8 maggio 2014 Chiesa e Convento dei Padri Cappuccini di Cagli

VISITA GUIDATA

di Tersicore Paioncini


INTRODUZIONE



Prospetto ovest della chiesa negli anni ‘50
Il Convento dei Frati Cappuccini è situato nella collina sovrastante Cagli.

Secondo lo storico G.Buroni e fissando anche la tradizione degli antenati, in questo luogo chiamato Monte Calleo, (da Cale, nome primitivo della nostra Cagli), sarebbe esistito un tempietto pagano dedicato al dio Marte, dio della guerra, ma anche dell’agricoltura e della natura in genere, come risulta dalle famose “tavole Eugubine” scoperte nel  XVIII secolo tra le rovine del tempio di “Giove Appennino” nelle vicinanze di Scheggia.

Il tempio pagano avrebbe dominato la vetta della collina e probabilmente questo aveva un pronao sostenuto da grosse colonne di granito, una delle quali sembra essere conservata, assieme ad un capitello altomedievale, attorno all’attuale Convento[1].




Colonna romana 


Capitello altomedievale.


Sullo stesso Monte Calleo,  s’insediò fin dal VII sec. Il Monastero benedettino di San Geronzio e questo sembra a sua volta costruito in parte sul soprannominato tempietto pagano.


Nascita dei monasteri

La costituzione dei monasteri nel VI e VII secolo contribuì al passaggio dalla Romanità al Medioevo, sconvolgendo o superando il precedente ordinamento amministrativo romano nella giurisdizione del territorio[2].

Con lucidità politica i pontefici, come Gregorio Magno (573-604), organizzarono il territorio con principi nuovi preparando giorni migliori per la Chiesa temporale romana.

Nascono così i monasteri e le abbazie benedettine con il compito di riorganizzare le attività civili e giurisdizionali di un territorio che, dopo la scomparsa dell’apparato burocratico romano e con l’avvento dei barbari, non aveva più una guida.

La politica del regno longobardo di Pavia, in quel momento solidale a Roma con la conversione di massa dall’arianesimo al cattolicesimo, portò quindi nei nostri territori appenninici e lungo le vie di comunicazione (vedi la via Flaminia con i suoi diverticoli), alla formazione di monasteri benedettini, nonché al culto di San Michele Arcangelo e di San Martino.

I monaci, missionari per la fede, ma anche per la cultura e l’agricoltura, s’insediarono per diretta  volontà di papa Gregorio Magno e dei suoi successori, sostituendosi nelle funzioni amministrative degli antichi “municipi” ormai da tempo scomparsi.

Alcuni abbati diventarono potenti feudatari terrieri ed ebbero subito una particolare autonomia rispetto ai vescovi, non solo per l’esenzione delle tasse, ma anche per mancanza del clero cattolico in una zona, come la nostra, che a seguito delle conquiste longobarde era stata sede di un clero ariano.

Questo testimonia che la presenza longobarda nel territorio era tutt’altro che assente, lo riconfermano i numerosi toponimi, alcune parole di origine longobarda ed alcuni resti archeologici.

I pellegrini nei nuovi centri benedettini trovarono rifugio durante gli spostamenti e le abbazie erano punti di riferimento (vedi San Vincenzo al Furlo). Annessi ai monasteri spesso sorsero gli “ospitali” che garantivano gratuitamente un alloggio ed il vitto ai viaggiatori.


IL CENOBIO BENEDETTINO DI S.GERONZIO

La data della fondazione del Cenobio benedettino di San Geronzio, tra il 616-680, viene letta dall’annalista Bricchi (alla fine del 1500) in un antichissimo documento custodito a quel tempo nell’Archivio della chiesa di San Francesco, andato perduto in seguito ad un incendio[3].

In quel periodo storico, il monastero di San Geronzio, ora non più esistente, venne costruito con pompa e maestà; doveva essere fortificato, come risulta da un documento dell’Archivio Apostolico Vaticano: Monte Castri Sancti Geronzii, riportato dal Buroni nella sua opera “La diocesi di Cagli”.

Secondo l’Ughelli, abate storico del XVI sec., risalirebbe all’anno 700; il Mangaroni Brancuti, nel XIX sec., afferma che il primo documento (pergamena) che lo segnala è del 1094.

Venne costruito quindi sul Monte Calleo e vicino alle mura della città antica. Prese il nome dal martire Geronzio, vescovo di Cervia , che nel 502, tornando dal Concilio tenuto a Roma indetto dal papa Simmaco contro l’antipapa Lorenzo, giunto che fu a Campo Ventoso, presso le Foci di Cagli, venne dagli scismatici aggredito e barbaramente decollato.

Altri cronisti, compreso il letterato cagliese Leonardo Iacopini, contemporaneo del Bricchi, affermano che la collina venne poi chiamata di San Geronzio in onore del Martire. Nella chiesa del monastero venne conservata così la preziosa reliquia del Martire.

Il Cenobio aveva, secondo i nostri storici, a occidente del tempio le sue cellette per i monaci; aveva un chiostro, le sale ampie, i giardini e l’orto. In breve tempo fu arricchito con possedimenti e favorito da importanti donazioni territoriali da parte della Santa Sede e dalle molte oblazioni dei fedeli.

I monaci non riuscivano più da loro stessi a coltivare i terreni e quindi li davano in “enfiteusi”[4].

Fu un monastero splendido e potente anche per la sua economia che era considerevole, e così si protrasse nei secoli successivi. Fu di tal pregio che meritò infatti, immediatamente, di essere soggetto alla Sede Apostolica e con la protezione dei papi godette di notevoli privilegi e benefici ecclesiastici. Non aveva dipendenza dal Vescovo locale, era libero da ogni giurisdizione e usufruiva di molte esenzioni, come le "decime” e i “censi” da versare alla stessa Mensa Vescovile[5].

Nel 728 il Cenobio era annoverato tra i “ monasteri nobili “ con possedimenti vari sul vasto territorio cagliese e su quello circostante, quindi pare fosse il primo tra i grandi proprietari terrieri. Riceveva i benefici ecclesiastici di molte chiese: San Leo, San Sebastiano, San Nicolò del Bosso, San Vitale, San Lorenzo dei Mastini, San Lazzaro, Sant’Angelo, San Giorgio, San Geronzio del Tarugo…

Esercitava il dominio feudale su alcuni terreni di Molleone, sul castello di “Taruco” e su vaste terre di Fano, Fossombrone e Urbino; intorno a Cagli possedeva diverse “tavole” di terreno.

Questa forza, sorta dai privilegi che da sempre caratterizzavano la figura giuridica dei Monasteri benedettini, creò non pochi attriti con il vescovado della nuova diocesi di Cagli[6]

Nonostante ciò, il prestigio del Monastero crebbe ancor più quando l’Abbate benedettino faceva parte del Consiglio Speciale del Comune, assieme al Console, al Vescovo e al Priore della Canonica.

Le alleanze con le città vicine e le sottomissioni dei feudatari (vedi anche il Castello di Naro) avvenivano in Palatio Abbatis San Geronzii.

Purtroppo però nella seconda metà del secolo XIII rapida ne fu la sua decadenza, fulminea la sua scomparsa.

Infatti, allorquando i Signori abbandonarono i loro castelli e quando questi vennero distrutti, nuova popolazione venne ad abitare in città; la cinta delle mura fu allargata (1220) come fa fede il rudero sulla vecchia strada dei Cappuccini e il Monastero fu compreso nella parte cosìddetta la “Città Nuova”.

