15 novembre 2010 - IVANA BALDASSARRI

“L’astro barocco di Artemisia Gentileschi tra oblio e celebrità, vergogna e riscatto nel segno dell’arte”.
Artemisia Gentileschi è stata una grande pittrice del ‘600 (Roma 1597 - Napoli dopo il 1651): creatura indipendente e volitiva, sentimentale e riottosa, riservata e umorale, esibizionista e reticente, casta e passionale, fu artista straordinaria in un’epoca storica che negava alle donne sia l’anima sia il diritto all’autonomia.
Figlia d’arte, suo padre è il celeberrimo Orazio Gentileschi, conquista con sofferenza e fatica l’anomalia di un protagonismo sociale e artistico, dopo uno stupro costatole un lungo e doloroso processo.
Artemisia è donna bella, cupa e tesa, perseguitata dalla sua femminilità, dalla sua vocazione artistica e dalla consapevolezza segreta del suo stesso valore, che la contrappone e la incatena fatalmente al padre maestro e rivale
Roberto Longhi, incontrastato critico d’arte del ‘900, scrisse di lei: “Artemisia Gentileschi è l’unica donna in Italia che abbia saputo che cosa sia la pittura, il colore, un impasto materico e simili essenzialità e non la si deve confondere con la serie sbiadita delle più celebri pittrici italiane!”
Il conclamato e millenario protagonismo maschilista non può sopportare una donna così! Infatti subito dopo la sua morte, Artemisia viene totalmente cancellata; svapora la sua figura, scompaiono le sue opere, di lei non si sa più niente.
Dopo 270 anni, Roberto Longhi e sua moglie Anna Banti la “riscoprono”, riconsegnandola alla Storia con tutti i bagliori corruschi della sua travolgente personalità e della sua originale capacità artistica e creativa.




Artemisia Gentileschi


"Autoritratto come suonatrice di liuto"


