterhouse
Secondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: durante la spedizione Orfeo diede innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave rimasta inchiodata nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placò a Cizico l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi, si fece amica Ecate, addormentò il drago e superò la potenza ammaliante delle Sirene.
La sua fama è legata però soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide unito alla Driade Euridice, che era sua moglie: Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora negli inferi con la sua inseparabile lira per riportarla in vita. Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era, era stato condannato da Zeus a essere legato ad una ruota che avrebbe girato all'infinito: Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira per fermare momentaneamente la ruota, che, una volta che il musico smetteva di suonare, cominciava di nuovo a girare. L'ultimo ostacolo che si presentò fu la prigione del crudele semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio per dare la sua carne agli dei e aveva rubato l'Ambrosia per darla agli uomini. Qui, Tantalo è condannato a un terribile supplizio: è legato ad un albero ed è immerso fino al mento nell'acqua mentre dei frutti crescono proprio su un albero che gli è sopra. Purtroppo per il semidio, ogni volta che prova a bere, l'acqua si abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i frutti con la bocca, i rami si alzano. Tantalo chiede quindi ad Orfeo di suonare la lira per far fermare l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato rimane immobilizzato e quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento. A questo punto l'eroe scese una scalinata di 1000 gradini: si trovò così al centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo incontrò Ade e Persefone: il primo dormiva profondamente, la seconda lo guardava con occhi fissi.
Ovidio racconta nel decimo libro delle Metamorfosi[1] come Orfeo, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto, facendo riaffiorare in Persefone i ricordi della vita prima che Ade la rapisse e la costringesse a sposarla. Il discorso di Orfeo fece leva sulla commozione; in questo senso funzionarono perfettamente il richiamo alla gioventù perduta di Euridice e l'enfasi sulla forza di un amore impossibile da dimenticare e sullo straziante dolore che la morte dell'amata ha provocato. Orfeo fece ricorso anche a considerazioni più razionali, nel timore che svanendo l'effetto del canto la sua richiesta non dovesse più essere esaudita; disse così che la chiedeva solo in prestito, che quando fosse venuta la sua ora anche Euridice sarebbe tornata nell'Ade. A questo punto Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché non fosse stato accontentato.
La regina degli inferi, ormai commossa, approfittò del fatto che Ade stesse dormendo per lasciare che Euridice tornasse sulla terra. Fu posta però una condizione: Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino alla porta dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, e credendo di esser già uscito dal Regno dei Morti, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e ruppe la promessa del noli respicere, vedendo Euridice scomparire all'istante e tornare tra le Tenebre per l'eternità.
Orfeo, tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere e animando gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo Virgilio,[2] mentre Ovidio, da sempre meno sentimentale del Mantovano, riduce il numero a sette giorni.[3]
Sa che non potrà amare più nessun'altra, e malgrado ciò molte ambiscono ad unirsi a lui. Secondo la versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà del Trace nei confronti della moglie morta non si piegava; allora, in preda all'ira e ai culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (il famoso sparagmòs) e ne sparsero i resti per la campagna.[4]
Un po' diversa è la rivisitazione del poeta sulmonese, che aggiunge un tassello alla reazione anti-femminile di Orfeo, coinvolgendo il cantore nella fondazione dell'amore omoerotico(questo elemento non è di invenzione ovidiana visto che ne abbiamo attestazione già nel poeta alessandrino Fanocle). Orfeo avrebbe quindi ripiegato sull'amore per i fanciulli, traviando anche i mariti delle donne di Tracia, che venivano così trascurate. Le Menadi si infuriarono dilaniando il poeta, nutrendosi anche di parte del suo corpo, in una scena ben più cruda di quella virgiliana.[5]
In entrambi i nostri poeti si narra che la testa di Orfeo finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo dell'immortalità dell'arte, scendendo (qui solo Ovidio) fino al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l'isola di Lesbo, dove Febo Apollo la protesse da un serpente che le si era avventato contro.
Secondo altre versioni, i resti del cantore sarebbero stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra.
Tornando ad Ovidio, eccoci al punto culminante dell'avventura, forse inaspettato; Orfeo ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla senza più temere.[6]
Un'altra versione, più drammatica e commovente, parte dalle stesse premesse: Euridice muore uccisa da un serpente mentre fugge da Aristeo. Orfeo decide allora di andare a riprenderla. Trova a Cuma la discesa per gli Inferi, e lì giunto incanta Caronte, Cerbero e Persefone. Ade acconsente a patto che egli non si volti fino a che entrambi non siano usciti dal regno dei morti. Insieme ad Hermes (che deve controllare che Orfeo non si volti), si incamminano ed iniziano la salita. Euridice, non sapendo del patto, continua a chiamare in modo malinconico Orfeo, pensa che lui non la guardi perché è brutta, ma lui, con grande dolore, deve continuare imperterrito senza voltarsi. Appena vede un po' di luce, Orfeo, capisce di essere uscito dagli Inferi e si volta. Purtroppo, però, Euridice ha accusato un dolore alla caviglia morsa dal serpente e, dunque, si è attardata... Quindi, Orfeo ha trasgredito la condizione posta da Ade. Solo ora Euridice capisce e, all'amato, sussurra parole drammatiche e struggenti: «Grazie, amore mio, hai fatto tutto ciò che potevi per salvarmi». Si danno poi la mano, consapevoli che quella sarà l'ultima volta. Drammatica anche la presenza di Hermes che, con volto triste ed espressione compassionevole, trattiene Euridice per una mano, perché ha promesso ad Ade di controllare ed è ciò che deve fare. Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a partecipare ad un'orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo uccidono, lo fanno a pezzi e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione.
Secondo quanto afferma Virgilio nel sesto libro dell'Eneide, l'anima di Orfeo venne accolta nei Campi Elisi.
Mito di PersefonePersefone, Kore, Kora, o Core, è una figura della mitologia greca, fondamentale nei Misteri Eleusini, entrata in quella romana come Proserpina
Persefone era figlia di Zeus e di Demetra, secondo un'altra leggenda di Zeus e della dea omonima del fiume infernale Stige. Il suo nome significa fanciulla. Venne rapita dallo zio Ade, dio dell'oltretomba, che la portò negli inferi per sposarla ancora fanciulla contro la sua volontà. Una volta negli inferi le venne offerta della frutta, ed ella mangiò senza appetito solo sei semi di melograno. Persefone ignorava però il trucco di Ade: chi mangia i frutti degli inferi è costretto a rimanervi per l'eternità. Secondo altre interpretazioni, il frutto che nel mito stabilisce il contatto con il regno dell'oltretomba non è il melograno ma, a causa delle sue virtù narcotiche e psicotrope, l'oppio, la cui capsula è peraltro straordinariamente simile (eccetto che per le dimensioni, più ridotte) al frutto del melograno.
La madre Demetra, dea dell'agricoltura, che prima di questo episodio procurava agli uomini interi anni di bel tempo e fertilità delle terre, reagì adirata al rapimento impedendo la crescita delle messi, scatenando un inverno duro che sembrava non avere mai fine. Con l'intervento di Zeus si giunse ad un accordo, per cui, visto che Persefone non aveva mangiato un frutto intero, sarebbe rimasta nell'oltretomba solo per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati, potendo così trascorrere con la madre il resto dell'anno. Così Persefone avrebbe trascorso sei mesi con il marito negli inferi e sei mesi con la madre sulla terra.
Demetra allora accoglieva con gioia il periodico ritorno di Persefone sulla Terra, facendo rifiorire la natura in primavera ed in estate. La rappresentazione del suo ritorno in terra era locata presso i prati di Vibo Valentia, celebri per i fiori dai colori sgargianti e per la loro bellezza, ciò è testimoniato anche dalle numerosissime statuette greche ritrovate nel territorio Vibonese.
Questo era un mito che esaltava insieme il valore del matrimonio (sei mesi a fianco dello sposo), la fertilità della Natura (risveglio primaverile), la rinascita e il rinnovare la vita dopo la morte, motivi questi che rendevano la dea Persefone particolarmente popolare e venerata.
Persefone contese ad Afrodite il bell'Adone, riuscendo a trascinare la questione fin davanti a Zeus che preferì, per non scontentare nessuno, affidarlo separatamente ad entrambe.
Una tradizione diversa faceva di Persefone una figlia di Zeus e di Stige. Fu generata dal dio dopo la sconfitta dei Titani, avvenuta durante la Titanomachia. Nella mitologia romana a Persefone corrispondeva Proserpina e a sua madre Demetra la dea Cerere, al cui culto era preposto un flamine minore.
Alcuni studiosi sostengono che Persefone rapita da Ade, quando ebbe la possibilità di scappare, a sorpresa decise di rimanere nell'oltretomba col suo sposo.
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Klodiana Babo – violinista. Comincia a studiare violino all´età di 6 anni presso il liceo artistico J. Misja a Tirana. L´attività concertistica comincia sin dai primi anni di scuola con Concorsi per bambini, concerti per gruppi d´archi e registrazioni presso la radio televisione Albanese. Si diploma nell´anno accademico 1989\90 con il massimo dei voti in violino.
Frequenta i primi anni dell´Accademia delle belle Arti di Tirana per poi trasferirsi a proseguire gli studi presso il Conservatorio statale G. Rossini di Pesaro con il maestro V. De Felice. Si diploma presso lo stesso nell´anno accademico 1997\98 in violino con il massimo dei voti e la lode. Le viene riconosciuta una borsa di studio per i migliori allievi dalla fondazione Rossini di Pesaro nello stesso anno.