Con il sorgere delle Corporazioni d’Arte e con l’inurbarsi dei nobili, ambedue desiderosi di sottrarsi ad ogni giurisdizione ecclesiastica, il nostro Monastero perdette ogni influenza sugli ordinamenti amministrativi, giuridici e militari; di conseguenza dovette giurare sottomissione al Comune (1250); le riunioni del Consiglio Generale non si tennero più nel Palazzo del Monastero di San Geronzio, ma nel Palazzo Comunale.

Il Comune aveva già assoggettato alla sua giurisdizione le abbazie di Massa e di Montelabbate (Naro).

Distrutta la città dalle ire dei Guelfi e Ghibellini con una lotta fratricida nel 1287, il Papa Nicolò IV con bolla del 20 marzo 1290, soppresse il Monastero e l’univa in perpetuo con i suoi beni e le sue pertinenze alla “Mensa Episcopale e alla Canonica di Cagli”.

L’ultimo abbate, Giovanni, venne trasferito a San Lorenzo in Campo.

Gli stessi vescovi cagliesi, allora, erano intenti ad estendere la loro giurisdizione a discapito dei monaci, ad accrescere il decoro e il servizio della Cattedrale e a reggere le parrocchie. Pertanto furono nominati dei “cappellani” in sostituzione degli abbati; all’Abbate subentrò il Vescovo ed il Priore della canonica.

Poche sono le tracce visive che testimoniano il vecchio Cenobio, ma molti sono i documenti che ne parlano e raccontano della sua vita.

Se ne sono interessati molti storici e molti studiosi per ricordare la sua importanza e la sua potenza. Giovanni Mangaroni Brancuti (cronista dell’800) ci racconta che varia e complessa fu l’influenza benefica che esercitò il Cenobio nel territorio di Cagli a favore del progresso.

Suoi meriti infatti non furono soltanto quelli di portare la parola alta di pace tra le discordie dei feudatari e i tumulti della fazioni, ma diffondere l’istruzione tra il popolo, dare vigoroso impulso all’agricoltura (tanto da ridurre a campi fertili le terre incolte e cedere le terre in enfiteusi con il patto di migliorarle) e favorire la pubblica beneficenza con l’erezione di ospedali come Santa Croce e San Lazzaro per lebbrosi.

Altro grande merito fu quello di promuovere l’industria e il commercio con i molini e con le fabbriche di panni di lana per le quali dovevano in seguito (nel Rinascimento) acquistare rinomanza speciale i Cagliesi. Si ricorda il famoso “pannino” e la concia delle pelli da parte dei caligari per finimenti e altri lavori artigianali, commissionati a quei tempi soprattutto dai Duchi di Urbino.

Il Monastero dopo diversi anni di abbandono e di crolli, nel 1450 fu distrutto completamente e mutato in una Rocca fortissima che Federico II da Montefeltro commissionò all’architetto senese Francesco di Giorgio Martini.

I lavori iniziarono nel 1480 circa, la fortificazione comprendeva la Rocca in alto e il Torrione in basso, uniti da un camminamento segreto (“soccorso coverto”).

Di questi se ne parlerà a parte ed in altre occasioni, giacché proprio in questi mesi si sta concludendo il cantiere che metterà in luce nuovi resti e si produrranno nuovi studi sulla Rocca stessa.

La Rocca in alto fu smantellata dallo stesso Guidobaldo da Montefeltro, affinché, ceduta come da trattato all’invasore Cesare Borgia detto il Valentino, non rimanesse intatta in mano sua.


Rocca e Torrione di Cagli dal Codice Magliabichiano
di Francesco di Giorgio Martini.
(Rielaborazione di Leandro Picchi)



IL CONVENTO E LA CHIESA DEI FRATI CAPPUCCINI.

I Conventi degli Ordini dei Mendicanti nacquero a protesta contro la ricchezza dei Monasteri Benedettini.Il superiore non si chiama più Abbate ma Padre Guardiano. Sopra a questo sta un Padre Provinciale (per tutta la regione) e sopra un Superiore Generale.

Le fondazioni francescane a Cagli

La prima regola dell’Ordine dei Frati Conventuali francescani è del 1223, quando era ancora in vita San Francesco. Le fondazioni francescane a Cagli furono tre:

1.      La Chiesa Conventuale francescana di Cagli (San Francesco) venne costruita a partire dal 1234, otto anni dopo la morte di San Francesco (1226). I Francescani vi si stabilirono intorno al 1240.

2.      Il Convento dei Padri Cappuccini (dal caratteristico cappuccio quadrato ed aguzzo), che era stato fondato giuridicamente nel 1528 con la bolla Religionis zelus. Questi s’insediarono a Cagli nel 1568 costruendo, come vedremo, la Chiesa dedicata a San Geronzio e il Convento sui resti dell’antica Rocca federiciana di F. di G. Martini.

3.      La comunità dei Frati Minori dell’Osservanza detti anche Zoccolanti che venne ospitata a Cagli nel 1617 nella chiesa allora denominata di Sant’Andrea in via Atanagi nel luogo in cui in seguito sorgerà la chiesa di San Filippo Neri (sec XVIII). Gli Zoccolanti, cresciuti di numero, si trasferirono pochi anni dopo fuori le mura della città, costruendo la chiesa con il nome di “Sant’Andrea fuori le mura” e il loro convento dal 1620 al 1630 circa[7].


Notizie storiche sulla nascita del Convento

Nel luogo dove sorgeva la Rocca Martiniana, nel luglio del 1566 si cominciò a fabbricare il Convento dei Cappuccini (così dicono il Luzi e il Mangaroni Brancuti) con le stesse pietre ricavate dalla rovina di quella, sotto la direzione di Frate Bernardino da Forlì e per iniziativa di Fra Ubaldo da Cagli che fu anche il vicario della Marca. Egli scelse il luogo e tenne i contatti con la Comunità per i lavori da farsi.

Il Comune di Cagli si era rivolto al Capitolo Provinciale dei Cappuccini nella metà del maggio 1565, per chiedere un convento nel proprio territorio[8].

La scelta del luogo non poteva non cadere sul colle a dominio della Città sul quale erano ancora gli avanzi  cospicui della Rocca. Non essendo sufficiente lo spazio che doveva attorniare il Convento,si decise di venire a patti con il capitano Bernardino Benedetti  che nel frattempo era divenuto proprietario di una parte della Rocca. Per compenso gli venne dato un altro luogo.

I Cappuccini per questa  fabbrica chiedevano nella riunione del 1565 al General Consiglio del Comune di Cagli un aiuto per la “prestazione gratuita d’opra manuale, tragitti e vetture”                                         


I Cappuccini in una mappa catastale dello Stato Pontificio  del XIX sec.
Nel 1566 si diede inizio ai lavori di preparazione per l’erezione del Convento e a “opre e careggi”. Si fece un sondaggio e poi una lista di coloro che possedevano  bestie da tiro o da soma, tanto nella città quanto nel contado per l’aiuto alla fabbrica, scegliendo i più abbienti tra la popolazione. Ci fu quindi una corale partecipazione delle autorità cittadine, degli istituti ecclesiastici ed un vivo desiderio da parte dei cagliesi.

