7 maggio 2012 Marco Leopoldo UBADELLI



Processi e giustizia nella letteratura greca.

Adulteri, misfatti e omicidi

In ogni civiltà colui che contravviene una norma, sia essa consuetudinaria, orale, sia scritta, incappa nelle maglie della giustizia che si organizza per celebrare in modo più o meno solenne il processo e comminare una pena più o meno severa.
Come è noto nella Grecia divisa in poleis (in città) non esisteva un diritto unico, ma tanti quanti erano le varie città che la componevano. E’ certo tuttavia che solo per il caso di Atene possediamo una documentazione sufficiente a farci capire il funzionamento della giustizia a volte anche nei minimi particolari.



La documentazione ci proviene dalla letteratura (le commedie di Aristofane, la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, le arringhe degli avvocati), ma a volte anche dalle epigrafi (ad es. la legge di Draconte sull’omicidio in una stele rinvenuta nel 1843) e dalla ceramica figurata.
L’Atene del V e del IV secolo a.C. era nota in tutto il mondo greco per essere la patria dei tribunali e gli stessi Ateniesi erano famosi per essere appassionati dei processi e delle controversie giudiziarie.



Questo dato è confermato in qualche modo dalla presenza in città di ben 5 tribunali per fatti di sangue e 10 tribunali per cause civili.



Il grande sviluppo dell’attività forense fu certamente dovuto alla istituzione della democrazia che prevedeva una partecipazione diretta del popolo alla gestione della cosa pubblica; ogni cittadino aveva uguale diritto di parola nelle assemblee e nei tribunali, e godeva della libertà di dire quello che voleva (ovviamente entro certi limiti).



Quindi innanzitutto bisogna tener presente che in Atene non esistevano veri esperti di diritto, dal momento che i tribunali popolari per la maggior parte erano composti da semplici cittadini con oltre 30 anni. Secondo una legge voluta da Pericle, ogni giurato estratto a sorte per presenziare in tribunale, riceveva un sussidio di due oboli al giorno (portati a tre nel 425 a.C.) per svolgere il suo compito. In questo modo quindi da una parte si risarciva il cittadino del guadagno della giornata per il tempo sottratto al lavoro, dall’altro lo si spingeva a partecipare alla cosa pubblica nel suoi meccanismi più delicati. Si ricorda inoltre che ad Atene vi era una democrazia diretta, in cui tutti i cittadini – purché maschi e maggiorenni – potevano partecipare direttamente alla gestione dello stato, senza il meccanismo della rappresentanza che conosciamo nelle democrazie odierne. Questo era possibile in una città che doveva contare di un numero relativamente piccolo di maschi adulti aventi diritto (si calcolano ca. 40.000 persone).



Tuttavia si deve anche considerare che i cittadini veramente interessati alla gestione dello stato erano quelli residenti in città, soprattutto i meno abbienti, perché chi risiedeva e lavorava in campagna preferiva comunque non interrompere le proprie attività per partecipare ad un processo o ad un’assemblea, mentre i ricchi certo non avevano sempre voglia di perdere il loro tempo in un processo.



In Atene comunque c’erano dei veri tribunali popolari in cui semplici cittadini erano chiamati ad esprimere un loro parere su un determinato fatto che veniva illustrato dai contendenti. Per questo le arringhe difensive o accusatorie erano basate più sulla capacità di persuasione della parola che sulla obiettiva rilevanza dei fatti. Era richiesta pertanto una buona preparazione retorica (intesa come arte del parlare, del ben argomentare) piuttosto che giuridica. Tutta l’attenzione era quindi concentrata sul discorso che si doveva tenere di fronte alla giuria, discorso che era articolato in parti ben definite:



- un esordio con spesso la captatio benevolentiae per predisporre positivamente l’uditorio;



- una breve dichiarazione della tesi sostenuta;



- la narrazione dei fatti;



- l’argomentazione della tesi sostenuta dall’eventuale lettura delle leggi e dalla deposizione dei testimoni;



- e infine la conclusione con l’appello rivolto ai giudici di giudicare bene.