Sono anni che, con accorata ostinazione, inseguo Artemisia Gentileschi. Il suo è un bellissimo nome, dolce e severo, quasi un'immagine, quasi un racconto; suona melodioso, aristocratico, alto: un nome di raso, in cui si incontrano l'arte e la gentilezza con quel finale in "chi" che ricorda blasoni nobiliari e castelli.
La verità biografica di Artemisia Gentileschi si è svolta tutta assolutamente al contrario di queste personali suggestioni: in una Roma barocca e controriformista, grondante ogni infamia e ogni gloria, in un ambiente volgare e corrotto, nella promiscuità e nella violenza, nella fatica e nei disagi, è fiorito il miracolo d'arte che ha nome Artemisia Gentileschi.
Merito di questi nostri ultimi tempi la "scoperta", la diffusione e l'approfondimento del personaggio Artemisia, sia come donna che come artista. Già nel 1916 Roberto Longhi, con il saggio "Gentileschi padre e figlia" aveva sollevato, con genialità e dottrina e qualche accademica sorpresa, il fitto oblio e la pesante noncuranza calati soprattutto su Artemisia, che pur in vita aveva avuto successo e celebrità. Dopo qualche anno, alla ricerca estetica di Longhi, sua moglie Anna Banti, scrittrice sensibilissima, intuitiva e colta, attenta a trasformare quel diritto all'uguaglianza fra i sessi, in quello più prezioso e naturale che è il diritto alla "differenza", scrive una biografia su Artemisia: ancora manoscritta andrà perduta nel bombardamento del 1944 della loro casa fiorentina, assieme a tutti gli appunti che l'avevano favorita. AI dolore e alla rabbia per la perdita di quel manoscritto, Anna Banti reagirà con la scrittura di un altro libro Intitolato appunto "Artemisia", quasi una seconda redazione dell'originale perduto, ma con altri intenti e altra formulazione ideologica.
"Artemisia" diventa un appassionato colloquio fra due donne speciali, che pur collocate in un tempo allontanato, si confidano e si confrontano, difendendo, con le loro opere, il diritto sacrosanto a svolgere un lavoro a loro congeniale.
Anna Banti fu sedotta da Artemisia: sconosciuta ai più la pittrice le apparve come una donna "nuova", che non ha subito le sovrapposizioni delle ipotesi e delle interpretazioni a posteriori, ne i maliziosi giudizi degli studiosi. Artemisia si propose alla sensibilità raffinata della scrittrice fiorentina direttamente dai documenti d'archivio: dai vasti serbatoi del verosimile, Anna la guardò e decise d'amarla, di farsela sorella e di raccontarla come se fosse una sua contemporanea, offrendole le prove più libere e più modulate del suo vigoroso temperamento.
Ma noi, oggi, siamo più fortunati di Anna Banti: gli studiosi hanno trovato su Artemisia molti più documenti di quanti non ne avessero, 60 anni fa, Longhi e la Banti.
Il motivo di questi studi approfonditi e rigorosi, trova la sua ragion d'essere in una strana contraddizione: la trascuratezza che colpisce sempre le donne nelle loro manifestazioni più alte, si trasforma in curiosità morbosa e acribia accademica, quando queste stesse donne vengono a trovarsi in situazioni scandalose. Artemisia deve gli ultimi approfonditi, doverosi studi al ritrovamento negli archivi Vaticani, degli atti del processo di stupro che Artemisia subì a 17 anni ad opera di Agostino Tassi, un pittore dello studio di suo padre Orazio Gentileschi.
Lo stupro è stata la pruriginosa scintilla che ha alimentato il fuoco poi rigoroso e meritorio, dello studio sul suo straordinario personaggio. Un sotterraneo sospetto rimane: se non ci fosse stata quella violenza carnale ci sarebbe stata la stessa cura nel ricercare?
Esiste anche il pericolo che la violenza subita, abbia incastonato Artemisia in un gossip storico-cultural-artistico, distogliendo da lei i veri meriti della sua celebrità.
Ci sono voluti comunque quasi 350 anni, considerando il 1653 come ipotetico anno della morte di Artemisia, e il 1999 anno del primo studio completo ed esauriente di Bissel sulla pittrice, perché Artemisia occupasse nella storia dell'arte il posto che merita che è quello "dell'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia la pittura, e i colori, e gli impasti e simili essenzialità, da non confondere adunque con la serie sbiadita delle celebri pittrici italiane" come disse di lei Roberto Longhi.
Artemisia Gentileschi nasce a Roma in Via Ripetta, accanto all'Ospedale di San Giacomo, 1'8 luglio 1593 (416 anni fa) da Orazio pittore nato a Pisa da famiglia orafa fiorentina e da Prudenzia Montoni romana, che morirà di parto a 30 anni al termine della sua settima gravidanza. Alla amatissima sposa Orazio Gentileschi aveva voluto offrire, a prova indelebile del suo sincero amore, un funerale lussuoso, una bara costosissima e una pietra tombaie in chiesa. Artemisia alla morte della sua mamma ha quasi 13 anni: le fu concesso di restare vicino alla salma fino all'ultimo assieme a suo padre distrutto, a Cosimo Quorli ambiguo amico di famiglia e ad un prete. Anche se disperata Artemisia non fa una lacrima: pare indurita, insensibile. È più alta, grande e formata delle ragazzine della sua età: ha corpo e viso ben modellati; l'ovale del viso, la sensualità delle labbra e la cupa intensità dello sguardo non le sarebbero più cambiati; ha occhi a mandorla così grandi che le palpebre sembrano protendersi fino alle tempie; il mento rotondo e armonioso si orna di una seducente fossetta.
Anche per Artemisia, come per suo padre, la morte di Prudenzia rappresenta la fine della felicità: in lei, marito e figli, avevano racchiuso tutta la tenerezza, tutto il calore e i sorrisi del mondo e la sua morte fatalmente, avrebbe allontanato Artemisia dalle attenzioni affettuose di suo padre diventato incapace d'amare.
Immerso nella sua cieca sofferenza Orazio non vede più nessuno, neppure i suoi figli, neppure Artemisia che pur è la sua preferita da sempre. Finita per Artemisia la fattiva complicità con suo padre: per anni la bimba prima e l'adolescente poi era stata la sua ombra: da lui aveva imparato a preparare tele e colori, a salire sulle impalcature dove lui lavorava e a seguire e capire tutti quei discorsi tecnici che Orazio scambiava con i pittori della sua bottega; attraverso i suoi giudizi aveva capito i segreti dei grandi pittori, gli equilibri delle strutture, le misure e le proporzioni. Per seguire suo padre non era mai andata a scuola, non sapeva ne leggere ne scrivere ma sapeva tutto sulla pittura. Gli occhi avidi ed eccitati della bambina andavano dai quadri dei Carracci e del Caravaggio al viso adorato di suo padre capendo che Orazio le stava trasmettendo tutti quei segreti di cui lui era maestro. A volte l'esile ed elegante figura di Orazio si ingigantiva quando si metteva la bambina sulle spalle: diventavano tutt'uno e a tutti due pareva che il sangue scorresse nelle loro due vite senza interruzione alcuna. Non era importante che la piccola capisse tutto, Orazio non faceva appello alla sua intelligenza, ma ai suoi sensi e Artemisia per tutta la vita ricorderà ogni momento di quella sua felicissima delirante infanzia. Non una parola, non un'immagine di quel tempo sarebbero andate perdute.
Il disegno, la luce, l'armonia delle proporzioni, la pennellata, l'accordo dei colori, «perché vedi - diceva Orazio ad Artemisia quando già grandicella è in grado di costruire immagini e modellare panneggi e creare atmosfere -tu ed io non apparterremo mai a nessuna scuola: perché dunque dovremmo porci dei limiti?» .Il duo si era già consolidato: quasi una complicità, una dipendenza, una sovrapposizione, forse una schiavitù.