Il 30 agosto 1568 Paolo Mario della Rovere, vescovo di Cagli, gettò la 1° pietra della chiesa che dedicò a San Geronzio, già titolare della precedente benedettina.

Nello stesso anno furono introdotti i religiosi Cappuccini.

Titolari del diritto di proprietà degli edifici non erano i Cappuccini, come d’altronde imponeva la rigorosa applicazione del concetto di povertà, bensì gli appaltanti.

Essendo anche a Cagli il Comune il committente, a questo i frati rivolgevano le loro richieste di necessità e a carico della Comunità erano le spese di mantenimento.

Le reliquie di S. Geronzio

Con la storia immediatamente successiva alla fondazione del Convento, si intrecciano le vicende delle reliquie di S. Geronzio ed il loro smarrimento.

Sia il Bricchi che Leonardo Iacopini, storici contemporanei cagliesi tra la fine del XVI e del XVII sec., parlano di una “celletta” nella montagnola che conteneva alcune arche di pietra contenenti ossa sicuramente di qualche “santo beato”.

Su consenso del vescovo Paolo Mario della Rovere questa venne demolita per salvaguardare l’intimità dei frati, perché causa di disturbo alla quiete spirituale.

Il Mangaroni Brancuti riferisce che nell’ottobre 1883 il sacerdote mons. Raffaele Celli, nell’intento di rintracciare il sito della cappelletta, tentò sulla montagnola un’operazione archeologica.

Si rinvennero alla sommità del colle, verso oriente, i resti di un pavimento e di una piccola finestra corrispondente alla descrizione della celletta fatta dagli antichi cronisti, senza il rinvenimento però di alcuna tomba.

Purtroppo più tardi qualche frate asportò quelle pietre per fabbricarvi nientemeno che un pollaio.

Così le reliquie di San Geronzio furono disperse.

A questo proposito è da considerare anche che nel Medioevo la brama delle reliquie sacre, specialmente da parte di vescovi di Germania che non ebbero nella terra di origine martiri di religione cattolica, nelle loro discese in Italia desideravano raccogliere i resti dei corpi santi.

Ad ogni modo, qualunque sia stata la ragione dello smarrimento delle ossa del martire Geronzio, la tradizione popolare, religiosa e letteraria è concorde nel fatto che siano state sepolte nel monte che da esso prese il nome e dove sorse il vecchio Monastero benedettino.


La ricostruzione del Convento dei Cappuccini

Secondo le cronache il Convento del 1566 era “poverissi­mamente fabbricato” e che solo dopo quarant’anni “crol­lava da ogni parte”.

Fu così necessario ricostruirlo nel 1605.

Benefattore insigne fu il facoltoso, generoso e colto cagliese Ettore Berardi, il quale aveva fatto voto di donare mille scudi ai Cappuccini, se Dio avesse concesso a Francesco Maria II della Rovere duca di Urbino, “la bramatissima prole”.

La grazia giunse nel 1605 e il Berardi sollecitamente si adoperò per mantenere la promessa.

I lavori nel 1610 erano compiuti e chiesa e convento si presentavano all’incirca nell’aspetto attuale, sul modello dei Cappuccini.

La chiesa fu consacrata nel 1706 dal Vescovo di Cagli Benedetto Luperti e fu dedicata a San Michele Arcangelo, San Geronzio e San Filippo Neri.

Il 3 giugno del 1781, chiesa e Convento subirono i gravi danni del terremoto che devastò la città di Cagli e furono pertanto eseguiti da parte del Comune lavori di rifacimento; fu ricavato un pozzo nel cortile esterno e su una colonna ancora si legge la data 1789.


Le soppressioni

Sono note due soppressioni nel secolo XIX che sconvolsero gli ordini soprattutto mendicanti.

La prima risale al 1810 ed è detta Napoleonica da colui che la decretò. Anche il Convento di Cagli fu chiuso ed incamerato, ma non fu asportato nessun dipinto. I libri della biblioteca convenutale, raccolti da Michelangelo Tocci da Cagli (il frate colto), in parte finirono in Urbino.

I religiosi nel febbraio del 1815 poterono rientrare in Convento e rivestire il saio cappuccino per opera del Vescovo di Cagli Alfonso Cingari. I libri della biblioteca furono riconsegnati a Fra Michelangelo Tocci ad eccezione di alcuni rari e pregevoli che andarono smarriti [9].

Nel 1866 con la “soppressione piemontese“ e l’applicazione della legge Valerio per le Marche voluta dal Regno d’Italia, tutti i frati furono scacciati dal Convento che fu demaniato e si ottenne che la chiesa restasse aperta al pubblico con la presenza di un custode che fu padre Giuseppe da Scapezzano, assai benemerito anche per aver raccolto le “memorie “ del Convento.

Nel 1881 due padri cappuccini, sotto il nome civile, riuscirono a riscattare il Convento a prezzo di lire 5800 e così la vita riprese regolarmente. Il Convento venne restaurato e nel 1894, come indica una lapide, fu costruito un “professorio” per la formazione dei giovani cappuccini, che durò poco.

Nel 1909 il Convento corse nuovamente il pericolo di chiusura per decisione dei superiori maggiori dell’Ordine, i quali giudicarono che i religiosi “non potessero viverci”, ma con una pubblica sottoscrizione da inviare al Generale dell’Ordine e al Papa, venne revocata la decisione di chiusura.

Il Convento fu sottoposto ad ulteriori lavori di restauro nel 1950 e poco dopo si intervenne nella chiesa rispettando l’antica struttura. Altri lavori eseguiti tra il 1975-76 hanno interessato nuovamente la chiesa e la biblioteca conventuale.

Ora è di nuovo minacciata la soppressione del Convento per mancanza di frati.


L’attivita’ dei Cappuccini

L’attività dei Cappuccini, come in altri conventi delle Marche,  fu quella apostolica e sociale. In primo luogo essi si dedicarono alla predicazione e alla collaborazione con le parrocchie, comprese alcune opere sociali e culturali. In qualche momento di emergenza si dedicarono all’assistenza dei contagiosi, quando a Cagli scoppiò un’epidemia di tifo nel 1817 e una di colera nel 1836.

Essi diedero a tutti un forte esempio nel ricordo di San Francesco e furono dichiarati benemeriti della città  dalle autorità municipali.

Figure eminenti

Tra le figure importanti da ricordare è Padre Ubaldo da Cagli che, secondo il Gucci, fu il primo Padre guardiano del convento, quello che scelse il sito per l’ubicazione dello stesso nel 1566.

Fra tutti spicca il beato Benedetto Passionesi da Urbino per mirabile santità di vita, riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa[10].

Un altro personaggio benemerito fu padre Francesco Bonafede da Jesi del XVII sec. Visse per molti anni nel Convento di Cagli, ebbe una vita molto austera ed integerrima osservando integralmente i precetti della regola[11].

Ricordiamo ancora padre Masseo da Cagli, l’operatore sociale. E’ il frate che da ingegnere vestì l’abito cappuccino. Nel 1650-52 si rese benemerito a Cagli restaurando le condutture dell’acquedotto cittadino aumentandone la portata con la cattura di nuove sorgenti, con una tecnica per quei tempi ammirevole. Era abilissimo “nell’allacciare vene”. I Cagliesi, per riconoscenza e a memoria del fatto, gli dedicarono una lapide sulla via che conduce al Convento, vicino all’antica porta della città.

