21 novembre 2011 Bonita CLERI e Marco DROGHINI

CAGLI E CANTIANO. EDIFICI E OPERE D'ARTE MOBILI DOPO IL DECRETO VALERIO









Il fenomeno dell’arte confiscata è stato illustrato nel corso di un precedente incontro per cui in questa occasione si illustrerà il concetto del bene culturale come fenomeno unitario e di identità nazionale.
Ogni regione infatti ha voluto portare in dote al nuovo stato le personalità più illustri e le produzioni artistiche che le caratterizzavano attraverso le Mostre d’arte regionali e la grande esposizione allestita a Roma nel 1911 in occasione della celebrazione del cinquantenario dell’Unità d’Italia.
Verrà illustrata inoltre la costituzione dei musei civici sorti in occasione della confisca dei dipinti.




Bonita Cleri





Riassunto confische Cagli


A Cagli la soppressione degli enti ecclesiastici interessò in particolare i seguenti edifici sacri: convento e chiesa (S. Domenico) dei Domenicani, convento e chiesa (S. Nicolò) delle Domenicane, convento e chiesa (S. Pietro) delle Benedettine, convento e chiesa (S. Chiara) delle Clarisse, convento e chiesa (S. Francesco) dei Minori Conventuali, convento e chiesa (S. Geronzio) dei Cappuccini, convento e chiesa (S. Andrea) degli Zoccolanti.
Le vicende relative sono ben ricostruibili grazie soprattutto alle numerosissime delibere comunali di consiglio e di giunta dedicate all’argomento, cui devono aggiungersi, tra le altre cose, documenti reperiti presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Proprio da quest’ultima documentazione romana evinciamo che, all’epoca dei fatti, l’opera d’arte cagliese che ha suscitato maggiore interesse è stata la celebre Sacra Conversazione di Raffaellino del Colle ancora oggi conservata in S. Francesco e sulla quale, presso l’archivio dell’istituto urbinate di Belle Arti, esiste un ampio carteggio (anni 1868-70) relativo al mancato trasferimento della stessa tela presso l’allora costituenda Galleria dell’Istituto di Belle Arti di Urbino (nucleo fondante della Galleria Nazionale delle Marche).
Attraverso i documenti si chiarisce anche la spinosa questione della biblioteca dei Cappuccini di Cantiano che, nel 1872, fu devoluta al comune di Cagli.

Marco Droghini



Bonita Cleri è ricercatore e docente di Storia dell’arte moderna e Storia dell’arte marchigiana all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. I suoi studi hanno indagato situazioni figurative di epoca rinascimentale e manierista.
Tra le monografie annovera quella su Sebastiano Ceccarini, Il Maestro di Staffolo, Antonio da Fabriano, Francesco Mancini, etc.
Ha curato diverse mostre e convegni su artisti quali Fra’ Carnevale, Timoteo Viti, Federico Zuccari, etc. e su particolari situazioni culturali (Homo viator nella fede, nella storia nell’arte; Adriatico, un mare di arte, di storia, di cultura); si è interessata della tracciabilità del patrimonio marchigiano curando recentemente i volumi L’arte conquistata (spoliazioni napoleoniche) e L’arte confiscata (leggi ‘eversive’ del neonato stato italiano).
Fa parte della redazione della rivista dell’Istituto di Storia dell’arte dell’Università “Carlo Bo” di Urbino «Notizie da Palazzo Albani», del comitato scientifico della Società di Studi Storici Pesaresi; è Presidente del Centro Studi «G. Mazzini» dirigendone le collane editoriali «La valle dorata» e «La via lattea»; fa parte del corpo docente del Dottorato in Studi Interculturali Europei alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino.



Marco Droghini nasce a Roma nel 1974. Nel 1999, con una tesi monografica sul pittore Raffaellino del Colle, si laurea in Storia dell’Arte Moderna nell’ambito della cattedra del prof. Maurizio Calvesi dell’Università di Roma “La Sapienza”. Presso lo stesso ateneo consegue il diploma di specializzazione in Storia dell’Arte nel 2003. Suoi principali interessi riguardano l’arte, in particolare la pittura, prodotta nel territorio tosco-umbro-marchigiano nel XVI secolo. A tal riguardo si segnalano numerose pubblicazioni scientifiche