Artemisia dopo la morte di Prudenzia diventa unica donna in una casa di uomini, unica figura materna per i tre fratellini, unica compagna del padre, unico garzone di sesso femminile in tutta la bottega Gentileschi. Si interrompe drammaticamente il rapporto privilegiato col padre: deve badare alla casa, ai fratelli, deve far da mangiare per tutti compresi i lavoranti di suo padre. L'arte, la pittura che avevano illuminato la sua vita di bambina precoce, avida ed emotivamente ricettiva, sembrano diventate quasi una colpa. Artemisia rientra fatalmente nel prototipo femminile seicentesco che considera due soli gli ambienti aperti e possibili per la vita di una donna: o la famiglia o il convento, senza che questi possano offrirle alcun diritto, venendo considerate sfere distinte e private. Alle donne, anche le più dotate, veniva negato l'accesso alla sfera del lavoro nella società. Anche Artemisia sa, quando si dedica alla pittura che irresistibilmente la chiama oltre quelle faccende domestiche subite come parodie di occupazioni, che questa sua attività ha una connotazione semiclandestina, priva di veste formale. Nella sua casa, nel suo quartiere, nell'ambiente artistico romano, il suo dipingere è considerato uno scandalo, un'anomalia, un'eccezione e non sarà questa sua vocazione, certa e ampiamente dimostrata, a proporla al mondo con le insolite credenziali di "protofemminista", ma il fatto di aver subito uno stupro a 17 anni e, somma ingiustizia, sarà proprio questa violenza a favorirne l'attenzione sia dei suoi contemporanei che di noi moderni. Tutta la storia di Artemisia sarà minacciata proprio dalla soverchiante documentazione della violenza subita che ha rischiato di farla diventare solo e per sempre, vittima di quell'evento.
Orazio dopo la morte della moglie si è incupito, pare estraneo a tutti gli affetti: la sua naturale introversione è diventata violenta scontrosità. Artemisia accetta e capisce le crisi d'ansia, i silenzi e le sgradevolezze di questo suo padre che trova pace solo nella pittura e pur con fatica continua a coniugare per lui tutti i ruoli: è la sua coscienza critica, il suo discepolo, la sua modella. Ma Orazio, dilaniato fra un'oscura gelosia e un'incontenibile fierezza di padre e di maestro, diventerà, nei confronti di Artemisia, ancora più possessivo, autoritario e contraddittorio: non capisce, Orazio Gentileschi, il ruolo alto e straordinario che Artemisia gli propone.
Artemisia intanto riempie e illumina tutta la casa con la sua vitalità e la sua bellezza: non si cura di tutti quegli uomini, giovani e anziani, che lavorano per Orazio: dipinge alloro fianco con alterigia fanciullesca e grande autonomia creativa: si difende dai loro discorsi, dalle avance, dalle proposte volgari, dato che suo padre non lo fa per lei.
Fra i pittori collaboratori c'è Agostino Tassi, un giovane vedovo, così almeno lui dice di essere, un pittore raffinato, maestro nell'illusionismo spazi aie che riesce ad offrire la cornice adeguata in cui Orazio può inserire i suoi personaggi. Lavorano insieme per il Cardinal Scipione Borghese al Quirinale.
Orazio e Agostino diventano amici tanto che Orazio pensa che il giovane possa insegnare ad Artemisia le regole e i segreti della prospettiva: sa che sua figlia, anche se nessuno ha ancora visto i suoi lavori, è una vera artista. Agostino diventa così di casa e proprio in quella casa che avrebbe dovuto proteggere Artemisia, si consuma la violenza a suo danno.
Occhi neri e belli, capelli ricciuti, minuto e aggraziato nel corpo, spregiudicato, bugiardo e puttaniere, Tassi fa gran sfoggio di belle camicie e di belle parole con calda voce di gola, ma è già noto alla giustizia per violenze, rapine, incesti e altre oscenità.
In casa Gentileschi, la presenza dirompente di Artemisia non può che suscitare in lui desideri altrettanto dirompenti. Non passa molto tempo dal suo inserimento fra i collaboratori di Orazio, che Agostino, trovando la ragazza sola in casa mentre dipinge, non l'aggredisca e non le faccia violenza. È il 9 Maggio 1611.
Violandola, prendendola, spogliandola non sa che urlarle: «Basta dipingere, basta dipingere!!!» come se quella anomala attività di lei gli sia più d'impaccio della reazione violenta di difesa, più di quel pugnale che Artemisia gli scaglia pur senza ferirlo. Non fu così le altre volte: perché le parole appassionate, le promesse suadenti, l'eccitazione erotica, il piacere e la speranza giocano a favore di Agostino. «Voglio serbare sulla bocca il sapore del tuo sangue -le diceva Agostino voluttuosamente –Mio topazio di fuoco, mio velluto nero, mia coppa d'oro, mio veleno! Voglio berti fino alla morte!»
Anche Orazio, naturalmente, ne viene a conoscenza e pensa che un matrimonio fra Tassi e sua figlia potrebbe certamente migliorare la condizione di tutti, consolidando commesse e ampliando la clientela. Sogna perfino di realizzare uno studio più grande, dove anche Artemisia possa lavorare con loro. Non gli passa neppure per la testa di verificare chi sia veramente quel bel pittore, o forse non gli importa, tanto le donne, si sa, sono fatte proprio per essere godute! Tutto procede subdolamente fra promesse di matrimonio, deliri d'amore e silenzi quando Artemisia sa con certezza che la moglie di Agostino è viva e vegeta e che il traditore ha, in più, una relazione semincestuosa con la sorella di sua moglie. Disperata e delusa Artemisia costringe suo padre Orazio a denunciare Agostino Tassi per stupro e falsa promessa di matrimonio, insistendo sul fatto che essendo stato lo stupro, perpetrato all'interno della loro casa, lo sfregio e l'offesa, alla luce di un complesso codice d'onore della famiglia, non era solo rivolto al corpo e alla dignità di lei, ma soprattutto all'onore di Orazio e di tutta la sua famiglia.
Dopo quasi un anno da quel 9 Maggio 1611 e precisamente nel Marzo 1612, Artemisia calma, apparentemente serena, sicura e decisa, fa la sua prima deposizione in Tribunale contro Agostino Tassi già in prigione. Grazie ai documenti di un pubblico processo per violenza carnale, Artemisia fa il suo ingresso ufficiale e incontrovertibile nella Storia.
Dagli atti del processo ne vien fuori una giovane donna energica, coraggiosa e intelligente che difende la propria onorabilità sociale piuttosto che una lacrimosa vittima assetata di vendetta. Insiste sulle promesse di matrimonio e sul fatto che non era mai venuta a conoscenza ne della condotta scandalosa di lui, ne dei disonorevoli comportamenti di suoi parenti. Per cercare di farle cambiare deposizione, le si imporrà anche la tortura della "Sibilla" (che è uno strumento che stringeva le dita fino a staccarle dalle mani), la visita ginecologica e l'irrisione del pubblico e della Corte. Ma Artemisia con le mani tumefatte e sanguinanti mantiene imperterrita la sua linea, senza una lacrima, senza un lamento, tutta tesa a condurre l'appassionata decifrazione dei suoi veri valori.
Dominando dolore e raccapriccio, pur scottata mille volte al bruciore dell'offesa, Artemisia sublima la violenza in eroismo e riscatto.
Con una sentenza ambigua, Artemisia verrà creduta, ma al Tassi non sarà inflitta nessuna detenzione: dovrà scegliere o 5 anni di lavori forzati, o il bando perpetuo da Roma. Agostino sceglie l'esilio, ma il 28 novembre 1612 il tribunale annulla la sentenza del bando da Roma. Anche se la sentenza si era dimostrata una burla, era comunque una condanna, che proclamava al mondo l'innocenza di Artemisia e restituiva l'onore all'intera famiglia.
Orazio può recuperare la sua cupa fierezza ve nata di disgusto e Artemisia la sua impetuosa dignità, ridotta da una effimera, scandalosa celebrità ad una solitudine riottosa ed Insidiata.
Durante tutto il processo, una persona aveva tramato, promosso, aggiustato le cose con i giudici: il notaio e faccendiere fiorentino Giovan Battista Stiattesi che abitava nella stessa casa dei Gentileschi. Questo avvocato aveva un fratello minore di nome Pierantonio, ragazzo dolce e strampalato, pieno di debiti e di sogni: è proprio lui che chiuderà il periodo tormentato e crudele di Tassi, dei tribunali e delle deposizioni.
1129 Novembre 1612 sposerà Artemisia e con la sua dote pagherà tutti i suoi debiti. Gli sposi se ne andranno ad abitare a Firenze: Artemisia e suo padre Orazio si dividono senza parole, con apparente indifferenza, interrompendo definitivamente quell'intesa assoluta e lacerante, altalenante fra dipendenza appassionata, voracità di apprendimento, reciproco riconoscimento di grandezza artistica, gelosia e abbandono.
Del periodo precedente al processo esiste un'opera straordinaria di Artemisia: è "Susanna e i vecchioni".