Partecipa nel 1989 al festival per giovani artisti in Preveza (Grecia) insieme a una ventina di giovani violinisti, nel 1993\94 a degli scambi culturali Albania - Italia, con due tour di concerti da camera.

Collabora nel 1995 con l´Orchestra Sinfonica di Pesaro, 1996 stagione lirica con Pro Arte Marche di Fano, 1996\1998 stagioni liriche sinfoniche con l´ Orchestra Filarmonica Marchigiana.

Dopo di che (anni 2003\08) interrompe la collaborazione con le orchestre sinfoniche e si dedica alla musica da camera e a lavorare con i bambini:

- propedeutica musicale nelle scuole statali dell´infanzia e primarie (in provincia di Pesaro Urbino), come esperto di musica;

- corsi musicali e recite teatrali (curando la parte musicale), spettacoli con i bambini etc..
Dal 2001 a tutt’oggi collabora come insegnante di violino con il Liceo Musicale A. Toscanini (sede Urbino) e la scuola di musica Nova Civitas Cale di Cagli, di cui è membro fondatore. Nell´ anno 2008 ha dato vita all´Orchestra d´Archi Sperimentale, per non professionisti, aperta alla cittadinanza e provincia la quale ha già cominciato a tenere concerti apprezzati dal pubblico .
Attualmente frequenta il Biennio di specializzazione in Violino barocco presso il conservatorio B. Maderna di Cesena con il maestro L.Giardini.
Ha frequentato Masterclass e corsi tenuti dal musicologo, compositore e violinista barocco A. Ciccolini.
E tutt’ora dedicandosi alla musica da camera, come violinista, collabora con vari gruppi cameristici come l´Ensemble Barocco "La Calandria" ( di cui è membro fondatore), gruppo femminile cameristico "Le Libellule", “L’Orchestra barocca di Bologna” con la quale ha suonato in prestigiosissime scene come la Chiesa della Pietà e Scola San Rocco a Venezia, alla basilica di San Petronio a Bologna etc. sotto la direzione del M° Paolo Faldi e Michele Vanelli. Ha suonato al prestigioso festival Pergolesi di Jesi collaborando con l’importante orchestra de ” I Virtuosi Italiani” sotto la direzione del M° Corrado Rovaris, al progetto Orfeo a Pesaro sotto la direzione del M° Alessandro Ciccolini (anche come violino solista e spalla d’orchestra).

27 febbraio 2012 Daniela STORONI

La tavola imbandita: l'estetica della cucuna.



DANIELA STORONI è esperta di gastronomia Rinascimentale.
Quella rinascimentale non era una cucina su base regionale: molti prodotti e preparazioni erano diffusi e apprezzati in tutte le corti d’Italia e d’Europa. Col passare dei secoli alcune ricette si affermarono in determinati luoghi mentre da altri scomparvero.
Le scelte compiute allora e i gusti che le condizionarono, costituirono la base per lo sviluppo successivo delle diverse tradizioni gastronomiche territoriali e regionali.
Rinascimento a Tavola, un marchio creato da Daniela Storoni, attraverso la ricerca e la sperimentazione delle ricette tratte dagli antichi ricettari dei cuochi del rinascimento italiano, ha scelto di riunire alcune di queste squisitezze che deliziavano le tavole di tutte le corti del rinascimento e oggi sparse sul nostro territorio come eccellenze gastronomiche tradizionali e locali.
Ad esempio i biscotti di “Rinascimento a Tavola” sono “dolci, non dolci” un gioco di parole che ben rende l’idea sulla delicatezza al palato di questi raffinati prodotti .
“Il Piatto del Duca” è un menù tratto dalle liste delle vivande dei grandi ricettari cinquecenteschi: “cucinare secondo il gusto del Signore”, proprio come sta scritto nei ricettari antichi con farine e paste, salumi, olii, lardo e burro, pane, formaggi, scrupolosamente selezionati, con primo servitio di credenza, insalata di misticanza e cascio in fettucce servito con salza di mirtilli; primo e ultimo servitio di cocina: tomacelle di fegato d’anatra, arrosto d’anatra ripiena servito con suoi tortelli di copertura; infine secondo e ultimo servitio di credenza: gelo di mellone bono e perfettissimo.
E “l’estetica dei piatti e della tavola”, strettamente fedele alla regole rinascimentali è l'argomento di oggi.



