25 maggio 2011 LA CENA DI FINE ANNO ACCADEMICO

LE FOTO DELLA CENA E DI ALTRI EVENTI




SVOLTI DALL'UNILIT NEL CORSO DELL'ANNO ACCADEMICO APPENA CONCLUSO




SONO DISPONIBILI




PER LA VISIONE E L'EVENTUALE STAMPA




PRESSO LO STUDIO FOTOGRAFICO



DI ALICE TOCCACELI




IN PIAZZA MATTEOTTI A CAGLI.

24 MAGGIO 2011 Alberto FERRETTI

PERCHE' LI' ?


Premessa“Perché lì?” è una domanda che ci capita di porre ogni giorno.
“Perché l’hai messo lì?”, “Proprio lì dovevi metterlo?” e così via.
È una domanda, tuttavia, che raramente ci poniamo quando visitiamo una città. Possiamo ammirarne i palazzi, le vie, le opere d’arte, conoscere la sua storia, quella dei suoi uomini, o donne celebri, ma quando mai ci chiediamo “Perché proprio qui?”.
Ed allora: “Perché le nostre città, i nostri paesi sono stati costruiti proprio lì? Che cosa ha determinato la scelta?”

Clima
Il clima ha certamente una parte notevole nell’organizzazione di un territorio. Nel corso degli ultimi 25.000 anni il paesaggio della nostra regione è mutato più volte in relazione con i cambiamenti climatici. Tra 25.000 e 15.000 anni fa era in pieno sviluppo l'ultima grande glaciazione (chiamata Wurm III). Il livello marino si trovava 130 m sotto il livello attuale. Si era alla fine del Paleolitico e l’uomo poteva transitare liberamente a piedi sul terreno asciutto a nord della linea Ancona-Zara.
Nella catena del Catria e del Nerone erano presenti dei piccoli ghiacciai nelle attuali valli del Bevano, del Tenetra, del Certano e dello Screbia che presentano infatti una morfologia in parte attribuibile all’azione glaciale.
Con la fine del Wurm III il clima divenne fresco umido. I monti delle Marche erano allora ricoperti da una foresta di conifere. Il clima più caldo che cominciò ad imporsi determinò un innalzamento del livello marino che raggiunse i valori attuali all’incirca tra 6.000 e 5.000 anni fa. Questa fase climatica calda è stata chiamata “ottimo neolitico”. Nei nostri monti, la foresta di latifoglie (faggio, castagno) sostituì quella di conifere che mantenne dei residui solo nelle parti sommitali della catena appenninica.
Le colline e le piane di fondovalle erano ricoperte da querce che, nei momenti più caldi di questa fase, raggiunsero anche quote alte, sostituendo parzialmente il faggio.
Fra le popolazioni umane che si erano insediate nel nostro territorio, cominciò a diffondersi l’agricoltura.
Anche in seguito, eventi climatici, condizionarono la scelta dei siti d’insediamento.

Orientamento delle valli fluviali
Un altro importante fattore nell’organizzazione del territorio è rappresentato dalla conformazione delle valli. Le valli marchigiane sono generalmente rettilinee. L’alta valle è delimitata da versanti spesso ripidi o da forre, oppure da declivi di varia ampiezza. I versanti sono ricoperti in parte da una vegetazione arbustiva, in parte arborea.
I corsi d'acqua non sono molto larghi, scorrono perlopiù sul substrato roccioso nell’alta valle e sui rispettivi depositi nella media o bassa valle. L’ampiezza massima dei fondovalle è dell’ordine del centinaio di metri.
Nelle Marche, i versanti dei fiumi non sono simmetrici, ma uno (generalmente il versante di destra) è più corto e più ripido dell'altro a causa della differente velocità d'erosione sui due lati della valle. Ciò dipende dal fatto che i versanti di destra sono esposti a NW e quelli di sinistra a SE. La quantità di calore solare (insolazione) ricevuta dai due versanti, è differente: il versante di sinistra riceve una quantità di calore che può essere superiore al doppio di quella che riceve il versante di destra.
Per questo motivo nel versante di sinistra è maggiore il grado d'evaporazione dell’acqua. Ciò determina un minore contenuto d’acqua nel suolo e pertanto una copertura vegetale più povera e più rada.
Queste diverse condizioni fisiche dei due versanti delle valli marchigiane hanno delle conseguenze per le attività agricole. Il versante di destra (o a bacìo) è più umido e in esso prevale il bosco; il versante di sinistra, che ha meno bosco, è più soggetto a processi erosivi intensi. Sono queste differenti condizioni che determinano l’assimmetria dei versanti. Dal versante di sinistra le acque correnti asportano una maggior quantità di detriti; questi, in seguito, sono abbandonati alla confluenza con il corso d'acqua principale, ove formano accumuli più grandi di quelli degli affluenti di destra. Ciò costringe il corso d'acqua principale a stare più a destra e ad erodere maggiormente il versante di questo lato che risulta sempre più ripido. In conclusione, il versante di sinistra dei fiumi marchigiani è più soleggiato, dunque più asciutto, meno ripido, più largo, più favorevole all'agricoltura ed all'insediamento umano che il versante di destra.

Sorgenti
La presenza di sorgenti è un altro importante fattore per l’organizzazione di un territorio e l’ubicazione dei centri abitati. Nel nostro territorio le rocce che determinano l'emergenza delle acque sotterranee e, dunque, la presenza delle sorgenti, coincidono con le rocce marnoso-argillose e cioè con la Formazione del Rosso Ammonitico, le Marne a Fucoidi, la Scaglia Cinerea e lo Schlier.

RisorseL’uomo che, in tempi preistorici, percorreva le montagne appenniniche poteva trovare non solo acqua di buona qualità, erbe e frutti selvatici, legna da ardere o legname per costruire, cinghiali, cervi ed altri animali cacciabili per carne o per pellicce, ma anche un riparo nelle grotte, selce per i suoi attrezzi, o per le armi, buona argilla per costruire recipienti, compatti ciottoli di fiume o resistenti blocchi di pietra per costruire muri ed un clima abbastanza mite.
La presenza dell’uomo nelle nostre vallate è attestata da parecchi reperti. Lungo la strada Cagli-Pianello, a poche centinaia di metri da Secchiano, degli scavi hanno messo in evidenza importanti reperti archeologici distribuiti su tre livelli stratigrafici.
Ossa umane, che caratterizzavano il livello mediano, in seguito ad indagini con il carbonio (C14) hanno indicato un’età risalente all’incirca al 950 a.C.[1] Al di sotto di questo livello si trovò un accumulo di blocchi di selce ed alcune punte di freccia, raschiatoi e simili. Nel livello più alto, invece, era presente una tomba a cappuccina. Il sito che per la stratigrafia corrispondeva abbastanza bene con quello di Pianello di Genga, non è stato purtroppo conservato.
Pochi anni fa, grazie ad un ingrandimento di una porzione della carta ortofotografica di Cagli e a foto aeree, è stato possibile evidenziare in due siti della valle dello Screbia (più precisamente, in posizione opposta rispetto alla Torraccia) la presenza di cerchi di diametro diverso. Questi cerchi potrebbero corrispondere alla base di capanne o di tombe, simili a quelle di altri siti nel Maceratese, datate VIII-VI secolo a.C.

Toponimi
La toponomastica fornisce altre utili informazioni sull’insediamento nel nostro territorio. Riporto qui degli appunti presi nel corso di una conferenza sulle genti iguvine tenuta dal prof. Augusto Ancillotti, che possono avere alcuni collegamenti con il toponimo Cagli. “La toponomastica riflette sempre il modo con cui la gente del posto chiama i luoghi”.
Cagli potrebbe derivare dal paleoumbro “kahlis” da cui il latino “callis” (sentiero), ma anche dal nome di una confraternita iguvina, la Caselate, che risiedeva nella fascia delle “kasles”, ossia delle avellane.
Altri centri della fascia appenninica che hanno ricevuto il loro nome dalle confraternite iguvine sono:
Attiggio, antico centro del Fabrianese, dalla confraternita Atiediate;
Chiaserna, frazione di Cantiano, dalla confraternita Clavernia che risiedeva nelle strettoie o gole fluviali;
Pioraco e M. Primo dalla confraternita Peieriate, o dei monti acuti[2];
Tolentino, dalla confraternita Tolenate, o delle “tolena” (colline).

Vicende umane
Le ricerche archeologiche più recenti hanno messo in evidenza complesse relazioni non solo fra il popolo umbro e quello piceno, ma anche sull’origine e la civiltà dei Piceni che nella prima fase dell’età del ferro, tra il X ed il IX secolo a.C., occuparono un ampio territorio compreso tra i fiumi Foglia a nord e Pescara a sud e delimitato ad ovest dagli Appennini.
I Piceni s’insediarono nel territorio in piccoli gruppi (distribuzione detta “paganica”, ossia per famiglie/tribù). I loro centri abitati sorgevano più o meno nelle vicinanze di preesistenti villaggi dell’età del bronzo, differenziandosi spesso da una località all’altra.
Nel 299 a.C. tra Piceni e Romani iniziarono contrastati rapporti. I Piceni dapprima si allearono con i Romani, poi entrarono in un conflitto che terminò con la deportazione in Campania di parte dei Piceni in quello che venne chiamato Ager Picentinus.
Nel 295 a.C. i Romani, con i quali si erano alleati Piceni e Lucani, sconfissero gli Umbri, i Sanniti e gli Etruschi nella battaglia di Sentinum, nei pressi di Sassoferrato.
All’incirca dal 250 a.C., i Romani erano i padroni incontrastati dell’intera regione. Da questo momento truppe picene e umbre combatterono al loro fianco. Nel 207 a.C, dopo la vittoria romana sul Metauro contro le forze cartaginesi comandate da Asdrubale, ebbe inizio per le popolazioni delle Marche il processo di romanizzazione del territorio, che coincise anche con un’importante fase climatica.
Dal II sec. a.C alla fine del II sec. d.C. il clima subì un notevole cambiamento caratterizzato da un aumento delle temperature. Ciò favorì il traffico di merci attraverso l'Appennino e i valichi alpini, il miglioramento generale della viabilità (strade) e, soprattutto, la costruzione di acquedotti. È stato questo il periodo “boom” della via Flaminia.
Con il console Flaminio, Augusto e gli imperatori successivi, la Flaminia divenne la via del traffico da Roma alle città umbre e picene. Lungo il suo percorso fiorirono fattorie agricole e ville residenziali. Le piane dei fiumi principali divennero tanti “ager per centurias divisus”, come accadde nelle basse valli del Metauro, Cesano, Misa, Potenza, Chienti e Tenna.