Non si può non pensare per questa opera magistrale un'implicazione accorata e sincera alla stessa situazione di lei; inoltre la pittrice conosceva sempre le storie che dipingeva, come conosceva, grazie a suo padre, le opere dei grandi che avevano già affrontato quegli stessi argomenti. La sua "Susanna" (ora nella collezione di Pommersfeld) rivela la mano di un artista molto attenta alle sfumature narrative: il disagio accorato di lei sorpresa in atteggiamento di nudità, la maliziosa complicità dei due uomini, uno giovane, bruno e bello, l'altro anziano, richiamano fatalmente la quotidianità di Artemisia. L'attribuzione del quadro fu contestata fino a che un restauro del 1939 rivela con assoluta certezza la firma e la data: Artemisia Gentileschi 1610. L'opera diventa il frontespizio della sua carriera.
Dello stesso anno 1610, una dolcissima e calda "Madonna con Bambino" che gli studiosi dicono essere la prima opera completa di Artemisia, argomento raro per lei, che preferirà, eroine aggressive, donne vittime e vendicatrici alle quali offrirà sempre la propria immagine, come per una delirante serie di autoritratti.
Il confusionario, ricchissimo, vorace, drammatico apprendistato di Artemisia è finito. Suo padre l'ha lasciata andar via sposa ad un uomo che non conosce, in una città, Firenze, raffinata e difficile. Ora lei dovrà badare a se stessa e scegliere da sola il suo vero destino.
Non sa ne leggere ne scrivere e le firme sui quadri le fa ricopiandole: ma non si perde d'animo, esistono pur sempre i segretari ai quali detta splendide lettere per i grandi della città: a Cosimo de Medici, a Galileo Galilei, a Buonarroti junior, nipote del grande Michelangelo.
Con Pierantonio sta bene, anzi lo ama perche lui è dolce, delicato, premuroso: non le rinfaccia mai nulla del suo passato, anzi cerca di riconciliarla con la sua stessa prorompente femminilità a cui lei imputa imprudenti abbandoni. Probabilmente Artemisia ha subito detto a suo marito che mai e poi mai e per nessuna ragione lei rinuncerà a dipingere. Ancora una volta per la pittrice si ripropone la "clandestinità" di una professione considerata solo maschile, che scatena forse la gelosia professionale di Stiattesi che ha qualche ambizione nel campo. Ma nelle lunghe, tenerissime confidenze notturne i due ragazzi, lei ha 19 anni e lui 21, cercano di organizzare, almeno così sembra, la loro vita. Nei primi 5 anni di matrimonio nascono 4 figli: solo la terza, Prudenzia, sopravvivrà.
Artemisia non rinuncia nonostante le gravidanze, i parti, le malattie e le morti dei piccoli a dipingere: si iscrive, fra scandali e proteste, alI' Accademia del Disegno, si propone, si promuove, si fa ricevere dalle autorità, dalle dame dell'aristocrazia, dagli intellettuali fiorentini, esibendo le tele delle sue donne eroiche: mostra la sua ultima "Giuditta" bella e sanguinaria, la "Maddalena" che sa riunire in un unico atteggiamento provocatorio contemplazione penitenziale e sofferto ravvedimento, il suo "Autoritratto Come suonatrice di liuto" e la dolcissima e scandalosa "Allegoria dell'inclinazione" seduta sulle nubi ".