La tavola imbandita storia estetica della cucinaI NOSTRI OCCHI GIUDICANO IL CIBO

Esistono cibi definiti estetici e cibi considerati inestetici. Valutazione data sia per colore che per la forma, in base alla loro capacità spontanea di essere più o meno gradevoli alla vista

Ripartizione estetica in

— CLASSICA o NATURALE
— ROMANTICHE O ARTEFATTE
— IBRIDI

CLASSICA o NATURALE
Riservata ai cibi esibiti con la loro configurazione naturale , disadorna (ortaggi, frutta, carne, pesci che hanno una struttura anatomica ben definita non adulterata.
La possibilità di presentazione in questo caso è limitata al taglio, alla combinazione cromatica e figurativa con altri ingredienti e alle decorazioni con salse e guarnizioni

ROMANTICHE O ARTEFATTE
sono quei cibi che debbono il loro aspetto estetico alla manipolazione culinaria del cuoco in cui l’ingrediente viene distrutto dalla sua forma originale e attraverso un intervento plasmatore viene confezionato
– PANE BISCOTTI
– TORTE FORMAGGI
– PASTA BUDINI ECC.
.
Per la loro necessità di ricevere una forma dall’esterno li rende in qualche modo molto simili ai manufatti dell’artigianato popolare di destinazione pratica


IBRIDI
Sono quei cibi che pur appartenendo ad una delle due categorie già descritte tendono a passare nell’altra sempre attraverso la manipolazione culinaria come:
I PASTICCI LE CARNI INSACCATE
GLI SFORMATI I TIMBALLI

A questo punto possiamo chiederci che importanza ricoprono l’apparenza esteriore e il gusto della messinscena nella storia e nella pratica della cucina?

E’ certo che ancor prima di essere assaggiato il cibo e naturalmente esposto al nostro giudizio visivo e la sua vista condiziona psicologicamente la nostra predisposizione all’assaggio

Questo processo, inconsciamente avviene da sempre, ancor prima che la presentazione estetica del cibo assumesse un aspetto ostentatamente decorativo,
La percezione del cibo costituisce uno dei principali fattori di condizionamento psicologico per le nostre scelte

— Questo condizionamento è strettamente legato all’APPETIBILITA’
— Cioè la capacità dei cibi a farsi desiderare prima di essere mangiati
— Un indicatore fisiologico suscitato oltre che dall’ASPETTO ESTETICO anche da altri fattori quali l’AROMA, il COLORE, la FORMA , la SITUAZIONE AMBIENTALE
— Che Tutti insieme al momento fatidico della


SODDISFAZIONE DEL GUSTO

Concorreranno in misura rilevante sul suo livello di gradimento
— Le reazioni emotive di piacere o di disturbo del cibo e dato anche dato dalle nostre abitudini alimentari.
— L’esperienza, l’educazione, ci insegnano ad associare al cibo immagini indicative sul loro valore nutrizionale, lo stato di conservazione, o il grado di maturazione

Per i colori:
— Verde acerbezza
— giallo e rosso avvenuta maturazione e pienezza di sapori
— Così pure la regolarità delle forme, l’aspetto della superficie (sporca brillante avvizzita ecc )
— Nel processo di gradimento del cibo troviamo due apporti fondamentali - dove l’uno e strettamente legato all’altro

— FISOLOGICO (regolato dall’intensità della fame)

— COMPORTAMENTALE E PSICOLOGICO (interpretato attraverso schemi culturali che ne determinano la percezione e sovrintendono l’intera esperienza organolettica.



Quindi possiamo concludere dicendo che il PIACERE DELLA TAVOLA non si può percepire come una sensazione «pura» poiché in essa coesistono sempre motivazione affettive e ideologiche il più delle volte indipendente dagli stimoli della fame ed è per questa ragione che è un piacere, che l’uomo non può condivide con le altre specie animali, per le quali esiste solo l’appagamento immediato dello stimolo famelico


L’INTRATTENIMENTO CONVIVIALE
— I rituali conviviali vengono concepiti come una sublimazione del piacere del cibo, che la natura vedrebbe limitato nel tempo e nella quantità: purtroppo la capacità dello stomaco e le capacità digestive impongono al piacere di mangiare un punto di arresto
— Ed è appunto per prolungalo oltre ai suoi confini naturali che l’uomo si è ingegnato ad amplificare a dismisura tutto ciò che avviene prima –durante – e dopo.
— Si allestisce così un APPARATO SCENICO popolato da musica, recitazione, danza, arredi e ornamenti della tavola


LA TAVOLA IMBANDITA STORIA ESTETICA DELLA CUCINA

Le tavole vengono apparecchiate con suppellettili imponenti decorazioni di zucchero e marzapane dalle forme più complesse
I PIATTI FREDDI VENGONO APPOGGIATI PRIMA SULLE CREDENZE E POI SULLA TAVOLA
Il trinciante ha il compito di sporzionare le vivande la sua diventerà una vera arte di destrezza acrobatica.
Si mangia con le mani quindi i pezzi devono essere piccoli

















Tecnica di piegatura tovaglioli e intagli di frutta e verdura (1500/1600)






















All’inizio del XX secolo l’esasperazione dell’ornamento e della decorazione conosce i suoi primi cedimenti
• L’arte dell’artificio decorativo ha raggiunto nel secolo precedente il suo apice non si può aggiungere null’altro

La ristorazione on può più sostenere i ritmi e i costi di tale lavoro
Si fa strada un nuovo pensiero l’arte della cucina può essere separata da quella del decoratore (concetto inimmaginabile nei secoli precedenti)
• La tavola comincia ad alleggerirsi dei troppi orpelli decorativi dagli eccessi di argenterie, le decorazioni di zucchero lasciano posto a centrotavola in cera, decorazioni floreali o altro materiale non commestibile più raffinate

• Rimane però la nostalgia dello sfarzo e dell’artificio il gusto per le costruzioni spettacolari e gli ornamenti non riesce ad essere appagato dalla routine






