17 novembre 2011 Gilberto CALCAGNINI

Il teatro d’opera e il Risorgimento italiano


Scrive Francesco Cento, nel suo libro Il patriottismo in musica da Rossini a Verdi, che «l’opera lirica fu, nell’età del Risorgimento, la “Biblia pauperum” del popolo analfabeta e semialfabeta.
«Il canto patriottico serví, nell’800, alla causa nazionale quasi quanto le immagini devote avevano servito alla cristianizzazione nel Medio Evo».
Il primo esempio di canto patriottico che mi è venuto in mente, cosí di primo acchito nel leggere queste parole, è il coro, trascinante nel suo effetto, «Si ridesti il leon di Castiglia» nella scena della congiura di Ernani della quale vi mostro ora una registrazione.
Come abbiamo sentito e visto, le parole del librettista Francesco Maria Piave e, soprattutto la musica di Verdi, hanno toccato le corde, sensibili alle prime istanze risorgimentali, degli spettatori che la sera del 9 marzo 1844 affollavano la sala e le gallerie della Fenice di Venezia.
Qualcuno potrebbe domandarsi come abbia fatto Verdi a toccare la corda nazionale con un soggetto romantico, di ambientazione spagnola, come quello del dramma di Victor Hugo dal quale Francesco Maria Piave aveva tratto il libretto.
Niente di piú facile: bastava leggere, mentalmente, i primi versi «Si ridesti il leon di Castiglia / e d’Iberia ogni monte, ogni lito / eco formi al tremendo ruggito …», come «Si ridesti il leon di San Marco / e d’Italia ogni monte, ogni lito / ecc.», per conferire loro un’allusione patriottica cosí precisa e determinata da assumere addirittura l’aspetto di una istigazione all’insurrezione.
Istigazione alla quale erano particolarmente sensibili i veneziani, memori del tradimento perpetrato da Napoleone Bonaparte con il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) quando aveva consegnato agli austriaci le spoglie della millenaria Repubblica della Serenissima, cosicché, qualche anno dopo il debutto di Ernani, e precisamente il 17 marzo 1848, sull’onda dei moti costituzionali dilaganti ormai in tutta Europa, Venezia, prima fra le città d’Italia, insorgeva cacciando gli oppressori austriaci e proclamando, sotto la guida di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, la Repubblica Veneta.
Si è trattato, com’è noto, di un effimero ritorno all’indipendenza, che la città lagunare avrebbe vissuto intensamente, fornendo innumerevoli prove di eroismo, nel 1849 durante l’assedio cui fu sottoposta per oltre cento giorni dalle truppe del maresciallo Radetzky, finché, come recitano le celebri strofe del poeta Arnaldo Fusinato, «Venezia! l'ultima ora è venuta; / illustre martire, tu sei perduta... / Il morbo infuria, il pan ti manca, / sul ponte sventola bandiera bianca!», il 22 agosto 1849, Daniele Manin e il suo governo firmavano la resa.
Quello di Ernani, è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come le idee risorgimentali, mentre ebbero la stampa quale principale mezzo di comunicazione fra gli intellettuali, trovarono nell’opera lirica, forma d’arte popolare, lo strumento capace di diffondere, grazie alle parole del libretto non meno che in forza delle note musicali, il verbo patriottico, caricando di significati le parole libertà, patria, unità d’Italia, Dio, onore, gloria, che ebbero decisiva importanza nel vocabolario dei poeti, da una parte, e nel sillabo dei censori, dall’altra.
Perché, una cosa è una persona che legge un libro nel silenzio della propria stanza, ben altra è una massa numerosa di spettatori pronti ad infiammarsi allo scoccare della benché minima scintilla.
Qualche scintilla, ad esempio, pare l’abbia fatta scoccare anche un opera buffa come L’italiana in Algeri di Rossini, quando, dopo il delirante successo della prima rappresentazione al teatro San Benedetto di Venezia il 22 maggio 1813 (35 repliche), incominciò a girare per la penisola italiana divenendo oggetto di cambiamenti derivanti, non solo dalle consuete convenienze dei cantanti, ma anche, e soprattutto, dai pruriti suscitati, nei funzionari attenti e sospettosi della censura, dall’aria con coro «Pensa alla Patria, e intrepido il tuo dover adempi… ».
Un altro esempio lo offre la biografia di Gaetano Donizetti, dove leggiamo che il 3 febbraio 1831 a Modena, la polizia, che aveva scoperto una congiura in casa di Ciro Menotti, faceva sospendere le rappresentazioni della sua opera Esiliati in Siberia, perché una marcia della stessa era diventata l’inno dei rivoltosi.
Il teatro d’opera fu dunque il luogo dove, pur nella variopinta stratificazione sociale (platea, palchetti, loggione), le idee risorgimentali trovarono terreno fertile per svilupparsi, anche in considerazione del fatto che nell’Ottocento il melodramma in Italia rappresentò incontestabilmente il genere musicale più apprezzato e seguito e quindi, per la maggior parte della popolazione, l'interesse per la musica s'identificò quasi completamente nell'apprezzamento dell'opera.
In effetti, l'amore per il teatro d'opera del primo Ottocento è riconducibile a due fattori.
Il primo di ordine sociologico: i teatri rappresentavano gli unici luoghi d'incontro non solo per l'aristocrazia ma anche per i ceti borghesi e, in minor parte, popolari.
Il secondo di natura culturale: le opere di quegli anni furono in grado di rispecchiare le correnti di pensiero, i gusti e soprattutto gli ideali politici della società italiana del periodo del Risorgimento, che ufficialmente va dai primi moti rivoluzionari del 1820-21 alla proclamazione del Regno d’Italia del 1861, anche se, per la precisione storica, unita ad un sano orgoglio regionalistico, ci tengo a ricordare che il primo moto carbonaro, peraltro soffocato sul nascere dalla polizia papalina, fu tentato a Macerata nella notte fra il 24 e 25 giungo 1817.
In ogni modo, fu proprio durante il Risorgimento, quando il popolo italiano lottò duramente per cacciare gli invasori stranieri dal proprio territorio e riorganizzarsi, all'interno dei propri confini, in un unico stato indipendente, che l'opera lirica, date le sue potenti influenze sulla società dell'epoca, giocò un ruolo determinante nel promulgare questi ideali.
Ha scritto in proposito Massimo Mila, che, contrariamente a quanto accadeva presso altri popoli, come in Polonia, Boemia e Ungheria, che anch’essi sorgevano o risorgevano allora a unità e indipendenza di nazione, dove musicisti come Smetana, Dvořák, e lo stesso Chopin, stavano in rapporto di filiale devozione verso la loro patria dalla quale raccoglievano nutrimento di canti, ritmi e accenti armonici particolari, in Italia stava avvenendo miracolosamente l’opposto.
«Da noi - precisa Massimo Mila - il rapporto di filiazione va dall’artista alla nazione e riguarda assai piú lo spirito che i sensi.
«Il procedimento storico - attraverso il quale Rossini, Manzoni (vedi Adelchi «Dagli atri muscosi, dai fori cadenti …»), Verdi, e prima di loro e con loro Parini, Alfieri, Goldoni, Foscolo, Leopardi - fanno l’italiano moderno, non partecipa della cieca e preoccupante necessità delle forze naturali, ma è libera e luminosa scelta dell’intelletto».
Si trattò di un procedimento graduale poiché, già sino dai primi anni dell’Ottocento, i nuovi ideali politici ispirati a quelli liberali derivanti dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, e quelli fortemente patriottici dovuti alle correnti di pensiero romantiche, avevano fatto in modo che la musica in genere, e il teatro d’opera in particolare, da lezioso, galante, scettico e edonistico qual’era nel Settecento, diventasse appassionato, generoso, entusiastico e vibrante, e cominciasse a dare il suo contributo alla nascita dell’Italia.
So bene che un grande ostacolo alla comunicazione tra intellettuali e popolo, fu la non coincidenza di codice tra coloro che porgevano il messaggio e quelli che lo ricevevano, poiché, mentre da un lato gli insorti e i volontari delle varie correnti risorgimentali reclamavano entusiasti «Libertà! Indipendenza!», i contadini, come quelli descritti da Ippolito Nievo nelle Confessioni d'un italiano, ribattevano, cocciuti e sordi: «Polenta! Polenta!».So pure che i cultori delle statistiche si sono affrettati a spiegarci che il Risorgimento fu in realtà un movimento di minoranze, in pratica un’eroica sopraffazione di pochi scalmanati che trascinarono e sospinsero una massa inerte!
Ma, ricordo di aver letto, non so piú in quale libro o rivista, un articolo in cui questi pochi scalmanati erano paragonati a quei numeretti che, come insegna l’algebra, posti all’apice destro di un altro numero, ne sollevano il valore a grande potenza!
E questi esponenti furono quei giovani mazziniani e carbonari precocemente barbuti, che cospirarono, combatterono, languirono nelle segrete dei Piombi di Venezia, di Castel Sant’Angelo e dello Spielberg, o marciarono incontro alla morte cantando cori d’opera.
Significativa, a proposito, l’epopea dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera che, dopo il tragico fallimento della loro spedizione in soccorso di una presunta insurrezione mazziniana in Calabria, il 25 luglio 1844 affrontarono, insieme con altri nove amici, il plotone di esecuzione borbonico nel Vallone di Rovito (presso Cosenza) intonando la seconda strofa del coro «Aspra del militar» dall’opera di Saverio Mercadante Donna Caritea, regina di Spagna, libretto di Paolo Pola, rappresentata per la prima volta alla Fenice di Venezia il 21 febbraio 1826, in cui avevano modificato il primo verso «Chi per la gloria muor / vissuto è assai... » in « Chi per la patria muor / vissuto è assai... ».Non fu questo del martirio dei fratelli Bandiera un incontro casuale della storia patria con la storia della musica, bensí, com’è stato scritto, «un simbolo patetico e significativo della fecondazione attivissima che la musica recò all’uomo nuovo, all’italiano del Risorgimento».
Musica che, come abbiamo già visto, si identificava sostanzialmente con l’opera lirica, al punto da far scrivere a qualcuno che il melodramma è stato la culla sonora nella quale il nostro processo di unificazione nazionale è giunto a compimento.
Non fu un caso, del resto, che il massimo creatore di atmosfere tra i registi italiani, Luchino Visconti, per immergere subito lo spettatore nel clima risorgimentale – in particolare, quello della terza guerra d’indipendenza del 1866 – del suo film Senso, ne ambientasse la prima scena alla Fenice di Venezia nel momento in cui il Trovatore (Manrico) canta «Di quella pira» e, con l'ultimo acuto del fatidico «All'armi!», da il là, anche se in questo caso si tratta di un do di petto, ad una preordinata manifestazione a base di grida «Fuori lo straniero da Venezia!» accompagnate da una pioggia di sediziosi manifestini tricolori che calano dal loggione sulla platea gremita di ufficiali austriaci assai poco entusiasti dell'inatteso coup de théâtre.
Ma era, soprattutto, nelle parti corali che si realizzava il perfetto punto di saldatura tra i sentimenti del singolo e quelli collettivi della nazione, e l’opera lirica diventava, come auspicato nel 1836 da Giuseppe Mazzini nella sua Filosofia della musica, il veicolo ideale per un messaggio politico-patriottico.
La censura austriaca, come abbiamo già visto, avvertì prontamente il pericolo e tentò di reagire bersagliando compositori e librettisti con i veti più bizzarri.
La sfida però era persa in partenza perché, indipendentemente dalla collocazione storica o geografica dell'azione scenica, il minimo richiamo a categorie frequentissime nel melodramma quali la guerra, l'eroismo in battaglia, il canto di uomini in armi, era sufficiente a esaltare un pubblico la cui temperatura patriottica era già elevatissima.
Pur ambientati tra i clan degli highlander scozzesi all’epoca di Giacomo V (XVI secolo), o nell’Inghilterra delle sanguinose lotte fra i seguaci di Cromwell e gli Stuart (XVII secolo), o tra le tribù dell’antica Gallia o tra gli ebrei schiavi dei babilonesi, cori come «Già un raggio forier» della Donna del lago di Rossini, «Guerra, guerra!» di Norma o «Suoni la tromba e intrepido» dei Puritani di Bellini, per non tacere «Va, pensiero» del Nabucco di Verdi, finivano cosí immediatamente ed immancabilmente per mutarsi nel canto della riscossa nazionale italiana.
A riprova della fondatezza delle mie affermazioni, penso valga la pena di ascoltare uno di questi cori, «Già un raggio forier» che chiude il primo atto della Donna del lago, una delle pagine piú dense, non solo del Rossini del periodo napoletano, ma di tutta la storia dell’opera in generale.
Prima di passare alla sua visione, ricordo che questa pagina ha un aggancio storico con una delle figure piú discusse e controverse del Risorgimento, Papa Pio IX, perché lo stesso Rossini, nel 1846 in occasione dell’elezione al soglio pontificio del Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, ne ha curato una rielaborazione per l’inno Grido di Esultazione Riconoscente al Sommo Pontefice Pio IX («Su fratelli, letizia si canti»).È, questo brano, una di quelle eccezioni balenanti, di quei lampi d’intuizione precorritrice che illuminano il mondo drammatico ed espressivo di Rossini che abbraccia, sia pure sotto una maschera di sorridente saggezza, tutte le possibilità dell’animo umano, ogni aspetto della vita individuale e sociale del suo tempo.
Ma i tempi imponevano un passo avanti verso l’estensione della drammaturgia del teatro d’opera italiano nell’approfondimento di nuovi aspetti; passo questo, che storicamente significava entrare nell’età romantica, «di cui Rossini capí benissimo la necessità, e si cavò il gusto di far vedere, col Guglielmo Tell, che, volendo, l’avrebbe saputo fare».
«Voglio amore, e amor violento – scriveva Donizetti a un suo librettista – ché senza questo i soggetti sono freddi!».Ed in questa dichiarazione, si potrebbe condensare la poetica di quei cantori di anime innamorate che rispondono ai nomi di Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti, i cui capolavori, pur ricuperando ai personaggi melodrammatici la vibrazione umana che si era estinta nei manichini convenzionali della tragedia musicale classica o mitologica del Settecento, danno però la sensazione che il romanticismo dovesse da noi manifestarsi soltanto in un approfondimento quasi maniaco della passione amorosa limitandosi solo all’espressione degli affetti individuali senza immedesimarsi in quello che Mazzini ha definito «il moto progressivo dell’universo».
E quando leggiamo che Mazzini, continuando a sviluppare questa sua esigenza di completezza dell’individualità umana dei personaggi, giungeva a chiedersi come mai nel dramma musicale italiano dell’Ottocento non fosse concesso al coro un piú ampio sviluppo per innalzarlo, dalla sfera secondaria e passiva finora concessagli, ad una rappresentazione solenne e intera dell’elemento popolare, ecco allora il pensiero correre inevitabilmente ai cori del Nabucco e dei Lombardi alla Prima crociata e al nome di Giuseppe Verdi al cui genio, scrive Massimo Mila: «toccò ricondurre l’opera italiana all’universalità di sentimenti che c’era già stata, ma su ben altro piano di autentico impegno umano e morale, in Rossini».Verdi infatti seppe musicare, con la stessa partecipazione appassionata con cui Bellini e Donizetti cantavano le pene d’amore di Norma e di Lucia, sentimenti d’altra e piú virile natura, come l’ansia di libertà di un popolo oppresso, la nostalgia di una patria perduta, e, nel periodo piú maturo della sua arte, anche fatti apparentemente prosaici come la ragion di Stato, l’interesse, i puntigli di casta, i contrasti del trono e dell’altare, sia nella monarchia spagnola di Filippo II, sia alla corte dei faraoni egiziani.
È noto ad ogni attento frequentatore del teatro d’opera, l’aneddoto relativo alla genesi del Nabucco, la terza opera di Verdi dopo l’incoraggiante successo di Oberto, conte di San Bonifacio (Teatro alla Scala, 17 novembre 1839) e il doloroso, terribile fiasco di Un giorno di regno andato in scena, sempre alla Scala il 5 settembre 1840, fiasco che sembrava aver sepolto ogni sua speranza di affermarsi come compositore d’opere e ridurlo a vivere un’assurda bohème, senza fantasia, senza bagliori, senza genio e sregolatezza, ma con una gran miseria.
In questo stato d’animo, una sera del mese di novembre 1841, durante una delle sue solite passeggiate per le vie di Milano, Verdi s’imbatteva nell’impresario della Scala Bartolomeo Merelli che, fra una chiacchierata e una battuta, gli chiedeva di leggere un libretto d’opera di Temistocle Solera, intitolato Il proscritto, e nonostante il suo rifiuto, prima di lasciarlo andare, glielo infilava in una tasca del pastrano.
Tornato nella stanzetta dove viveva da solo, essendogli nel frattempo morti la moglie Margherita Barezzi e i due figlioletti nati da quel matrimonio, Verdi sfogliava distrattamente il libretto e il caso volle – come racconta lo stesso musicista – che i suoi occhi si soffermassero a leggere il verso «Va, pensiero, sull’ali dorate».Incuriosito, scorreva gli altri versi e, per farla breve, la sua sensibilità d’artista e il fiuto da uomo di teatro, gli facevano presentire che questa storia, che ha per protagonista un popolo che geme sotto il tallone della schiavitú e vuole riscattarsi, questo rimpianto-lamento per la «patria sí bella e perduta», avrebbe trovato nel pubblico un’immediata rispondenza.
E punta gran parte dell’opera proprio su questa linea e recupera, rispetto al precedente Oberto, conte di San Bonifacio, una cultura di maggior respiro e sfrutta con abilità il «fare grandioso» che guarda indietro al modello rossiniano delle grandi opere corali: Mosè.
Penso, infatti, di poter affermare, senza tema di smentita, che quando si ascolta la preghiera «Dal tuo stellato soglio» dal capolavoro rossiniano, si prova lo stesso brivido che suscita in noi il rimpianto-lamento degli ebrei deportati e schiavi, nel coro «Va, pensiero, sull’ali dorate», «una grande aria ridotta a piú voci insieme - come fa notare il musicologo Antonio Basevi - in cui la coscienza popolare si eleva a unità melodica, senza impennate rivoluzionarie, ma chiamando a testimone una commozione, cosí netta e virile, che diventa inno e farà voltare indietro gli italiani, al loro passato, ogni volta che lo canteranno».
A conferma di ciò, proprio mentre scrivevo queste righe, mi è capitato di leggere un libro di Chiara Bertoglio, intitolato “sì bella e perduta”, nel quale, al di là dell’aspetto storico-politico, musicologico e sociologico, mi ha colpito la ricchezza e la purezza delle numerosissime testimonianze della struggente nostalgia che, dopo piú di sessant’anni, gli esuli istriani, fiumani e dalmati provano, e che riescono ad esprimere attraverso la condivisione di un canto - «Va pensiero» - che fa vibrare le corde piú intime del loro cuore.
Ascoltiamo quindi «Va, pensiero, sull’ali dorate» in una esecuzione diretta da Riccardo Muti nel 2011 al Teatro dell’Opera di Roma.

«Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco / per que' pochi scherzucci di dozzina, / e mi gabella per anti-tedesco / perché metto le birbe alla berlina, / o senta il caso avvenuto di fresco / a me che girellando una mattina / càpito in Sant'Ambrogio di Milano, / in quello vecchio, là, fuori di mano».Sono questi i primi versi della poesia Sant’Ambrogio del toscano Giuseppe Giusti, poeta e patriota vissuto tra il 1809 e il 1850, che ci ricorda un’altra pagina di chiarissima ispirazione risorgimentale, una di quelle liriche munizioni che il Cigno di Busseto offrí alla causa dei patrioti italiani; cioè il coro «O Signore, dal tetto natio» da I Lombardi alla Prima Crociata che, come si legge in un altro punto della poesia del Giusti, «tanti petti ha scossi e inebriati».
Nonostante il prevedibile successo conseguito la sera della prima, 11 febbraio 1843, con particolare rilievo al delirio del pubblico per il coro «O Signore, dal tetto natio», l’opera I Lombardi alla prima crociata, tratta dall’omonimo poema storico di Tommaso Grossi, non è un vero capolavoro.
Sa di maniera, di lavoro di routine, teso a sfruttare il successo del Nabucco di cui ricalca l’impianto: cioè, qualcosa di molto corale, con al momento giusto un pezzo che rinnovi il successo di «Va, pensiero», con il contrappunto di un intreccio di vicende personali e di situazioni ambientali tese a sfruttare il filone patriottico dell’indipendenza nazionale.
Tutto questo, non mi impedisce però di farvi gustare «O Signore, dal tetto natio», dal Concerto di Capodanno 2011 al Teatro La Fenice di Venezia, direttore Daniel Harding.
Durante la vita di Verdi, che abbraccia quasi un secolo (1813-1901), l’Italia si trasformò, da paese sotto il dominio straniero, in uno stato unificato indipendente, desideroso di far parte delle grandi potenze europee.
Verdi si sentì sempre partecipe di questo processo e mai si rinchiuse in un’arte d’élite, distante dai problemi della realtà della sua epoca.
Al compositore sorgeva la necessità di intraprendere un dialogo con il presente e con l’attualità storica.
Scrissero di lui: «Diede una voce alla speranza e ai lutti. Pianse e amò per tutti».La sua arte si può considerare popolare, nel significato più alto del termine, nella misura in cui parla al fruitore in un linguaggio che egli può comprendere immediatamente.
Un linguaggio che, spesso, si presenta sotto forma di dramma, in perfetta sintonia con i grandi ideali del momento.
Il Risorgimento, con le sue lotte per l’unificazione d’Italia, non poteva lasciare indifferente il compositore; esso va, infatti, considerato come l’humus dove immergono le loro radici Nabucco, I Lombardi, Attila, Macbeth, ovvero di quelle pagine dove Verdi esprime il suo sincero amore patriottico e il suo dolore per un popolo oppresso e soggiogato.
Né si può d’altro canto dimenticare che, dopo il successo del Nabucco, Verdi fu accolto nei più importanti circoli intellettuali lombardi del momento, che mai nascosero i loro sentimenti antiaustriaci.
Questo non vuol dire che Verdi abbia partecipato attivamente alla vita politica, anche se aveva idee fortemente repubblicane che gli erano state instillate, fin da ragazzo, dal suo maestro di musica di Busseto, il libertario Ferdinando Provesi.
L’unico momento in cui Verdi manifestava senza indugi i suoi ideali patriottici è nel 1848, quando la libertà dell’Italia sembrava essere molto vicina.
Indicative le parole che scriveva al suo amico Piave il 21 aprile 1848: «L’ora della liberazione è arrivata, capacitatene. È il popolo che la desidera; e quando il popolo la vuole, non vi è nessun potere assoluto che può opporre resistenza! Potranno impedire con tutto quello che possono, coloro che credono che sia necessaria la forza, però non riusciranno più a privare il popolo dei propri diritti. Sì, in pochi anni, forse mesi, l’Italia sarà libera, sarà una Repubblica».In questo clima il compositore accettava l’invito di Mazzini, che aveva conosciuto a Londra nel 1847, a comporre un inno sui versi di Goffredo Mameli, «Suona la tromba: ondeggiano / le insegne gialle e nere. / Fuoco! Per Dio, sui barbari / sulle vendute schiere. / Già ferve la battaglia / al Dio dei forti, osanna! / La baionetta in canna / è giunta l’ora di pugnar!».In seguito scriveva un’opera con un messaggio politico evidente, La battaglia di Legnano, dove la sconfitta e la conseguente cacciata di Federico Barbarossa simboleggia la liberazione dell’Italia dal dominio straniero.
L’opera, su libretto di Salvatore Cammarano, è andata in scena per la prima volta, alla presenza dello stesso Verdi, il 27 gennaio 1849, al Teatro Argentina di Roma.
La storia patria c’insegna che, proprio nello stesso periodo, il triunvirato formato da Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi, a conclusione dei moti che, il 25 novembre del 1848, avevano indotto papa Pio IX a rifugiarsi a Gaeta, si apprestava a issare il vessillo della Repubblica Romana, e a scrivere una tra le pagine più epiche, dopo quella della Repubblica Veneta, del Risorgimento italiano.
Pagina che si concludeva, il 1° luglio 1849, dopo un’impari lotta contro l’assalto delle truppe francesi al comando del generale Oudinot, in cui rifulsero, fra le altre, le figure di Luciano Manara, Giuseppe Garibaldi, Goffredo Mameli, che fu curato da Cristina Trivulzio di Belgioioso e dalle sue infermiere, morendo tra le loro braccia, accompagnato dall’affetto di donne che fecero il Risorgimento, spesso come eroine invisibili.
Stimolata dal clima creato da questo e dai coevi avvenimenti bellici delle Cinque Giornate di Milano e della successiva prima guerra di indipendenza, La battaglia di Legnano, nonostante le attese di Verdi, trovò proprio in questo ideale legame un limite alla sua stabile affermazione sulle scene europee.
Va da sé che la prima rappresentazione dell’opera ebbe, prevedibilmente, un clamoroso successo, un tripudio d'esultanza popolare tra sciarpe, nastri e coccarde tricolori.
Numerose le chiamate per il maestro e gli interpreti, tra le grida di «Viva Verdi! Viva l'Italia!».Addirittura bissati il coro del giuramento del Terzo atto, «Giuriam d’Italia por fine ai danni», e l'intero Quarto atto.
Quando, però, i movimenti rivoluzionari del 1848-49 sfociarono in un bagno di sangue, Verdi si allontanò dalla linea di battaglia e tornò ad essere, prima di tutto, un compositore che continuava a sperare in privato nella libertà nazionale.
Il suo nome rimase comunque vincolato agli ideali del Risorgimento, fino a trasformarsi in un acrostico rivoluzionario che fu dipinto, per la prima volta, sulle mura di Roma all’epoca della prima rappresentazione di Un ballo in maschera al Teatro Apollo (17 febbraio 1859).
L’idea si diffondeva rapidamente per tutto il paese, che era sottoposto ad un clima di controllo politico duro ed asfissiante.
Il graffito “VIVA VERDI”, dall’aspetto così innocuo, alludeva in realtà, ad una aspirazione che con gli anni stava diventando sempre più popolare e condivisa: Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia!