Leggendo le arringhe che ci sono rimaste a volte si rimane sorpresi di non trovare prove stringenti per difendere o accusare, e sembra che invece fosse sufficiente impressionare, coinvolgere emotivamente, suscitare passioni. (l’aneddoto di Lisia e del suo cliente insoddisfatto).
Secondo il diritto attico non esisteva l’obbligatorietà dell’azione penale, come nel nostro ordinamento. Dal momento che non esistevano dei magistrati di stato, un’azione giudiziaria non partiva automaticamente dalla notizia del reato, non era un atto dovuto, ma era necessario che un privato cittadino sporgesse denuncia, o per un torto subito da lui o dalla sua famiglia o per un illecito perpetrato contro la città. L’accusato e l’accusatore dovevano difendersi personalmente, ma potevano essere rappresentati anche da un synegoros (patrono); è questo il caso delle donne – alle quali era vietato espressamente di difendersi in tribunale – degli stranieri (i meteci), cioè di coloro che risiedevano nella città di Atene per motivi commerciali, artigianali, militari o semplicemente per diletto, o di quanti non se la sentivano di parlare di fronte ad un pubblico, ad esempio perché non avevano una voce potente.



La norma era dunque difendersi personalmente. Ma non tutti sapevano comporre un bel discorso, ben articolato e convincente; per questo per aumentare le possibilità del successo processuale era prassi diffusa rivolgersi ad un professionista di discorsi giudiziari, un logographos, che dietro il pagamento di denaro si impegnava a scrivere un’arringa adatta al caso richiesto. Questi professionisti della parola, se particolarmente capaci, potevano richiedere anche somme considerevoli e diventare ricchi. Fu questo il caso di Lisia (445-380 ca a.C.) che arrivò a possedere un ingente patrimonio.



Coloro che si dovevano difendere quindi imparavano a memoria l’orazione di difesa o di accusa redatta dal logografo, oppure seguivano un canovaccio apportando al momento le modifiche ritenute necessarie. Il lavoro dei logografi era comunque di notevole importanza perché per influenzare i giudici dovevano ricorrere a tutti gli espedienti dell’arte della persuasione, adattandoli di volta in volta al caso richiesto. La loro bravura era particolarmente apprezzata quando riuscivano nella rappresentazione del carattere del loro cliente, che doveva apparire sincero e credibile.



Il processo si divideva in due parti:



- la fase istruttoria che veniva gestita da un magistrato della città chiamato arconte re, il quale doveva verificare se il caso avesse una consistenza, e inoltrare la pratica al tribunale competente;



- la fase giudiziale, cioè il processo vero e proprio, che avveniva davanti ai giudici.



Era consentito a ciascuna delle due parti pronunciare due discorsi: il primo della durata di circa 30 minuti, il secondo di 10 minuti. Il tempo veniva misurato con una clessidra ad acqua, che veniva fermata per l’esibizione delle prove (la lettura delle leggi o l’ascolto dei testimoni).



I giudici alla fine procedevano alla votazione, passando davanti a due urne (una per il giudizio di colpevolezza, l’altra per il giudizio di innocenza) e inserendo ovviamente in una sola un sassolino [questo modo di votare con i sassolini ha generato il verbo “getto un sassolino” per indicare proprio l’azione del prendere una decisione: psephos - psephizo].



Dopo la conta dei sassolini, se l’imputato veniva assolto il processo era finito, se invece veniva ritenuto colpevole si procedeva alla applicazione della pena prevista dalla legge, o se la legge non lo prevedeva, la corte si doveva di nuovo riunire.



Le pene previste potevano essere:



- afflittive (morte, esilio, perdita dei diritti, schiavitù. Il carcere era molto raro e la flagellazione era comminata solo agli schiavi);



- infamanti (privazione della sepoltura, divieto di entrare nei templi, iscrizione su una colonna, maledizione pubblica);



- pecuniarie (confisca dei beni, multa, risarcimento).
I processi per delitti di sangue.



L’uccisione di un uomo era ritenuto un reato non solo contro gli uomini, la comunità cittadina, ma anche contro gli dei, perciò i processi di sangue erano caratterizzati da gesti e rituali dal significato sacrale: i parenti della vittima davano inizio al processo piantando una lancia sulla tomba del defunto e l’arconte re (il magistrato che istruiva il processo) bandiva l’accusato dai luoghi pubblici (l’agorà) e dai luoghi sacri e celebrava il processo dopo aver compiuto un sacrificio e dopo essersi levato la corona, per sfuggire dalla contaminazione con il presunto omicida.