23 febbraio 2012 dom Salvatore FRIGERIO

SOCIETA' E FAMIGLIA

Famiglia senza Società e Società senza Famiglia
L’argomento è piuttosto tosto, laborioso, perché la mia impostazione non è semplicemente “Famiglia e Società” , ma famiglia senza società e società senza famiglia tenendo presente la situazione di oggi. Il cardinal Martini nella sua capacità illuminante davanti a tutti i nostri tentativi di difendere la famiglia, dice: basta difendere la famiglia, diamo dei sensi nuovi alla famiglia. Quindi con voi voglio fare una specie di analisi del perché, come mai ci muoviamo in una situazione come questa, una situazione in cui ci si rifugia, ci si difende, ci si rinchiude, con il risultato che si implode.
La famiglia di oggi che non è più propedeutica alla società per una forte percentuale, ma si rinchiude in se stessa e oggi sta implodendo; i delitti di famiglia nello scorso anno hanno superato di gran lunga i delitti di mafia e sono soltanto quelli che conosciamo senza contare le violenze soprattutto nei confronti delle donne, nei confronti dei figli stessi.
È un problema che deve starci a cuore comunque, anche se abbiamo 120 anni, perché siamo comunque comunità, famiglia.
Il “progetto” del Creatore sulla sua Creazione è “raccontato” nei primi due capitoli della Scrittura Santa. Questo progetto di armonia, e non dobbiamo considerare la scrittura come il giornale, non sono cronache, ma letture, messaggi che vengono da un popolo che ha cercato di capire il senso della storia, ce lo ha raccontato non redigendo dei trattati, ma attraverso immagini con quel metodo ebraico che viene espresso con il termine midrash, che significa spiegare, farsi spiegare, interrogare, farsi interrogare, capire.
Dopo questo splendido progetto che ci viene presentato da questo affresco dei primi 2 capitoli della genesi, inizia il racconto che dice a quale tipo di umanità è consegnato tale progetto, una umanità che deve accogliere e realizzare con il creatore; e questa umanità è raffigurata in due figure: Caino e Abele. Il creatore ha un grande progetto di armonia e questo progetto viene consegnato all’umanità che ha in se le tensioni proprie di Caino e Abele dove, l’uno agricoltore e l’altro pastore, immagini primordiali di due categorie sempre contendenti, e vengono qui raccontati come simboli del rapporto drammatico dell’uomo/donna con se stesso/a, con l’altro/a e con la società, rapporto che attraversa tutta la Storia, pur nelle molteplici diversità etniche, culturali, etiche, considerate anche nell’evolversi delle età.
Insisto molto su questo perché la bibbia ci dà una panoramica straordinaria della evoluzione dell’umanità; noi la leggiamo con quell’ordine che ci viene dall’ordine canonico, ma se prendiamo quei testi e li collochiamo in ordine cronologico, cioè in base ai tempi in cui sono stati scritti, copriamo una evoluzione di 1400 anni di scrittura. Non l’hanno scritta tutta quanta in una settimana, e in quei 1400 anni Israele ha attraversato una evoluzione straordinaria in rapporto con tutte le culture con le quali ha avuto rapporto, alle volte pacifico, ma quasi sempre drammatico, e quindi c’è un evolversi delle culture e delle morali, delle etiche che ne conseguono.
La causa del tragico contendere dei due “fratelli”, è collocata in un contesto cultuale che evoca il magistero dei profeti fin dal pre-esilio babilonese (il testo della genesi è scritto dopo il ritorno dall’esilio babilonese): il culto riservato a Jhwh non può essere disgiunto dal “culto” riservato all’Adam (hish-hisha). E quando diciamo adam non significa il maschio, ma l’umanità venuta dall’adamà, cioè dalla madre terra, quindi ogni uomo e ogni donna.
Si tratta di un magistero che si rifà chiaramente al Decalogo, la cui novità sta appunto nell’affermare che l’Alleanza con il Santo del Sinai si realizza vivendo l’Alleanza con il prossimo e con la società. L’invidia, la gelosia, quindi la violenza che ne deriva, sono atteggiamenti che minano l’Alleanza e che l’Adam deve quindi governare con attenzione sapiente: Jhwh disse a Caino: perché sei sdegnato? Perché la tua faccia [l’originale ebraico dice “le tue facce”, sottolineando i diversi aspetti dei sentimenti] è oscurata? Dipende da te migliorare o no. L’errore sta appollaiato alla tua porta, le sue brame sono rivolte a te. Tu governalo!”. (cfr. genesi 4)
Ricordiamo quanto a proposito scrive S.Giacomo che riecheggia fortemente questo testo della genesi: “…ognuno è tentato quando è attratto dalle proprie brame. Poi la brama, quando ha concepito, genera il peccato, e il peccato, una volta commesso, genera la morte (…) Da dove provengono le lotte e le questioni in mezzo a voi? Non derivano forse dalle passioni che combattono nelle vostre membra? Siete pieni di brame e non arrivate a possedere, perciò uccidete; invidiate e non riuscite a conseguire, perciò combattete e fate guerre. Chiedete ma non ottenete, perché chiedete male, cioè volete soddisfare le vostre brame” (Gc 1,14-15; 4, 1-3). Il testo di Genesi risuona qui in modo esplicito.
Dunque la colpa di Caino sta alla radice (alla “porta”) del suo operare. La gelosia e l’invidia corrodono il suo rapporto fraterno, perciò il suo culto a Jhwh è ipocrisia religiosa e non viene da Lui accolto (cfr. Is 1,10-17; 58,1-14; Gr 7,1-28; Mc 6,6-8). E ricordo il mio parroco che mi spiegava che Dio non accoglieva il sacrificio di Caino perché offriva le mele marce; e basterebbe leggere l’inizio del cap.10 del libro della sapienza che ci dà la chiave di lettura di tutta le genesi e l’esodo per capire che è l’invidia e la gelosia che rende Caino assassino.
Chiediamoci, allora, quale è e come si presenta il nostro rapporto con la Società e la cultura di oggi. Sottolineando l’esasperazione concorrenziale dei punti di vista a riguardo, consideriamo l’esistenza di una dinamica che può essere così indicata: una società senza famiglia e una famiglia senza società.
Società senza famigliaLa società induce ad atteggiamenti che si contrappongono a quelli che dovrebbero caratterizzare le relazioni familiari. Nei confronti della professione, tanto l’uomo quanto la donna pensano trattarsi di una certezza da difendere anche a scapito dei rapporti familiari. Sempre più si afferma la priorità della sistemazione professionale nei confronti di quella familiare.
Anche i momenti creativi si orientano in direzioni estranee alla famiglia. Gli stessi giorni di festa sono vissuti fuori dai rapporti familiari, creando ulteriori fughe e depressioni all’interno dei rapporti parentali, e penso ai ragazzi che passano la notte intera in discoteca e la domenica dormono tutto il giorno: la famiglia non esiste, esiste il letto e basta!
Per meglio individuare i motivi che contrappongono società e famiglia, e la posizione antifamiliare della società attuale, possiamo individuare tre logiche antitetiche:
a. la logica della concorrenza, contraria alla condivisione;
b. la logica del sospetto, contraria alla confidenza e alla fiducia;
c. la logica della produzione, contraria alla procreazione.
a. Logica della concorrenza contro la condivisioneLa società patriarcale costituiva un gruppo familiare fondato sul criterio del “mettere insieme tutte le cose” nella radicata consapevolezza che “l’altro è familiare”, perciò è colui con il quale si costruisce qualcosa. La società fondata sulla famiglia traeva le sue regole da questa impostazione. Era una società fondata su una famiglia allargata.
Oggi, invece, si dà grande rilevanza al principio concorrenziale. Tutta l’attenzione della persona è proiettata sull’oggetto (produzione, industria, commercio, …), stabilendo così un rapporto fondamentale tra persona e oggetto, e non tra persona e persona. Tutti le altre persone (gli altri “io”) sono ridotti alla stregua di concorrenti a detto oggetto, la cui conquista esprime la crescita massima delle capacità di chi se ne impadronisce. Questa logica sta diventando una filosofia di vita, vale a dire l’orientamento di fondo della vita attuale: il singolo diventa esistenzialmente un concorrente; è l’altro dal quale io mi devo comunque difendere, la paura di ogni diversità, di ogni alterità, e non l’altro con il quale devo condividere.
Comprendiamo chiaramente quale e quanta sia la diversità dalla logica familiare che crea convergenza, complicità, condivisione. La derivazione più nevralgica e pericolosa della logica concorrenziale è quella del sospetto. Teniamo presente che la nostra società ha fatto del sospetto e della paura l’elemento politico, ne ha fatto uno strumento elettoralistico: noi vi difendiamo dalla paura, vi difendiamo dal diverso, vi difendiamo dagli invasori. Il sindaco di Roma aveva impostato tutta la sua propaganda elettorale sulla paura, e il risultato? Roma è peggio del far west perché sulla paura non si costruisce la persona.