Lo stesso Verdi finí per aderire al progetto del Regno d’Italia quando capí che l’unità del paese si poteva concretizzare, non attraverso l’insurrezione popolare e l’utopia repubblicana di Mazzini, ma esclusivamente mediante il paziente lavoro diplomatico, che si andava realizzando in nome della casa Savoia, data la sua possibilità di ottenere l’appoggio delle cancellerie dei paesi più importanti d’Europa.
Tuttavia, le alchimie politiche erano estranee alla personalità di Verdi, come si deduce dal fatto che, dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, il musicista entrava in Parlamento soltanto per cinque anni, dal 1861 al 1865.
Successivamente, lasciava da parte questa attività con la convinzione di essere più utile al suo paese come artista che come deputato.
Il suo impegno politico, dopo l’unità, si trasformava in un fermo richiamo agli ideali di pace e di fraternità, a un livello superiore, distante da ogni compromesso e dalle strategie machiavelliche dei partiti politici.
Richiamo di cui sostanzierà la propria ispirazione musicale drammatica di opere in cui i vari ostacoli, che le ragioni del trono o dell’altare oppongono agli amori dei personaggi, hanno per lui interesse pari, se non addirittura superiore, a quello che prova per i casi amorosi in sé e per sé.
Ricordo, tanto per fare qualche esempio:
- la sollevazione del popolo palermitano contro gli occupanti francesi, nei Vespri siciliani;
- l’innesto della petrarchesca esortazione alla pace fra gli italiani («Italia mia benché ‘l parlar sia indarno … »), nella straordinaria Scena del Consiglio nel Simon Boccanegra;
- il conflitto fra Stato e Chiesa, in Don Carlos, e la causa dell’indipendenza etiopica, in Aida.
Il personaggio verdiano ci si presenta dunque, sia pure sotto diversi cieli, epoche e costumi, come un uomo diventato sociale, inserito nel tessuto connettivo del consorzio umano.
È l’italiano nuovo, l’italiano del Risorgimento al quale, in quest’anno in cui si celebra la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, rinnoviamo tutta la nostra ammirazione e gratitudine per il prezioso patrimonio di ideali che ci ha lasciato.






Gilberto Calcagnini è nato a Pennabilli (PU) e vive a Pesaro. Laureato in Chimica Industriale, ha insegnato materie tecniche negli istituti tecnici e professionali statali. Per il suo fattivo e concreto interessamento alle manifestazioni culturali pesaresi, è stato chiamato a far parte dei direttivi di importanti associazioni culturali ed enti cittadini attivi nei settori della musica operistica e strumentale pesarese. Negli anni 1980, con la collaborazione di un gruppo di altri appassionati cultori di musica operistica, ha curato, per conto di un’emittente televisiva locale, un ciclo di trasmissioni dedicate alla storia del Teatro Rossini, il cui materiale ha poi utilizzato per la redazione del volume “Il Teatro Rossini di Pesaro fra spettacolo e cronaca: 1898 – 1966” pubblicato nel 1997 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro. Nel 1999 ha curato, per la Fondazione Rossini, l’allestimento di “Manifesti in Musica”, una mostra dedicata alle vicende musicali pesaresi dal 1864 al 1932. Attualmente collabora con varie associazioni culturali del territorio, tenendo conferenze su argomenti di storia della musica lirica e strumentale.

















14 novembre 2011 - Piero BENEDETTI

USO ED ABUSO DEI FARMACI


DESTINO DI UN FARMACO NELL’ORGANISMO

I farmaci sono quasi sempre composti estranei all'organismo. Come tali, a differenza delle sostanze endogene, essi non vengono prodotti ed eliminati in modo continuo. L'assorbimento, la biodisponibilità, la distribuzione e l'eliminazione di un farmaco sono quindi fattori determinanti per l'inizio, la durata e l'intensità della sua azione.
L'assorbimento dei farmaci è determinato dalle loro proprietà fisico-chimiche, dalle loro formulazioni e dalle vie di somministrazione. I prodotti farmaceutici, cioè le effettive preparazioni (p. es., compresse, capsule, soluzioni) costituite dal farmaco e dagli eccipienti, sono formulate per essere somministrate per varie vie, tra le quali l'orale, la buccale, la sub-linguale, la rettale, la parenterale, la topica e l'inalatoria. Un requisito essenziale per l'assorbimento è la dissoluzione del farmaco. I prodotti farmaceutici solidi (p. es., le compresse) si disintegrano e si disgregano, ma l'assorbimento può avvenire solo dopo che i farmaci sono entrati in soluzione.
DEFINIZIONE DI FARMACO
Si chiamano farmaci quelle sostanze o combinazioni di sostanze che mediante somministrazione all’uomo o ad animali mirano ad ottenere vantaggi terapeutici, diagnostici o profilattici.
PROCESSO DI SVILUPPO DI UN FARMACO
MOTIVAZIONI PER LO SVILUPPO
Non sono le istituzioni dello Stato, bensì le iniziative della ricerca farmaceutica effettuata dall’industria che raccolgono e mettono in pratica le motivazioni della società e della scienza.
MOTIVAZIONI DELLA SOCIETA’
Il bisogno può essere definito sotto vari profili:
- sociale
- finanziario
- etico
La concorrenza farmaceutica:
- vantaggi
- svantaggi
USO ED ABUSO DEI FARMACI
L’abuso dei farmaci è oggi di moda per il condizionamento della propaganda martellante che ne magnifica i presunti pregi ed anche per causa di medici che con faciloneria li prescrivono.
I farmaci non sono tutti uguali, alcuni sono realmente utili ed essenziali e vanno presi scrupolosamente. Altri sono scarsamente utili od a volte del tutto inutili per le malattie per cui sono consumati. Ma non sono mai completamente inerti ed hanno sempre degli effetti che in certi casi possono essere negativi e pericolosi.
Il farmaco non è sempre l’unica risposta ad uno stato di malattia.
ALCUNI CONCETTI GENERALI DI TERAPIA
La cura delle malattie con le medicine si può distinguere in 5 categorie:
- eziologica
- patogenetica
- sostitutiva
- sintomatica
- genica
I principali fattori della terapia farmacologica sono:
- società
- paziente
- medico
- industria farmaceutica
Le interazioni positive su di essi sono:
- la prestazione sociale della terapia
- l’azione terapeutica sul paziente
- il mezzo terapeutico a disposizione del medico
- il profitto per l’industria farmaceutica
Le interazioni negative sono:
- la spesa sanitaria sociale
- gli effetti tossici sul paziente
- gli effetti non desiderati dal medico
- i costi per l’industria farmaceutica
L’EVOLUZIONE DELLA FARMACOLOGIA
La rivoluzione farmacologica può essere distinta in 5 fasi:
- scoperta dei sieri e vaccini (fine ‘800)
- scoperta degli antibiotici e chemioterapici (seconda metà del ‘900)
- scoperta degli anticoncezionali, degli anti tumorali e di farmaci vari (periodo attuale)
- scoperta della terapia genica, dei cosiddetti farmaci intelligenti, dei farmaci contro l’impotenza maschile, della terapia con cellule staminali (ultimo periodo e prossimo futuro)
PROCESSO DI SVILUPPO DI UN FARMACO
Si distinguono le seguenti fasi:
A – Sintesi (eventualmente anche brevetto)
B – Esame farmaco-tossicologico su animali sani e su modelli di malattia – analisi più approfondita su differenti specie di animali per farmacodinamica – farmacocinetica (ADME) – tossicità acuta e subacuta – ricerche di lunga durata per accertare se esistono tossicità cronica, teratogenicità, mutagenicità,ed alterazioni della fertilità.
C – Esperimenti sull’uomo. Lo studio ha luogo in 4 fasi:
fase 1 – sperimentazione su volontari sani oppure su un gruppo ristretto di pazienti diretta ad accertare la tollerabilità, l’efficacia e la farmacocinetica;
fase 2 – sperimentazione controllata su un gruppo ristretto di pazienti
fase 3 - sperimentazione su un grande numero di pazienti per fornire l’indispensabile base statistica per la valutazione della efficacia e della sicurezza del farmaco, specialmente per quanto riguarda effetti collaterali;
fase 4 – farmacovigilanza. Farmaci già in commercio subiscono controlli continuati per quel che concerne azione terapeutica, effetti collaterali ed analisi del rapporto costo/effetto terapeutico.
D – Registrazione con un nome di proprietà riservata.
E – Il Ministero della Sanità autorizza la messa in commercio del farmaco.
F – Impiego esteso. Introduzione del nome generico.
IL PROBLEMA DELLA COMPLIANCE ALLA TERAPIA
La compliance può essere definita: “quanto e come la reale assunzione della terapia da parte del paziente coincide con la prescrizione del medico”.
Negli ultimi 20 anni è risultato sempre più evidente che il fattore di maggiore ostacolo ad una buona riuscita dela terapia prescritta dal medico è dato dalla mancanza di compliance da parte dei pazienti.
- Controllo dell’ipertensione arteriosa.
- Controllo dello scompenso cardiaco.
- Controllo della cardiopatia ischemica.
La mancanza di compliance alle terapie è responsabile di oltre il 10% del totale dei ricoveri ospedalieri. Di 300.000 ricoveri e 125.000 decessi annui nei pazienti con malattie cardiovascolari secondo una ricerca americana si calcola che la compliance alle terapie prescritte si aggiri al 40-50% per tutte le fasce di età.
FATTORI CHE CONDIZIONANO LA COMPLIANCE
Fattori relativi alla malattia
- Malattie croniche
- Malattie asintomatiche
Fattori relativi alla terapia
- La complessità dello schema terapeutico
- Gli effetti indesiderati
Altri fattori
- età (vista, udito, facoltà mentali)
- stato sociale (risorse economiche)
- appoggio famigliare
- fattori psicologici
- grado di struzione
STRATEGIE PRATICHE PER I MIGLIORAMENTO DELLA COMPLIANCE
Approcci focalizzati sul paziente
Approcci focalizzati sul regime farmacologico
Approcci focalizzati sul medico
- essere pragmatici
- curare il paziente, non la malattia
- coinvolgere attivamente i pazienti nel processo di educazione
- verificare il grado di comprensione del paziente
ALLERGIA DA FARMACI
Le allergie da farmaci sono una forma particolare di effetti collaterali nei quali il sistema immunitario ha un ruolo patogenetico predominante. Esse possono essere distinte dagli effetti tossici da farmaci in base a:
- decorso cronologico
- dipendenza dalla dose
- quadro clinico
- predisposizione individuale
FARMACI ALLERGENICI PIU’ IMPORTANTI
- penicilline e cefalosporine
- barbiturici, pirazoloni, sulfamidici, tireostatici
- insulina ed altri ormoni proteici o peptidici
- farmaci del gruppo “para” come gli anestetici locali, coloranti anilinici, ecc.
Il rischio di reazioni allergiche cresce con la forma di somministrazione del farmaco
orale < iniezione parenterale < cutanea
SINDROMI ALLERGICHE
- La reazione anafilattica
- La malattia da siero
- Febbre da farmaci
- Reazioni cutanee
- Reazioni ematologiche
CLASSIFICAZIONE DEGLI EFFETTI COLLATERALI
1. Effetti collaterali apparenti (da placebo)
2. reazioni allergiche
3. effetti collaterali farmaco-tossicologici per
- iperdosaggio assoluto
- iperdosaggio relativo conseguente a:
§ ridotta funzionalità di organi
§ ipersensibilità individuale
§ interazioni con altri farmaci, con alcool o con sostanze presenti negli alimenti.
Effetti collaterali rari possono essere riconosciuti solo esaminando un grande numero di pazienti.
Il sistema migliore per scoprirli è sempre quello di ricerche a carattere prospettico. Si è calcolato che per poter riconoscere con circa il 95% di probabilità un effetto collaterale sono necessari:
- circa 400 pazienti per una frequenza del 1%
- circa 4.000 pazienti per una frequenza dello 0,1%
- circa 40.000 pazienti per una frequenza dello 0,01%
EFFETTI INDESIDERATI DELLA TERAPIA FARMACOLOGICA
Non esiste, e non può esistere, una innocuità assoluta dei farmaci. Si deve tendere ad una “non pericolosità”: il rischio sempre inerente all’uso di un farmaco deve essere in un rapporto accettabile col beneficio atteso dalla sua somministrazione.
Gli effetti dei farmaci sono classificati in effetti principali (desiderati) ed effetti collaterali (indesiderati). Questa classificazione risulta dall’uso terapeutico dei farmaci.
Gli effetti collaterali sono frequenti: circa il 2 - 4% dei ricoveri in reparti ospedalieri di medicina interna sono dovuti ad effetti collaterali gravi da farmaci ed alcuni hanno esito letale. Essi sono perciò la causa più prevalente di malattie iatrogene. Le malattie iatrogene possono simulare ogni tipo di malattia e di sintomi. Con l’avanzare dell’età si fanno ancora più frequenti perché sono assunti più farmaci, le condizioni farmacocinetiche sono meno favorevoli e le possibilità di controllo più limitate. Statisticamente i farmaci causali più frequenti sono:
- gli analgesici – antipiretici
- i glicosidi cardiaci
- gli anticoagulanti orali
- i glucocorticoidi
- i diuretici
- i citostatici
- gli antibiotici
COME EVITARE I DANNI IATROGENI
1. La maggior parte degli effetti collateraliè prevedibile; solo pochi dipendono da specifica reattività individuale
2. con farmaci “difficili” tenere il paziente sotto attenta osservazione
3. migliorare le conoscenze mediche sulle prescrizioni
La responsabilità della maggior parte dei danni iatrogeni ricade sul medico.