Il processo si svolgeva in tre dibattimenti a distanza di un mese l’uno dall’altro ed era celebrati in uno dei 5 tribunali previsti:



- il primo era l’Areopago, la “collina di Ares” posta ai piedi dell’Acropoli, sovrastante l’agorà. Qui si giudicavano i casi di omicidio premeditato, di ferimento con l’intenzione di uccidere, di incendio di una casa abitata e di avvelenamento. Si poteva essere condannati a morte o all’esilio;



- c’era poi il tribunale del Palladio, situato nella valle dell’Ilisso, (un fiumiciatto di Atene), a sud-est dell’Acropoli. Qui si giudicavano i casi di omicidio involontario, l’istigazione all’omicidio di cittadini e qualsiasi omicidio di stranieri o schiavi. Si poteva essere condannati al confino;



- nel tribunale del Delfinio, più vicino alla riva dell’Ilisso, si giudicavano i casi di omicidio legittimo, come quello commesso da chi aveva colto sul fatto la moglie o l’amante e li aveva uccisi, o come quello commesso durante le gare sportive o in guerra;



- nel tribunale del Freatto si giudicava invece il raro caso in cui un uomo, già condannato per omicidio involontario e quindi in esilio, ne aveva commesso un altro premeditato. Poiché l’accusato non poteva mettere piede in Atene e nell’Attica, doveva difendersi stando in piedi su una barca in mare vicino alla riva, dove stavano i giudici.



- nell’ultimo tribunale infine, quello del Pritaneo che aveva sede nell’agorà, nell’edificio chiamato tholos, si giudicava il caso curioso in cui la morte fosse stata causata da un assassino ignoto o da un animale o da un oggetto (una scure, una pietra caduta), che venivano processati e giudicati esattamente come esseri umani.
Le cause civili interessavano invece i tribunali popolari, ovvero l’Eliea, istituita da Solone nel VI sec. a.C.



Tuttavia se la causa era di poca importanza il giudizio era affidato a un collegio di 30 giudici estratti a sorte 3 per ogni tribù (che erano 10), oppure si tentava una conciliazione.



I giudici quindi venivano estratti per sorteggio grazie ad un ingegnoso macchinario chiamato klerotérion.



I tribunali in cui i giudici popolari dovevano decidere le controversie civili erano probabilmente 10 e il numero dei giurati poteva variare da 500 a 2000 per le cause importanti. Tuttavia il numero delle cause doveva essere enorme e i processi potevano durare anche anni. Si iniziava la mattina presto con un sacrificio propiziatorio; il presidente del tribunale sedeva su una tribuna di pietra con accanto un segretario, un araldo e gli arcieri sciti; i giudici sedevano su panche di legno. Tutt’attorno una palizzata teneva ad una certa distanza la folla dei curiosi e degli sfaccendati.
Per capire meglio tutto questo meccanismo della giustizia in Atene, vediamo ora alcuni processi famosi di cui possediamo la documentazione.



Qualcosa sul processo a Socrate.



1) Il primo caso tratta di un processo per avvelenamento. L’autore dell’arringa è l’oratore Antifonte: Per veneficio contro la matrigna. Il fatto è il seguente.



Un Ateniese, di cui non è fatto il nome, e il suo amico Filoneo, dopo aver banchettato in casa di quest’ultimo, al Pireo, fanno una libagione col vino versato dalla concubina di Filoneo. Il vino è avvelenato: Filoneo muore subito, l’altro dopo venti giorni. La concubina, posta alla tortura, confessa ed è giustiziata. Il figlio della vittima (presumibilmente un figlio naturale), diventato maggiorenne – quindi dopo un certo tempo dal fatto - accusa la matrigna come vera responsabile del delitto. A suo dire, la donna, da tempo in rapporti non buoni col marito, aveva stretto amicizia con la concubina, di cui Filoneo s’era stancato e che minacciava di collocare in un bordello, e l’aveva persuasa a somministrare ai due il beveraggio, facendole credere che si trattava di un filtro capace di riaccendere nei loro uomini l’antico amore. Il padre, in punto di morte, avrebbe rivelato al figlio la trama fatale, e gli avrebbe ingiunto di vendicarlo. Ora il figlio naturale accusa la matrigna di aver avvelenato il padre e si trova di fronte al fratellastro che difende la madre in qualità di patrono.