b. Logica del sospetto contro la confidenza e la fiduciaIl sospetto induce a instaurare l’atteggiamento ideologico della dietrologia, che diventa sistematico (e, come ideologia, non verificabile) nei confronti della realtà e di tutti gli “altri”, dei quali, a priori, non ci si può fidare, ci si convince che non ci si può più fidare di nessuno. Tale atteggiamento diventa uno dei princìpi che ispirano i rapporti sociali.
In passato il sospetto esisteva, ma lo si riservava all’estraneo, a chi apparteneva all’altra tribù, all’altra popolazione, mentre la solidarietà si esercitava all’interno del proprio “mondo”, della propria nazione. Ora sembra che tutti siano “stranieri per tutti”, rendendo difficile ogni rapporto, in quanto i valori, intesi come relazione autentica con gli altri, non sono posti anzitutto come fatti razionali. La nostra ragione, la ragione della convivenza, la ragione del rapporto è inquinata, e fate attenzione a tutti i media che ci bombardano, e ci rendiamo conto di quanto siamo inquinati proprio a livello razionale.
Nell’ambito dell’umanità, solo una persona su diecimila può dirsi “filosofo”, ricercatore attento della ragione delle cose e degli eventi. Le persone, nella ferialità comune, nella quotidianità, vivono le relazioni su basi emotive, sensitive, percettive dell’immediato, del quasi fisiologico. Contaminando e compromettendo la sfera emotiva con la filosofia del sospetto, non solo si pone in crisi un contenuto, ma l’atteggiamento che a sua volta mette in crisi tutti i contenuti.
Il bimbo che inizia a vivere, e quindi a rapportarsi, si orienta nel mondo non perché possiede e formula una teoria dell’esistenza, ma perché vede i volti dei genitori: la fiducia ispirata da loro costituisce il valore della sua esistenza e dunque il suo orientamento: il fidarsi del babbo e della mamma orienta tutto il suo orientamento e i suoi rapporti. La fiducia è indispensabile per orientarsi nella vita “prima” di ogni teorema, di ogni filosofia. Il sospetto annienta tutto questo, portando con sé non la ragione del crollo di un valore, ma il fondamento distruttivo di ogni rapporto sociale fiducioso, confidente, quale deve essere la relazione familiare, purtroppo oggi minacciata da quello.


c. Logica della produzione (cioè attenzione al prodotto) contro la procreazione (che è attenzione alla vita)