Padre Michelangelo Tocci da Cagli, al secolo Donino. Il cappuccino colto godé molta stima fra i fratelli per cultura, diede alla stampa diversi libri. Morì a Cagli 1809. Viene ricordato in modo particolare per aver dato origine e per aver arricchito la biblioteca del Convento di Cagli di buoni libri, in parte trafugati durante il periodo napoleonico. E’ ricordato anche come predicatore, sensibile all’arte che favorì con acquisti vari.


DESCRIZIONE E STILE

Le regole architettoniche dei Conventuali Francescani, sono improntate ad un principio di semplicità e di povertà, nascono a Narbonne in Francia nel 1260; quelle della Riforma dell’Ordine dei Padri Cappuccini sono severamente fissate dalle Costituzioni albacinesi del XVI secolo, sempre improntate con gli stessi severi principi francescani. Punibili erano i trasgressori.


Esterno

Il Convento di Cagli, afferma il Santarelli, dopo quello di Camerino, per antichità e per stile genuinamente cappuccino, è forse il più insigne fra tutti gli altri conventi dei Cappuccini delle Marche.

E’ infatti un esemplare raro e tipico dell’antica edilizia architettonica cappuccina, nel segno di una spiccata povertà e di una elegante semplicità di forme.

Per comprendere la tipologia dei conventi cappuccini, infatti, occorre aver ben chiara la forte aderenza dei Padri alla povertà predicata con tanta forza da S. Francesco.

La presenza, all’esterno, di un marcapiano realizzato in pietra rosa e che corre lungo tutto il corpo del Convento prospiciente la città, non può essere giustificato se non come un interessante avanzo della fortezza martiniana (il cosiddetto  “cordolo”). Pertanto, il poderoso mastio (alto 35m) della Rocca progettata da Francesco di Giorgio Martini, sembra doversi collocare all’incirca nel sito ove  attualmente è posizionata la chiesa. Lo spazio sottostante, comprendente parte del Convento e della chiesa, dovrebbe conservare i resti di una porzione cospicua della Rocca.

Sono in corso ulteriori ricerche archeologiche che ne completeranno il quadro.

La chiesa, con la copertura a capanna secondo il sistema conventuale che come detto imponeva semplicità anche nelle architetture, è preceduta da un basso portico a tre archi poggianti su pilastri quadrangolari in muratura e soffitto con travi, ma all’origine con volta a crociera; inoltre la chiesa è munita di un piccolo campanile a vela con apertura centinata.


Interno

L’interno della chiesa, ad aula unica, presenta ornati lignei di alta ebanisteria che la caratterizzano nel tipico stile cappuccino: semplicità ed eleganza che creano un clima di devoto raccoglimento.

Il soffitto, restaurato nel 1975 e riportato alla primitiva fisionomia architettonica, presenta quattro capriate a vista; vi è un solo altare e il coro retrostante.

Alle pareti della chiesa, subito dopo l’entrata, sono due tele ad olio raffiguranti da una parte S. Michele Arcangelo e S. Giovanni Battista, dall’altra parte S. Geronzio e S. Filippo Neri.

San Michele Arcangelo e San Giovanni Battista. (Particolare)
Sec. XVII.  Autore ignoto

San Geronzio e San Filippo Neri.
Autore ignoto.
Forse del 1610.

Risalgono al XVII secolo e sono di autore ignoto; potrebbero essere della bottega  del Piazza, autore della tela che si trova nel coro, dietro all’altare maggiore[12].

Nella parte destra della chiesa sono tre piccole cappelle intercomunicanti (forse non esistenti all’origine), con volta a botte e chiuse da alte balaustre lignee.

Nell’altare della prima cappella è un quadro  raffigurante  “S. Serafino da Montegranaro guarisce una bambina inferma “. L’autore è ignoto ed è databile tra il XVIII e il XIX secolo. Raffigura il Santo che tocca con un crocifisso la testa di una bambina. L’episodio dovrebbe rappresentare un miracolo del Santo a Iesi, allorché restituì la parola ad una fanciulla muta. Lo stile di rinnovato gusto classico, potrebbe riferirsi a Sebastiano Ceccarini di Fano che fu in ambiente locale un maestro noto. (A Cagli nella sagrestia della Chiesa di S. Filippo c’è un dipinto di una Madonna settecentesca del nominato autore.)

A questo altare un tempo le donne del territorio cagliese recavano i loro bambini infermi invocando la protezione di S. Serafino.

Nell’altare della seconda cappella è oggi la statua di S. Francesco scolpita da Daniele Buselli del 1977; bella è l’architettura lignea, che fa da sfondo alla statua, risalente al XVIII secolo[13].

Nel terzo altare è collocata la tela ad olio di autore ignoto del XVIII – XIX sec. rappresentante “S. Lorenzo da Brindisi comunicato da Gesù”  beatificato nel 1783. L’autore potrebbe essere un pittore pesarese dell’epoca come Pietro Tedeschi o Gaetano Bessi. Quest’ ultimo è già presente nel convento di Cagli con il dipinto “Auxilium Christianorum”, ora è a Potenza Picena.


ALTARE MAGGIORE

Ciborio

Nell’altare maggiore spicca per raffinata esecuzione il ciborio in stile barocco, realizzato in legni policromi a motivi ornamentali geometrici e tarsie in osso e madreperla, con le colonnine tortili, le balaustre e le volute che sorreggono il cupolino a cipolla.

Per lo stile e per alcuni elementi che lo avvicinano molto a quello della Chiesa dei Cappuccini di Cingoli firmato da Giuseppe da Patrignone, questo tabernacolo può risalire alla fine del 1600 e può essere uscito proprio dalla bottega del cappuccino patrignonese, autore di altri consimili lavori di ebanisteria a Fossombrone (1685) e a Fermo.


Ciborio ligneo in stile barocco, del secolo XVII

Nell’abside, in alto a sinistra, si trova una piccola apertura che permetteva agli anziani frati ammalati di poter seguire le funzioni liturgiche.


Pala del Cristo morto

La pala dell’altare maggiore raffigura “Cristo morto sorretto da un angelo fra i Santi Caterina di Alessandria e Geronzio”. Un tempo era ritenuta un lavoro di Fra Bernardo Catalani di Urbino, nello stile della scuola di Raffaello. Intorno al 1992 il dipinto, restaurato, è stato attribuito con buona ragione da Lorenza Mochi-Onori, soprintendente dei Beni Artistici e ambientali in Ancona, a Gerolamo Cialdieri (1593-1680), discepolo del pittore Claudio Ridolfi; è stato datato quindi intorno al 1630.

Sullo sfondo si scorgono vari angeli che reggono in braccio bambini uccisi con allusione alla “Strage degli Innocenti”. Sul lato destro è Santa Caterina d’Alessandria (Vergine martire del IV sec.) in ginocchio, regge una palma, simbolo del martirio e un libro, simbolo della scienza filosofica. Sotto le sue ginocchia sta la ruota chiodata ed a terra giace la spada: strumenti del martirio. Ha la corona in testa ed il vestito damascato perché di stirpe regale[14].