La causa fu discussa davanti al tribunale dell’Areopago (tra il 419/8 e il 415 a.C.) perché la matrigna viene accusata di aver istigato la sua amica, concubina di Filoneo, ad avvelenare i due uomini. Tuttavia l’accusatore non porta nessuna prova concreta a sostegno della sua tesi e l’autore dell’arringa, Antifonte, si trovò nella necessità di trasformare in certezza ciò che era tutt’al più il sospetto di un individuo (il padre morente). Non sappiamo come andò a finire il processo, ma molti ritengono che di fronte a questa arringa così incalzante e appassionata i giudici abbiano deciso per la condanna della matrigna.



Leggiamo un frammento:



“Io per me mi meraviglio dell’audacia di mio fratello e della sua intenzione, quando giura solennemente a difesa della madre, affermando di sapere bene che non ha commesso il fatto. Come si può sapere bene ciò a cui non si è assistito di persona ?”



E conclude dicendo:



“Io ho esposto il caso e ho portato il mio aiuto al morto e alla legge; ora voi esaminate il resto secondo coscienza e pronunziate un giusto verdetto. Anche gli dei infernali – credo – vegliano su chi ha subito un torto”.
2) In un altro caso invece appare evidente come, per screditare un avversario politico, non ci si faccia scrupoli di utilizzare il passato poco onorevole e la condotta immorale e spregiudicata della sua donna. E’ il processo contro Neera, la compagna o la moglie di Stefanos. Ne abbiamo testimonianza dall’orazione che porta appunto il titolo Contro Neera, presente tra le opere di Demostene.



Secondo l’accusatore, Stefanos, militante del partito avverso a quello di Demostene, sarebbe stato vittima delle abili doti seduttive della cortigiana Neera. Cioè Stefanos avrebbe fatto passare per moglie legittima la sua amante, una straniera originaria di Corinto nota per il suo passato di prostituta, e per legittimi i figli naturali di lei.



Gran parte dell’arringa è dedicata alla ricostruzione minuziosa della carriera della donna; di estremo interesse sociologico inoltre appare per noi moderni la ricostruzione della vita quotidiana delle prostitute di alto bordo e dei loro clienti. In questo discorso è famosa la notizia secondo la quale ogni uomo avesse a disposizione tre donne, ciascuna con una diversa e specifica funzione:



- la moglie per la procreazione dei figli legittimi;



- la concubina per le cure di tutti i giorni;



- l’etera (ovvero la prostituta di alto bordo, la cortigiana) per il piacere.
3) Il terzo caso che ho scelto riguarda una presunta truffa ai danni dello stato. L’avvocato che scrive l’arringa è famoso: si tratta di Lisia (Contro l’invalido).



Una piccola premessa. Una legge risalente a Solone prevedeva l’assegnazione di un sussidio a chi possedeva meno di tre mine e non era in grado di mantenersi col proprio lavoro; si trattava di un obolo al giorno. L’assegnazione era compito del Consiglio, che ogni anno verificava che i candidati risultassero in possesso dei requisiti necessari; in quella occasione (la docimasia) qualsiasi cittadino poteva mettere in dubbio il diritto del candidato a ricevere la sovvenzione statale.



E veniamo al caso in questione.



Un invalido, ricorrendo alle abili doti del logografo Lisia, si difende perché si vede minacciato dall’accusa di un cittadino che contesta la legittimità della richiesta del sussidio. L’accusatore afferma che il cittadino che percepisce il sussidio non è affatto invalido, anzi è in grado di esercitare un lavoro, va a cavallo e per di più tiene una condotta moralmente riprovevole (è arrogante e violento, e nel suo negozio si radunano in gran numero persone poco raccomandabili). L’imputato non cerca di provare la propria invalidità e non dice esplicitamente in che cosa essa consistesse, e nemmeno quantifica i proventi della sua modesta attività della quale non sappiamo nulla di preciso (forse egli gestiva una piccola bottega di barbiere o di calzolaio, oppure una casa da gioco). La difesa – grazie alla mano particolarmente felice del logografo Lisia - si limita invece a mettere in ridicolo le affermazione della parte avversa, ricorrendo spesso all’arma del comico e dell’ironia.