Nell’alto medioevo, nuovi rapporti economici e sociali sono successivamente introdotti dalla coesistenza di gruppi longobardi e franchi, messi in evidenza, per esempio, dai contratti definiti nelle carte di Fonte Avellana.
Nel passaggio dall’alto al basso medioevo, nel nostro territorio cominciano a diffondersi le sedi eremitiche, le pievi, le chiese rurali e numerosi villaggi/case-torri/castelli con una distribuzione strettamente legata alla morfologia della catena del Catria.
Un nuovo cambiamento del clima (più caldo), il controllo territoriale da parte delle abbazie, le vedute ambientalistiche dei monaci, produssero lentamente un miglioramento delle condizioni di vita per tutti.
Su una carta geografica della valle del Candigliano e dell’alto Cesano, è facile trovare per i secoli XI-XII una correlazione fra le grandi strade, o i corsi d’acqua e l’ubicazione delle pievi, dei monasteri, o delle chiese parrocchiali rurali (queste coincidono spesso con centri abitati).

Ubicazione dei centri abitati
Un centro abitato, dunque, non sorge per caso dove si trova, ma viene a localizzarsi lì e ad ingrandirsi per una serie di motivi ben precisi ed attraverso un processo dinamico che coinvolge fattori ambientali (quali la stabilità e la fertilità dei terreni), storici ed economici (per esempio, la facilità delle comunicazioni).
Nella catena del Catria, questi fattori favorevoli coincidono spesso con una fascia di formazioni rocciose che vanno dalla Scaglia Marnosa (variegata e cinerea) al Bisciaro.
In tale fascia rocciosa si rileva, infatti, un allineamento dei centri abitati che può essere spiegato ricorrendo non solo a fattori storici, ma ad un contesto di altri fattori che sono geologici, geomorfologici, idrografici, pedologici, o geografici (altitudine ed esposizione dei versanti).In particolare, la struttura geologica simmetrica della catena del Catria ha condizionato l’ubicazione dei centri abitati su due fasce ai piedi della dorsale, ossia su ripiani orografici impostati sulla Scaglia Marnosa-Bisciaro che determina anche la presenza di sorgenti. Nei dintorni di Apecchio i centri abitati salgono a quote più alte che nelle montagne del Nerone e del Catria perché le formazioni rocciose sono molto diverse.


Acqualagna
Acqualagna è, oggi, su un nodo stradale importante che mette a contatto la valle del Candigliano (per Apecchio-Città di Castello) con quella del Burano (per Roma).
È dunque un centro di crocicchio e di ponte sulla Flaminia, alla confluenza del Candigliano e del Burano.
Il centro storico è ubicato sulla sinistra del Candigliano che lo circonda (con il Burano) su tre lati. Il Candigliano si unisce ad angolo retto con il Burano ed è probabile che ciò determini l'allagamento della piana sulla destra in occasione di piene fluviali, ma anche l’area sulla sinistra (ove sono ubicati attualmente il mattatoio e il bocciodromo) poteva essere invasa dalle acque delle piene. Il toponimo[3] attesta l’esistenza di un’area soggetta ad inondazioni.
Il primo insediamento sorse, come risulta da documenti del XIII sec., ai piedi del castello di Montefalcone, un castello-rifugio costruito nell’alto medioevo.
Esiste, però, una serie di documenti archeologici che attestano la presenza umana da tempi protostorici. Nella grotta del grano, lungo la Flaminia, sono stati trovati reperti dell’età del bronzo, probabilmente connessi alle attività di transumanza verso i passi appenninici.
All’epoca augustea risale il viadotto con contrafforti, a grandi blocchi di pietra, sulla Flaminia.
La villa di Colombara è un’antica fattoria romana del II sec. a.C. con un ampio cortile porticato dove erano disposti i locali adibiti ad abitazione e alla lavorazione dei prodotti agricoli (scavi archeologici nel 1995/97). Fu ricostruita nella prima età imperiale parzialmente sovrapposta alla prima. I reperti stanno nell'Antiquarium Pitinum Mergens in Acqualagna.
Nel Piano di Valeria, o Pole, lungo la strada Acqualagna-Piobbico sorgeva il municipio romano di Pitinum Mergens, oggi scomparso, ma attestato da antichi scrittori e dalle pietre depredate nel corso dei secoli per costruire altri edifici un po’ dappertutto lungo la vallata del Candigliano. Se in un edificio trovate una pietra che non proviene da una cava locale, quasi sicuramente è stata portata via da Pitinum.
L’abbazia di S. Vincenzo è uno dei più antichi cenobi benedettini (VIII sec.) edificato in corrispondenza della Flaminia e del Candigliano. E’ citato in un documento del 970. Le strutture murarie e il pavimento mostrano numerosi blocchi di un precedente impiego.



Apecchio
È un centro di crocicchio della strada Apecchiese, posto sulle formazioni della Scaglia Cinerea e del Bisciaro, su un ripiano a debole inclinazione, alla confluenza del Menatoio con il Biscubio. La sua ubicazione corrisponde all’allineamento occidentale dei centri abitati della catena del Catria.
In un documento datato 1077 del vescovo di Città di Castello, è ricordata la Pieve "Sancti Martini sita Apiculo“: ciò lascia ipotizzare l'esistenza di un borgo più antico (denominato Apiculo) nello stesso posto.
Nel 1925, sono state trovate delle tombe romane con vasi di terracotta e di bronzo in località Chiluzzi nei dintorni di Apecchio. Altre testimonianze archeologiche sono state raccolte in vari siti.
In un documento datato 1230 sono elencate 38 chiese che facevano capo (pievania o piviere) alla Pieve di S. Martino.
In un atto di donazione del 1253, Daniele di Paganello donò l'ospedale di Scroffeia, nel piviere d'Apecchio. L'esistenza di un ospedale attesta l’importanza della strada di comunicazione lungo il Biscubio.
Nel XV secolo il paese era limitato al Castello degli Ubaldini compreso fra la Torre dell'orologio (che era anche l'ingresso) e la Pieve di S. Martino. Comprendeva inoltre un borgo con case distribuite lungo la via che conduce alla chiesa della Madonna della vita (secolo XVI). In un secondo tempo fu edificato un borgo situato ai piedi del colle del Castello, lungo il Biscubio, e un altro borghetto costituito da case che stanno intorno alla chiesa della Madonna della vita.
Monumento notevole è il ponte medievale con unica arcata, a schiena d’asino, del XV secolo.


Cantiano
Cantiano è un centro abitato edificato nel basso medioevo. E’ ubicato alla confluenza dei torrenti Tenetra e Bevano con il Burano, poco dopo l’uscita (o poco prima dell’ingresso) della Flaminia dalla gola fluviale. In precedenza la valle del Burano e la Flaminia erano controllate da Luceoli, antico centro quest’ultimo dall’ubicazione controversa, ma probabilmente coincidente con l’attuale Pontericcioli. Secondo Bianchi[4], Luceoli scomparve tra il 1130 e il 1140.
Cantiano si forma, nel corso del XI secolo, sui castelli di Colmatrano e di Cantiano (o di Sant'Ubaldo) del quale restano il muraglione di nord-est e la cosiddetta torre Pagella. I castelli in seguito furono chiusi all'interno di una cinta muraria, costituendo in tal modo un’unica struttura. Nel 1255, Alberto di Firenze, potestà di Cantiano elevò una torre accanto alla chiesa di S. Niccolò. L'edificazione di questa torre a protezione della porta suggerisce che erano state progettate e forse completate le mura che univano le due rocche[5].
Cantiano ha numerosi edifici sacri e civili di grande valore architettonico (Chiesa di S. Agostino); una via di Cantiano (Via Fiorucci) ha ancora numerose case che risalgono al XIII secolo.
Altri manufatti lungo la Flaminia risalgono al periodo umbro o romano (Ponte Grosso).
Nella piazza principale di Cantiano (Piazza Luceoli), l’attuale palazzo comunale
sostituisce (dal 1800) il Palazzo del Podestà e dei Priori (XII secolo) danneggiati dal terremoto del 1781. Nell'atrio del palazzo sono conservati:
1) una colonna miliare romana (305 d.C.) che determinava il miglio CXL da Roma lungo la Flaminia;
2) un’architrave proveniente dall'antica Chiesa di Santa Maria del Colnovello,
3) l’elemento di un pulpito del IX secolo appartenente alla pieve di San Crescentino.