 Cristo morto sorretto da un angelo fra i Santi Caterina di Alessandria e Geronzio” (1630) di Gerolamo Cialdieri
San Geronzio, già protettore dell’Abbazia benedettina medioevale, è raffigurato in ginocchio, sul lato sinistro; regge con la destra il pastorale che culmina con un tondo raggiato recante l’effige dell’Annunciazione. A destra si scorgono la mitria, simbolo dell’autorità, e sotto un libro, simbolo del magistero episcopale. Più in basso si vede un’anatra (un’oca) dalla incerta simbologia[15].

Il dipinto nel complesso contiene un soggetto singolare, certamente estraneo alla tradizione iconografica cappuccina, anche perché non vi è raffigurato nessun Santo francescano.

L’autore del dipinto, Gerolamo Cialdieri, fu allievo e poi collaboratore paritario del pittore Claudio Ridolfi da cui apprese vari spunti artistici; spesso si sostituiva agli impegni del maestro stesso durante le sue assenze. Reggeva una bottega in Urbino, ma lavorò molto anche a Cagli e dipinse in vari palazzi e chiese della città.

Di Gerolamo Cialdieri  ricordiamo a Cagli nella chiesa di Santa Maria della Misericordia una piccola tela, una  predella, del 1634 ”La strage degli innocenti”. Recentemente da una ricevuta di pagamento rilasciata dalla Confraternita  annessa e ritrovata  da Ermes Maidani, è  stato riconfermato l’autore e la data di esecuzione del lavoro.

Dello stesso autore sono due affreschi nella chiesa di San Giuseppe  posti ai lati  dell’altare maggiore e datati intorno al 1634, assieme ai numerosi dipinti nel soffitto a botte sovrastante . Nella chiesa di S. Domenico è la piccola tela riproducente  “l’Incoronazione della Vergine “. Nella chiesa di S. Andrea  degli Zoccolanti  è la “Madonna con Santi”” di recente attribuzione e in Acqualagna (al Pelingo) è la tela dell “Madonna del Rosario”.

A Palazzo Benamati il  Cialdieri stuccò e dipinse il soffitto di una stanza con scene della “ Gerusalemme Liberata “ con data  1635. Anche  a Palazzo Zamperoli, da parte di alcuni critici d’arte, non è  esclusa la sua presenza  o quella dei suoi allievi di bottega, con dipinti e stucchi molto interessanti.

Madonna in gloria con Bambino e Santi

Nel coro dietro l’altare maggiore, è il dipinto intitolato “Madonna in gloria con Bambino e Santi”, opera datata  da Lorenza Mochi-Onori intorno al 1611.

San Geronzio  regge in mano un modelletto della città di Cagli in atto di offrirlo alla Madonna, che documenta in

“Madonna in gloria con Bambino e Santi” (1611) di Fra Cosma da Castelfranco Veneto


maniera precisa i vari monumenti esistenti allora; vi è San Michele Arcangelo in alto, San Carlo Borromeo, San Francesco d’Assisi, San Domenico di Guzman, Sant’Antonio da Padova e San Bernardino da Siena.

Il dipinto fino a poco tempo fa era considerato di autore ignoto. La firma  dell’autore “Fr. Cosmas cap. pinxit”, venuta fuori dopo il restauro, indica quindi il nome di  Fra Cosimo (o Cosma) da Castelfranco Veneto, al secolo Paolo Piazza (1560-1620); è possibile leggerla a sinistra in basso, sul fondo esterno della calzatura di San Bernardino.

L’autore, prima di entrare nel 1598 nell’Ordine dei  Cappuccini con il nome di Padre Cosimo, fece un  apprendistato presso il pittore Paolo Veronese. La stessa intonazione coloristica, con gli azzurri dominanti, riconduce alla Scuola Veneta, specie nella interpretazione del tutto personale di Palma il Giovane che fu anche lui suo maestro e che ebbe  rapporti con i Duchi di Urbino presso i quali soggiornò.

Paolo Piazza dopo aver lavorato a Praga per il sovrano Rodolfo II nei primi anni del 1600, rientrò a Venezia nel 1608[16].

Il dipinto, come detto , è stato individuato e studiato da Lorenza Mochi Onori nel 1992, la quale afferma che: “le figure sembrano galleggiare assieme a sferiche teste di cherubini…, la scena è proiettata in un vuoto irreale…”. Ella ravvisa strette analogie tra questa pala e quella dello stesso autore conservata nella chiesa di San Giovanni a Rimini del 1611 ed ambedue mostrano un certo influsso manieristico degli artisti attivi presso la Corte praghese[17].

A Roma il Piazza lavorerà per i Borghese e a contatto con l’articolata cultura romana, supererà “l’esasperato manierismo rudolfiano” presente nelle opere eseguite tra il 1608 e il 1611.

Va notato che San Carlo Borromeo, presente nel dipinto, fu canonizzato il primo novembre 1610 e proprio in quell’anno fu portato a termine la ricostruzione del Convento e della chiesa. Era costume infatti raffigurare santi beatificati e canonizzati nell’anno in cui si compivano lavori significativi.

Questa è da considerare rara opera presente in terra marchigiana perché il dipinto è un interessante documento del patrimonio artistico dei Cappuccini marchigiani in considerazione anche della grande fama, nell’Ordine e fuori, goduta dall’autore. Padre Cosma è considerato uno dei pittori cappuccini di più vasta risonanza per la qualità ed il numero delle sue opere in parte perdute e in parte conservate in Austria (Innsbruk) in Germania (Monaco), in Boemia, in Italia (a Roma per Paolo V, a Venezia per il Doge), a Castefranco Veneto, a Rimini, a Cupramontana, a Borgo San Sepolcro ed altrove.

Questo recupero cagliese può costituire un’altra tessera nel ricco mosaico delle sue attività e confermare talune caratteristiche del pittore.

Il coro ligneo è quantomai semplice, senza braccioli che suddividono gli stalli. L’alzata è in legno povero.

Alcuni dipinti nel corridoio del convento sono del 1800.

REFETTORIO

Nel 1976, durante i lavori per un nuovo impianto elettrico nel refettorio del Convento, fu rimossa un’ampia tela raffigurante “ L’Ultima Cena” che occupava l’intera parete  di fondo del locale.

Al di sotto di questa venne alla luce un dipinto murale ad olio ugualmente esteso a tutta la parete, raffigurante la “Lavanda dei Piedi”. Ai lati Sant’Antonio da Padova e San Francesco d’Assisi. Le pareti di lato poco dopo rilevarono altri dipinti murali raffiguranti santi a mezza figura ed un soggetto allegorico cristologico.

La tela che copriva il grande affresco della Lavanda dei piedi fu dipinta nel 1833 e dal 1993 si trova nel Convento dei frati  Cappuccini di Macerata. Il sottostante dipinto murale, restò nascosto per circa 143 anni.

“Lavanda dei piedi” (tardo XVI sec.) di pittore manierista metaurense


E’ possibile che questi affreschi più antichi siano stati ricoperti fin dai secoli XVI e XVII giacchè i Cappuccini avevano esigenza di austerità e semplicità.