L’invalido innanzitutto bolla l’accusatore come invidioso, e rivendica a se stesso una condotta irreprensibile. Leggiamo quello che disse nel discorso:



“Risulta evidente la sua invidia, consiglieri, per il fatto che io, pur colpito da una simile disgrazia, sono comunque un cittadino migliore di lui. Sono convinto infatti, consiglieri, che bisogna porre rimedio alle infermità del corpo con le virtù dello spirito”.



L’invalido poi cerca di ribattere l’accusa di essere sano poiché va spesso a cavallo, dicendo che – data la sua menomazione – si è trovato un aiuto per quando ha necessità di fare dei viaggi un po’ più lunghi del solito, e che comunque i cavalli sono sempre presi a prestito. A questo punto, per ribadire l’evidenza della sua invalidità, ricorda anche ai giudici che cammina con due bastoni. L’ironia è evidente quando afferma che se non fosse stato veramente invalido avrebbe potuto partecipare al sorteggio per le cariche più prestigiose della città (che prevedevano appunto cittadini di sana e robusta costituzione).



Quanto riguarda poi l’accusa di essere arrogante e violento, l’accusato ribatte che, dal momento che solo i ricchi possono permettersi di essere tali, non solo tale accusa sia assolutamente priva di fondamento, ma sia stata avanzata per scherzo, per mettere in ridicolo un povero diavolo come lui.



Infine si affronta l’accusa di avere un negozio frequentato da gente poco raccomandabile; ma a questo punto – ribatte l’accusato – bisognerebbe accusare di disonestà tutte le botteghe di commercianti e artigiani di Atene molto frequentate e in fin dei conti tutti gli Ateniesi che hanno l’abitudine di passare il tempo in qualche bottega.



Il discorso di difesa termina in modo efficacissimo con una perorazione patetica:



“Non privatemi, a causa di quest’uomo, dell’unico bene che la sorte mi ha concesso di godere della mia patria; e il sussidio, che un tempo mi avete concesso tutti all’unanimità, ora costui da solo non vi convinca a revocarmelo ! Poiché la sorte, consiglieri, ha tolto a noi invalidi il bene più grande, la città ha decretato l’assegnazione di questo sussidio, nella convinzione che tutti i cittadini debbano condividere la buona e la cattiva sorte”.
4) L’ultimo caso è il più piccante. E’ un caso di adulterio e di omicidio. Ne abbiamo informazione dall’arringa composta per il suo cliente dal solito Lisia (Per l’uccisione di Eratostene). Il processo si svolse davanti al tribunale del Delfinio, che aveva competenza sul cosiddetto “omicidio legittimo” .
Eufileto, un onesto cittadino ateniese, scopre una tresca fra la moglie e un giovane dongiovanni, Eratostene, che dura da tempo e della quale non aveva mai sospettato. Sorpreso l’adultero in flagrante in casa propria, lo uccide sul posto avvalendosi del diritto della vendetta concessogli da una legge molto antica e mai abrogata (legge di Draconte). I parenti del morto però sostengono una tesi diversa: l’uccisione di Eratostene non sarebbe avvenuta senza premeditazione, ma Eufileto avrebbe invece attirato Eratostene in casa con un tranello, servendosi di una schiava, e l’avrebbe poi ucciso dopo averlo trascinato a forza in casa dalla strada e mentre si rifugiava sul sacro focolare domestico, un luogo sacro che lo avrebbe reso inviolabile.



Il caso era insidioso perché se i parenti della vittima riuscivano a convincere i giurati che l’omicidio di Eratostene non era avvenuto come sosteneva il marito ingannato, il delitto si configurava come un omicidio premeditato ed Eufileto avrebbe potuto incorrere nella pena di morte.



Tutta la linea difensiva escogitata dal logografo Lisia si fonda sulla dimostrazione della legalità dell’atto compiuto e della mancanza di premeditazione. Inoltre tutta l’arringa mira a rappresentare il marito come un ingenuo e una vittima: un onesto e retto cittadino obbligato, nell’interesse della giustizia collettiva, a punire il reo seduttore che aveva violato la sua vita domestica.