Il tasso di aggressività non si smorza neppure in questi ultimi temi: Artemisia vuole affermarsi attraverso una spudorata denuncia della propria personalità: vestite con i suoi abiti, ornate Con i suoi gioielli, le sue donne brandiscono armi e pugnali che Sono il corredo rappresentativo delle storie scelte: mi piace pensare che Artemisia, fissato l'argomento, cerchi di entrare come un'attrice nel personaggio. Davanti al grande specchio dello studio si prepara, si atteggia, pensa ai gesti o alle espressioni di Giuditta, Maddalena o Cleopatra e poi si spoglia e si riveste Come loro e comincia a dipingere.
È questo il momento in cui tutte le metafore ritrovano un senso.
La pittrice in questi primi anni fiorentini non nuota nell'oro e non si può neppure permettere una modella: il dolce e vago Pierantonio è solo un timido sognatore: gli piacciono gli oggetti antichi, le stoffe preziose, i manufatti di pregio: cerca di fame un'attività commercia le ma è più quello che spende che quello che guadagna. A volte Artemisia lo rimprovera, lo sprona ad attività più redditizie: lui tace, non reagisce, fino a che un giorno se ne va di casa senza far mai più ritorno. Artemisia sinceramente addolorata, lo manda a chiamare, 10 cerca, dice di volergli bene. Ma lui non tornerà mai più: quella donna bellissima, quella femmina sontuosa che sa diventare Giuditta e Santa Cecilia, Maddalena e Cteopatra lo sovrasta a tal punto che lui si sente sempre più inadatto all'orgoglio del possesso amoroso: gli è subentrata la consapevolezza di non poterle tener testa, di non poterla dominare, ne possederla totalmente. Lei è solo posseduta dalla pittura. Pierantonio non sopporta più il talento prorompente di Artemisia a fronte della propria mediocrità, cui i peraltro non si rassegna.
Nel 1624 Artemisia è di nuovo a Roma con la sua adorata figlia Prudenzia; ha 28 anni: robustamente cresciuta in se stessa, energica di spirito e di cuore, si è ormai conquistata una vera posizione sociale, un'esistenza giuridica e un potere legale. La sua sigla contrassegnerà da ora in poi gli atti notarili: la sua firma, Artemisia ha imparato a leggere e scrivere, autenticherà i contratti d'affitto e i compromessi legali. Libera da ogni tutela, padrona del proprio destino, Artemisia non dipende che da se stessa. Nei registri di censimento figura ormai come "capofamiglia".
Il lungo periodo fiorentino l'ha raffinata, ha consolidato sicurezze e le ha fatto assaporare la celebrità, introducendola negli ambienti che contano: sia quelli della nobiltà che quelli della cultura e dell'arte consacrati dal potere. Torna a Roma con credenziali artistiche e mondane alte, meritate attraverso il suo lavoro e senza l'aiuto ne di suo padre, ne di suo marito: anzi questa autonomia le ha scatenato una cupa avversione per il passato. Una specie di collera retrospettiva, le favorisce rancore e risentimento verso tutti coloro che l'hanno abbandonata, padre compreso. È spesso ossessionata dalla paura che Orazio possa ricomparire nella sua vita, distruggendo tutto ciò che lei ha raggiunto da sola, annientando perfino la sua forza creatrice. Sa cosa voglia dire essere donna in un mondo dominato dai maschi.
Le è quasi naturale dipingere con furore i grandi personaggi femminili della storia e con loro l'ingiustizia, il tradimento e la vergogna. Sono le donne che insorgono contro la tirannia, l'ingiustizia e il sopruso: sono quelle donne che riscattano con le loro gesta eroiche il giogo millenario esercitato dai maschi a loro danno: sono proprio loro che tengono accesa la speranza di un possibile riscatto. Artemisia sente di essere doppiamente protagonista, come donna e come artista: sente di essere, per il suo tempo, una eccezione e proprio in questo senso si propone, insistendo sulla consustanzialità fra l'arte e la donna.
L'opera di Artemisia Gentileschi sarà ambiziosa pittura narrativa di drammatiche scene storiche, in cui si permette di incarnare ed esporre l'inimitabile presenza fisica della donna che l'ha realizzata. In Italia mai nessuna donna aveva avuto questo ardire, nessuna donna era riuscita a lavorare in un modo così plateale, da stabilire con l'osservatore un proprio silenzioso patto di visibilità e di identificazione.
Artemisia si propone come artista adoperando il proprio corpo firmato e datato: questo attira inevitabilmente sulla pittrice ignominia e accuse di esibizionismo licenzioso. Ma lei sa, che proprio tutto ciò avrebbe reso le sue opere celebri e richiestissime.
Artemisia è una donna bella, intelligente e audace, concentrata al massimo sulla sua professione di pittrice: non lascia nulla al caso. Ogni ritratto è una ricostruzione puntuale secondo letture bibliche e storiche abbastanza raffinate; con una regia attenta organizza la scena, gli abiti, gli oggetti, i gioielli, scherma le luci, tanto che la costruzione acquista un tocco di viva teatralità, dove la luce di forte concezione caravaggesca, evidenzia drammi e palpiti senza perdere mai il senso tatti le delle superfici, ne la delicatezza del modellato; spesso le sue eroine sono vestite di giallo, come la luce, come il sole, come l'oro lavorato con un rilievo spumoso e sontuoso; è una connotazione cromatica che sottolinea gloria e meraviglia. Mi piace pensare anche al lavoro psicologico che Artemisia fa su di se e a quell'attimo di guardinga immobilità prolungata che testimonia la sua concentrazione mentale: quasi una pausa in surplace, una tesa preparazione per diventare altro da se. Due volte Artemisia, due volte autoritratto: suoi gli abiti, sue le stoffe preferite, suo lo spogliarsi e il riguardarsi severo allo specchio per scegliere atteggiamenti ed espressioni. Nella sua opera pittorica vive il racconto particolareggiato della sua vita, della sua bellezza carnosa, delle sue emozioni, delle sue combustioni interne e delle sue stanchezze. Intanto la vita passa, segnata da molti amori che non lasciano segni, tranne quello intenso ed esaltante con Nicholas Lanier, un inglese raffinato (1588-1666), musicista, pittore, agente del Re d'Inghilterra venuto in Italia per arricchirne la collezione di opere d'arte.
Artemisia lo ha conosciuto nel 1625 a Roma quando la pittrice stava facendo il ritratto al Cardinale Maurizio di Savoia. Si interessano subito l'uno dell'altro, ma in un primo tempo sono cauti, addirittura diffidenti, come duellanti. Si seguono a distanza, intessendo febbrilmente per alcuni mesi, un eccitante legame platonico, attirandosi e ritraendosi, consapevoli e compiaciuti del loro potere di seduzione, divertendosi di quei giochi maliziosi che non si spingono mai oltre un cortese corteggiamento. Anche perché in quegli ultimi mesi del 1625 i legami amorosi e gli interessi di Artemisia, l'hanno trattenuta nelle braccia dell'ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede: una relazione molto ufficiale che stuzzica t'orgoglio di lei e le favorisce la carriera con commesse prestigiose. Ma questo inglese raffinato, intelligente che mantiene nello sguardo grigio un incanto dolce e segreto, suggerisce ad Artemisia quei desideri di vero amore sempre vivi nel suo cuore solitario. Le piace di Lanier l'alternanza capricciosa fra tenerezza e umorismo e, quando il loro rapporto si consoliderà, le tornerà la fantasia e la gaiezza dei sensi e dello spirito che aveva conosciuto solo con Pierantonio a Firenze, nei primissimi anni del loro matrimonio.