Il dipinto ad olio della “Lavanda dei Piedi” è stato restaurato nel 1977 con il finanziamento della Soprintendenza. Dallo stile, si desume che quasi sicuramente la scena principale sia stata dipinta nella seconda metà del 1500 e così le due figure di santi fuori della cornice: a destra Sant’ Antonio da Padova con il giglio e a sinistra San Francesco d’Assisi con il libro. Di epoca posteriore dovrebbe essere l’immagine della ”Vergine coronata di dodici stelle” a mezza figura entro una cornice ovale[18]. Questa figura infatti, stando ad alcuni indizi stilistici, dovrebbe risalire alla seconda metà del 1600 o la prima metà del 1700, così anche l’ornamento della cornice. (da Santarelli)

L’affresco raffigura dunque Gesù mentre lava i piedi a Pietro con una corona di apostoli e discepoli. La scena è debolmente illuminata da una lampada soprastante. Non esistono documenti che indicano l’epoca e l’autore della scena. La data cosiddetta post quem dovrebbe essere il 1567, anno in cui i Cappuccini presero possesso del Convento. Inoltre l’analisi stilistica ce la pone entro l’ultimo trentennio del 1500.

Quanto all’autore, conferma il Santarelli, ci fa venire in mente il cosiddetto “manierismo metaurense” tra Luzio Dolci, Giustino Episcopi e Giorgio Picchi: tutti e tre di Urbania ed operosi protagonisti.

Come già detto,si tratta di quel fenomeno artistico della fine Cinquecento e inizio Seicento che si presenta anche nell’entroterra urbinate, di confine tra le Marche e la Toscana.

I pittori metaurensi rielaborano quindi dati di cultura del manierismo tosco-romano (Pontormo, Giulio Romano) mediati come dice la Mochi Onori, dall’opera di Raffaellino del Colle, attraverso la conoscenza di “testi della cultura figurativa nordica”.

Il Santarelli confronta questo affresco con la “ Pentecoste” eseguita da Giustino Episcopi e Luzio Dolci nel 1560 per la chiesa abbaziale di Urbania .

Se si osservano alcune figure di apostoli troviamo incidenze della maniera romana da un lato, come il personaggio raffaellesco in piedi, e dall’altro taluni accenti nordici (vedi riflessi sulla testa del Cristo biondo), che sembrano ricondurre proprio al manierismo metaurense . Il Dolci, fra l’altro , nel 1572 , firmava la “Natività di Maria” per la chiesa  di S. Chiara proprio a Cagli,  mentre l’Episcopi, a Piobbico, realizzava affreschi nel Castello Brancaleoni subito dopo il 1574. L’opera potrebbe essere attribuita o all’uno o all’altro, oppure eseguita in collaborazione giacché talora essi operavano assieme.

Nel 1993 , ripresi i lavori di restauro del refettorio sotto la sorveglianza della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici delle Marche nella persona della dottoressa  Benedetta Montevecchi e finanziati dalla Provincia dei Cappuccini delle Marche, sono emersi altri affreschi sulle pareti laterali.  Sono dodici dipinti di santi a tempera più una figura allegorica di Cristo a mezzo busto.

Iniziando dalla parte destra:

  Riquadro.  Forse rappresenta Salomone o un profeta .

2   ° Riquadro. E’ indecifrabile perché quasi del tutto abraso.

3° Riquadro. E’ illeggibile perché quasi del tutto perduto.

4° Riquadro. Vi s’intravede una figura di santo il cui volto, iconograficamente, sembra richiamare quello di San Pietro.

5° Riquadro. In un cartiglio si legge la parola “Agni” da cui si deduce che possa trattarsi della figura di San Giovanni Battista, del quale s’intravede metà del volto .

6° Riquadro: Personaggio ignoto.

7° Riquadro. La pittura sulla parete di fondo è stata deturpata da una traccia di cemento nel 1976, durante i lavori del nuovo impianto elettrico: dovrebbe trattarsi di un “santo martire” come suggerisce una palma verde sul lato sinistro.

8° Riquadro. Vi si scorge un personaggio con la corona sul capo, forse il “Cristo regale” e sopra, a monocromo, la figura allegorica della “ Morte” con la falce, con sopra un cartiglio recante la scritta : “Omnia mihi subdita “ (tutto è a me sottomesso). La immagine della morte sembra più antica di quella del Cristo.

9° Riquadro. Figura di Santo con palma del martirio, forse un apostolo (San Giacomo Maggiore).

10° Riquadro: Figura di uomo di cui si scorgono due terzi del capo. Non è identificabile, ma appare di buona esecuzione per l’espressione degli occhi.

11° Riquadro: Figura di santo o di santa avente bandiera con croce ( forse S. Giorgio o S. Orsola).

12° Riquadro: Figura di santo, dovrebbe identificarsi con S. Sebastiano per le frecce che vi si scorgono.

13° Riquadro. E’ una figura intera corrispondente forse al re David come fa supporre la corona in capo. Fa “pendant” con la figura di fronte, forse Salomone.

Questi affreschi sono uniti da festoni che corrono tutt’intorno e che includendo anche la parte inferiore della strombatura della finestra; sembrano risalire ad una stessa epoca, forse, dice il Santarelli, potrebbero risalire a poco dopo la prima metà del secolo XVI. Allora viene da domandarsi: questi affreschi furono eseguiti prima che i Cappuccini nel 1576 si insediassero nel loro convento costruito sull’antica Rocca feltresca? I soggetti non sono francescani. La Rocca al tempo della fondazione del Convento era proprietà di Bernardino Benedetti il quale può averla anche utilizzata per sé o per altri. Quindi potrebbe essere possibile che i Cappuccini abbiano adattato a refettorio un precedente locale della Rocca già decorato con figure di santi, poi coperte o subito in ossequio all’austerità e semplicità cappuccina, o dopo, in proseguo di tempo, in data sconosciuta.
Dipinto parietale. (8° riquadro)

Altri critici invece preferiscono collocare gli affreschi laterali in un momento successivo, cioè all’epoca della ristrutturazione del 1605-10 da parte del facoltoso e generoso cagliese Ettore Berardi.

In questi affreschi sono forti i richiami stilistici rinvenibili nei dipinti seicenteschi presenti nelle lunette della volta della sagrestia della chiesa di San Francesco in Pergola.

Il dibattito rimane aperto.

Tersicore Paioncini


Bibliografia


Giovanni Mangaroni-Brancuti “Il Cenobio benedettino di San Geronzio” – E.Balloni & figlio editori. 1905

Sac. A.Tarducci “Dizionarietto biografico cagliese” – Casa editrice Balloni. Cagli 1909

Sac. Prof.Gottardo Buroni “Cagli, monumenti e pitture” – Scuola tipografica “Orfanelli del Sacro Cuore” – Città di Castello 1927

Sac. Prof.Gottardo Buroni “La diocesi di Cagli” – Scuola tipografica “Bramante” – Urbania 1943

Luigi Michelini Tocci “Eremi e Cenobi del Catria” – Cassa di Risparmio di Pesaro. 1972

A.Mazzacchera “Catria e Nerone, un itinerario da scoprire” – Comunità montana del Catria e del Nerone. 1990

Giuseppe Santarelli “I Cappuccini a Cagli”- Provincia Picena Frati Cappuccini. Ancona 1996

A.Mazzacchera “Il forestiere in Cagli”- Pro Loco Cagli. 1997

James Hall “Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte” – Longanesi. Varese 2001

L.B.Venturi”I monaci bianchi di Pesaro” – Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro. Ed. Villa Verucchio Rimini 2005

E Baldetti “Documenti del Comune di Cagli. La città antica 1115-1287” – Comune di Cagli. Urbania 2006

Giuseppe Palazzini, Pietro Palazzini, Ernesto Paleani “Pievi, parrocchie, chiese, oratori, nella diocesi storica di Cagli dalle origini ai nostri giorni” E.Paleani Editore, 2008

Marco Reali “Cagli: la mutatio, il vicus, la civitas altomedievale” -  2014

Notizie dall’Archivio della famiglia Agnese Mochi di Cagli.