Quando dico procreazione non parlo solo di fare figli, ma di essere creativi nei confronti degli altri, oltre che di se stessi. Creativi nei rapporti, capaci di creare rapporti nuovi.
Il prodotto è il frutto di una programmazione, di un lavoro, è ciò che viene “dopo”. La vita è ciò che viene “prima”. Chi sa stare nella vita vive la sua esistenza come colui che è sempre “anticipato”, preceduto, reso vigile e, proprio per questo, “garantito”. La grande capacità dei profeti era esattamente questa; questa capacità di avere la creatività costante nella lettura della realtà, della cultura, delle situazioni, delle provocazioni storiche che vivevano, per cui potevano prevenire, prevedere l’evoluzione degli eventi, ma perché quegli eventi li affrontavano con sapienza. Oggi il sistema ci va abbattendo, volutamente, tutti i criteri di giudizio: ragioniamo con la televisione, non con la testa; l’ha detto la televisione, è diventata la parola onnipotente, superiore alla parola di Dio.
Rischiamo continuamente di abdicare alla nostra capacità di giudizio, e i giovani sono vittime di tutto questo, e io mi rendo conto dai continui contatti che ho con la scuola, e di anno in anno diventano sempre meno capaci di reagire alle provocazioni, meno capaci di discutere, meno capaci di contraddire. Quando mi sento dire si, dico perché mi hai detto si! O perché mi hai detto no! Non voglio sapere se è si o no, ma il perché tu mi dici si o mi dici no: e non me lo sanno dire!
Al contrario la logica del prodotto porta a dire che la vita consiste in ciò che si ottiene: la vita allora viene “dopo” e il “prima” rimane il vuoto. Spesso con i ragazzi dico che siamo la generazione del mulino bianco: tutto e subito sotto vuoto spinto. In tal modo non è più possibile una collocazione nella vita, non esiste più una protezione, non c’è più nulla dietro, prima, che dà senso all’oggi. Una filosofia che determina il valore della vita in base a quanto produce, condanna l’uomo che ancora non produce o non produce più: i giovani e i vecchi a che servono? Non producono, e sono segni quanto mai significativi, non producono e quindi mettiamoli da parte, non ci servono.
Si tratta dunque di un altro atteggiamento antifamiliare: la famiglia è il luogo dove si nasce, dove si riceve la vita, si è accuditi, educati; l’industria è il luogo dove si va a produrre. Si va dunque modellando una logica di società antifamiliare che, specularmente, va delineando una famiglia senza società; non c’è più il rapporto di una società che diventa realmente sostenitrice della famiglia, e una famiglia che non è più propedeutica alla società
Famiglia senza societàRiconsiderando quanto detto sopra, possiamo constatare che si va sviluppando una famiglia che tende a fare a meno della dimensione sociale. Si va affermando la tendenza a difendere il rapporto di coppia (privato) dall’interazione con la società (pubblico). La famiglia si difende persino dai propri parenti. Si può comprendere il pericolo insito in questo processo, qualora conducesse a una filosofia di vita, ma le cronache dei nostri giorni sono davvero preoccupanti in questo senso. Le logiche antisociali emergenti nella famiglia possono essere individuate nella logica dell’imprevisto contro il prevedibile e nella logica dell’occasionale contro il regolato.
a. Logica dell’imprevisto contro il prevedibile
Il sociale richiede un percorso costituito da cose programmate, dunque previste. Nella famiglia si cerca oggi di giocare sull’imprevedibilità. La stessa istituzione del matrimonio è messa in questo gioco, se va altrimenti ritorno dai miei o ne trovo un’altra o un’altro; tutto è usa e getta, la logica commerciale dell’usa e getta. Al matrimonio si contrappone la convivenza e poi mettendo anche questa nell’occasionalità. La “convivenza” è sostituita da “eterni fidanzamenti”, e qui c’è una responsabilità enorme della società, e quanti giovani sono impediti dal potersi fare una famiglia! E sappiamo il perché!
Una società che non offre prospettive, che non offre sostegno ai giovani, giovani che studiano per poi fare i disoccupati, e le conseguenze si ripercuotono tutte dentro la famiglia, e talvolta sono conseguenze drammatiche: pensate a nonni che devono provvedere ai nipoti! Relazioni quindi improntate a un’imprevedibilità del tutto infruttuosa, cosa faranno questi? E poi c’è chi li definisce bamboccioni! Incapaci quindi di progettare vita e foriera di tante “depressioni”, e non è un caso che la depressione è la malattia più diffusa. Una società che ci illude di essere sempre giovani, belli, forti...ma poi ci si accorge che non è vero e si va in depressione
b. Logica dell’occasionale contro il regolato
Mentre nel sociale è tutto molto regolato (regole sociali, economiche, politiche, giuridiche, …), nel rapporto di coppia si va diffondendo la logica dell’occasionale che va sempre più contagiando gli individui che respirano l’aria della cultura in cui vivono. Anche coloro che si dicono cristiani risentono di queste dinamiche e il fenomeno diviene palpabile; non c’è più differenza tra chi si dice cristiano e chi non lo è. Dove è la comunità cristiana che nella propria condivisione e nella propria capacità, come dice Paolo, di portare gli uni il peso degli altri, diventa segno di una novità di vita: basta andare a messa alla domenica e il parroco è contento e noi ci sentiamo osservanti, mettiamo il cuore in pace, ma un conto è essere osservanti e un conto è essere credenti.
Da una società che decideva le regole della convivenza anche all’interno del matrimonio, e non è detto che fosse tutto positivo! si è passati a un contesto sociale in cui conta solo ciò che “prova” l’individuo, privilegiando soprattutto l’emozione come elemento determinante la scelta. Stanno evidenziandosi gli esiti ultimi di questa situazione. Se il principio fondamentale dello “stare insieme” non è un qualche valore, ma semplicemente l’occasione emozionale, tutto il rapporto familiare diventa occasionale, rendendo antisociale il rapporto di coppia e di famiglia. Il risultato di questa “cultura” crea evidenti discrepanze tra famiglia e società. Il postmoderno ha mischiato tutte le pedine che avevano un posto specifico sulla scacchiera della vita e, oltre alle regole per giocare, ho l’impressione che si sia persa anche la scacchiera.
Nella tradizione ebraica è detto che compito dell’adam, cioè di ogni uomo e ogni donna, è quello di raggiungere la pacificazione tra Caino e Abele. Nella pagina pentecostale degli Atti degli Apostoli (2,6-11) è detto che il dono dello Spirito è la comunione delle molteplicità. Pietro parlava il suo dialetto galileo e Luca dice che tutti i popoli del mediterraneo, e li elenca tutti, è chiaro che un messaggio non una cronaca, quel giorno a Gerusalemme c’erano i rappresentanti di tutte le culture mediterranee, e ciascuno lo sentiva parlare nella propria cultura. Si dice lingua, ma il riferimento è alla confusione delle lingue di Babele dove non si parla di lingua, ma si parla di modo di comunicare: cultura.
Pietro parla il suo dialetto e ciascuno lo ascoltava nella propria cultura perché la Pentecoste non è omologazione; la vita della chiesa, anche se piace tanto ai vertici, non è omologazione, ma comunione nella diversità, accoglienza delle diversità, è reciprocità nelle diversità e quindi arricchimento straordinario: stiamo diventando poverissimi nella nostra preoccupazione di identificarci contro tutti.
In questa prospettiva progettuale possiamo allora pensare di ritrovare orientamenti capaci di riproporre una comunione (intesa come interazione e non come omologazione) che permetta di coniugare cognizione, conoscenza, emozione e motivazione. Noi oggi viviamo il tempo massimo delle contraddizioni, con il virtuale stiamo demolendo ogni rapporto diretto, se ci sono 2 ragazzi uno accanto all’altro, ciascuno con il computer, non si parlano, ma si chattano.
Fare comunione non vuol dire andare a mangiare un’ostia, so cosa sto dicendo, cerchiamo di capirci, perché noi crediamo che mangiando quell’ostia ci mettiamo d’accordo e sistemiamo sulla pagellina i meriti di paradiso; io mi nutro di Cristo per fare comunione con i fratelli, se non mi metto in comunione con i fratelli, dice san Paolo, non c’è eucaristia (cfr 1Cor.), se non c’è condivisione non c’è eucarestia, anzi dice che siete rei del corpo e sangue di Cristo. Stiamo attenti, noi abbiamo ridotto tutto a mangiare quell’ostia e non nutrirci della capacità di metterci in gioco per gli altri, perché Cristo è quello che ci nutre per fare come lui, essere in gioco per gli altri.
E queste cose le dico anche quando ci sono i vescovi presenti, anzi con loro insisto ancora di più, avete creato popoli che mangiano ostie, non di comunione, salvando la devozione personale, però badate non è sufficiente la devozione personale per essere cristiani: essere cristiani vuol dire essere capaci di mettersi in gioco perché Cristo si è messo in gioco fino in fondo e Dio continua a mettersi in gioco per noi.
Dicevo a quei ragazzi a proposito di contraddizioni, voi siete diventati ormai incapaci di guardarvi negli occhi e di dirvi che cosa avete dentro. Le neuroscienze attuali stanno riscoprendo il valore della corporeità e dell’emozione che nasce dal contatto diretto con l’altro; e stanno scoprendo anche che nel nostro talamo cerebrale c’è la tensione al metafisico e quindi la tensione verso l’alterità, e qui ritroviamo quella scrittura che mi dice che l’adam è adam quando si guarda negli occhi, quando si rivela reciprocamente il proprio mistero. Quindi comunione che permetta di coniugare pensiero, emozione, motivazione, decisione.
Tale coniugazione viene anche confermata dalle scienze più attuali riguardanti l’uomo: la psichiatria più evoluta dialoga con le neuroscienze che prendono in esame la coscienza, gli aspetti cognitivi e anche quelli inconsci che rivelano la sfera emotiva cioè tutto l’uomo, la riscoperta dell’unità della persona che ci libera dalle categorie platoniche della dualità tra anima e corpo e ci ridà l’unità inscindibile della persona che è propria di tutta la scrittura ebraica, ed è propria di Gesù Cristo. L’uomo è dunque cognizione, emozione, motivazione, intesa come fondamento di ogni azione.
Il gioco fra queste tre cose (che posso chiamare la nuova scacchiera che possiamo ritrovare), dove l’aspetto emotivo e motivazionale determinano/condizionano la conoscenza, può essere l’unica via possibile per recuperare, riscoprire, accogliere, reinventando rapporti capaci di ricondurre all’interazione ciò che ora appare diviso: il dialogo tra famiglia e società.
Grazie.
Domanda: Dopo questa analisi che cosa si può fare e che cosa prevede.Risposta: nonostante tutto io ho una visione abbastanza ottimista per ciò che sta avvenendo in una rete nel quotidiano, una rete dell’umanità di oggi che comincia a sentire il peso di queste cose e a dire basta. Le donne che cominciano a dire, o oggi o mai più, che cominciano a tornare anche in piazza. La crisi è sempre un motivo di scelta, non è mai una fine, ma un principio. Siamo posti di fronte a delle scelte e dobbiamo assolutamente avere quella chiarezza di analisi che ci permette di inventare, perché il mondo di oggi va reinventato. C’è quel gruppo di famiglie con le quali dialogo da anni, e ormai lo chiamiamo gruppo di vite condivise perché oggi ci sono tanti modi di essere famiglia, ancora noi pensiamo che l’unico modo di essere famiglia è quello fatto in chiesa, che se poi si ammazzano due giorni dopo, erano famiglie vere.
Ci sono tanti modi di essere famiglia e tanti modi di esser coppia e tra questi modi c’è anche quello cristiano che ha la consapevolezza di essere un ministero sacerdotale, sacramentale, che non è un contratto, ma è una scelta vocazionale, anche se di rado i preti dicono queste cose! L’importante è che si vada li davanti a loro.