Un problema urbanistico di Cantiano è rappresentato dalle piene fluviali (fiumane)[6].
Nell’antica torre, posta fra la porta del palazzo municipale e la Chiesa di S. Nicolò, vi sono quattro iscrizioni che ricordano alcune inondazioni del Burano:
1) piena del 13 agosto 1352 (2,06 m dal piano stradale),
2) piena del 2 agosto 1557 (stesso livello),
3) piena del 2 agosto 1617 (1,84 m dal piano stradale: distrusse la chiesa di S. Marco e l'annesso Ospedale),
4) quattro piene (senza data) che hanno raggiunto 1,82 m.
Nell’Ottocento il centro abitato di Cantiano ha subito 6 grandi piene del Burano (8 settembre 1835, 26 marzo 1857, 17 settembre 1859, 28 gennaio 1862, 15 novembre 1864, 15 maggio 1885).
A queste si aggiunsero le piene del Tenetra: 5 ottobre 1827, 14 febbraio 1832, 31 agosto 1842, 15 novembre 1870 e quelle del Bevano (che non superarono mai l'altezza di 0,90 m): alcune nel 1791 e poi il 5 ottobre 1827, 25 novembre 1830, 14 febbraio 1832, 9 dicembre 1838, 15 e 31 agosto 1842, 22 settembre 1855, 23 giugno 1858, 15 aprile, 15 maggio, 7 novembre 1885.
Numerosi i tentativi di porvi rimedio.
Nel 1791: deviazione del T. Bevano (tratto denominato "Taglio") al di fuori dell'abitato, da casa Morelli all'acquedotto Magi (progeto dell’ing. Virginio Bracci).
Nel 1827: in conseguenza di un'inondazione (5 ottobre 1827) del T. Bevano fu costruita una chiusa (progetto dell’ing. Brighenti) a monte dell'acquedotto Magi.
Nel 1828: l'ing. Reina presentò uno studio d’inalveazione del T. Bevano che però non venne attuato sia per il timore che provocasse un ulteriore innalzamento dell'alveo, sia perché il Comune non volle contribuire alla metà delle spese necessarie.
Nel 1830: nuova inondazione del T. Bevano nell'interno di Cantiano.
Nel 1859: progetto per il completamento delle canalizzazioni del T. Bevano e del T. Tenetra alla confluenza col Burano allo scopo d’impedire che le piene del T. Burano invadessero l'abitato di Cantiano. Questo progetto, però, si rivelò disastroso perché facilitò il deposito di detriti e la rottura del manufatto.
Nel 1889: altri interventi di correzione delle opere predette, ma con scarsi benefici.
Nell’agosto e nell’ottobre del 1976 il territorio della Comunità Montana del Catria e del Nerone subì due eventi meteorologici di eccezionale intensità. Nei giorni 16-17 agosto 1976 caddero circa 200 mm di pioggia.
Nell’ottobre il centro di Cantiano fu allagato per straripamento dei corsi d’acqua e così pure Moria, Palcano, Pontedazzo, San Crescentino ed altri nuclei abitati subirono gravi danni.
Attualmente l'abitato di Cantiano è isolato dal corso del T. Burano e degli altri affluenti con deviazioni in gallerie. Quasi tutto il corso del T. Burano da Cantiano a Pontedazzo è, inoltre, provvisto di argini artificiali per limitare e prevenire le conseguenze delle esondazioni.


Frontone
Le prime notizie su Frontone[7] sono in un documento del 1072 (placito dei Canossa a favore del Monastero di Fonte Avellana) relativo alla chiesa di S. Fortunato posta nelle vicinanze del monte di Frontone.
Il castello era in origine una fattoria promessa pro anima da Pagano di Foscarino di Raniero, nel 1081, al Monastero di Fonte Avellana che la occupò, all'incirca 20 anni dopo, con un proprio rettore, gastaldi e servi.
Frontone, oggi, è divisa in due parti:
1) il castello medievale posto alla sommità di un colle e circondato da un borgo antico;
2) il borgo ottocentesco, edificato sul terrazzo alluvionale del Cinisco in connessione con la ferrovia (ora dismessa), ampliato da edifici recenti.
I problemi urbanistici del Castello sono connessi alla struttura geologica del colle sul quale è costruito. Questo è costituito da due formazioni rocciose: la Scaglia calcarea (rosata) e la Scaglia marnosa (variegata e cinerea). Nella normale successione stratigrafica, la Scaglia Rosata sta al di sotto (è più antica) della Variegata-Cinerea, ma nel colle di Frontone avviene il contrario. La Scaglia Rosata che affiora nel versante sud-occidentale del colle è sovrapposta alla Scaglia Variegato-Cinerea che affiora nel versante opposto. Ciò significa che la Scaglia Rosata è sovrascorsa sulla Scaglia Variegato-Cinerea. Il piano di faglia è molto inclinato. È una porzione di un grande sovrascorrimento che interessa una buona parte del territorio appenninico, da Urbania a Fabriano.
La diversa natura delle due formazioni rocciose, la loro giacitura e la struttura tettonica del colle sono probabilmente la causa di vari dissesti e lesioni che periodicamente interessano i versanti e la struttura del castello.


Pergola
Il centro storico è circondato a semicerchio dal Cesano-Cinisco.
Cesano e Cinisco avevano in origine lo stesso nome, ma distinti sulla base della loro provenienza e cioè "Sasanus [= Cinisco] perveniens in alium Sasanum [= Cesano] qui vadit per Clandidam et ascendens in Catria"[8]. In un altro documento[9], il Cinisco ha il nome attuale "foro Cinischi", forse una deformazione di "sasanisculus".
“Clandidam” è l'ultimo quartiere antico di Pergola, sorto nel XVI sec., più a sud del borgo S. Agostino, del quale non è altro che un prolungamento. Costruito sulla pianura di Chiandida, prende il nome di "contrada del Piano". All'estremità meridionale termina con il monastero delle Agostiniane e la contigua chiesa di S. Giacomo, che risalgono alla fine del sec. XIII.
La scelta del colle di Pergola come sede per il relativo castello sembra dettata[10] dalla necessità di disporre, da parte di Serralta[11] e, dunque, di Gubbio, di un sito per la lavorazione del pellame e della successiva tinteggiatura sfruttando le acque dei due corsi d'acqua: Cesano e Cinisco. Il castello posto sul colle aveva anche una funzione di controllo della viabilità.
Il Pontefice dette il proprio parere favorevole e nel 1234 (15 marzo 1234) fu messo a disposizione il terreno "pro castro predicto difficando". Nello stesso anno cominciano le controversie tra Cagli e Pergola perché i residenti nei borghi cagliesi di Monte Episcopale e di Monte Insico tendevano a trasferirsi nel nuovo centro.
Edificato per occupare le esuberanti forze lavorative disponibili nell'alta valle del Cesano, il primitivo Castrum Collis Pergulae ha avuto una continua espansione; da "Terra grossa e piena di buon popolo", come la definisce lo storico Vincenzo Armanni, nel 1752 ricevette da Benedetto XIV gli onori e le prerogative di città.


Piobbico
Nel territorio di Piobbico sono stati raccolti vari reperti preistorici.
Quattro sepolture ad inumazione con armi galliche, scoperte in località Chiusa nel 1780, confermano la presenza dei Galli Senoni nel territorio del Nerone.
Terminata la guerra sociale (295 a.C. - battaglia del Sentino) gran parte dei terreni più fertili del bacino del Candigliano e del Cesano furono assegnati ai veterani (zona centuriata), ma le terre alle falde della montagna furono probabilmente escluse e costiturono “l’ager publicus” da cui il toponimo: Piobbico.
Nella piana alluvionale, ai piedi dell'attuale Borghetto, è stata individuata una fornace di epoca romana.
Dal secolo X d.C., Piobbico appartene alla famiglia comitale dei Brancaleoni che posero le loro residenze: 1) nel castello detto Brancaleoni, 2) nel castello dei Muracci, 3) nel castello dei Pecorari.
Degli eremiti s’insediarono nel Fosso dell’Eremo, affluente del Candigliano, ove costruirono un Cenobio detto di S. Maria in Moribondo del quale si ha la prima segnalazione nel 1131.
Nel corso del secolo XIV , si trasferirono a Piobbico molte famiglie, perlopiù costrette all’esilio dalle città d’origine in seguito alle lotte tra fazioni. La famiglia Felici veniva da Lucca. Il rappresentante più conosciuto è Costanzo Felici (1494-1585) medico, storico e naturalista.
Piobbico è costituito dal castello dei Brancaleoni, situato su un piccolo rilievo collinare, circondato per buona parte dai fiumi Candigliano e Biscubio. Intorno al castello sta il Borghetto un complesso di case, più o meno grandi, disposte lungo il rilievo collinare ed inglobato nelle mura castellane. L’accesso al castello avviene attraverso due porte, una in corrispondenza del ponte sul Candigliano (detta porta del Feligino), l’altra sotto la chiesa di S. Pietro (porta di Via Cupa).
La tipica abitazione del Borghetto al piano terra ha un androne con funzioni di magazzino, o stalla, ma anche di bottega. La parte residenziale è posta al piano superiore al quale si accede tramite una scala ripida. Qualche edificio (ad esempio, quello della famiglia Tarducci) ha una struttura un po’ più complessa.
Dalla parte opposta del castello, alle falde del Montiego, sulla sinistra del Candigliano si sviluppò il Mercatale, ubicazione che era favorita dalla presenza di una notevole sorgente detta “le fontanelle”.
Quartieri più recenti di Piobbico si sono formati lungo le vie per Città di Castello, Urbino o la Flaminia.
Di un certo interesse è il mulino Matterozzi-Vagnarelli, situato lungo il Candigliano, non molto distante dalla confluenza con il Biscubio. Apparteneva agli ultimi discendenti dei Brancaleoni-Materozzi e fu ceduto nel primo novecento ai Vagnarelli
che lo mantennero attivo fino al 1994.
L’economia di Piobbico, in passato, è sempre stata di tipo chiuso e cioè pastorizia, allevamento e sfruttamento dei boschi per la produzione di legna e carbone, raccolta dello scotano ricercato per la concia delle pelli (essendo ricco di trementina e tannino) e raccolta del guado[12], commercializzato soprattutto in Toscana per i tintori fiorentini.

Terribili inondazioni nel settembre 1557 colpirono numerose regioni italiane tra le quali le Marche e la Romagna. Costanzo Felici dà la notizia di questo fatto. Il 14 settembre 1557 un “grandissimo diluvio che inonda Roma, con tutta la Toscana, la Marca, la Romagna e altri luoghi d'Italia, quale dissipò moltissime case e fece inestimabili danni, quanto si facesse mai diluvio per il tempo avanti”.
Due piene sono ricordate da lapidi poste lungo via Garibaldi. La prima indica il livello raggiunto dalle acque il 25 ottobre 1799 a 180 cm dal piano della strada; la seconda indica il livello raggiunto nella notte tra il 7 e l'8 novembre 1896 a quota 215 cm. In questa occasione le acque fluviali distrussero il ponte del­la Concia o dell'Arco, fatto a schiena d'asino ad una sola arcata, che univa la zona del Mercatale con la via Nuova.
Le esondazioni sono avvenute sempre nello stesso punto e ciò a causa della particolare posizione e conformazione della confluenza del Biscubio nel Candigliano. Le piene del Biscubio costituiscono un ostacolo al deflusso delle acque del Candigliano che straripano ed invadono proprio la via Garibaldi.
Secondo Veggiani[13] la confluenza dei due corsi d'acqua a Piobbico ha subito vari spostamenti nel corso del tempo. Nell’alto medioevo il percorso del Biscubio era spostato più a sud dell'attuale e la sua confluenza nel Candigliano avveniva a valle della collinetta su cui sorge il Palazzo Brancaleoni. Successivamente il Biscubio avrebbe ripreso il percorso più a nord.