N O T E



[1] In genere,  il tempio romano poteva essere prostilo, ovvero di forma rettangolare, con le colonne normalmente di ordine italico o corinzio sulla parte anteriore; custodiva l’immagine della divinità cui il tempio stesso era dedicato. La cella era senza finestre, con una sola porta e non accessibile ai fedeli. Il pronao, in epoca romanica, poteva essere utilizzato come l’entrata  di una chiesa.
[2] Dopo la guerra gotico-bizantina del VI e VII sec., molte città scomparvero, le campagne rimaste da molto tempo abbandonate si trasformarono in terre incolte e foreste; la popolazione sparsa nelle campagne, priva di guida amministrativa, moriva di fame; le vie di comunicazione da tempo abbandonate, senza più manutenzione, degradarono e i commerci si fermarono, delineando un’economia chiusa. Questo tragico quadro veniva poi ulteriormente aggravato dalla”peste bubbonica”. La popolazione si riprese nella seconda metà del VII sec.: In questo contesto soltanto la Chiesa sembrava capace di supplire alle carenze del potere civile e al disordine della società.
[3] Il Cenobio dal greco koinos e bios = vita in comune, è quindi un luogo dove i monaci o i religiosi fanno vita in comune. In molti casi, come dice Luigi Michelini Tocci nel suo libro “Eremi e Cenobi del Catria”, gli eremi si trasformano in Cenobi; hanno un oratorio o una chiesa e un gruppo di celle annesse ad un piccolo chiostro, o talvolta sparse per la campagna. Attorno al Mille, nella nostra dorsale appenninica del Catria-Nerone e Petrano, soggiornò (secondo anche quanto dice il suo biografo “San Pier Damiani”) San Romualdo. Percorrendo egli le nostre valli e le nostre montagne, fondò e perfezionò con strutture più sicure le dimore di diversi eremi che vivevano in condizioni pietose. Gli eremi fondati si pensa siano stati tre, quali:
San Bartolo di Monte Petrano
San Salvatore della Foce
Eremo poi Cenobio di San Nicolò di Bosso
Ma è importante sottolineare, secondo anche come ci riferisce il Buroni, che nella nostra zona erano già esistenti tre monasteri benedettini:
il Monastero benedettino di San Geronzio del VII sec. (già citato ed in parte oggetto del nostro studio), avente patrimoni, ricchezza e potenza.
Il Monastero Benedettino di San Pietro di Massa risalente all’830 (Bricchi e Palazzini) che ebbe momenti di splendore e di grande influenza politica nella lotta contro il Comune di Cagli, specialmente per lo spregiudicato ardimento dei suoi monaci che non esitarono a prendere le armi e a ribattere “offesa contro offesa”.
Il Monastero Benedettino di San Vincenzo del Furlo di cui il primo documento risale al 970, ma la sua fondazione potrebbe essere anteriore per la presenza di alcuni materiali di recupero con elementi decorativi preromanici e bizantini.
[4] L’enfiteusi era il diritto di godere per almeno 20 anni (o fino alla terza generazione maschile) dei benefici di un fondo senza esserne proprietario, con il dovere di migliorarlo e di corrispondere periodicamente un canone annuo di pagamento prestabilito o fisso, in denari o in natura (focacce, ciambelle, candele…..).
[5] La decima era una tassa obbligatoria da versare al Vescovo per il mantenimento della diocesi ed era costituita dalla decima parte dei proventi che potevano essere in denaro o in natura.
Il censo era una tassa che comprendeva pochi denari “lucenses” (pecunia di Lucca) da pagare in una sola volta.
[6] Sia il Mangaroni Brancuti che il Buroni riportano molte notizie dall’Archivio Capitolare e da alcuni documenti del Comune di Cagli, riguardanti i privilegi. In una pergamena del 1132 si legge: ”Benedetto, priore e rettore di S. Croce dell’Avellana concedeva a Bernardino, abbate di S. Geronzio ed ai suoi successori in perpetuo tutti i beni appartenenti a detta Avellana situati nel  contado di Cagli nel luogo chiamato S. Nicolò di Bosso con tutti gli arredi  sacri, i libri, i calici,…oltre la terra e la vigna”. Detti beni avevano per confine da un lato il fiume Bosso fino al Candigliano; dallo stesso Candigliano fino alla sommità del monte Petrano e monte Nerone. In permuta Benedetto di Fonte Avellana riceveva dall’abbate di S. Geronzio le terre,  compreso il castello di Fenigli, che giungevano fino al fiume Cesano. Da questa pergamena lo storico Bricchi deduceva che il Monastero di San Geronzio fosse stato più nobile di quello dell’Avellana perché decorato di abbate ”con molta opulenza “, quando Santa Croce di Fonte Avellana aveva solo il priore. In una “Bolla” del 1170 di Papa Alessandro III, diretta ad Allorico abbate di San Geronzio, si viene a sapere del privilegio che stabiliva: “Tutti i beni posseduti dal detto Monastero e quelli che in futuro gli donassero i pontefici o i re o i principi o i fedeli, restassero in pacifico godimento al monastero”. Inoltre il Papa proibiva al Vescovo di Cagli di “recare molestie” allo stesso contro l’antica ragione e consetudine. Né altri, lo facessero.
[7] Nel luogo dove venne costruita la chiesa dei cosiddetti Zoccolanti si trovava il “patibolo”. Di conseguenza questo venne spostato dal 1620 nella zona fuori Porta Massara. Durante il Governo dello Stato Pontificio, nella Legazione Apostolica di Urbino, l’esecuzione dei condannati a morte per decapitazione avveniva tramite la ghigliottina e a Cagli avveniva nel piazzale fuori Porta Massara. L’ultimo condannato cagliese fu nel 1843 Vincenzo Cini soprannominato “Spigarino” e “Mignola” di anni 25, di professione calligaro, ammogliato e con figli. Venne condannato per l’omicidio di Paolo Gregorini, detto “Fontetta”, nella notte tra il 23 e 24 giugno 1839, che lo aveva sorpreso a rubare la lana nei magazzini di Sante Mochi, allora commerciante, situato negli ambienti della chiesa di Santa Chiara. La sentenza venne emessa in nome di Sua Santità Papa Gregorio XVI. Dopo un lungo processo il Cini venne ghigliottinato il 21 febbraio 1843 alle ore 9 antimeridiane. La salma del giustiziato venne tumulata in un loculo all’interno della ex chiesa di San Rocco, nella via Pian del Vescovo in Cagli. Quando nel 1977 l’edificio venne in mano a dei privati, la salma fu rimossa e tumulata definitivamente nel cimitero di Cagli.
[8] Questi frati, della feconda matrice francescana e della cui riforma si fece promotore nel 1528 Padre Matteo da Bascio nella città di Camerino, venivano richiesti per motivi essenzialmente spirituali. A Cagli l’idea nasceva dalla volontà del Vescovo Torleoni (1565-67) e trova piena adesione tra i Consiglieri comunali ed i Cagliesi stessi. I Cappuccini della Marche in genere prediligevano i siti sopraelevati rispetto alla città ospitante.
[9] Nel  1858 la biblioteca poteva essere indicata come una delle tre esistenti in Cagli, regolarmente aperta al pubblico.