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Il dott. Piero Benedetti è nato a Pesaro, resiede in Urbino.
.Ha conseguito la maturità classica presso il Liceo " Raffaello Sanzio " di Urbino nel 1970.
.Laurea in Medicina e Chirurgia conseguita nel 1976 presso l'Università degli Studi " La Sapienza" di Roma.
.Specialità in Gerontologia e Geriatria nel 1980 presso 1 'Università degli Studi di Firenze ( Scuola di specializzazione diretta dal Prof.F. M. Antonini. )
.Specialità in Ematologia Generale presso I 'Università degli Studi di Ancona (Scuola di specializzazione diretta dal Prof. G. Danieli ).
.Negli anni' 80 ha insegnato la materia di Gerontologia e Geriatria presso il corso di Riqualificazione, a durata annuale, per infermieri generici dell'U.S.L. di Urbino.
.Dal 1983 al 1991 ha insegnato le materie di Geriatria, Immunoematologia ed Immunologia in corsi a durata annuale presso la Scuola per Infermieri Professionali di Pesaro .
.Nel 1991 è stato docente-relatore nel " Corso di Perfezionamento in attività motoria per la terza età" presso l' I.S.E.F. dell'Università degli Studi di Urbino.
.Nel 1998 ha svolto attività didattica su argomenti di Geriatria e Gerontologia durante il corso di Formazione Professionale " Animatore del tempo libero nella terza età" in collaborazione con I.S.E.F. di Urbino e con la Provincia di Pesaro-Urbino per la durata di 20 ore.
.Il 05\05\2000 è stato relatore-docente con il tema "Diagnosi e valutazione dell'incontinenza urinaria nell'anziano" durante il corso di Aggiornamento "Incontinenza urinaria, una riabilitazione possibile" organizzato dalla U.S.L. di Urbino.
.Il 18\10\2003 ha partecipato, in qualità di docente, all'evento formativo "L'anziano fragile e percorsi riabilitativi" organizzato a Macerata Feltria dal Centro di Formazione S. Stefano di Porto Potenza Picena.
.Ha partecipato in qualità di docente con il tema " Le Anemie Emolitiche" durante il convegno sul corretto utilizzo del sistema gestionale nel Laboratorio Analisi organizzato dal 15\09\2004 al 30\11\2004 dalla Zona Territoriale N.2 di Urbino.
.Il 28\05\2005 ha partecipato in qualità di docente al corso-seminario "La nutrizione artificiale nel paziente adulto malnutrito" organizzato dalla Zona Territoriale N.2 di Urbino.
.Negli anni 2003 e 2005 ha insegnato in Urbino la disciplina di Farmacologia presso il Corso di riqualificazione O.S.A. ed O.T.A e presso il corso di formazione O.S.S. , tutti a durata annuale.
.Negli anni accademici 2005-2006 e 2006-2007 ha insegnato presso la Facoltà
di Scienze Motorie dell 'Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo" la disciplina di Reumatologia per una durata di 20 ore ogni anno.
.Da molti anni è docente presso L 'Università libera della terza età di Urbino su
temi di Medicina.
.Ha partecipato in qualità di relatore-docente su temi di Medicina in convegni, seminari e giornate di formazione organizzati da Scuole, Associazioni culturali, Amministrazioni comunali, Associazioni sindacali e Associazioni sportive. Ha partecipato, sempre in qualità di relatore-docente, a corsi di Formazione per volontari della Croce Rossa di Urbino, Fermignano e di S. Angelo in Vado.
.Ha partecipato a numerosi convegni e congressi medici.
.Ha pubblicato alcuni lavori di interesse geriatrico e laboratoristico su riviste scientifiche mediche.
.Nel 1978 ha prestato servizio in qualità di assistente medico, prima incaricato,
poi di ruolo, presso la struttura ospedaliera di Mondavio.
.Dal 1980 ha lavorato presso l'U.O. di Medicina dell'Ospedale civile di Urbino fino al gennaio 2008.
.Dall° febbraio 2008 a tutt'oggi svolge il ruolo di Direttore dell'U.O. complessa di Medicina e Lungodegenza presso l'Ospedale civile di Cagli.










10 novembre 2011 - Ivana BALDASSARRI


Cristina di Belgioioso,

pallida "passionaria" del Risorgimento Italiano.






























In questo 150° anniversario dell'Unità d'Italia Ivana Baldassarri ha scelto, fra le figure femminili evidenziate poco e male dalla storiografia ufficiale del Risorgimento, Cristina Trivulzio Principessa di Belgioioso.