Serra Sant'Abbondio
Serra Sant'Abbondio[14] è stata edificata in un sito che permetteva di controllare la strettoia ove passano le vie per Frontone-Cagli-Flaminia, per Fonte Avellana, e per Pergola-Fabriano.
È protetta dal rilievo collinare e da valli sui vari lati perimetrali.
Leccia poteva controllare l'altro lato dell'ingresso all'alta valle del Cesano, o meglio a Fonte Avellana.
Il castello di Serra S. Abbondio fu costruito nel 1257 dagli Eugubini dopo una rivolta, scoppiata contro i monaci di Fonte Avellana, degli abitanti dei castelli di quell'area istigati da Gubbio. Alla fine si arrivò ad un compromesso fra i residenti, Gubbio ed il Monastero tramite il Pontefice. La gente trovò un rifugio nel nuovo borgo che divenne anche un presidio eugubino a difesa della viabilità.






Cagli
L’esistenza di Cale (Cagli) sul colle dell’Avenante in epoca romana è ipotizzata sul fatto che nel 1289 una bolla pontificia autorizzava la traslazione della città dal colle alla piana del Mercatale. Che Cale fosse una “civitas” è dedotto dalla semplice citazione di un vescovo Greciano da Cagli che aveva partecipato ad un concilio; da ciò, seguendo argomentazioni dibattute nel corso dei secoli XIII-XV, Cale è stata considerata dagli storici locali una città importante posta naturalmente sul colle dell’Avenante. Inoltre Cale (più esattamente “ad Calem”) sta nella Tabula Peutingeriana, una specie di carta geografica del IV secolo d.C., in cui sono indicate schematicamente le principali strade d’Italia e le città che attraversano.
Pare però che la Tabula Peutingeriana sia un falso medievale, o perlomeno non sia stata fatta in epoca romana. Infatti Gubbio non è riportata come Iguvium che era il nome della città in epoca romana, ma come Agobio, ossia con il nome impiegato nel basso medioevo.
Per quanto riguarda l’esistenza di una diocesi cagliese nell’alto medioevo, occorre rilevare che la documentazione è molto lacunosa e la critica storica è superficiale.

Nel bacino del Candigliano, la romanizzazione del territorio determinò la fondazione di varie città. Le "civitas" romane erano ubicate nel fondovalle dei corsi d’acqua principali in corrispondenza di ripiani terrazzati, perlopiù sulla sinistra della valle, dove era possibile coltivare cereali e dove potevano essere costruite strade.
In tale contesto economico, perché Cale avrebbe dovuto essere edificata in una ripida zona montano-collinare, scomoda e relativamente distante dalla via principale (Flaminia), dunque in una posizione non adeguata all'economia dominante in quel tempo, oltretutto in un periodo di tranquillità militare per la penisola italiana?
Dove avrebbero potuto costruire un anfiteatro, le terme (e l’acqua?), uno stadio, un ospedale, i templi su versanti che hanno pendenze del 60%?
Nel sottostante ripiano terrazzato sulla sinistra del Bosso, il toponimo Civita corrisponde meglio con le predette condizioni ambientali ed economiche. Civita, tuttavia, è un toponimo anche longobardo.
Teniamo conto che nelle immediate vicinanze della presunta Cale, esistevano già Pitinum Mergens e Luceoli: un affollamento eccessivo al tempo dei Romani. Da Smirra a S. Geronzio sono stati raccolti numerosi reperti che possono confermare l’esistenza di più ville sul tipo della villa di Colombara in Acqualagna. Per gli aspetti economici, inoltre, erano molto importanti ponte Mallio e ponte Taberna.
Con la caduta del’Impero d’Occidente il territorio corrispondente al bacino del Candigliano, dell’alto Cesano e del Sentino fu soggetto a Ravenna. Nell’alto medioevo questo territorio entrò in crisi per una combinazione di fattori ambientali ed umani.
1) Un nuovo cambiamento climatico, dal 400 al 800 d.C., determinò condizioni di vita difficili nelle città ubicate nei fondovalle. Fu un periodo freddo che provocò ostacoli allo sviluppo della vegetazione e conseguente crisi dell’agricoltura, scarsa protezione vegetale dei versanti con incremento dei fenomeni erosivi, scarso deflusso delle acque a causa del gelo e, in particolare, parecchie epidemie.
2) Gli scontri tra i Bizantini e i Goti prima e i Longobardi poi causarono pesanti condizionamenti all’economia della Flaminia. Il ducato longobardo di Spoleto ostacolò il traffico da Ravenna a Roma, che dovette essere dirottato per Gubbio-Perugia-Todi-Amerino per cui le città marchigiane lungo la Flaminia furono separate dal traffico commerciale. Nella nostra regione sparirono parecchie città: Pitinum Mergens, Suasa Senonum, Ostra sul Misa, Tuficum (Albacina), Attidium, Sentinum ed altre.
3) A causa delle guerre e delle frequenti scorrerie dei Saraceni nei siti alto-collinari meno accessibili furono costruiti dei complessi abitativi trincerati, protetti da muraglie, che successivamente furono trasformati in capisaldi militari.
4) Da questi primi insediamenti derivano i castelli, costituiti da una struttura centrale (cassero) difesa da mura e da una torre, con altri edifici contigui disposti in anelli concentrici (borgo murato) che con ponteggi, o armature, potevano essere trasformati in una specie di bastione. In questi castelli risiedevano le famiglie dominanti e il clero diocesano. Artigiani, commercianti, contadini, operai vivevano nei sobborghi, protetti al più da palizzate, e solo nel caso di aggressioni o guerre, potevano trovare rifugio nel castello che, in queste occasioni, raggiungeva il limite delle sue capacità ricettive. Molti dei cosiddetti castelli del nostro territorio erano, in realtà, solo rifugi protetti da steccati, o palizzate.

In ogni modo, intorno al 1000 sul colle dell’Avenante c’era un centro fortificato.
Doveva esistere però un borgo nelle adiacenze della via Flaminia. Un documento datato 1072 cita la Chiesa di S. Michele arcangelo (santo “longobardo”) posta nel Mercatale di S. Angelo di cui era proprietaria l’abbazia di Fonte Avellana. Oggi la chiesa è dedicata a S. Giuseppe.
Nel dicembre 1089, Uberto detto Pagano, figlio del conte Ugo, e Gisla sua moglie vendevano all'eremo di S. Croce di Fonte Avellana un pezzo di terra con selva nel comitato di Cagli "in fundo Plano de fossa de latrone … cum ipsum aquime de ipsa fossa" (a).
In un altro documento (b) datato dicembre 1095, Raniero, figlio di Pietro de Gunzo, donava "pro anima" una sua proprietà nel comitato di Cagli "in ipsum Campo da lo mercato" il quale "ad secundo latere" confina con "la Fossa latroni"[15].
Pertanto nella "fossa de latrone", ubicata al margine del "Campo da lo mercato" (=Piano del Mercatale) di Cagli, doveva esistere un mulino (aquimen = bottaccio: bacino di raccolta delle acque che alimentano un mulino).
“Fossa de latrone” è tradotto come “fossato del ladro (o ladrone)”. Sono andato a guardare il dizionario di latino del liceo. Latro, -onis, era: 1) un cognome romano; 2) un soldato della guardia personale del principe; 3) un soldato mercenario; 4) un ladro, un brigante. Con il significato di “guardia” esiste anche “latrunculum”.
Sembra riduttivo tradurre "latrone" con il solo significato di "ladrone", perché gli altri significati suggeriscono interessanti ipotesi, per esempio, quella dell'esistenza di un corpo di guardia, ossia di una porta, dunque di qualche muraglia, o palizzata, a difesa di un centro abitato.
Si potrebbe ipotizzare allora un mulino nel fossato che era individuabile per la presenza di un corpo di guardia posto nelle vicinanze. Tale fossato era al margine del piano del Mercatale di Cagli. Il fossato era un tratto della valle del Burano o del Bosso.
Pertanto, ai margini del piano del Mercatale c'era "forse" un corpo di guardia, dunque il piano del Mercatale era già abitato da artigiani, mercanti e altri. Duecento anni prima della traslazione di Cagli dal monte. È una ipotesi.
Artigiani e mercanti stavano nel Mercatale ove passava la Flaminia in quel tempo via di transito delle merci e dei Crociati.

Negli Annali Camaldolesi[16] per l’anno 1290 il documento XLI riporta un’interessante controversia. Durante i lavori per la costruzione della città erano stati danneggiati “trasanna, domo, vinea et arboribus” posti nel Piano di S. Angelo, ossia del Mercatale, di cui era proprietaria l’abbazia di Fonte Avellana che chiedeva il pagamento dei danni. Gregorio Mei, nel suo catalogo delle pergamene[17], riferisce la controversia con una sintesi poco significativa: “i monaci … diedero autorità … di accettare le libre 150 promesse dal Comune pei danni avvenuti alla trasanna, casa, vigna, alberi salvo sempre l’obbligo … di far gli archi al di sopra della strada vicino alla chiesa che l’Eremo possiede in città”.
Il documento camaldolese è una conferma, invece, che esisteva da tempo una Cagli “popolare” nel piano del Mercatale, probabilmente dal Mercatale fino a S. Domenico.
E qualche anno fa, proprio sotto il palazzo comunale, ecco comparire antiche tombe dell’alto medioevo.
Al tempo delle Crociate, la Flaminia tornò ad essere una via di intensi traffici. I centri abitati lungo questo asse viario rifiorirono. Dai castelli, posti sulla sommità dei colli, si passò ai centri di fondovalle: villenove e borghi franchi erano allora di moda in Europa e in Italia. Sull’Avenante ci dovevano essere solo le residenze del Vescovo/clero e qualche casa-torre di alcune famiglie. Nel 1289 anche i nobili e il clero cagliese decisero il proprio trasferimento sulla Flaminia che stava vivendo il suo secondo “boom”.