[10] Il Beato nacque in Urbino nel 1560 dalla nobile famiglia dei conti Passionei ed ebbe il nome di Marco. Ben presto rimase orfano di padre e di madre e fu condotto a Cagli dove risiedeva lo zio paterno, Paolo, e dimorò fino al 1577 nel Palazzo Luperti-Passionei in via Lapis nella cui facciata si trova una lapide che lo ricorda. Gli fu dato un maestro di casa secondo il costume dei nobili del tempo e compì gli studi. Studiò ancora a Perugia, poi a Padova frequentando l’Università e conseguendo il dottorato in legge. Da Padova tornò a Cagli e poi a Fossombrone dove la sua famiglia nel frattempo aveva preso dimora. Nacque qui la sua vocazione religiosa cappuccina. Ordinato sacerdote si dedicò alla predicazione nelle Marche tra le popolazioni di umili borgate e anche fuori d’Italia. Con Cagli mantenne sempre buoni rapporti tanto che venne eletto padre guardiano del Convento dei Cappuccini. Ritornò a Fossombrone e poi di nuovo a Cagli fino a pochi anni dalla sua morte. Morì a Fossombrone.
[11] Digiunò a pane ed acqua tre volte la settimana; afflisse il suo corpo con modi estremi con asperrimi cilici e lo flagellò con catenelle di ferro per un’ora al giorno in memoria della Passione di Cristo. Dormì sulle nude tavole e per sole quattro ore per notte con continue preghiere, meditazioni e contemplazioni.
[12] Il soggetto rappresentato nel quadro di destra è San Michele Arcangelo che sconfigge il Diavolo con accanto San Giovanni Battista. Il culto michelitico era molto diffuso a Cagli e nel territorio circostante anche prima del 1287-89, quando la città assunse per breve tempo il nome di Sant’Angelo Papale in onore al Papa Niccolò IV. A questo proposito è interessante ricordare che, secondo l’ipotesi di Maddalena Scoccianti, l’impianto urbanistico ad assi ortogonali sia attribuito all’architetto Arnolfo di Cambio, allora al servizio dello stesso Papa. Varie chiese del territorio erano già dedicate all’Arcangelo: Sant’Angelo Minore, Sant’Angelo Maggiore (oggi San Giuseppe), Sant’Angelo di Cerreto, Sant’Angelo in Maiano, Sant’Angelo in Sorticoli. Fin dal 1184 venne ricordato un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo ai piedi del monte di San Geronzio, non lontano dal luogo dove sorge il Convento dei Cappuccini. Si può aggiungere che San Michele Arcangelo è uno dei patroni minori della diocesi di Cagli. Sullo sfondo del quadro, infatti, a destra si profila una città che sembra proprio riferibile e Cagli (Torrione, campanile di San Francesco). L’immagine di San Giovanni Battista è ricorrente nell’iconografia cappuccina, anche perché, nella Costituzione dell’Ordine (1536), viene indicato come modello di vita austera e di predicazione penitenziale.
Per quello che riguarda l’iconografia dell’altro quadro di sinistra, la figura di San Geronzio è ovvia e quella di San Filippo può alludere all’anno della sua beatificazione da parte del Papa Paolo V che coincide con l’anno in cui furono portati a compimento i lavori: 1610.
[13] In questa seconda cappella, come risulta da un documento dell’Archivio della Curia Vescovile di Cagli e regnante il Papa Pio IX, in data 14 luglio 1851, venne concesso il permesso di erigere il Sepolcro Gentilizio della famiglia Giuseppe Mochi, dietro richiesta dei figli: il Proposto don Andrea Mochi e l’Ill.mo Sig. Cav. Sante Mochi, ambedue patrizi cagliesi. Sulla lapide venne impressa l’Arma gentilizia della famiglia con la scritta “Famiglia Mochi”. Durente i lavori di ristrutturazione della Chiesa conventuale avvenuti negli anni ’50 del secolo scorso, il sepolcro pare sia stato smantellato e che non vi sia più nessuna traccia di questo.
[14] Secondo la “Legenda Aurea” di Iacopo da Varazze (1255) si dice che il suo corpo fu trasportato da alcuni angeli nel Monastero di Santa Caterina sul monte Sinai dove ora si trova anche la sua reliquia. E’ protettrice dell’Università di Parigi, patrona degli eruditi e della cultura in genere; è protettrice delle ragazze da marito. Le “Caterinette” erano le donne in età avanzata e le sartine.
Nella iconografia corrente la Santa viene anche rappresentata con il suo dito indice vicino a quello di Gesù Bambino in braccio alla Madonna, in segno di “sposalizio mistico”.
[15] Stando a quanto narra la fantasia e l’incredibile “Passio” del Santo, l’oca potrebbe alludere alla sua decapitazione avvenuta nelle vicinanze di Cagli, quando il suo corpo sarebbe stato difeso da alcuni volatili. Se si tratta di un’oca, questa inoltre potrebbe riferirsi alla tarda vecchiaia di San Geronzio, peraltro favolosa e descritta dalla “Passio”, giacché l’animale talora veniva assunto a simbolo dell’età ricca di anni e di sapienza.
[16] Rodolfo II fu prima re e poi imperatore di Austria, di Ungheria, della Moravia e della Boemia. Egli aveva avuto un’educazione cattolica in Spagna. Raccolse nel Castello di Praga una collezione di opere d’arte secondo un  prevalente gusto “del bizzarro e dell’esotico”.
[17] Il Manierismo era una corrente artistica nata in Italia (Toscana, Roma) nella seconda metà del Cinquecento; si è poi propagato in Francia e in Europa in genere. Quest’arte, rompendo gli schemi del Rinascimento,  tendeva ad esorcizzare cioè a rimuovere dalla mente, il perfezionismo classico di Raffaello e Michelangelo con espressioni che determinavano negli artisti sgomenti e “licenze” di esagerazione nella forma, nel colore e nel nostro caso nel “bizzarro”. Queste licenze divennero poi regole e determinarono uno stile, appunto, manieristico (vedi Parmigianino, Giulio Romano, Pontormo, Rosso Fiorentino…e Raffaellin del Colle con il suo “manierismo metaurense”).
[18] L’iconografia della Vergine Maria coronata di 12 stelle doveva rappresentare l’Immacolata Concezione e nasce dal nuovo impulso dato al culto della Vergine durante la Controriforma creando appunto un nuovo tipo dell’Immacolata Concezione nell’arte seicentesca, soprattutto in Spagna al tempo della Inquisizione. I caratteri essenziali erano infatti quelli della “donna incinta dell’Apocalisse” di San Giovanni evangelista che aveva sul capo una corona di 12 stelle. Questa figura di donna verrà quindi collegata alla Vergine Maria, così la figura dell’Immacolata Concezione assumerà una funzione centrale nelle raffigurazioni artistiche, nel tentativo di contrastare le eresie luterane e calviniste. Per il numero 12 è da considerare inoltre il significato dei numeri nella Bibbia: 12 erano le tribù di Israele, 12 erano gli Apostoli, 12 le stelle che coronavano il capo della Vergine Maria, 12 i santi riprodotti nel refettorio del convento.

Convento dei Padri Cappuccini di Cagli.

Cortile interno e “professorio” (1894)