Ormai c’è una rete di persone che sentono il bisogno di fare scelte diverse e fare scelte di condivisione, ma sono tanti i segni, anche sul piano della condivisione alimentare; ormai sono varie associazioni e iniziative che inventano modi nuovi di realizzare l’esercizio anche alimentare, e interessante è che i media non si occupano di queste cose. Ai media importa solo che noi ci convinciamo che le cose vanno male per cui, perché mi devo dar da fare? Perché mi devo impegnare? Tanto va tutto male!
Noi con il gruppo di vite condivise, l’estate scorsa abbiamo fatto una full immersion straordinario in Foggia ed abbiamo avuto delle esperienze di condivisione, di supporto, di reciprocità, di accoglienza, di ospitalità che costruisce vite, costruisce delle persone mature; e quest’anno lo faremo con il gruppo Abele nella zona del torinese.
Ci sono delle infinità di modi, bisogna avere degli occhi aperti per renderci conto che esistono moltissime possibilità di condivisione, di reinventare modi di condivisione: non aspettiamo che ci diano dei precetti perché i precetti sono la fine della libertà e la fine della creatività. Abbiamo il dono dello Spirito, che come dice Paolo, fa nuove tutte le cose, le cose vecchie sono passate, ecco oggi è il momento della novità dello Spirito, e lo Spirito ci è dato a tutti, nessuno escluso, ma è lavorando e confrontandoci insieme che lo Spirito si può rendere visibile ed operante.
Ecco io sono, non dico arrabbiato, ma qualcosa di più nei confronti dei media che ignorano completamente queste realtà per cui diffondono l’indifferenza, l’individualismo; e c’è una delle frasi di Gesù su cui io torno con insistenza perché la trovo quanto mai attuale, e nel vangelo di Luca 17,26 e ss., Gesù dice: avverrà di voi come ai tempi di Noè e di Sodoma. E quando noi sentiamo la parola Sodoma, le nostre antenne moralistiche si alzano subito, ma Gesù fa una lettura assolutamente altra, quando mangiavano, bevevano, comperavano, vendevano, sposavano, e cosa facevano di male?
E non si rendevano conto di nulla, perciò si distrussero; non si rendevano conto di nulla, l’indifferenza è il cancro dei nostri giorni, ed è voluto, inoculato dai sistemi. Io credo che dobbiamo reagire a tutto questo, dobbiamo avere noi la capacità di fare, la parola di Dio può aiutare a trovare motivazioni, ma poi ciascuno di voi deve darsi da fare, non è più tempo di precetti universali, ma è tempo di valorizzazione della creatività del gruppo che nasce e si arricchisce nella comunità. E questo possiamo farlo anche se avessimo 120 anni. Nel libro degli atti 2,17, nel giorno di Pentecoste, san Pietro dice una cosa straordinaria, e noi conosciamo così poco le scritture e la potenza della scrittura, che è potenza creativa; Pietro dice che grazie al dono dello Spirito i vostri giovani avranno visioni e i vostri vecchi sogneranno, che è un proverbio ebraico che vuol dire: i vostri giovani vedranno chiaro, saranno sapienti, e i vostri vecchi faranno progetti.
Pietro dice che lo Spirito ha creato un popolo nuovo dove giovani e vecchi sono sapienti e fanno progetti, che è esattamente il contrario delle nostre mentalità, delle nostre categorie. Se la chiesa non è questa progettualità straordinaria, questa sapienza profetica, non so che farmene, diventa semplicemente una organizzazione sociale, ma non è la profezia di Dio nella storia, e la chiesa siamo noi tutti ed anche il papa e i vescovi, ed è a questa chiesa che la parola di Dio chiede di essere sapiente e progettare.
I nostri giovani sonno totalmente disorientati perché non vedono progetti per il loro futuro; gli anziani non sono progetto di vita, la famiglia stessa non è progetto di vita per i nostri ragazzi.
Domanda: sul silenzio di DioRisposta: C’è un testo evangelico molto importante e Quinzio ha sviluppato molto questa realtà del silenzio e della debolezza di Dio. Noi abbiamo l’idea di un Dio pagano che deve risolvere i problemi, ma Dio non risolve i problemi nostri, ci dà lo Spirito perché noi li sappiamo affrontare. Dice il vangelo che Gesù a Nazareth si stupiva di non poter operare a causa della loro incredulità, cioè Dio può operare se noi glielo permettiamo. È la pazzia la follia di Dio, ma Dio è amore e quindi è follia pura, non dimentichiamoci questo, noi siamo diventati molto pagani, pretendiamo che Dio risolva i problemi. Il nostro Dio, cioè il Dio rivelato da Gesù di Nazareth è un Dio che si fida totalmente di noi come soltanto l’innamoramento può fidarsi dell’altro.
Quando noi ci innamoriamo viviamo una esperienza straordinaria perché anche se la persona amata ci prende a pesci in faccia, noi troviamo sempre la motivazione per cui l’ha fatto; Dio arriva a farsi mettere in croce per noi così come siamo, cioè l’amore di Dio è un amore tale da morire per quelli che lo ammazzano, la debolezza di Dio arriva fino a questo punto perché è amore e l’amore è l’arrendersi totalmente di fronte agli altri, non dominare gli altri. Noi abbiamo bisogno di riscoprire l’identità che è Gesù di Nazareth, perché chi vede me vede il Padre, e Gesù è fatto carne e non c’è più Dio senza carne e non c’è più carne senza Dio: questo è lo scandalo teologico della nostra fede che non è una religione, è la fede in uno scandalo teologico.
Ed è uno scandalo che nessuna religione può accettare, e anche la nostra fa fatica e indora la pillola, cioè un Dio debole fino sulla croce, che condivide totalmente la disperazione umana fino allo sheol, cioè fino all’assenza di Dio, perché lo sheol ebraico è la totale assenza della vita, e lui arriva fino li, perché quello è l’ultimo punto dell’incarnazione per poterci tirare fuori.
Questo Dio che si stupisce di non poter agire se noi non lo ascoltiamo, anche se non ascoltiamo il suo silenzio perché spesso non sappiamo fare silenzio, siamo troppo preoccupati, circondati dal chiasso, non sappiamo più far silenzio, ecco io credo che soltanto una comunità di credenti può permettere a Dio di essere ancora visibile, percepibile, perché la nostra fede è una fede non intellettuale, ma esistenziale. L’apostolo Giovanni nella prima lettera dice: noi vi annunciamo ciò che i nostri occhi hanno visto, i nostri orecchi hanno udito e le nostre mani hanno toccato, e io questo vedere, ascoltare, palpare Cristo lo posso fare solo se so vedere, ascoltare e palpare i miei fratelli e le mie sorelle, perché si è fatto carne e la carne è diventata il sacramento di Dio.
Dobbiamo uscire da visioni idealistiche di Dio, dobbiamo ritrovare questa incarnazione di Dio che non è solo il pupo di Nazareth o di Betlemme, ma è la nostra carne diventata luogo della su presenza; se accogliete la mia parola, io e il Padre mio stabiliremo in voi la nostra dimora: noi siamo il paradiso di Dio e il mio godimento è stare con i figli degli uomini, già lo dice nel libro della sapienza. Dobbiamo capovolgere le nostre visioni neo pagane perché dobbiamo rientrare in noi stessi se vogliamo ritrovare la parola di Dio che ci sa creare, dobbiamo tornare ad essere capaci di ascoltarci profondamente, di aiutarci e farci aiutare ad ascoltarci.
Allora il cristianesimo torna ad essere il sacramento di Dio nella carne, e la carne è fatta di tante situazioni, di passi avanti e passi indietro, è fatta di tante contraddizioni, e il Dio che si è fatto carne è il Dio che rischia continuamente le nostre contraddizioni, rischia di esser portato avanti e di essere portato indietro, di essere reso visibile e invisibile, perché questo è la logica dell’amore: rischiare tutto insieme con l’altro.
Dobbiamo riscoprire il Dio che si rende visibile nell’avventura di Gesù, chi vede me vede il Padre! Non è possibile arrivare a Dio se non attraverso Gesù Cristo, lui, dice Paolo, è l’icona visibile dell’invisibile Dio. La nostra fede è qui nel nostro Dio inchiodato sulla croce e che arriva all’assenza stessa di Dio nello sheol. Allora io ho bisogno del fratello e della sorella per avere la verifica e la garanzia sacramentale della presenza di Dio, quando 2 o più si incontrano, io sto con loro, e non quando uno se ne sta per i fatti suoi; se mi richiudo in me stesso non sono sacramento di Dio.
Il senso della nostra vita è qui, e i giovani ci domandano che senso ha la vita! E allora vanno a provare emozioni forti magari viaggiando in senso contrario in autostrada, ma se vedessero accadere ciò che è il cristianesimo non ci sarebbe bisogno di spingerli in chiesa. I pastori nella notte di Betlem dicono, andiamo a vedere questa parola che è accaduta; la parola di Dio si deve vedere perché deve accadere, e il nostro compito è quello di renderla visibile facendola accadere e quindi far vedere la parola di Dio che sa operare comunione, ascolto, anche di chi ci rifiuta, di chi non crede in Dio. L’importante è essere disponibili a tutti perché dice Gesù, Dio non fa distinzione di persona, mentre noi abbiamo costruito la distinzione delle categorie e non guardiamo la persona, ma l’appartenenza alla categoria e questo non ci rende profeti, non ci rende coloro che fanno accadere la Parola.
Il nostro sacerdozio battesimale è tutto qui: celebrare la nostra vita facendo accadere la parola di Dio, il battesimo ci ha fatto sacerdoti dice il concilio vaticano II, la celebrazione del battesimo è la consacrazione sacerdotale del popolo di Dio, quel sacerdozio che è il sacerdozio di Cristo che viene poi celebrato nei vari ministeri, la famiglia, il presbiterato, l’episcopato, il monachesimo, sono i vari modi con cui ciascuno di noi esercita quel ministero.
Allora la nostra vita diventa davvero celebrazione, e la celebrazione è sempre comunitaria, è la celebrazione della nostra quotidianità insieme con gli altri che culmina nella eucarestia. Occorre farlo accadere, e questo verbo in Luca è costante, e accadde, e accadde... e nel racconto di Betlem si ripete questo verbo per ben 4 volte.
Domanda: questo accadere può essere l’esempio?Risposta: biblicamente c’è differenza. L’esempio è qualcosa che sta li, io lo guardo e lo imito; l’accadimento invece è il viverlo direttamente. Anche nelle traduzioni bibliche per es. abbiamo creato un modo abbastanza distorto del nostro rapporto con Dio. Pensate al famoso libro che aveva addirittura sostituito la bibbia: l’imitazione di Cristo, ma quando io vado a vedere il testo della bibbia in greco, e in ebraico nel libro del levitico, è molto chiaro, e dice: siate santi in quanto io sono santo, e non come io sono santo perché nessuno può essere santo come lui. E Gesù spesso dice fate questo non come io l’ho fatto, ma fate questo in quanto io lo faccio, cioè Gesù non è una realtà esterna da copiare, ma una condizione di vita.
L’esempio quindi è una condizione esterna che io devo imitare, mentre la condizione di vita è una dimensione esistenziale.
Domanda: e la testimonianza?Risposta: la testimonianza è molto simile all’accadimento che non l’esempio. La testimonianza è l’aderire alla parola e quindi farla accadere.
Domanda: e la preghiera?Risposta: la preghiera non è il ripetere il Pater ave e gloria, ma è l’essere se stessi di fronte a Dio, e di fronte a Dio non si può barare. Con i Pater ave e gloria posso barare molto, ma mettermi di fronte a lui come sono realmente, accettandomi, allora si costruisce davvero.
Domanda: il regno di DioRisposta: nella scrittura non si parla di aldilà, ma si parla di regno di Dio, e Gesù dice che il regno di Dio è tra di voi, anzi è dentro di voi, se mi rendete giustizia, e nella scrittura il termine usato come giustizia, in ebraico, significa fedeltà. Dio è giusto perché è fedele al suo popolo e l’uomo è giusto perché fedele a Dio e alla propria comunità, chiesa o popolo. Quindi il regno di Dio è propriamente la costruzione della giustizia, della pace.

20 febbraio 2012 Bruno e Sesto TORCOLACCI




Bruno e Sesto Torcolacci sono due fratelli che non rinnegano la loro origine contadina e si prestano, quando si presenta l’occasione, a farne rivivere la tradizione attraverso canti e aneddoti. Le loro performance nascono prevalentemente dalla improvvisazione, ma anche dalla memoria e dalla tradizione orale.


Questa volta è l’UNILIT ad offrire l’occasione ai fratelli Torcolacci e dopo i convenevoli iniziali…

IL PRIORE

…il prof. Valentino Ambrosini si impegna per stuzzicare la memoria dei due simpatici amici, ma…

EN M'ARCORD


…il rassegnato “en m’arcord” lascia presagire un percorso tutto in salita per il successo dell’iniziativa. Invece l’intervento risolutivo della chitarra di Dario Toccaceli serve a rompere il ghiaccio con canti….

IL MOLINARO


….e barzellette….

BARZELLETTA DEL PROFESSORE

... e ancora canti e barzellette...

PAGA BASSA E MOGLIE SVEGLIA

BARZELLETTA DELLE DUE SPOSE

CHI BEV EL VIN E CHI L'ACQUA DEL FOSSO
…e tutto si conclude con un lungo applauso ed un allegro brindisi carnevalesco...

FINALE CON DARIO TOCCACELI