Nicholas Lanier ama la musica, i quadri d'autore e le belle donne, privilegiando le avventure squisite e leggere di una sera. Nessuna donna, neppure la paziente e saggia moglie inglese, l'ha mai segnato, fino a quella vertigine misteriosa e inspiegabile davanti alla bellezza, alla potenza e all'erotismo di Artemisia Gentileschi, pittrice.
Nelle cose d'amore la loro intesa è totale: l'esperienza li ha resi entrambi, conoscitori delle cose del mondo: pur non appartenendo allo stesso universo, sono della stessa razza e della stessa tempra. Sembra che un amore così possa durare per sempre, ma un giorno Artemisia trova Nicholas che sta scegliendo dalla sua cartella alcuni disegni per portarli al
suo Re. Lanier pensava forse ad un gesto di amorevole considerazione nei confronti della sua donna, Artemisia che non era stata interpellata va su tutte le furie.
«Nessuno -gli dice severa -ha il diritto di disporre delle mie opere senza il mio consenso!». Da quel giorno qualcosa si incrina: nell'Aprile del 1628 Lanier considera conclusa la lunga "stagione acquisti" per la corte d'lnghilterra e deve tornare a Londra.
Artemisia disperata come donna, ma sollevata come artista, scrive: «Ho barattato la mia opera con un'altra passione. Non mi lamento dello scambio, ma ora non c'è altra soluzione che l'addio. Scappo dall'amore per non perdermi, perche la pittura ed io formiamo una sola e unica entità. »
Artemisia accompagna Lanier al porto di Venezia e lo guarda partire. Passeranno 10 anni prima che si possano rincontrare.
Il Duca di Alcalà, mecenate ed ex amante della pittrice viene nominato nel febbraio del 1629 vicere di Napoli: per questa ragione il Duca invita la "sua" pittrice a raggiungerlo a Napoli: pochi mesi dopo la Gentileschi e sua figlia Prudenzia partono per la difficilissima trasferta partenopea.
Dopo l'amore di Lanier, Artemisia non sopporta neppure per convenienza le algide attenzioni del Vicere e pur rimanendo a Napoli, decide di lavorare anche senza la sua protezione. Dipinge forsennatamente, ritratti di duchesse per le gallerie dei castelli di famiglia, nature morte per le sale da pranzo, allegorie mitologiche e licenziose per i gabinetti dei prelati: la sua celebrità, le sue origini, i suoi viaggi e le sue amicizie le aprono le porte dei banchieri fiorentini, dei mercanti veneziani, degli aristocratici napoletani e dei prelati romani.
La concorrenza è fortissima: Guido Reni è fuggito scoraggiato da Napoli, il Domenichino scrive "che ha le mani legate col filo di ferro" perche un tris di pittori guidati da Jusepe de Ribeira, detto lo Spagnoletto, detta legge in fatto di commissioni adottando metodi violenti e pericolosi. A peggiorare la situazione di Artemisia, il Duca di Alcalà, per screzi con la nobiltà partenopea, viene richiamato a Madrid; nelle stive delle sue navi ci sono 76 tele, fra le quali parecchie di Artemisia, che tuttavia non si perde d'animo. Il suo studio è diventato tappa obbligatoria per viaggiatori e stranieri e anche se il veleno maschilista circola pericolosamente, Artemisia, nel gran teatro delle awenture partenopee, affronta con i suoi colleghi un confronto diretto che si trasformerà, grazie al suo fascino, in fattiva complicità. La pittrice avrà commissioni importanti nei palazzi dei nobili, nelle chiese e nelle cattedrali di Napoli, ma la fama di Artemisia si consolida sul versante delle opere a lei più congegnali.
Sono le sue eroine femminili che aumentano la sua celebrità, sono quelle "dramatis figurae" che si impongono prepotentemente trasmettendo, in un ambiguo gioco di rispecchiamenti, la complicata vita privata dell'autrice espressa darle sue opere.
La bottega di Artemisia produce decine di dipinti al mese: ormai anche se obbedisce più alle esigenze della committenza che alla propria creatività, la pittrice non scade mai in qualità. Domina tutte le tecniche, la sua pittura può farsi cupa e drammatica alla napoletana, fastosa e sgargiante alla maniera fiorentina o caravaggesca, alla romana: padrona di se stessa, ha alle proprie dipendenze stuoli di apprendisti che la lodano e la promuovono in ogni ambiente.
In questo periodo la sua Prudenzia va sposa; è un matrimonio aristocratico, Artemisia ha voluto inserire la sua amatissima figlia nell'alta società. La pittrice, proprio in questo periodo, comincia a concepire un'altra grande avventura, maturata nel silenzio e nel rancoroso amore sempre nutrito per suo padre Orazio. l suoi tre fratelli, pendolari perpetui, fra 1'Italia e I'lnghilterra, da tempo dicevano ad Artemisia che il loro padre si era molto invecchiato e aveva bisogno di lei. Erano 25 anni che padre e figlia non si vedevano! Lei che si era sentita abbandonata e tradita da lui, aveva fatto del tutto per rimuovere totalmente e da ogni suo pensiero la figura di colui che come nessuno aveva inciso nella sua vita e nella sua arte.
E anche questo era stato per lei un tormento costante. Di quell'amore paterno sbagliato e crudele le era rimasto un sapore acido di ingiustizia, di rifiuto e di abbandono. Forse suo padre era ancora fiero di lei, ma il fatto che non gliela avesse mai pfù detto era come tener viva una cellula di strazio dalla quale lei non riusciva a liberarsi. Ormai Orazio si era invecchiato lontano da lei, i suoi fratelli Francesco, Giulio e Marco le ripetevano che non stava bene e che lavorava con fatica. I loro discorsi erano la sdegnosa e orgogliosa richiesta d'aiuto del vecchio che non aveva mai ne commentato, ne gioito, ne partecipato al successo di lei, neppure con una parola ne scritta ne detta: l'aveva seguita di lontano, aveva parlato perfino con Nicholas Lanier al suo ritorno dall'ltalia e dopo l'amore con Artemisia.
Come due innamorati abbandonati concordarono che Artemisia aveva preferito l'arte su tutto. Non potevano capire che lei fuggiva da tutti i grandi amori per non sacrificare l'autonomia che l'arte le aveva offerto. Artemisia rimane a Napoli fino il 1638, il pensiero di Orazio ormai invecchiato e solo a Londra la tormenta e non le dà pace. Le si riaffacciano alla mente, in un involontario bilancio di vita, tutti i suoi quadri, le sue eroine, i suoi colori: le sue Maddalene...




