Particolarmente felice in questo discorso è la narrazione dei fatti.



“Quando decisi di sposarmi e presi moglie, Ateniesi, nei primi tempi mi comportavo in modo da non infastidirla, ma neanche da lasciarla troppo libera di fare quel che voleva, e la sorvegliavo per quanto era possibile: insomma, com’è naturale, tenevo gli occhi aperti. Dopo la nascita del bambino però mi fidavo ormai completamente di lei e le affidai tutti i beni della casa, ritenendo che questo fosse il legame di affetto più profondo che ci sia”.



Le cose cambiano – secondo la ricostruzione a posteriori – quando la donna uscì di casa per andare al funerale della madre di Eufileto. In quella occasione fu notata dal dongiovanni e col tempo si lasciò sedurre.



L’adulterio quindi si consuma con la complicità della serva, anche di notte, durante la presenza in casa di Eufileto che dorme al piano superiore, ignaro di tutto. Solo la spiata di una vecchia ruffiana, mandata dalla precedente amante del dongiovanni, chiarisce al marito tutta la tresca. Ma Eufileto non prende alcun provvedimento, si limita a far confessare alla serva la verità e si fa promettere di far in modo di scoprire i due amanti in flagrante.



Ed ecco il racconto nel momento della scoperta degli amanti:



“La serva mi sveglia e mi dice che [Eratostene] è dentro [la casa]. Io allora, dopo averle ordinato di occuparsi delle porte, scendo da basso, esco silenziosamente e vado in casa di questo e di quell’amico […]. Allora raduno più uomini che potevo tra quelli che c’erano e mi avvio verso casa. Prese delle fiaccole dall’osteria più vicina, entriamo, trovando aperta la porta, che era stata preparata dalla serva. Spalancata la porta della camera da letto, noi che entriamo per primi lo troviamo ancora sdraiato accanto a mia moglie, gli altri invece lo vedono nudo in piedi sul letto. Io allora, giudici, lo stendo a terra con un pugno, gli giro le braccia dietro la schiena e gliele lego; poi gli chiedo perché mi oltraggia penetrando in casa mia. Lui ammetteva di essere in colpa, ma mi supplicava e mi scongiurava di non ucciderlo, di chiedere piuttosto una riparazione in denaro. Ma io gli ho risposto: ‘Non io ti ucciderò, ma la legge della città, che tu, calpestandola, hai ritenuto meno importante dei tuoi piaceri, ed hai preferito piuttosto commettere questa colpa verso mia moglie e i miei figli che obbedire alle leggi ed essere un cittadino onesto’. Così, giudici, ha avuto la ricompensa che le leggi prescrivono per chi compie azioni come queste”.



E con questa perifrasi Eufileto accenna al punto più delicato della narrazione: l’uccisione di Eratostene.



Nella perorazione finale Eufileto ribadisce che la sua azione non è stata “una vendetta privata, ma un atto compiuto nell’interesse di tutta la citta”.



Sappiamo dalle testimonianze antiche che l’adulterio era visto come un crimine contro la famiglia, che minava la certezza di avere figli legittimi; per questo motivo presso tutte le costituzioni greche era permesso l’omicidio dell’amante colto in flagrante, nell’atto di violare la sacralità dell’universo domestico. La colpa commessa dall’ucciso quindi si configura come un reato contro la proprietà altrui e il dongiovanni viene descritto come uno scioperato e un vizioso di professione.



Non un cenno invece sulle sorti della moglie fedifraga, tuttavia da altre testimonianze sappiamo che le donne sedotte, se non erano uccise assieme all’amante, erano comunque ripudiate dal marito, il quale, se non lo faceva, rischiava di perdere la cittadinanza.



A noi tutto questo sembra distante e quasi barbarico. Ma è davvero così ?



Come è noto, fino al 1981 in Italia esisteva il cosiddetto “delitto d’onore”: chi uccideva la moglie colpevole di adulterio o l’amante di questa, oppure la figlia o la sorella colpevole di avere relazioni sessuali illegittime, poteva avvalersi di una riduzione della pena in quanto aveva agito per difendere “l’onor suo o della famiglia”.

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