La pianta di Cagli ha suscitato tanti dibattiti e altrettante ipotesi per il fatto che le sue strade si tagliano ad angolo retto, ossia Cagli ha una pianta sul tipo dei castra romani. Secondo alcuni tale pianta imiterebbe quella di Ascoli Piceno, maggior contribuente alle spese sostenute per la riedificazione di Cagli; secondo altri si tratterebbe del progetto di un grande, ma sconosciuto architetto del tempo.
È interessante questo documento riportato dal Gucci[18], conservato nell'archivio di S. Francesco. Nell’anno 1271 “ser Andrea Paci , o Pace di Andrea,” riferisce che "vedendo il Comune che le vie pubbliche dentro al sito dei suoi Ponti venivano in gran parte occupate da vicini, deputò due periti che furono Vita da Palcano e Ugolino di Bartolo, ai quali diede ordine che dichiarassero la larghezza di ciascuna via e vi ponessero i termini acciò in avvenire non venissero più ristrette da particolari. Così questi eseguirono con l'intervento ed assistenza dell'uno e l'altro podestà e cominciando da Ponte Mallio seguirono a dichiarare e terminare in ciascun luogo tutte le strade che erano attorno alla città secondo la larghezza dei siti, che alcune di esse le costituirono di sedici piedi da mano, altre di venti, altre di ventiquattro e altre di cinquanta…. In questo istrumento di termini posto alle vie, si fa menzione della Chiesa di S. Angelo che era nel Piano ai piedi della vecchia città et anco dell'ospedale di S. Croce che similmente ritrovasi nel medesimo Piano di cui oggi non vi è più memoria, come vi è della chiesa di S. Angelo che incorporata nella moderna vi si mantiene essendo notabilmente abbellita di confrati di S. Giuseppe che nel secolo passato ultimamente vi trasferirono la loro compagnia ..."
I due periti,18 anni prima della traslazione, iniziarono il loro lavoro da "Ponte Mallio" e "dentro al sito dei suoi Ponti", ossia nell’attuale sito della città ove vi erano "vie pubbliche", dunque degli edifici e degli abitanti.
Le varie ipotesi sulla pianta di Cagli non tengono in alcun conto la struttura geologica del substrato roccioso della città costituito da formazioni rocciose che vanno dalla Scaglia Rosata al Bisciaro. Queste sono state dislocate in grandi comparti che hanno subito tutti gli eventi erosivi dal Pliocene ad oggi. Le faglie che hanno dislocato il substrato s’intersecano ad angolo retto; gli edifici hanno come limite proprio i margini di questi comparti e le vie ne sono la conseguenza. I tratti in discesa (o in salita) del centro storico corrispondono a scarpate di origine tettonica colmate dai detriti di riporto durante i lavori di costruzione dei palazzi. Una riprova è, inoltre, l’allineamento dei giardini/orti dei palazzi del centro storico lasciati in punti in cui non conveniva costruire. Sarebbe interessante condurre dei sondaggi geoelettrici che permetterebbero di comprendere meglio la struttura della città.

Dopo la devoluzione del Ducato di Urbino (1631) allo Stato Ecclesiastico, comincia il declino di Cagli. Con tale evento se ne combina un altro. Viaggiatori e merci verso i paesi orientali convergevano su Ancona, dichiarata porto franco dal Pontefice. Da questo momento ha inizio il massimo sviluppo di Ancona. Alla ricchezza di questa città corrisponde la decadenza di altre, fra le quali Cagli, che in questo periodo videro un altro declassamento della Flaminia a vantaggio delle vie che portavano direttamente sul porto franco.
Un interessante lavoro sulla viabilità transappenninica[19] mostra come il traffico dal Seicento all’Ottocento tendesse ad evitare la Flaminia e, dunque, Cagli. Lo spopolamento negli anni cinquanta e sessanta del Novecento è stato un altro colpo di grazia.
Uno studio del pesarese Pietro Mancini, indica quali benefici avrebbe apportato il passaggio di una strada di livello interregionale alle città che avrebbe attraversato:
apertura di locande, miglioramenti alle vie e alle piazze cittadine con conseguente impiego di manodopera, attivazione del commercio per Urbino e i porti adriatici, richieste di legname da costruzione, carbone, legna da ardere (però qualche danno l’avrebbe portato il disboscamento), incremento dei mercati e fiere del bestiame,
abbattimento del costo delle merci (in particolare del grano, granoturco, pane) perché i carri ne potevano trasportare più dei muli, commercio del pesce (dai porti adriatici verso l’interno), variazioni della popolazione residente grazie allo spopolamento dei villaggi più poveri. E poi dicono che i marchigiani sono fissati con le strade!


Conclusione
I geografi chiamano le nostre montagne “catena del Catria”. Noi, invece, dobbiamo specificare “catena del Catria-Nerone”, ma ancora meglio “Catena del Catria-Nerone-Cucco-Petrano”. Qualcuno è tentato di aggiungere “Montiego-Pietralata-Paganuccio”.
Abbiamo promosso la “Comunità montana del Catria e del Nerone”, rapidamente ridimensionata dalla “Comunità montana del Catria e del Cesano (che è un fiume)”.
Abbiamo promosso e rapidamente distrutto l’associazione degli ospedali di Cagli e Pergola e il Distretto scolastico.
Oggi spuntano come funghi il Distretto culturale, il Distretto rurale, il Distretto del Montefeltro, … ma non vanno avanti.
Studi recenti prevedono che l’area costiera marchigiana diventerà un’unica città in questo secolo. L’area appenninica potrebbe essere sempre più emarginata. Ciò, tuttavia, non sarebbe un grosso guaio se sapremo prepararci.
Noi, però, non vogliamo intendere che la catena umbro-marchigiana è un’unità ambientale e culturale. Essa potrà crescere solo se tutti supereranno i propri campanilismi e la vivranno come una sola grande comunità.
Cominciamo col tenere pulito il nostro territorio, la nostra “casa”.
Per l’aria pulita ci pensano i venti che scendono dai nostri monti.
Forse è una fortuna che nella gola del Burano non abbiano trovato il petrolio, ma tante falde sovrapposte di buona acqua. Guardate come hanno ridotto le aree petrolifere.
Il petrolio si può sostituire con un’altra fonte energetica. L’acqua è insostituibile. Valorizziamo questo bene. È l’alimento della vita.
[1] Paleani E. (1998) – Secchiano[2] Anche Pieia, frazione di Cagli, sul Nerone potrebbe prendere il nome da questa confraternita?[3] Il toponimo (apud Aqualaniam) è ricordato nel 1299 nelle Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Marchia (a cura di P. Sella, Vaticano, 1950) ed è citata anche in altri testi (ad esempio, come “Burgo Aqualania” in una pergamena del 1292 e come “Aquelame” nel Codex Diplomaticus Dominii Temporalis S. Sedis, 1356).
[4] Bianchi D. (1973) – Cantiano, vita di una comunità.[5] Bianchi D. (1973) – Cantiano; Scatena G. (1984) – Il Castello di Cantiano; Ridolfi P. (2000) – La civitas di Luceoli, caposaldo bizantino.[6] Le date delle piene fluviali sono tratte da un manoscritto dell’ing.Tobia Morena.[7] Pierucci C. (1970) – Frontone dalle origini al 1970.[8] Carte di Fonte Avellana, I, p. 354, righe 29-30.[9] Carte di Fonte Avellana, II, p. 331[10] Sebastianelli S.(1980) - Fonte Avellana, p. 213.[11] Fondata anch’essa dagli Eugubini, attualmente è una frazione di Pergola.[12] Una pianta a fiori gialli le cui foglie debitamente lavorate, trattate e macinate, venivano utilizzate per ricavare una polvere usata nella tintura delle stoffe e della carta.[13] Veggiani A. (1985) – Le alluvioni di Piobbico nel quadro dei cicli climatici di epoca storica. In: I Brancaleoni e Piobbico, pp. 49-69. Amministrazione Comunale Piobbico.[14] Marra L. (1996) – Serra Sant’Abbondio, un paese tra Marche e Umbria.[15] Pierucci C. & Polverari A. (1972) - Carte di Fonte Avellana, v. 1, (a) documento n. 72, p. 170, righe 9-11; (b) documento n. 84, p. 195, righe 8-11.[16] Liber Quadragesimus-quartus, XLI, p. 182-183: “damnis datis a dicto communi specialibus personis nomine dicti communi in quadam trasanna hospitalis dicte heremi, et in quadam domo, vineis et arboribus ipsius heremi, quas dicta heremus habebat in locis, in quibus civitas dudum Callensis est translata et ad recipiendum a dicto sindico dicti communis CL libras Ravenna et Ancona pro satisfactione dictorum damnorum datorum in dictis trasanna, domo, vinea et arboribus et ad ratificandum et confirmandum nomine dictae heremi et capituli, et ratam et firmam habendam assignationem, dationem et concessionem factam cum commune et specialibus personis per nobilem virum dominum Bertuldum de Palombaria marescalcum et vicarium magnifici viri domini Johannis de Columna marchiae Anconitanae rectoris, et per quemlibet alium nomine dicti rectoris et vicariis, vel nomine dicti communis, de terrenis et possessionibus dictae heremi, quas ipsa heremus et ecclesia sancti Angeli habebat et possidebat in plano sancti Angeli et Mercatalis, in quibus viae, plateae sive stratae, domus et casalina dictae civitatis sunt designata et ordinata et ad consentiendum dictae assignationi, dationi et concessioni, et ad faciendum dicto sindico dicti communis recipienti nomine dictis communis et specialium personarum finem et refutationem ecc. et ad renuntiandum omni appellationi et contradictioni interposutae pro parte dicti heremi a pronuntiationem …. Facta per dictum dominum rectorem de dictis terrenis et possesionibus quas dicta heremus habebas in dictis locis a steccato intus dicte civitatis etc. “[17] Mei G. (1889) – Catalogo pergamene, p. 48[18] Gucci A. - Memorie della città di Cagli e de prencipi suoi dominanti. Parte I, p. 207-208.[19] Scotoni L. (1983), Boll. Soc. Geog. Ital.

23 MAGGIO 2011 Stefano COTRONEO

I GIOIELLI DELLA CORONA D'ITALIA.



La Corona Ferrea, utilizzata come corona ufficiale del Regno d'Italia dalla sua costituzione nel 1861, venne da sempre considerata il primo tra i gioielli della Corona d'Italia anche se non venne mai utilizzata in cerimonie d'incoronazione.



Collare dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata era l'insegna che il duca di Savoia portava in quanto capo dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata. Realizzato in oro, formato da quattordici maglie alte 3 centimetri, dentro ognuna delle quali vi sono le ultime due e le prime due lettere del moto FERT serrate da un nodo sabaudo, chiuso e smaltato di bianco e di rosso. Le maglie sono fra loro separate da quattordici rose d'oro, alternativamente smaltate sette di bianco e sette di rosso. Dal collare, al centro, scende un pendente in oro pieno, del diametro di 4,2 centimetri e sospeso da tre catenelle, racchiuso da tre nodi sabaudi e con, ne mezzo, l'immagine della Santissima Annunziata ornata con smalti bianchi, rossi e blu.




La Tiara di Maria José, una tiara in oro e diamanti fatta realizzare nel 1893 dalla famosa gioielleria francese Fabergè caratterizzata da una struttura ad archi acuti dalla quale pendono otto diamanti, uno in corrispondenza di ciascun arco.





Il Diadema della duchessa d'Aosta, è un diadema in oro, argento e diamanti realizzato nel 1895, dalla gioielleria Musy di Torino, in occasione delle nozze di Elena d'Orléans con il duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. La corona subì delle modifiche perché alcune parti di essa vennero vendute ed oggi rimane solo la parte frontale che veniva fermata sul capo con un apposito fermaglio ad incastro tra i capelli. La base del diadema è costituita da un motivo a nodi di Savoia mentre tutto il gioiello è integralmente tempestato di diamanti.




Altri gioieli privati:


















































19 maggio 2011 Francesco MALGERI

A CENTO ANNI DALLA GUERRA DI LIBIA.


Proprio cento anni fa l’Italia avviava l’impresa di Libia, la “sua” guerra di Libia contro l’Impero turco. Era l’Italia di Giovanni Giolitti, quella che voleva conquistarsi il suo “posto al sole”, dicono alcuni; quella che fu spinta alla guerra da ragioni di politica interna, dicono altri.
Per l’uno o per l’altro motivo, fu una guerra come tante altre, con migliaia di morti e che, per di più, non diede alcuno dei vantaggi che i suoi fautori si attendevano: l’Italia, con la Libia, non divenne una “Grande Potenza”; non trovò terreni fertili da destinare all’emigrazione, e non trovò nemmeno il petrolio. Trovò solo un enorme “scatolone di sabbia”, come disse Gaetano Salvemini. Fu in quell’occasione che l’Italia, come già la Francia e la Germania, conquistò la sua colonia d’Africa. La Libia nasce proprio in seguito alla guerra contro l’Impero Ottomano vinta dall’Italia che poi ridisegna i confini delle regioni conquistate unendo in un’unica entità la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan.
Nonostante le profonde ferite causate dal periodo coloniale, l’influenza italiana sulla Libia prosegue in un rapporto di odio-affari per tutto il dopoguerra fino alla firma del Trattato di Amicizia e la definitiva riappacificazione.
Oggi, dopo cento anni, i Mirage francesi hanno attaccato Bengasi; poi agli aerei francesi si sono uniti quelli americani e inglesi e l’obiettivo questa volta è stato Tripoli: l’operazione “Odyssey dawn” è cominciata.In seguito anche l’Italia, insieme a Canada e Spagna, sono entrate a far parte di questa coalizione. Il Mediterraneo dunque è di nuovo in fiamme per una nuova guerra di Libia. A prescindere dalle valutazioni sulle motivazioni dell’intervento anglo-francese, che siano esse umanitarie o economiche, è evidente che lo storico ruolo predominante italiano è messo in discussione.
Se la missione anglo-francese sembra essere molto fumosa in quanto non si è ancora capito se l’obiettivo strategico è il blocco dei massacri di Gheddafi oppure il capovolgimento del regime, la cosa sicura sembra essere, in ogni scenario prevedibile, il ridimensionamento del ruolo dell’Italia: se la dittatura di Gheddafi resisterà avremo come vicino un governo ostile che punta contro i “traditori” italiani l’arma dell’immigrazione e del terrorismo, se vinceranno i ribelli di Bengasi avremo un governo molto più riconoscente all’interventismo francese che all’ambiguità italiana, se invece dovesse manifestarsi una situazione di stallo o addirittura una divisione della Libia in due stati, la Tripolitania e la Cirenaica, avremo una permanente instabilità a pochi metri da casa.
Ma proprio come cento anni fa gli esponenti più avanzati della popolazione libica festeggiarono l’arrivo degli italiani come un momento di svolta, di “progresso e civiltà”, oggi i ribelli musulmani vedono negli occidentali non la minaccia della conquista ma la possibilità di un cambiamento in senso modernizzatore.
L’odierna guerra di Libia potrebbe chiudere pagine di storia scritte cento anni prima, sancendo la fine dei confini libici disegnati dall’Italia e la fine dell’influenza su quello che allora Salvemini definì uno “scatolone di sabbia” e che oggi, invece, è uno “scatolone di petrolio”.

16 maggio 2011 Klodiana BABO e Giannicola DE SANCTIS

DON CHISCIOTTE: MUSICA E PAROLE.
Musica e parole si incontrano per raccontare il leggendario personaggio di Don Chisciotte. Overture-Suite di Georg Philipp Telemann, compositore tedesco, 1681-1767.
Autodidatta, mostrò nell’infanzia particolari doti di compositore e spiccata padronanza dell’uso del violino, flauto e clavicembalo. Analizzando la partitura, proveremo a capire come la musica racconta i sentimenti, descrive scene ed azioni, come l’ascoltatore per-cepisce il linguaggio…






al violino
KLODIANA BABO







letture dal Cervantes

GIANNICOLA DE SANCTIS




gli "Affetti" in Musica



"Bourlesque de Quixotte"



"La retorica…ora allieta l’animo, ora lo rattrista, poi lo incita all’ira, poi alla commiserazione, alla vendetta, alle passioni e ad altri affetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta infine l’uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l’oratore. Allo stesso modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove l’animo con vario esito."


Athanasius Kircher-MusurgiaUniversalis-1650

12 maggio 2011 Tersicore PAIONCINI

VISITA GUIDATA AL CASTELLO DI NARO






L’origine e la storia del CastelloIl Castello di Naro, secondo lo storico don Gottardo Buroni, nasce(come fortezza) dopo la battaglia di Tagina del 552, in seguito alla quale l’Impero Bizantino, vincendo gli Ostrogoti, pone sotto la dominazione quasi l’intera Penisola. Nasce dopo le scorrerie dei Longobardi che avevano portato, con ferro e fuoco, la distruzione di Pitinum Mergens, l’antico municipio romano, poco distante dalla strada consolare Flaminia.
Infatti le popolazioni circostanti e superstiti, trovarono rifugio presso le alture e nel VI-VII sec. sorsero i presidi militari che si fortificarono cingendosi di mura e torri di avvistamento. Intorno al Mille e nel periodo feudale, quando con Carlo Magno si diede origine alla ripartizione delle terre e alla formazione di feudi, alcune fortezze si trasformarono in castelli, così nacque il Castello di Naro e così gli altri nelle vicinanze come Monte Falcone, Frontino, Farneta, Castellaro.
Dalle documentazioni cartografiche e dai toponimi si può rilevare che il Castello di Naro nel 1217 apparteneva alla potente famiglia guelfa dei Siccardi o Ciccardi, la cui provenienza e residenza stabile era a Casiglione dei Siccardi, in località San Vitale di Cagli.
Il nome Siccardi, secondo alcuni studiosi, potrebbe derivare da un insediamento longobardo Castrum, Sic-card-orum del VII sec. L’assetto fondiario nell’alto medioevo marchigiano facente parte del fisco longobardo, è stato oggetto di studio di Ettore Baldetti.
Secondo lo storico Tarducci il nome Siccardi ebbe origine da Siccardo, vivente poco dopo l’anno Mille.
I Siccardi avevano in possesso vari castelli tra cui appunto quello di Naro, detto anche Naio. Si trattava di una famiglia piuttosto riottosa e battagliera che prima si opporrà alla politica comunale, poi alla signoria dei Montefeltro. Già nell’ultima decade dell’XI sec. poteva fregiarsi di avere uno dei suoi membri alla dignità vescovile: Ugo, figlio del conte Fulconio, fu abbate nella ricca abbazia di San Geronzio e poi Vescovo di Cagli nel 1090.
Questi Siccardi avevano l’abitazione in Cale antica e anche nella nuova città, dopo la rifondazione del 1289.
Proprio per la politica espansionistica del Comune di Cagli che, nato attorno al 1100, era già una istituzione organizzata ed armata, i Siccardi nel 1217 avevano sottoposto il loro Castello di Naro alla giurisdizione cagliese, non come atto di generosità, ma di convenienza.
Così aveva fatto nel 1219 Rainaldo da Belmonte, sempre della famiglia Siccarda. Questo, sopportando un’azione militare mossa dal Pubblico con relativi danni, ottenne per un anno la Podestaria di Cagli assieme ad una provvigione, secondo il Guggi, di “160 libbre di danari e, oltre a questi, 100 stara di grani, 100 stara di avena, 50 some di vino a vista, 300 some di legna, 300 fasci di paglia, nonché l’habitazione di una casa e tanti letti quanti ne gli bisognassero per il tempo sodetto”. Nonostante ciò donna Felippa Siccardi, nel 1227, non considerando che il castello fosse stato dal genitore Filippo asservito a Cagli, ingaggia una battaglia contro le forze comunali per rivendicare l’autonomia con un comportamento certo inusuale per una donna del tempo, tanto che rimase famosa per le sue gesta.
Ma il ricorso reciproco alle armi, dopo la distruzione di alcuni castelli dei Siccardi, ricondusse infine donna Felippa ed il Castello di Naro, come quello sottostante di Montelabbate, alla piena giurisdizione del Comune di Cagli.
Nel Trecento il Castello fu punto di tensione e di scontro tra il potere del Comune e quello dei Brancaleoni (nobili ghibellini, confinanti, di Roccaleonella).
I Siccardi nella 2^ metà del Trecento, si allearono ai Gabrielli di Gubbio che già con atto di forza (di usurpazione) si erano impossessati del Castello di Frontone nel 1315. Gli alleati ritentarono l’impresa del Castello di Naro, ma riuscirono sconfitti dallo scontro armato con il Comune di Cagli e i loro sostenitori ghibellini, subendo la distruzione dei castelli di Castiglione e di Venzano, nei quali si erano asserragliati.
Il Castello di Naro ritornò così di proprietà del Comune di Cagli e proprio nel 1376, attraverso un atto “di parità” con Urbino, Cagli entrò a far parte dello Stato indipendente del Montefeltro, creatosi entro i confini dello Stato della Chiesa.
Da un elenco delle famiglie, in base al quale Cagli versava le imposte alla Santa Sede, redatto nel 1312, nonostate la perdita di gran numero di persone a seguito di una pestilenza, il Castello di Naro risulta con 44 fumanti o fuochi, che corrispondono (con il moltiplicatore 4 o 4,5) a circa 198 persone.
Sempre nella 2^ metà del XIV sec., il Castello di Naro passa in mano alla famiglia Mastini: un clan ghibellino, guerriero, investito nel 1162 al tempo di Federico Barbarossa con il possesso del feudo di Castellonesto e in seguito nel 1290 con il possesso del Castello di Massa, di Drogo, di Montescatto e Montevarco.
I Mastini seppero prestare appropriatamente i loro servigi ai Montefeltro, inoltre Nolfo Mastini sposò Calepretissa, sorella del conte Antonio di Montefeltro.
Nella 2^ metà del Cinquecento il Castello di Naro appartiene invece ai signori Berardi di Cagli che vi fecero realizzare affreschi in parte ispirati a quelli presenti nel loro palazzo di città.
Alla stirpe dei Berardi appartenevano uomini di chiesa come il cardinale Berardo Berardi, nominato dal papa Niccolò IV, la cui presenza fu determinante per la ricostruzione della città di Cagli nel 1289; era una famiglia danarosa e comprendeva numerosi capitani, guerrieri, letterati ed architetti.
Nel 1603, all’età di 95 anni, il capitano Pandolfo Berardi lasciava in eredità il castello al nipote minorenne Giulio Cesare, a nome del quale nel 1607 verrà proclamato, su incarico del Vescovo di Cagli, per tre domeniche e durante la funzione della S. Messa, un monitorio, invitando qualsiasi persona a dare notizie utili per l’accertamento dei beni ereditati, pena la scomunica.
Il ramo della famiglia Berardi, proprietario del Castello, si estinse con la signora Anna, figlia del conte Camillo Berardi e consorte di Ludovico Tenaglia da Fossombrone che nel 1798 lo vendette al benestante Pacifico Moscardi di Cagli, di appartenenza al ceto civico.
A quest’ultimo subentrarono in seguito i Priori e poi i Cresci, sempre di Cagli, fino a giungere negli anni 80 del Novecento ai De Sirena e poi all’attuale proprietario, il sig. Franco Stocchi di Urbania.

ItinerarioE’ l’unico castello nel territorio di Cagli rimasto in piedi con gran parte dell’antico fabbricato con parte delle possenti mura di cinta e l’imponente portale.
Il restauro in corso, ad opera di questo lungimirante privato, consente un pregevole recupero di tutto il complesso fortificato (alquanto manomesso nei decenni scorsi). Il Castello si erge a strapiombo sulle pareti rocciose, a controllo della strada sottostante, nei pressi della quale si trova la chiesa abbaziale di Santa Maria Nuova.
Lo scavo archeologico, che interessa tutta l’area compresa fra la cerchia muraria ed il nucleo centrale, sta facendo riemergere l’articolato abitato, cioè il Borgo fatto di “casupole” parzialmente ricavate intagliando la parete rocciosa , che era perciò parte integrante dei piccoli fabbricati, come per i Sassi di Matera. Si notano i muri perimetrali quadrangolari, con le porte di accesso; forse erano abitazioni per artigiani e soldati o per gente che formava la manodopera fin dal periodo feudale.
La roccia su cui il castello ha le fondamenta, compresa quella circostante degli scassi delle casupole, dalle notizie fornite dal geologo prof. Alberto Ferretti, è formata da una pietra detta scaglia di origine sedimentaria. La composizione di questo calcare (curioso ed interessante) con pieghe o faglie ondulate e per lo più verticali, presenta una stratificazione del periodo Cretaceo superiore, quando scomparvero i dinosauri e si formò circa 90 milioni di anni fa con l’accumulo di frammenti di vario materiale (come organismi di piccoli animali o vegetali) una volta in fondo al mare, riemersi e solidificati. La roccia che vediamo è quindi una pietrificazione di questo materiale che si era disposto a strati e le pieghe sono derivate dai movimenti tettonici che hanno compresso la crosta terrestre nell’Appennino Umbro Marchigiano, proprio tra i monti del Furlo e del Nerone. Questi movimenti, che sono iniziati da circa 20 milioni di anni fa, possono continuare anche ora con i terremoti o con le piccole scosse.
Lo scasso dal quale è emersa una grande quantità di materiali ceramici, che si pensa in futuro di esporre, consente ora di comprendere appieno la struttura del castello il cui esterno, vagamente a carena di nave, si presenta poderoso e ferrigno.
La strada il cui vecchio tracciato è ancora leggibile, conduce all’unico accesso della cerchia muraria. Attraverso il portale





La chiamata di S.Andrea


con arco a sesto acuto, si entra nel recinto del castello che mostra un paramento murario in conci di pietra corniola disposti a filari.
La piccola comunità del castello aveva fin dal 1362 ottenuto dal Capitolo Lateranense, con un canone annuo di una libbra di cera, la concessione di erigere un Oratorio (non più esistente e forse ubicato nella zona anteriore verso ovest) in onore dei Santi Pietro, Paolo, Caterina e Lucia, con facoltà di realizzare un cimitero e un campanile. Nel 1683 la chiesa venne riedificata di nuovo e rimasero patroni i Berardi fino al 1800; nel 1924 è stata ristrutturata da Agnesina ed Adalgisa Priori perché in pessime condizioni.
Durante l’attuale restauro, l’arredamento interno della chiesetta è stato sapientemente curato dal conte Alessandro Rigi Luperti con un risultato davvero notevole anche per le suppellettili.
Particolarmente suggestiva è l’ampia struttura a torre circolare che s’innalza nella parte posteriore dell’edificio e che ruota sino allo sperone di roccia a strapiombo. In questa parte che costituisce un poderoso muro di cinta, c’è ancora una piccola apertura rettangolare verso la rupe, una posterla da dove si dice partisse una galleria sotterranea segreta che aveva lo sbocco a valle vicino al sottostante fiume Candigliano.
L’ingresso all’edificio nobiliare è rimarcato da un portale ogivale posto in cima ad una ripida rampa. In alcune sale del primo piano si rinvengono affreschi secenteschi, tra i quali la Chiamata di Sant’Andrea copia da Federico Barocci ed altre rappresentazioni baroccesche tratte dal coevo Palazzo dei Berardi in Cagli. Interessante è la sala con la volta a ombrello e le conchiglie angolari in stucco; qui di notevole considerazione è l’affresco racchiuso in un tondo che rappresenta il Padre Tempo ovvero il vecchio padre e il figlio che segnano il tempo ciclico della vita, della continuità, della discendenza…







Il Padre Tempo


Attraverso un opportuno camminamento in legno fissato nel bordo superiore del circuito della torre, si può ammirare il favoloso panorama dei monti appenninici e delle colline circostanti, nonché l’intera vallata dove era situata Pitinum Mergens.




Bibliografia essenziale
G. Buroni, La diocesi di Cagli, Bramante, Urbania 1943
G. Buroni, Pitino Mergente, Leardini, Macerata Feltria 1979
A. Tarducci, Dizionarietto biografico cagliese, Balloni, Cagli 1903
C. Arseni, Immagine di Cagli, Calosci, Cortona 1990
A. Mazzacchera, Catria e Nerone, un itinerario da scoprire, 1990
A. Mazzacchera, Il forestiere in Cagli, 1997
E. Paleani, Secchiano di Cagli, Paleani Editore, Cagli 2009
Consulenze geologiche di A. Ferretti


Nata a Cagli, appartenente ad una numerosa famiglia, Tersicore Paioncini Ubaldelli, Insegnante elementare, ha seguito nella sua impegnata carriera scolastica diversi corsi di aggiornamento culturale organizzati dal Distretto Scolastico. È pensionata dal 1991. E’ amante dell’arte, del bello e della musica.
Nel 1989 ha conseguito il titolo di “Guida Turistica” a seguito di un corso tenutosi presso la “Pro Loco” di Cagli con docenti specializzati. Indi si è appassionata a tutte le conoscenze generali della Storia dell’Arte e specificatamente a quelle storiche ed artistiche locali con approfondimenti e studi personali su vari testi antichi e contemporanei.
Negli anni 2000 e 2001 ha frequentato, con tesina e diploma finale, due “Corsi di Formazione per Operatori Beni Culturali Ecclesiastici” promossi dalla Conferenza Episcopale Marchigiana in collaborazione con la Pontificia Università Lateranense e l’Istituto Teologico Marchigiano, svolti presso la sede di Fano e sostenuti da insigni professori universitari. Ha potuto così allargare ancor più le proprie conoscenze ed i suoi interessi con studi, letture, visitando luoghi, città e mostre.
Fa parte di varie istituzioni di volontariato della città quali Pro Loco, Associazione San Vincenzo de Paoli, FAI, UNILIT; di quest’ultima è collaboratrice, docente e frequentatrice da molto tempo.
Da anni esercita il servizio di Guida Turistica incaricata dalla Pro Loco per la Città di Cagli e dintorni.
È guida disponibile nelle annuali “Giornate FAI di Primavera” promosse dalla delegazione di Pesaro nel territorio di Cagli.
Ama molto la sua città. Convinta che la cultura sia anche nei piccoli appuntamenti, con le sue spiegazioni ricche di notizie e di particolari, suscita coinvolgimento ed entusiasmo.
Collabora con le Istituzioni locali in occasione di mostre e di eventi culturali.

2 maggio 2011 Marco Leopoldo UBALDELLI

L'Amore nella lettaratura greca: desiderio, follia, conoscenza.




Terminologia:
- eros / eran (= amare, desiderare intensamente)
- philia / philein (= amare, voler bene, avere caro, prendersi cura di, ma anche baciare: il bacio è il philema)
- sterghein (= amare i propri figli o i propri genitori)
- agapan (= trattare affabilmente, avere un amore di protezione, di cura, benevolenza)
- ta aphrodisia (= i rapporti sessuali, ovvero “le cose di Afrodite”)

L’AMORE NELL’EPICA: L’AMORE CONIUGALE
Elena – Paride – Menelao - Ulisse – Penelope




Elena, Dante Gabriele Rossetti

L’AMORE COME DESIDERIO
- Archiloco di Paros.
Fr.191 W
Un tale desiderio d’amore, stretto sotto il mio cuore,
molta nebbia ha versato sugli occhi,
e mi ha rubato dal petto la molle anima (trad. A.Aloni)

Fr.203 T
Giaccio nel desiderio, misero, esanime
per volere degli dei trafitto
nelle ossa da gravi dolori (trad. G.Tarditi)





Gli amori di Paride ed Elena, Jacques Louis David, 1788
Fr.196 W
Amore che fiacca le membra, amico mio caro, mi vince … (trad. G.Perrotta)

Fr.30 W
Con una fronda di mirto giocava
ed una fresca rosa;
e la sua chioma
le ombrava lieve gli omeri e le spalle (trad. S.Quasimodo)

- Mimnermo di Colofone.
Fr.1 W
Quale vita, quale gioia senza l’aurea Afrodite ?
Possa essere morto, quando a me non interessino più queste cose,
l’amore segreto, i dolci doni e il letto,
che sono i fiori attraenti della giovinezza per gli uomini e per le donne.
5 Ma quando sopraggiunge la dolorosa vecchiaia,
che rende l’uomo spregevole e brutto,
continuamente cattivi pensieri lo tormentano nell’animo,
né si rallegra vedendo i raggi del sole,
ma è odioso ai fanciulli, degno di disprezzo per le donne:
10 così dolorosa il dio ha voluto rendere la vecchiaia. (trad. L.E.Rossi)


Ulisse e Penelope, Primaticcio, 1560 ca

L’AMORE COME FOLLIA
- Saffo di Lesbo (Eresò).
Fr.16 V [la cosa più bella]
Alcuni dicono che sulla terra nera
la cosa più bella sia un esercito di cavalieri,
altri di fanti, altri di navi, io invece
4 ciò di cui uno è innamorato;

ed è assolutamente facile farlo intendere a chiunque:
perché colei che di gran lunga superava in bellezza
ogni essere umano, Elena,
8 abbandonato il suo sposo impareggiabile

traversò il mare fino a Troia,
né si ricordò della figlia e degli amati genitori;
ma Cipride la travolse
12 innamorata.



Ora mi ha risvegliato il ricordo di Anattoria
16 che non è qui;

e io vorrei vedere il suo amabile portamento
lo spendore raggiante del suo viso
più che i carri dei Lidi e i fanti
20 che combattono in armi. (trad. F.Ferrari, F.Sisti)
(seguono due versi che sembrano dire: “non è possibile agli uomini ottenere quello che bramano”)

Fr.1 V [l’ode ad Afrodite]
Afrodite immortale dal bel trono,
figlia di Zeus, tessitrice di inganni,
non affliggermi nell’animo con ansie e dolori,
4 o signora,

ma vieni qui, se mai altre volte,
udendo da lontano le mie preghiere,
le hai ascoltate e, lasciata la casa del padre,
8 giungesti avendo aggiogato il carro aureo;

begli uccelli veloci ti conducevano,
battendo fitte le ali,
sulla nera terra dal cielo
12 in mezzo all’etere.

E subito giunsero; e tu, o beata,
sorridendo nel volto immortale
mi chiedesti che cosa ancora mi accadeva
16 e perché ancora ti chiamavo qui;

e mi chiedesti che cosa più di tutto volevo accadesse
nel cuore a me folle: “Chi ancora devo persuadere
a venire al tuo amore ?
20 Chi, o Saffo, ti fa ingiustizia ?

E infatti se lei fugge, presto inseguirà;
se non accetta doni, ecco li darà;
se non ama, presto amerà,
24 anche se non vuole”.

Vieni a me anche ora,
liberami da tristi affanni,
e compi ciò he il cuore desidera si compia per me,
28 e tu stessa sii mia alleata. (trad. L.E.Rossi)

Fr.31 V [i sintomi della passione]
Mi sembra essere uguale agli dei quell’uomo
che siede davanti a te e ti ascolta da vicino
mentre parli dolcemente
4 e sorridi amabilmente;

e questo davvero mi fa sobbalzare il cuore in petto;
infatti, appena ti vedo,
subito non mi è più possibile
8 dire neanche una parola,

ma la lingua si spezza,
subito un fuoco sottile corre sotto la pelle,
non vedo più nulla con gli occhi,
12 le orecchie ronzano,

il sudore mi pervade e un tremito
mi prende tutta, sono più verde
dell’erba, e sembro a me stessa
16 poco lontana dalla morte.

Ma tutto è sopportabile, poiché … (trad. L.E.Rossi)


Saffo e Alceo, Alma Tadema, 1881
- Euripide, Medea vv.1078-80
“So quanto male sto per fare, ma la passione dell’animo
– che è causa delle sciagure più grandi –
la passione dell’animo è più forte in me della ragione”. (trad. M.G.Ciani)

- Euripide, Ippolito vv.377-383
(Fedra) “Non credo che gli uomini si trovino a soffrire a causa della loro ragione.
No. Molti di loro possiedono la saggezza,
ma bisogna tenere presente che sappiamo e conosciamo sì il bene,
ma non lo compiamo, chi per inerzia,
chi preferendo alla virtù qualche piacere.” (trad. G.Paduano)


Medea, Klagmann, 1868
- Platone, Fedra

L’AMORE COME CONOSCENZA
- Teognide di Megara.
Corpus Theognideum 27-38
E per il bene che ti voglio io ti darò,
o Cirno, i consigli che anch’io fanciullo dai buoni appresi.
Sii saggio e non inseguire onori o successi o lucro
30 con azioni basse o con soprusi.
Questo tu sappi e gente vile non frequentare,
ma tienti stretto sempre ai buoni:
bevi e mangia con loro, siedi con loro a banchetto
e cerca di piacere a chu ha potere grande.
35 Dai buoni il bene imparerai,
ma se ti mescoli ai vili perderai anche il senno che già possiedi.
Appresa questa lezione frequenta i buoni ! Potrai dire un giorno
che io ben consiglio gli amici. (trad. F.Ferrari)


Fedra, Alexandre Cabanel, 1880

- Platone, Simposio 209 e – 211 b


(Diotima) “In queste cose d’amore forse, o Socrate, avresti potuto iniziarti anche da solo; ma dubito che saresti capace di percorrere i gradi della visione suprema, in cui hanno radice le cose d’amore, se si segue una retta via d’indagine. Perciò te ne parlerò io […]
Chi si dirige per la retta via a questa impresa, deve cominciare fin da giovane ad avvicinarsi a corpi belli, e dapprima - se chi lo guida lo indirizza per la retta via - deve amare un determinato corpo e in esso generare discorsi belli e poi riconoscere che il bello di ciascun corpo è fratello al bello di un altro corpo […], quindi bisogna far sì che si innamori di tutti i corpi belli, e che allenti la veemente passione per uno solo, giungendo a disprezzarla e a considerarla meschina, e poi prenda a stimare la bellezza che è nelle anime come più preziosa di quella che è nei corpi, di modo che, se l’altro è eccellente nell’anima ma possiede un ben modesto fiore di bellezza, sia contento di lui e lo ami e ne abbia cura ricercando e partorendo discorsi capaci di rendere migliori i giovani, affinché in seguito egli sia costretto a contemplare il bello che è nelle istituzioni e nelle leggi […], e dopo le istituzioni essa lo conduca alle scienze, perché ora veda la bellezza delle scienze, e guardando a un bello ormai molteplice, non sia più un individuo gretto e meschino che servendo presso un solo padrone, come uno schiavo, agogna la bellezza di un fanciulletto o comunque di un solo individuo o di una sola istituzione, ma rivolto ormai al grande mare del bello, partorisca in virtù della speculazione molti e belli e magnifici discorsi e pensieri in un illimitato desiderio di conoscenza, finché, irrobustito e cresciuto in questa sfera, penetri in un’unica scienza siffatta, la quale è scienza di un siffatto bello. […] Perciò quando qualcuno, dopo aver amato in modo retto i fanciulli, risalga dalle singole cose belle e cominci a contemplare quel bello in sé, allora veramente si può dire che raggiunga la meta.” (trad. F.Ferrari)