...e le sue Ester vestite d'oro,

















le Giuditte sanguinarie ...








e le Susanne violate da sguardi lascivi e cupidi, le Cleopatre voluttuose,




















e Santa Cecilia, che stabiliva con la musica rapporti divini,


e Clio statuaria e declamatoria




















e Lucrezia virtuosa moglie di Collatino suicida per dignità

e l'Aurora più travolgente di ogni forza di Natura




























e quella "Allegoria all'inclinazione" commissionatale dal nipote di Michelangelo.

Sorridendo Artemisia ricorda la sua incredibile audacia nell'essersi raffigurata completamente nuda.
Era stato quello un momento battagliero della sua vita, si era sentita oggetto del desiderio maschile e soggetto forte dei suoi dipinti rivendicando così simultaneamente la bellezza del suo corpo e la genialità del suo pennello. Non sapeva ancora Artemisia che il pudibondo erede Buonarroti avrebbe, di lì a poco, fatto ricoprire di veli la splendida figura della Gentileschi perché troppo tentatrice e voluttuosa.

Le torna in mente "Giuditta e la sua ancella" , acquistata da Cosimo Il de Medici





















e la statuaria "Venere dormente" , venduta ai Barberini

e quell'autoritratto nella "Allegoria della pittura" del 1630: per ritrarsi di tre quarti aveva dovuto assumere una posizione acrobatica aiutata da tre grandi specchi messi a squadra.
Sa di aver operato una rivoluzione nella storia dell'autoritratto, perche non si è mai voluta ritrarre seduta, davanti la tela, tutta bella vestita e agghindata, ma spesso, e come in questo caso, con le maniche rimboccate e i capelli in disordine come le sue fantasie.
Con le opere riaffiorano i ricordi dei suoi committenti; dal generoso e gentile Galileo Galilei a Michelangelo Buonarroti Junior, tutto teso a organizzare una galleria di dipinti per celebrare la gloria dello zio celeberrimo, a Cosimo Il granduca di Toscana e Maria Maddalena d' Asburgo e, a Roma, il Cardinal Maurizio di Savoia e i Barberini imparentati col Papa Urbano VIII egli Orsini e Maria De Medici vedova di Enrico IV Re di Francia, gli ambasciatori di Bologna, di Ferrara e di Malta. A Napoli i Vicere erano stati addirittura suoi intimi e questo naturalmente le era stato di grande aiuto.
Come non ricordare gli uomini della sua vita dal fosco Agostino Tassi che per primo le aveva fatto provare un erotismo insaziabile e incontrollato, al dolce, svagato sognante Pierantonio che l'aveva riscattata e le aveva insegnato la voluttà di un amore sussurrato, e l'assorta adorazione di lunghi baci sulle palme delle mani mentre lei fingeva di dormire, all'irresistibile Nicholas Lanier, il musico, l'intellettuale il mercante d'arte che si era dovuta strappare dal cuore per poter continuare ad essere se stessa. Di tutti gli altri ricordava poco o nulla se non il sapore di un fuggevole desiderio, o la malinconia aspra di una solitudine prolungata o l'orgoglio di un complimento autorevole o il cimento rabbioso per un ricatto accettato.
Ma ora Artemisia, la pittrice celeberrima in ogni Corte italiana e non, sente forte e insistente il richiamo muto di suo padre e decide, con spasimato coraggio, che si sarebbe fatta carico di un viaggio pericoloso e avventuroso fino a Londra, alla Corte di Carlo I Stuart Re d'Inghilterra per aiutare Orazio in difficoltà per quel "Trionfo della Pace e delle Arti", un complesso di 144 mq. di soffitto diviso in nove grandi tele previsto a Greenwich, per il vestibolo della Casa delle Delizie di Enrichetta Maria di Francia Regina d'lnghilterra.
T empeste, contrattempi e corsari non riusciranno ad interrompere quel viaggio durato 4 mesi. Artemisia stanca ed emozionatissima aspetta Orazio a Harwich, nell'Essex dove è approdata, ma lui non c'è. Si organizza a fatica, raduna da sola bagagli, tele e casse e per qualche giorno ancora non riesce ad incontrarlo. Fino a che, agghindata come una gran signora con pellicce e gioielli, si fa accompagnare a Greenwich lungo il Tamigi.
In quel novembre inglese de11638, tutto è grigio, come gli occhi di Lanier, sembra che il sole sia stato inghiottito dalla triste lucidità dell'acqua e della campagna tutt'intorno. Arrivata a Greenwich entra da sola nella grande e regale costruzione che sembra deserta. Nel gran salone si sente l'aprirsi di una porta: nella galleria superiore appare Orazio. Come sempre elegante, vestito di nero: minuto, asciutto, incanutito. Sul viso del vecchio non dilaga nessuna espressione. Artemisia col cuore che le scoppia sta per chiamarlo, ma il vecchio, con un repentino dietro front, scompare. Artemisia si infuria, non si vedono da 25 anni e lui ancora si nega. Comincia allora ad aprir porte, ad attraversare sale, a guardare in ogni stanza fino a che non arriva in un grande studio dove sono accatastate grandissime tele.
Come una furia le sposta, le mette in luce, le guarda. Sono tele di suo padre, ma di pessima qualità che screditano il lavoro, l'arte, il genio di Orazio Gentileschi. Artemisia finalmente capisce: ha toccato con mano la disperazione di suo padre e accetta con gioia il patto muto, implorato da lui. Completerà la sua opera: raccoglierà la fiaccola e il loro nome continuerà a vivere.
Quando la figura di Orazio appare nel grande vano della porta, Artemisia lo guarderà con un lungo tenerissimo sguardo; affrancata dall'ossequio, dai rancori, e dalle pretese di perdono, sente solo il grande, vecchio, tenacissimo amore.
Lavorano insieme con voracità sapendo sempre cosa è meglio fare pur senza mai comunicarselo: passano le notti davanti ai loro cavalletti assillati entrambi dal tempo e dal pensiero della morte, condividendo lo stesso sogno e la stessa visione. Orazio sa bene che non c'è più ne maestro ne allieva: l'energia di Artemisia sfinisce Orazio, ma in due soli mesi la pittrice ha già completato quattro dipinti, quelli più grandi. Artemisia non si concede tregua: rifiuta di mangiare, di dormire e di riposarsi; vorace e disperatamente felice si nutre di Orazio, del suo insegnamento, del suo disegno, della sua luce, del suo colore e della sua materia. Ha perso perfino la sua ambizione personale, accettando che Orazio firmi ogni tela da lei completata.
Il ritmo di esecuzione si accelera: una frenesia!
Ma le Muse assomigliano sempre meno a quelle che dipingerebbe Orazio: sono violente, drammatiche, pesano nello spazio, si impongono, si muovono, gridano! Impotente, compiaciuto e disperato Orazio assiste alla trasformazione dell'opera sua. Ma ormai questo non ha più importanza: il vecchio spesso si addormenta, è stanco. Un giorno finalmente trova l'abbandono per attirare a se sua figlia: «Voglio vederti bene -le dice -avvicinati. Sei ancora tanto bella!» Si abbracciano.
Quello che dovrebbe essere un gesto usuale e quotidiano, diventa un evento.
«Dio- sussurra Orazio -rifiuta di scegliere fra noi» lo sguardo si annebbia pervaso da un sentimento di pace. Orazio Gentileschi muore fra le braccia della figlia ritrovata.
Lei piange e non sa se per tenerezza o per sgomento.
È il 7 Febbraio 1639: Orazio ha 76 anni, Artemisia 46. l funerali di Orazio si svolgono a Londra con grande pompa partecipata dalla corte e dagli artisti di corte.
Artemisia rimane a Londra per vedere il "Trionfo della pace e dell'arte'. montato nel soffitto della Casa delle Delizie, che consegnerà alla Storia un'unica visione condivisa, quella dei Gentileschi, padre e figlia.
Addolcita e pacificata Artemisia torna in Italia: non ritroverà più l'ardore degli anni di conquista, quando dipingeva solo per confrontarsi con quel suo grande rivale, padre e maestro, che lontano, silenzioso, riottoso e crudele aveva mantenuto nel suo cuore intatto e devastante un amore orgoglioso e sbagliato per quella sua figlia speciale.
Da questo momento Artemisia svapora: non si conosce né la data della sua morte, né il luogo della sua sepoltura.
Artemisia scompare assieme alle sue opere: una specie di "damnatio memoriae" perpetrata per più di 350 anni, fino a che Roberto Longhi e Anna Banti non la fanno riaffiorare da un oblio velenoso e colpevole. Le loro autorevoli ricerche riportano Artemisia fra i grandi pittori del periodo caravaggesco.
Insieme al padre, ma finalmente divisa da lui.
IVANA BALDASSARRI