Francesco Hayez - 1832
Ritratto di Cristina Trivulzio Belgioioso


















Bella, intelligente, ricchissima, intraprendente, generosa, lungimirante fu politicamente innovativa e insieme inguaribilmente civetta, mondana, egocentrica, vanitosa, ambiziosa e avventurosa.
Proprio perché così variamente dotata, gli storici difficilmente la ricordano e quando lo fanno tendono all'accondiscendenza ironica, all'umbratile sarcasmo riservato a certe figure femminili senz'altro meritevoli, senz'altro fuori del comune ma capricciose, discontinue, elitarie, con pruriti trasgressivi, mai all'altezza comunque di essere celebrate alla pari dei grandi uomini.
Cristina Trivulzio merita invece un posto di prim'ordine: è doveroso, indagando su di lei, liberarla dai pregiudizi della sua contemporaneità per i quali già l'intelligenza, le curiosità culturali e l'autonomia dei pensieri erano, nelle donne, insopportabili e imperdonabili "vizi".
Siamo in un'epoca, la prima metà dell'800, in cui, pur nella ricca Lombardia, pur nelle prospere terre della Belgioioso, era considerata un'inutile e pericolosa follia mandare a scuola i figli maschi: figurarsi le femmine.
Cristina nasce a Milano il 28 Giugno 1808, figlia del ricchissimo Marchese Gerolamo Trivulzio: cresce fragile e malaticcia in una famiglia scombinata. Suo padre muore quando lei ha solo 4 anni lasciandola unica erede di un patrimonio stellare. Sua madre, Vittoria Ghirardini, donna di buon carattere e incline a godersi la vita, si risposa subito con Alessandro Visconti d'Aragona, dal quale avrà tre figlie femmine e un maschio, per i quali Cristina nutrirà sempre grande affetto e considerazione. Da Alessandro suo patrigno, Cristina impara l'insofferenza asburgica, frequentando tutti gli amici di lui, in odore di Carboneria.
All'età di 16 anni la Cristinetta Trivulzio è già una splendida creatura ricercata e corteggiata da molti giovani dell'alta aristocrazia lombarda. Viene attratta da Emilio Barbiano Principe di Belgioioso, un giovane bellissimo e seducente, dalla perfetta voce tenorile adorato da Rossini, un inguaribile dongiovanni e lo sposa, nonostante il parere contrario di tutti i suoi parenti, il 15 Settembre 1824.
Tutti i biografi di Cristina parlano di un misterioso e irragionevole colpo di testa, ma il Conte D'Alton-Shée scrive, avvicinandosi più degli altri alla verità: "La bella ereditiera, respingendo una quantità di corteggiatori, mise il suo cuore sull'unico che la ignorava. Vide lo splendido "monstre" e impegnò il suo orgoglio per domarlo!"
Una masochistica sfida dunque, un'avventura, una tenzone che configura già la personalità di Cristina che, appena sedicenne intraprende la difficile programmazione di una vita "contro".
Determinatissima, libera da tutte le regole familiari e con un marito che poteva solo eccedere in sfrenatezze e originalità, si immerge gioiosa nella mondanità come in una lucida icona ludica: è assidua alla Scala, frequenta ricevimenti e feste mascherate, civetta senza parsimonia, con la vaghezza estrosa e pericolosa di rari sorrisi.
Diventando padrona assoluta del proprio ingentissimo patrimonio, ne dispone con larghezza e generosità, perche insieme alla sfrenata mondanità, Cristina ha un'altra grande e rara inclinazione che la onora, quella di aiutare sempre i bisognosi sovvenzionando amici e parenti in difficoltà e anche chiunque le fosse raccomandato.
Molti scrittori celebri e molti intellettuali scrissero di lei: Arsene Houssaye nelle sue "Confessioni"
dice: "Fra i volti che mi hanno lasciato un'impressione fortissima c'è quello della Principessa Belgioioso.
Nessuno può non essere colpito dal pallore bizantino della sua carnagione, dalla chioma nera come un'ala di corvo, dai suoi grand'occhi luminosi! Prima di tutto, al suo apparire, toglie il respiro, ma ben presto affascina! Possiede quella femminilità penetrante caratteristica delle milanesi! Alta, aggraziata, ha il viso modellato in modo ideale emergente da esile collo, naso arcuato, leggermente aquilino, narici palpitanti ed appassionate, bocca carnosa, come a racchiudere grandi promesse.
Bella quando sorride, ma solitamente impenetrabile: il suo pallore marmoreo, il corpo fragile e sottile sono degli angeli di Angelico da Fiesole, ma i suoi terribili occhi sono della Sfinge. In quegli occhi così grandi mi ci sono perduto e più non mi ritrovo!"
I primissimi anni di matrimonio sono per Cristina belli e spensierati ma nel 1828, la principessa scopre una relazione amorosa di Emilio più importante delle altre e rompe definitivamente con lui.
In una lettera a Ernesta Bisi, sua maestra di disegno, con la quale intratterrà una corrispondenza per tutta la vita con sentimenti di amicizia aerata di stima e priva di ogni sbavatura di sciroccosa complicità femminile, Cristina scrive: "lo credetti dovere al mio decoro e al mio titolo di moglie di non acconsentire formalmente alla continuazione delle sue relazioni amorose extraconiugali." Cristina accetta la richiesta interessata di suo marito: non si separa legalmente da lui, paga tutti i suoi debiti e rifiuta ogni compromesso che possa salvare le così dette "apparenze": coerente e disincantata com'è, è sempre disposta a pagare di persona per ogni sua decisione.
Se era stata anche la condivisa passione politica a muoverla verso Emilio, ora, a separazione avvenuta, è proprio solo la passione politica che informa ogni suo progetto, diventando motivazione a intraprendere viaggi a Lugano, a Genova a Roma che le permetteranno di entrare in relazione con le principali cellule rivoluzionarie del suo tempo.
Questo, naturalmente, la rende soggetto preferito per i controlli pressanti della "occhiuta" polizia asburgica, allenatissima alla sorveglianza degli aristocratici lombardi. E sarà proprio una questione di passaporto scaduto che renderà Cristina fuggitiva e potenzialmente pericolosa per il governo austriaco.
Metternick stesso dispone un piano per farla catturare e per farla rinchiudere in un convento, ma Cristina riesce rocambolescamente a fuggire prima a Genova, poi a Nizza in una villa messale a disposizione dal Dott. D'Espin che aiuta i rifugiati politici.
Le è di grande conforto in questo momento di pericolo e di incertezza, la corrispondenza fitta e venata da sfumature sentimentali, con Augustine Tierry un giovane carbonaro cieco, al quale sarà legata per tutta la vita da un'amicizia senz'ombre, sincera e generosa.
Dopo aver donato al marito e ai suoi 4 fratellastri il suo patrimonio - escamotage legale per evitarne il sequestro austriaco - Cristina entra in contatto con gli esuli italiani residenti in Francia, impegnandosi a finanziare il piano d'insurrezione di Ciro Menotti. Si reca a Marsiglia con la sua governante e con il suo amministratore Pietro Bolognini, un profugo enigmatico e ingombrante di nobile famiglia che il gossip delle spie definirà erroneamente nei rapporti politici come suo "drudo", l'amante da strapazzo, il "ganzo di turno".
Cristina di Belgioioso invece non è donna da "ganzo di turno".
È una gran signora "notevole per bellezza, per un sottile fascino dello spirito e per evidenti qualità del cuore" come scrisse qualche anno dopo Jules Cloquet, medico di Lafayette.
Nel 1831, dopo il fallimento delle imprese della Carboneria, Cristina fugge a Parigi, senza denaro,
senza bagagli, senza progetti, così, all'avventura! Sarà un esilio lungo, brillante e movimentato!
Qui diventa subito il centro delle attenzioni mondane di un ambiente variegato e influente, condizione questa che Cristina ama e promuove con attenta regia; si trasferisce nel Palazzo del Duca di Plaisance dove può aprire il suo salotto che presto diventerà celebre e frequentatissimo. Non solo belle dame, cavalieri, intellettuali e snob, ma anche grandi uomini, aristocratici, artisti, rifugiati politici, scrittori, musicisti e scienziati.
Ci sono il mitico Generale Lafayette, gli storici Auguste Thierry e FranQois Mignet - che diventeranno i suoi amici più fedeli - e Adolphe Thiers, Honoré de Balzac, Alfred De Musset - col quale la principessa avrà una lunga e febbrile storia d'amore -Frederic Chopin, Franz Liszt, il poeta Heinrich Heine, Vincenzo Bellini e Niccolò Tommaseo.
Tutti trovano Cristina Trivulzio Principessa di Belgioioso irresistibile: bella, giovane, colta -quando si stabilisce a Parigi ha appena 23 anni -, squilla in presenza e fascino; di conversazione modulatissima, malinconica, rivoluzionaria, generosa, Cristina è anche molto malata. Suo marito, nel breve periodo del loro matrimonio, le ha trasmesso la sifilide per la quale è costretta a sottoporsi a cure continue, invasive e condizionanti.
Ma la sua personalità, la sua intelligenza e la sua passione politica sono più forti evitali e della malattia e dello stato di rifugiata politica.
Il vecchio Lafayette la protegge amabilmente e continua a preoccuparsi per lei: per guadagnare denaro -tutte le sue cosmiche ricchezze sono congelate in Lombardia gestite dai suoi fratelli -Cristina sfrutta le sue capacità di pittrice e di scrittrice: scrive saggi e articoli sul più diffuso giornale di Parigi il "Costitutionel", cuce bandiere e coccarde, dipinge paesaggi e organizza incontri politici.
La sua celebrità si diffonde: intelligente, lungimirante, ostinata, politicamente innovativa, è anche inguaribilmente civetta, argomentatrice vivace e sottile, bizzarra, egocentrica e autoritaria: si impone all'attenzione generale fino ad essere invitata ad una cerimonia a Palazzo Reale dove la regina Maria Amelia Teresa di Borbone, moglie di Luigi Filippo d'Orleans, incuriosita da questa stravagante italiana, la introduce fra le dame di Corte.
È l'ingresso ufficiale nell'alta società parigina -segno questo sì, inconfutabile di vera celebrità –per la quale la Principessa Belgioioso diventa argomento di un gossip fitto e variegato oltre a riferimento e ispirazione per eroine femminili dei "feuilleton" più in voga.
Theophile Gautier, esponente di grido della letteratura romanzesca, scrive con maligna e spietata ironia: "Vi sarà capitato di incontrare quella famosa intellettuale nota come la "Marquise romantique"! È bella !?!?! E se lo dicono i poeti, non si sbagliano, perche è bella, ma alla maniera dei quadri antichi! Sebbene giovane, sembra ricoperta da una vernice giallastra e cammina come se fosse dentro una cornice! Ha guance ceree e occhi spropositati e bistrati, mani splendide sovraccariche di anelli bizzarri; porta calze candide con scarpine piccolissime e morbide! Ella è perfino di buona compagnia! Ebbi la sfortuna di affascinarla! Mi arrivò uno sbuffo di letteratura nascosta! Era peggio di una letterata di professione! La Signora è esperta di romanzi didattici, poesia sociale, trattati umanitari e i suoi tavoli e le sue sedie sono ricolmi di tomi solenni con le orecchie nei punti più noiosi. ..!"
Il maschilismo ottocentesco dà la stura a tutti i suoi più velenosi preconcetti, che nascondono però una gran verità: Cristina Belgioioso è una donna coltissima e seducente.
Finalmente Cristina nel 1831 riceve, per interessamento di sua madre laute somme del suo denaro fermo nelle banche lombarde e la notizia che La Fayette è riuscito a far liberare molti rivoluzionari arrestati, ma contemporaneamente rincontra suo marito Emilio di Belgioioso che si è stabilito anche lui a Parigi, andando ad abitare proprio nel suo stesso palazzo. Pur avviandosi verso la quarantina il bel principe, non ha modificato la sua sfrenata attività di libertino e di gaudente: diventa, anche a Parigi, una star degli ambienti più spregiudicati: tutti lo chiamano il "Bayroniano" perché con quel termine pseudo-culturale si giustificano tutte le sregolatezze. Diventerà amico di De Musset che corteggia assiduamente sua moglie, diventandone il confidente.
L'inserimento di Franz Liszt, di due anni più giovane della "Princesse romantique", nella affollata cerchia dei suoi adoratori, fu certamente per Cristina un gran successo mondano. Liszt si esibisce spesso nel salotto di Cristina e quando lui, ispirato suona, " lei lo onora sedendosi ai piedi del pianoforte" commenta acido, l'invidioso Balzac.
Sembra di essere in un set cinematografico!
Pensiamola per un attimo questa bizzarra ed esibizionista principessa italiana a Parigi, col suo pallore spettrale, col suo spirito disincantato e acre, ornata da turbanti di stile orientale che le dilatano ancora di più gli occhi nerissimi, pensiamo alle sue movenze nobili e aggraziate sottolineate da abiti candidi e morbidi, mentre assiste silenziosa, ma animata da sommesse vibrazioni emotive, alle esibizioni del più gran seduttore musicale di tutti i tempi, che, capelli lunghi e lisci, ampia camicia di velluto nero e senza cravatta domina, con travolgente spirito interpretativo e tecnica pianistica stellare le emozioni di tutti i presenti!
Mi pare un flash di travolgente fascino romantico!
Molti sono gli appellativi che si coniano per la raffinata padrona di casa: "la commediante", "la princesse ruinee", "la vampiressa", "la rivoluzionaria", "la belle italienne" e "la femme allumeuse". È certo che la sua fama le valse la facoltà di fare del suo salotto in Rue d'Anjou, un luogo dove schermare l'impellente questione politica che riguardava l'ltalia, con una leggera atmosfera di Accademia Musicale: con il suo charme e la sua intelligenza, col suo fare misterioso misto a sottile diplomazia, serpeggiante anarchia ed eccitante vampirismo, seppe dare ai rivoluzionari italiani, oltre agli aiuti economici di cui fu sempre larghissima, l'appoggio e la visibilità in un ambiente intellettuale alto e variegato, ottima cassa di risonanza ai loro intenti libertari rivolti al destino dell'azione rivoluzionaria italiana.
Conobbe e ospitò i grandi e i grandissimi del Risorgimento dal subdolo e geniale Camillo Benso Conte di Cavour, all’introverso e utopico Giuseppe Mazzini, dal pesarese Mamiani, all'audace Confalonieri e al Gioberti che le si rivolterà contro pubblicamente a Giuseppe Garibaldi che le sarà sempre e in ogni occasione amico sincero. Non così Mazzini e Mamiani che, quando Cristina li invitò a scrivere per il suo giornale, convennero concordemente che "sarebbe stata un'ignominia scrivere su un giornale diretto da una donna!!!".
l due celebri protagonisti dell'800 non avevano capito che Cristina Belgioioso viveva in prima persona, oltre le esibizioni salottiere, la giustizia e la carità sociale e che il senso della sua fratellanza elaborava lucidi e avanguardistici piani politici in anticipo di cent'anni.
Cristina, nel 1835 conosce un giovane abate chiamato "Coeur" con il quale condivide e perfeziona le strategie per i suoi intenti sociali e spirituali: questa collaborazione rende più serena la principessa a cui è sempre mancata, fin da piccola, una rassicurante intimità familiare, assieme alla possibilità di affidarsi senza paura a qualcuno che non la tradirà.
Poi, siamo fra il 1837 -38, Emilio subdolamente e con cinica signorilità (la verità è che ha bisogno urgente di denaro) le è tornato vicino e spesso, nel corso dei ricevimenti svolge, con consumato charme, il ruolo di padrone di casa.
Fino a che è proprio Cristina a rivelare una sorprendente notizia: il 23 dicembre 1838, come per un programmato miracoloso "natale", è venuta al mondo Maria Gerolama.
Indicibile è la sorpresa in tutto I'entourage delle due famiglie italiane e degli amici parigini. Sarebbe naturale attribuire la paternità della piccola al Principe Emilio, in quel momento presente nella vita di Cristina, ma gli amici più intimi che ben conoscono la vera natura dei rapporti fra i due, smentiscono questa eventualità. l più perfidi e fantasiosi pettegolezzi affiorano e dilagano da un salotto all'altro: l'unico legame stabile e conosciuto di Cristina è quello con Franyois Mignet, un uomo considerato impotente e omosessuale.
Come poteva essere lui il padre della piccola Maria? Si parla perfino che la bimba possa essere figlia di una parente povera!
Fra silenzi, gelosie, maldicenze, segreti, auguri, sdegni furiosi e spregevoli calcoli ereditari da parte dei Belgioioso, congetture e sorprese, Cristina è immensamente felice, senza mai rivelare però la vera paternità di Maria!
"Che ti dirò di Maria? -scrive Cristina alla Bisi dopo la nascita della bimba -Niente, cara Ernesta, perche non ti saprei dire mai abbastanza! Ti dico solamente che sta bene e che la sola cosa che domando al buon Dio è di conservarmela così!"
Cristina di Belgioioso è sempre al centro o di una passione o di una follia!!
Nel 1840 lascia Parigi con la figlia e la governante: torna a Milano, ritirandosi nelle sue immense proprietà di Locate Trivulzi, delle quali è tornata proprietaria a tutti gli effetti. Si dedica alla lettura e ad attività di tipo sociale e assistenziale aprendo nel suo feudo scuole e asili per maschi e femmine; istituisce inoltre corsi professionali -da lei stessa tenuti -per giovani donne e mamme sulla puericultura e per i ragazzi sull'agricoltura e sull'economia gestionale. Consapevole che pur nella ricca e prospera Lombardia i braccianti vivono in condizioni spaventose, Cristina concede e promuove benefici e migliorie salariali e fa costruire nuove case per i suoi contadini.
Si diffonde così, e in pochissimo tempo, un evidente e riconosciuto benessere! l bambini e le bambine chiedono di andare a scuola -ma dove è andato a finire il "dogma" "sesso femminile e genio maschile?" -fra le critiche velenose dell'aristocrazia lombarda che rifiuta ogni novità sociale per timore che esse costituiscano una grave minaccia per la proprietà privata.
Soddisfatta degli esiti delle trasformazioni da lei realizzate, Cristina rivoltosa e benefattrice, si abbandona ad una nuova avventura sentimentale: si chiama Gaetano Stelzi, ha 13 anni meno di lei, biondo, bellissimo, colto, ammalato di tubercolosi e ricco di quella vitalità febbrile propria, delle persone che sentono la vita sfuggire in fretta: Gaetano è figlio di un suo fedele amministratore. Lo assume subito al suo servizio e il ragazzo, già sedotto, non esita a seguirla ovunque.
È un amore vorace e feroce, una passione intensa e dolcissima infoschita dalla paura che la malattia abbia, come purtroppo avrà, il sopravvento sulla gioia del possesso e della reciproca donazione di se.
È la prima volta che Cristina, s'innamora così perdutamente! E sarà anche l'ultima!
La "femme allumeuse" dal cuore di ghiaccio, si trasforma in una innamorata che si dedica alla salute del suo uomo con cure attente e sapienti. Sentimentalmente appagata si dedica anche alla stesura di un'opera ambiziosa e complessa -incoraggiata anche dal successo ottenuto con la precedente "Storia della Lombardia" -: questa ultima opera ha titolo francese "L'essai sur la formation du Dogme Catholique".
Per lanciare e promuovere questa sua ultima opera storico-letteraria decide di tornare a Parigi: le serve un ambiente colto, alto e relativamente ben disposto nei suoi confronti. Parigi risponderà e gregiamente e il suo "Essai" sarà accolto con interesse e successo pur in una marea di commenti, polemiche e malignità di molti intellettuali critici sul fatto che una donna avesse la sfrontatezza di approfondire argomenti così seri e importanti. Nessuno però metterà in dubbio, mai, che l'Essai, non sia farina del suo sacco!
Ma a Parigi in questo 1843, Cristina vive l'ultimo seppur doloroso capitolo della contraddittoria relazione col marito Emilio di Belgioioso: il "Principe Charmant" attratto dalla giovanissima duchessa di Plaisance, se ne andrà con lei definitivamente e per sempre.
L'impegno intellettuale, non gravato da inibizioni, come sempre riscatta e vivifica Cristina: pubblica la traduzione francese della "Scienza Nuova" di G.B. Vico dimostrando così la validità e l'importanza di una cultura d'avanguardia.
Nel 1844 torna a Locate e con immenso piacere venato d'orgoglio, trova nel suo paese e nel suo feudo una diffusa forza e una impositiva speranza nell'affrontare quegli eventi che già diffusamente si preannunciano. Capisce che la comunicazione è fondamentale per la formazione e la consapevolezza di ogni individuo: diventa editrice della "Gazzetta Italiana" stampata all'estero, ma diffusissima in Italia. Il giornale di lì a poco cambierà nome in "Ausonio" e nell'articolo di fondo del primo numero Cristina scriverà: "L'Ausonio è destinato a far conoscere sia agli Italiani, sia agli stranieri le condizioni vere di queste nostre contrade, onde esaminarne le piaghe e cercare di rintracciarne rimedio e ristoro; sembrami che giovi l'esporre un quadro esatto dello stato attuale dell'ltalia, nella sua condizione morale, politica, civile, amministrativa e finanziaria."
Questo allarma, naturalmente, il governo austriaco che ricomincia a tallonare con controlli e visite a sorpresa, ogni attività della principessa. Nel 1847, più pallida, più magra, più ammalata, ma più volitiva e audace che mai, Cristina riallaccia i suoi contatti con Cavour, va a Torino per parlare con Carlo Alberto, perorando la diffusione in Piemonte del suo giornale che dà voce alle idee risorgimentali che da sempre guardano ai Savoia come destinatari dell'unità d'Italia. Poi parte per Napoli, passando per Firenze e Roma, accolta sempre con molto entusiasmo. È ancora a Napoli a promuovere il suo "Ausonio", quando le arriva la notizia che gli austriaci sono stati cacciati da Milano!
Con quelle decisione fulminee e improcrastinabili frutto dell'entusiasmo rapinoso del suo carattere, Cristina affitta una nave e con un gruppo di 200 volontari napoletani, parte verso il Nord per portare aiuto ai suoi rivoltosi milanesi.
Arriva a Milano con i suoi patrioti, dopo aver superato mille difficoltà. il 6 Aprile 1848: con cappello a larghe falde alla calabrese, una coccarda tricolore appuntata con una spilla di brillanti al petto, Cristina incita il suo "Battaglione Belgioioso" fino alle prime linee.
La febbrile e ardimentosa partecipazione alla battaglia e gli episodi valorosi dei suoi soldati non furono mai però messi in giusta evidenza dalla opinione pubblica, preferendo attribuirli ai volontari toscani più settentrionali e più accetti ai piemontesi.
Ma le fatiche, le emozioni e la partecipazione fattiva e generosa che la situazione avventurosa richiedeva, stroncano la fragile vita dell'amatissimo Gaetano Stelzi che l'aveva fedelmente seguita in ogni folle impresa. A soli 27 anni il giovane Stelzi muore il 16 Giugno 1848.
"Mi morì fra le braccia -scrive la principessa disperata al suo fedele Thierry -senza un dolore, senza una parola, senza un sussulto!"
Nonostante la sincera disperazione per la morte di Stelzi e la cocente delusione per la sconfitta degli insorti lombardi a Milano, Cristina si accinge a vivere il suo vero capolavoro storico-politico-risorgimentale che sarà la sua partecipazione alla gloriosa e fulgida avventura della Repubblica Romana.
Ed è in questa occasione che Cristina, forse per l'unica volta, si sente completamente realizzata.
Rivelando una rimarchevole perspicacia nonostante il suo anti femminismo, Giuseppe Mazzini, che fa parte del celebre triunvirato, affida a Cristina, accorsa a Roma, l'incarico di direttrice degli ospedali e di tutte le ambulanze di Roma.
È la prima volta che una donna viene chiamata ad un così importante ruolo pubblico, reso più precario e drammatico per l'emergenza e la prowisorietà delle istituzioni.
Cristina assolve con indicibile bravura quella funzione socio-sanitaria, rivelando appieno il suo genio organizzativo, la passione sociale e il rigore ideale. Lunghi e penetranti gli sguardi, esigenti e generosi i pensieri!
Si preoccupa di trovare locali dove concentrare e curare i feriti, fa sopraluoghi a chiese e conventi, cerca di ottenere da istituzioni e privati aiuti in biancheria, materassi, letti, carri e cavalli, stoffe, medicinali e viveri, emanando regole severissime, imponendo ovunque ordine, disciplina e regole d'igiene del tutto sconosciute.
All'approssimarsi dell'attacco francese, in sole 48 ore, rende efficienti 12 ospedali e con una iniziativa considerata rivoluzionaria e scandalosa, chiama a raccolta tutte le donne di Roma: rispondono aristocratiche, straniere, borghesi, popolane e prostitute. Tutte insieme costituiranno il primo validissimo servizio infermieristico femminile volontario, sotto la guida appassionata della "cittadina principessa" che, pur non dimenticando il suo rango e mantenendo un piglio imperioso, lavora giorno e notte, mescolandosi spesso al popolo, scoprendo con la gioia di una "vera passionaria", un vivo amor patrio e una umanità insospettata che la commuovono profondamente.
Padre Ventura, un cappellano rivoluzionario sostiene in un suo scritto che "in altri tempi quella signora sarebbe stata chiamata santa!"
Durante il terribile assalto del Generale Oudinot la lotta è lunga e sanguinosa; gli ospedali romani sono un formicaio di disperazione; Cristina non ha un attimo di tregua; quando non cura personalmente i feriti, litiga con i chirurghi e con i fornitori.
Quando tre giorni dopo l'amputazione della gamba, fu scoperto un turacciolo nella ferita di Mameli, gli urli della Belgioioso si sono sentiti in tutte le strade adiacenti all'ospedale.
Ma la Repubblica Romana cade, il Triunvirato si scioglie e anche Cristina deve fuggire ancora una volta. Ottenuto un passaporto inglese Cristina e il suo seguito si rifugia a Civitavecchia in attesa di un imbarco per la Malta, mentre le gazzette descrivono con parole e con vignette derisorie e offensive, Cristina che, come un vampiro si aggira per le corsie in cerca di vittime!
Dal 1849 al 1853 la principessa ancora profuga, ancora esule, ancora ricercata dirige i suoi progetti, la sua vita e quella di sua figlia verso l'Oriente!
Dopo Malta e la Grecia acquista in Anatolia, per pochi soldi, un "Ciflik", una specie di villaggio con latifondo, grande quanto un feudo italiano, vicino all'antica città di Cesarea in Cappadocia.
Pioniera entusiasta si mette subito al lavoro con l'energia degli sradicati attivi, e, con l'aiuto di contadini locali e di alcuni esuli italiani che l'avevano seguita, trasforma il "Ciflik" in una azienda agricola sul modello di locate. le autorità turche hanno simpatia per quella stravagante italiana che li
coinvolge in progetti nuovi e impensabili, ammirati che sappia curare con generosità e sapienza persino i lebbrosi.
Da Ciaq-Mag-Oglon, così si chiama il luogo dove si è fatta costruire una bella casa e che dista da Smirne, la città più vicina, 4 giorni di cavallo, scrive lettere entusiaste e perfino un po' esaltate, a tutti i suoi vecchi amici, Garibaldi compreso. Perfino i dolori che l'hanno sempre afflitta, sembra che siano scomparsi, merito forse del narghilè e delle foglie di "tombeky", un tabacco con forte potere analgesico.
Se Ciaq-Mag-Oglon dista 1000 kilometri di deserto da Gerusalemme, non è, per la folle avventuriera lombarda, una buona ragione perche lei non vada e non faccia fare alla sua adorata Maria, che ormai da 13 anni, la Prima Comunione proprio a Gerusalemme.
Il viaggio è lungo e difficile, ma il giorno di Pasqua del 1853 Maria riceverà l'Eucarestia in un convento di suore cristiane proprio a Gerusalemme. Per il viaggio di ritorno, Cristina cambierà strada per poter visitare Tarso, Damasco e Aleppo.
Quando ritorna nel suo gran feudo orientale trasforma subito quel suo straordinario bagaglio di notizie e di emozioni vissute, in articoli e saggi che pubblicherà nei più grandi giornali del mondo ottenendo un indescrivibile successo.
Ma la pace non si addice a Cristina di Belgioioso!
Nel luglio del 1853 un servo, il bergamasco Lorenzoni uomo taciturno ed introverso, la aggredisce ferendola gravemente; si salva per miracolo, curandosi e operandosi da sola, ma da quel momento rimarrà invalida: sarà obbligata a tenere per sempre la testa piegata verso il basso e da un lato e questo le farà assumere un aspetto di vecchia signora. Eppure Cristina ha soli 45 anni; malattie gravissime, emozioni, fatiche, disagi, delusioni l'hanno terribilmente provata, ma quando alza i grandi occhi, sollevando la testa con due mani, lo sguardo lampeggia ancora e brilla e incanta.
Decide di tornare in Italia e, dato che le vengono restituiti definitivamente tutti i suoi beni confiscati per la seconda volta, si stabilisce nella sua splendida tenuta del cuore, a Locate Trivulzi.
Si dedica agli studi, alla storia e alla letteratura insistendo su argomenti sociali: scrive "Della presente condizione delle donne e del loro avvenire" e "Sulla moderna politica internazionale" con l'intento di educare gli italiani alla fratellanza e di promuovere il riscatto della donna ancora troppo emarginata e oppressa.
le sue opere si diffondono con successo per quella sua infallibile punta penetrativa che spesso ha accenti dolenti nella tonica indignazione che muove la sua penna. lo scontrarsi con la guerra e con la morte le aveva rivelato che la vita di ognuno non può scindersi dalla vita degli altri: così il privilegio, la divisione della classi, I'emarginazione delle donne suscitano in lei il desiderio di stimolare l'istinto di umana parità che è la più nobile delle aspirazioni femminili.
Ma ormai è sola: sua figlia Maria così misteriosamente concepita che dopo mille battaglie legali sarà riconosciuta come figlia legittima di Emilio Belgioioso, si è sposata: Cristina, ha scoperto la vera realtà della solitudine sulla quale, per attrito continuo come fa il vento sulle rocce, affina e raffina il suo essere scrittrice; vive questi suoi ultimi anni in gioco col tempo, senza mai allentare la vigilanza ragionativa e senza rinunciare ad un languore robusto di progetti e di memorie, come in un dolce autunno prolungato.
Ma le animosità e i preconcetti delle autorità Sabaude e dell'aristocrazia lombarda l'hanno totalmente esclusa da ogni riconoscimento.
Infatti nel 1860, durante la 1° visita ufficiale di Vittorio Emanuele Il di Savoia Re d'Italia a Milano, tutti i nobili milanesi vengono invitati al gran ricevimento a Palazzo reale, tranne lei, la Principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso, pallida passionaria del Risorgimento italiano!
Morirà, a 63 anni, a Milano il 5 Luglio 1871.
Troppo bella, troppo autonoma, troppo eccentrica, troppo appassionata: le donne non le hanno perdonato il fascino, gli uomini l'intelligenza.













Ivana Baldassarri

7 novembre 2011 - Inaugurazione con Maria Rosaria Valazzi




E' partito con successo il nuovo anno accademico dell'Unilit, l'università libera e itinerante di Cagli che, quest'anno ha in serbo tante novità per i suoi associati. Un pubblico numeroso ha partecipato alla giornata inaugurale del nuovo anno presso il Salone degli Stemmi del comune, tanti anche i rappresentanti delle istituzioni che vedono l'Unilit il fiore all'occhiello della città. Sono infatti ben diciotto anni che l'università libera promuove incontri e lezioni invitando a Cagli personaggi illustri e grandi conoscitori della cultura italiana. Ricco il programma delle lezioni 2011-2012 presentato al pubblico dal coordinatore Valentino Ambrosini che, nell'inaugurare il nuovo anno di lezioni, ha ricordato l'importanza dell'associazione nel territorio e l'appoggio ricevuto in tutti questi anni dall'amministrazione comunale. Tra le novità compare anche una convenzione con la Comunità Montana del Catria e del Nerone per promuovere corsi di lingua spagnola e di informatica presso la sede della cm. Insieme ad Ambrosini anche il vicesindaco Alberto Mazzacchera, l'assessore Eugenia Berardinelli e il presidente della Cm Massimo Ciabocchi. Dopo il saluto del Presidente provinciale Unilit, il professor Sergio Pretelli, si è svolta la prima lezione dedicata alla Città Ideale, riflessioni sulla cultura artistica del Quattrocento urbinate, a cura della dottoressa Maria Rosaria Valazzi. Tra gli incontri Valentino Ambrosini ha ricordato al pubblico quello con Alberto Mazzacchera incentrato sulla mostra cagliese, ancora in corso, dedicata all'artista Mirko Basaldella e la lezione di Ninel Donini, che si svolgerà durante la giornata della Memoria, dedicata quest'anno a Don Giuseppe Celli.


Irene Ottaviani


Corriere Adriatico




Introduzione del Prof. Valentino Ambrosini e del Prof. Sergio Pretelli











Cagli
Palazzo Pubblico


Salone degli Stemmi




Saluto del Vice Sindaco Alberto Mazzacchera

















Lezione inaugurale della Dott.ssa Maria Rosaria Valazzi su





“Riflessioni sulla cultura artistica del Quattrocento urbinate: il caso della Città ideale”






Aperitivo augurale organizzato dall'Istituto Professionale per il Turismo "Don G. Celli" di Piobbico