Ivana Baldassarri
Quando uno scrive in un quotidiano da quarant’anni, non dovrebbe rilasciare né presentazioni, né curricula: ormai ha detto tutto di sé e i lettori, volenti o nolenti, sanno tutto di lui.
O di lei.
Quando poi una “lei” come Ivana Baldassarri che ha scritto sulle colonne de “Il Resto dl Carlino” un po’ di tutto fra arte, cultura, poesia, storia cittadina, personaggi “coccodrilli” compresi, costume e teatro, dovesse ribadire tutti i piccoli passi fatti in quotidiane presenze, sarebbe o presuntuoso o ridicolo.

Una sola cosa va precisata: quando scrive, Ivana Baldassarri lo fa con una cordiale, sincerissima e disponibile “passione”, assieme alla ribadita inclinazione a coinvolgere i suoi lettori ad interessarsi a cose che lei pensa siano molto importanti.
Non sa scrivere né di calcio, né di politica.
“Trent’anni d’affetti
” (*)
è il titolo del suo nuovo libro dedicato alle sue collaborazioni giornalistiche sulle pagine del Resto del Carlino in 30 edizioni del Rossini Opera Festival.



(*) Con “Trent’anni d’affetti” (Franco Andreatini Editore) Ivana Baldassarri si candida al titolo di cantrice del Rossini Opera Festival. Ci vuole un neologismo per definire al femminile questa poliedrica amante della pesaresità: un neologismo peraltro già creato per Doris Lessing, Premio Nobel 2007 per la letteratura, che la motivazione (presumibilmente tradotta dallo svedese) indicava come “cantrice dell’esperienza femminile”. Il libro raccoglie, insieme a una ricca documentazione fotografica (musicisti, scenografie delle opere e protagonisti mondani), una selezione di 120 articoli di critica e di costume, fra i 361 pubblicati sul Resto del Carlino in trent’anni di ROF: il festival di cui l’autrice non ha mancato neppure una rappresentazione. L’antologia, come un ideale racconto globale, senza interruzioni, inizia con la recensione de “L’inganno felice” (edizione del 1980) e si conclude con “Le comte Ory” (agosto 2009). In mezzo ci sono – appunto – trent’anni di ricordi. E di affetto.
(da “Lo Specchio della città” – Pesaro, settembre 2010)

Nessun commento: