3 febbraio 2014 Storia dell'arte bianca. Il mulino racconta. Attività particolari di alcuni mulini del territorio comunitario.

di Sante Fini
Parlare oggi dei   mulini potrebbe sembrare un argomento sorpassato, obsoleto   in quanto quasi tutti gli opifici molitori  sono scomparsi e di essi sono rimasti o ruderi nascosti da folta vegetazione, o dei toponimi che ci dicono che nei pressi doveva sorgere un mulino, o li vediamo riportati nelle cartine dell’I.G.M.  o nella Carta Idrografica d’Italia. Alcuni si sono trasformati in piccole centrali elettriche  ( come a Cagli il vecchio mulino di S. Croce) o in semplici abitazioni. Secondo una ricerca fatta dal prefetto G. Scelsi tra il 1871 ed il 1878, nel territorio della nostra provincia operavano ben 481 mulini.  Un secolo dopo (1982) sempre  nell’ambito della provincia erano rimasti solo 93 i mulini che avevano in atto la concessione di sfruttamento delle acque pubbliche, concessione che aveva e che ha valenza trentennale. Attualmente, come risulta dal Genio Civile, le concessioni  sono rimaste solo 25 così suddivise: 18 per produzione di energia  elettrica, 6 per produzione di forza motrice (Mulini), 1 per produzione di energia elettrica e forza motrice. Nel 2007 è stata portata a termine una ricognizione di tutti i mulini  che operavano o avevano operato  \nel territorio provinciale, eseguita da Giovanni Lucerna e edita dalla Provincia in un ponderoso volume  dal titolo “Ruote sull’Acqua”  in cui sono stati censiti 381 mulini.

Ho detto prima che trattare  l’argomento mulini potrebbe, sembrare oltre che  fuori tempo anche inutile, ma non lo è assolutamente,  e lo valuterete anche voi  nel  corso di questa conversazione, quando potrete rendervi conto dell’importanza che la ruota idraulica (mulino) ha avuto nel cammino della civiltà e del suo fondamentale apporto allo sviluppo economico e sociale non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa.

Marc Bloch, grande studioso francese del Medioevo, trattando dei mulini così si esprime: “ i mulini segnarono nel corredo tecnico dell’umanità (………) un progresso la cui portata  supera largamente  la storia, in definitiva modesta, della macinazione”.  Noi siamo portati a legare sempre il termine mulino alla sola trasformazione dei creali in farine. Ma il mulino, nel contesto sociale ed economico, dal IX secolo alla nascita della società industriale, scopriremo che è stato molto di più.

Intanto la ruota idraulica ed il mulino hanno una storia che sopravanza di molto i due millenni, tenendo conto che la ruota idraulica era conosciuta in Cina già dal V sec. a.C., e le prime notizie di un mulino ad acqua ci sono pervenute circa un secolo prima della nascita di  Cristo. Già questo ci fa capire la sua importanza nel tempo.

Se si dovesse fare una graduatoria delle invenzioni e delle innovazioni tecnologiche verificatesi nell’alto Medioevo, dal VII al XIII sec ., al primo posto dovrebbe comparire la Ruota idraulica e  al secondo posto l’invenzione e  l’uso della “Camma”, che ha permesso alla ruota idraulica oltre che a macinare  di essere usata anche per diverse altre attività di rilevante importanza economica.

Dopo questa lunga premessa entriamo nel vivo dell’argomento, iniziando a scoprire “la storia dell’arte bianca”, ossia la storia della macinazione e del mulino

L’uomo primitivo conduceva una vita nomade, non poteva perciò arare e  tanto meno  coltivare, quindi il suo cibo era dato dalle piante, in particolare cereali e alberi da frutto. Così dice il libro della “Genesi 29-31”: “Ecco io vi do tutte le erbe che producono  seme, che sono sopra la terra e tutti gli alberi fruttiferi che fanno seme. Queste cose vi serviranno per cibo”- Anche Darwin sostiene che le piante sono state il mezzo alimentare più antico, diversamente dalla carne, che non è mai stato l’alimento principale. Quindi il consumo dei cereali e la tecnica di frammentazione sono strettamente legati sin dall’inizio al problema della nutrizione.

Ma l’uomo primitivo non aveva necessità di avere un mezzo per frantumare i cereali in quanto  erano dotati di una mascelle talmente forte da frantumare cose durissime. Solo in seguito si verificò una recessione della forza della mandibola ed allora si presentò la necessità di avere uno strumento per frantumare i cereali, che nel frattempo cominciava a coltivare. Il primo strumento per frantumare saranno state due pietre, una posta su un appoggio e  sulla quale ponevano il cereale da frantumare e l’altra nella mano, manovrata dalla forza del braccio.

Dai primi rudimentali strumenti per la macinazione, si passò ad adoperare forme più razionali di pietre, come quella che vedete nella diapositiva, che consisteva in una base piuttosto ampia dove si metteva il grano da macinare ed un pietra ovale che veniva impugnata colle mani, che veniva spinta avanti e indietro sui chicchi sfarinandoli.

Dalle pietre si passò ad usare un rudimentale “Mortaio” fatto da un trogolo ed un pestello, sistema usato ancora presso alcune popolazioni primitive. Questo sistema di macinazione, in realtà grossolano, venne migliorato dagli  egiziani che usavano recipienti cilindrici abbastanza profondi e  pestelli di pietra o di legno duro.
Era compito delle donne macinare la quantità di grano necessario per la famiglia, era un lungo e faticoso lavoro, fatto a forza di braccia. Ma raffigurazioni dell’antico Egitto mostrano come questo duro lavoro veniva svolto da schiave, che lo effettuavano inginocchiate sulla pietra per macinare.

La trituratrice era una figura femminile sempre presente presso tutte le corti della Germania. Così per millenni la macinazione fu sempre compito della donna.

Dal mortaio nacque forse l’dea di sfruttare il moto rotatorio di due pietre sovrapposte per macinare. Questa soluzione fu sperimentata dai Greci intorno  alla metà del III sec. a. C.  Consisteva in un grosso sasso piatto, appoggiato ad un sostegno, con sopra un grande mattarello di pietra a forma circolare, che girava  sulla stessa pietra, ed era in grado di macinare tutto. Era nato un nuovo straordinario attrezzo: La Mola ed era nato il mulino a palmenti. Con il nome Palmento si intendono le due macine del mulino.


Già dalla seconda metà del secondo secolo a. C. nelle famiglie venivano usate queste piccole macine di pietra (50/60 cm. di diametro). Questo tipo di macine resisteranno per molti secoli, anche quando il mulino idraulico sarà presente dappertutto. Nel medioevo, infatti non vi era fortezza che non avesse delle mole a mano o delle mole fatte girare dai cavalli. Svetonio Racconta che, quando Caligola fece requisire tutti i cavalli di Roma, venne a mancare il pane, non essendovi la possibilità di macinare.

La ruota idraulica era conosciuta in Cina sin dal V sec. a, C. ma era usata solamente per innaffiare i campi e per togliere l’acqua dalle profondità delle miniere. Non  ha avuto fortuna in occidente, almeno fino al VI/VII sec. d. C., anche se la sua applicazione alla macina da mulino  fu senz’altro opera delle popolazioni del bacino orientale del Mediterraneo. Dobbiamo, quindi,  tenere presente che per millenni l’uomo trovò nei propri muscoli ed in quelli degli animali domestici la principale fonte dell’energia necessaria a trasformare  in farina il grano e gli altri cereali.  Chi spingeva la macina erano, in genere, schiavi, cittadini poveri, i condannati alla prigione, tutti reperibili a buon mercato. La Bibbia narra che Sansone, prigioniero dei Filistei, “era legato con due catene di bronzo ed era costretto a girare la macina”. (Giudici 16-21).


All’inizio del I sec. a. C. le macine  cominciarono ad avere forme più razionali, e si giunse ad usare i cosiddetti “Palmenti”, cioè due macine affacciate, come ci attesta il mulino a palmenti rinvenuto  a Pompei scavi, lungo la via Domiziana.

Il disegno rappresenta lo spaccato  del mulino della via Domiziana.  Come vedete. Questo mulino è formato da due blocchi di pietra. Il superiore mobile, l’inferiore fisso. Il palmento superiore ha due cavità coniche coassiali che sono unite per il vertice, dove ha dei fori di comunicazione. La cavità superiore serviva da tramoggia e conteneva le granaglie da macinare, la cavità inferiore stava a cavallo del Palmento fisso. Dal palmento superiore le granaglie, attraverso i fori si distribuivano fra le superfici coniche dei palmenti e venivano macinate dal movimento rotatorio attorno all’asse del palmento superiore. Il palmento veniva mosso dalla forza umana o animale.

Le cose cominciarono a cambiare quando si riuscì a perfezionare un meccanismo che permise all’uomo di sfruttare l’energia rinnovabile dell’acqua: la ruota idraulica.

Il primo riferimento  specifico ad un mulino idraulico lo troviamo, intorno all’anno 85 a.C.,  in un epigramma di Antipatro di Tessalonica, in esso il poeta celebra la libertà  che il mulino idraulico donava alle donne, prima costrette a muovere per ore la macina con la forza delle loro braccia, che recita: “Smettete di macinare , o donne che lavorate nel mulino, dormite anche se il gallo con il suo canto annuncia l’alba, perché Demetra ha ordinato alle Ninfe di eseguire il lavoro che facevate con le vostre mani”. 

Verso la fine del I sec. a. C. l’architetto militare  romano  Marco Vitruvio Pollione, nella sua opera “De Architectura” ci descrive in questi termini un altro tipo di ruota idraulica: …”intorno alla sua circonferenza vengono applicate delle pinne, le quali, colpite dall’impeto della corrente del fiume, avanzando, costringono la ruota a girare…”

Si tratta evidentemente di un altro tipo di ruota, si tratta cioè di una ruota “Verticale”. E’ una ruota più complessa della ruota orizzontale perché ha necessità di due ingranaggi per muovere la macina, come vedremo più avanti.

Anche Strabone (63 a. C. – 21 d.C.) storico e geografo greco ci ricorda “la meraviglia” del mulino che Mitridate, Re del Ponto, aveva  fatto costruire nel suo palazzo di Cabeira.

Quindi, lo sfruttamento dell’energia rinnovabile dell’acqua è avvenuto attraverso due tipi di ruota: “La ruota a pale” detta anche “Ritrecine” o “ruota idraulica orizzontale” e “la Ruota Verticale”, ambedue presenti sin dal I sec. a.C.

Nel I sec. d. C.  Plinio il Vecchio ci dà notizia di una buona diffusione dei mulini idraulici a ruota orizzontale sia in Italia che nell’Impero. Nei secoli successivi, però,  la ruota idraulica non ebbe lo sviluppo che si maritava. I motivi che ne rallentarono l’uso furono diverse. Nel II, III e IV secolo le cause che giocarono a sfavore della costruzione dei mulini idraulici furono diverse: la facilità di reperire  a buon mercato la mano d’opera per mandare la macina da mulino. Infatti i grandi proprietari terrieri, poco inclini alla compassione per le sofferenze degli umili, non avevano alcuna ragione di installare costose macchine, quando i mercati e le loro stesse case pullulavano di schiavi che Marc Bloch chiama “Bestiame umano”;  Il forte impegno finanziario e l’immane lavoro che richiedeva la costruzione di un opificio molitorio; la mancanza in molte zone di corsi d’acqua, per cui la popolazione era propensa a tenersi i vecchi metodi di molitura, ed altri. Mentre nel V e VI secolo influirono negativamente le invasioni barbariche ed un forte calo demografico.


Unica grande eccezione in questi secoli, fu la costruzione di notevole dimensione  dei Mulini di Barbegal, nella  Francia meridionale. In questa località, poco lontana da Arles, nel 310 circa venne costruita una serie di 16 ruote, che avevano un diametro di circa metri 2,70. Ciascuna ruota, attraverso particolari ingranaggi, azionava due macine.  Una scala centrale permetteva l’accesso alle varie stanze del complesso dei muliniLa sua capacità di macinazione era di 4 tonnellate di grano  al giorno,  sufficiente per una popolazione di circa 80mila abitanti.


Come già accennato, i greci ed i Romani non fecero molto uso dei mulino idraulico. Certo non per incapacità tecnica ma per la facile reperibilità della mano d’opera. Sarà necessario arrivare al VII secolo per constatare una ripresa dell’uso della ruota idraulica, anche in relazione al fatto che, allontanatosi dalle città e dalle campagne il terrore delle distruzioni ad opera delle orde barbariche, la gente abbandona la città per riportarsi nelle campagne, dove è anche più facile procurarsi il necessario per vivere.

Questo ritorno alle campagne ha portato una forte ripresa dell’agricoltura.  L’aumento della produzione agricola,  determinò anche un aumento di popolazione e d conseguenza si ebbe la richiesta di una maggiore quantità di farina e di altri cereali. Questo portò alla crescita del numero dei mulini ad acqua che erano in grado di produrre discrete quantità di macinato, 40 volte superiore rispetto ad un mulino mosso dalla forza di braccia o degli animali.

La struttura architettonica del mulino, la planimetria, le dimensioni potevano variare notevolmente, a seconda dell’importanza dell’impianto e del numero delle macine che ospitava. Comunque, l’edificio molitorio  doveva essere sempre articolato su due piani almeno: Un piano terra,  costituito da un unico locale contenente le macine ed un piano inferiore, cioè un vano seminterrato, solitamente voltato a botte, dove erano sistemate le ruote idrauliche, chiamato “Carceraio”. Era collegato ad un canale adduttore che scaricava l’acqua adoperata riportandola nel torrente da cui era stata derivata. 

Prima di addentrarmi a parlare della diffusione della ruota e dei mulini e della loro importanza sotto l’aspetto economico e sociale e del loro grande apporto allo sviluppo della civiltà Europea, permettetemi di proporvi velocemente una breve illustrazione dei componenti delle due ruote idrauliche  e dell’apparato molitorio.

Schema dell’apparato molitorio
Legenda

1 - canale ad imbuto o doccia

2 - Saracinesca che regola l’afflusso  dell’acqua

3 – 4 -Leva che comanda l’apertura della doccia, comandata dal mulino

5 – Fusello, albero motore (roteg)

6 – Ruota a Pale (ritrecine)  Le pale da 12 a 16
7 – Piano d’appoggio del ritrecine
8 – Leva di regolazione del piano
9 – Asse in legno dove appoggia e sta in equilibrio l’apparato motore
10 – Ralla -Cubo in lega di ottone
11 – Punta in ferro dell’albero motore
13 – Albero motore in ferro
14-15 macine: fissa e mobile
16 – Bronzina in legno che
17 – Nottola di ferro che sostiene la macina e la fa girare – 18  - Matraccio -Cassone

Il fusello porta infisso nella parte alta un pezzo di ferro sagomato che viene chiamata  Nottola che va ad inserirsi nella sede scalpellata della macina ruotante ed ha il compito di sostenerla, di bilanciarla e di imprimerle il movimento.

La Pala o cucchiaio è una grossa spatola di legno duro a forma semicircolare, lavorata con l’ascia, e concava da un lato. Su di essa, fissata al fusello, va a scaricarsi la spinta dell’acqua che esce dalla doccia.

La condotta forzata era il percorso in forte pendenza che l’acqua seguiva tra il bottaccio e la ruota idraulica. Generalmente aveva la forma di una piramide tronca con la base minore  rivolta verso la ruota idraulica e andava sempre più restringendosi fino a terminare in una stretta uscita detta “Doccia”. Nel momenti in cui veniva aperta la doccia dal locale delle macine, il getto d’acqua scaricava la sua potenza contro le pale della ruota idraulica con un angolo di circa 31°. La potenza del getto d’acqua dipendeva dalla portata, misurata in moduli (1 modulo = a 100 l/sec) dal salto, misurato dalla superficie dell’acqua nella colta e la bocca d’efflusso della doccia.

Il salto dell’acqua era misurato dalla superficie dell’acqua nella scolta mo bottaccio, alla bocca d’uscita della doccia. Il salto minimo per un mulino deve essere almeno di tre metri.

La ruota verticale. La ruota verticale descritta da Vitruvio rappresenta una svolta nell’utilizzo  dell’energia idraulica. Questo tipo di ruota per funzionare ha necessità di due ingranaggi il cui compito era quello di trasformare il moto verticale della ruota in moto orizzontale per la macina. Questi due ingranaggi sono Il Lubecchio e la Lanterna ( rocchetto).
Il lubecchio era una ruota dentata fissata al fusello orizzontale, i cui dente trasmettevano il moto della ruota verticale  alla lanterna fissata ad un fusello verticale che aveva il compito di trasformare il moto verticale della ruota in moto orizzontale per la macina. Il sistema lubecchio-lanterna fungeva anche da moltiplicatore del numero dei giri della macina, in quanto, variando il numero dei denti del lubecchio o della lanterna, si poteva aumentare la velocità della, ciò che non avveniva nella ruota orizzontale

Questa ruota poteva essere costruita in tre versioni: Se l’acqua spingeva la ruota dal basso il mulino era detto “Per di sotto, se spingeva la ruota dal mezzo era detto mulino “per di fianco” se spingeva la ruota dall’alto, era detto “mulino per di sopra”. Quest’ultima era detta anche ruota a tazze ed era  la versione  migliore, ma era anche la più complicata a costruirsi.

E’ necessario arrivare all’inizio del VII secolo per constatare una rapida diffusione del mulino idraulico, non solo in Italia, ma in tutti i paesi occidentali, Spagna, Francia Germania,  Belgio, Olanda.  In Inghilterra la prima notizia di un mulino idraulico risale al 762, ma già nel 1080, attraverso il Domesdey Book, che era una raccolta di questionari compilati dagli amministratori che Guglielmo il Conquistatore  aveva spedito nelle varie contee, con il compito di censire tutti i beni del Regno. Essi visitarono 34 Contee e, tra gli altri beni, censirono anche  ben 5264 mulini, uno ogni 400 abitanti. Anche in Italia in tutte le più importanti città sorsero  una lunga serie di mulini, e lungo i fiumi e fossi sorsero un gran numero di mulini.

Quali sono stati i motivi che hanno determinato questa esplosione nella costruzione degli opifici idraulici?  Marc Bloch le identifica in queste situazioni:  La difficolta a reperire mano d’opera servile, una maggior richiesta di farinacei  a causa di un forte aumento della popolazione, verificatosi nei decenni precedenti, il fatto che i mulini  ad acqua  avrebbero reso grandi servigi, la possibilità reale per i possessori dei mulini di un forte riscontro  economico, ed è noto che “una invenzione si diffonde quando la sua necessità sociale è largamente avvertita”.

In questo fervore costruttivo ben presto si inserirono i Signori Feudali, laici o religiosi, e in particolare le abbazie ed i monasteri, soprattutto cistercensi, che avevano percepito l’importanza degli opifici molitori sotto l’aspetto economico. I vari feudatari avevano costruito  mulini nelle loro proprietà,  procurandosi i diritti  sui  corsi d’acqua presenti nelle loro terre, obbligando poi i sudditi a macinare il grano nel mulino signorile, proibendo nel contempo di macinare in casa, stabilendo così una specie di monopolio della macinazione a proprio beneficio, cosi il loro reddito cresceva in maniera esponenziale. Per ciò che concerne le Abbazie ed i monasteri erano essi  in grado di costruire gli opifici molitori in quanto avevano a disposizione riserve economiche e mano d’opera in abbondanza ed erano in grado di procurarsi facilmente i diritti sui corsi d’acqua, che venivano concessi solo tramite autorizzazione regia. Una volta acquisiti i diritti sui corsi d’acqua potevano costruirvi gli opifici  che volevano e nello stesso tempo, potevano impedire ad altri di costruirvi altri opifici.

Inizialmente i mulini dell’abbazia dovevano essere  utilizzati solo dai monaci e per i monaci. Tuttavia, quando le terre dell’abbazia e del convento vennero cedute in affitto a famiglie contadine, queste divennero  i maggiori clienti dei mulini del dall’Abbazia. Così la macinatura del grano e dei cereale in genere e delle biade, divenne un’operazione commerciale economicamente molto redditizia. Allora anche le abbazie ed i monasteri cominciarono a costruire , ad acquistare ed a gestire mulini e non solo ma anche altri opifici.

Così nel IX secolo  in Francia avvenne che l’Abbazia di Saint Germain des Près possedeva 59 mulini, costruiti su piccoli corsi d’acqua, il monastero di Montier en Der, nell’alta Marna, era possessore di 11 mulino, l’Abbazia di Foigny era proprietaria di 14 mulino, una fabbrica di birra, una di vetro, un mulino per la follatura dei panni.

In Spagna, la splendida Abbazia di  S. Maria di Poblet, in Catalogna, che ho avuto l’opportunità di visitare, aveva acquisito i diritti su tutto il fiume Francolì, e questo fatto diede origine a diverse rivolte.

Anche in Italia le principali abbazie, come  l’abbazia di Chiaravalle Milanese, di Lucedio, di Fossanova e nelle nostre Marche  la ricca abbazia di Fiastra  e l’antica abbazia di Fonte Avellana, si trovavano nelle stesse condizioni

A proposito dell’ Abbazia di Fonte Avellana, nell’ambito di una serie di Convegni organizzati dal “Centro studi Avellaniti”, alcuni relatori hanno cercatodi ricostruire il paesaggio agrario del territorio avellanita nei sec. X e XI. In questo ambito si è parlato anche degli opifici molitori dell’Abbazia e della loro conduzione, come segue:

“L’Eremo di Fonte Avellana proprietario di grandi estensioni di terra, cercò di bonificare e mettere in valore i suoi possessi improntando anche mulini idraulici. Così come per i terreni anche per i mulini Fonte Avellana sembra organizzare intorno all’Eremo e lungo la valle del Cesano una rete compatta di strutture molitorie.. Dall’esame delle carte è evidente che i monaci sono particolarmente interessati a mantenere la proprietà delle strutture molitorie e i diritti su di esse, escludendole dalle terre che concedevano ad altri. Nel XII sec. tenendo conto dei nuovi fermenti sociali ed economici, gli avellaniti allargano il patrimonio molitorio tramite nuovi acquisti permute e donazioni dei laici”.

Come ho accennato prima, la costruzione di opifici molitori era vantaggiosa     solo se essi servivano a macinare grandi quantità di grano, necessario al rifornimento di comunità numerose, come quelle monastiche, oppure se operavano in regime di monopolio, costringendo i sudditi a macinare nel mulino signorile (Mulino di Banno). Quindi,  investire nei mulini, pur se costoso, diventava remunerativo, se il Signore era in grado di imporre a tutti i sudditi, contadini e non, di servirsi  del suo mulino, e ad obbligarli, anche con la forza, ad abbandonare le macine private, e quelle casalinghe.

Le cronache medioevali sono piene di storie di scontri, di vere e proprie lotte, tra Signori e sudditi, costretti a non macinare tra le mura domestiche, ma obbligati a servirsi del mulino bannale. E’ evidente che erano in contrasto due esigenze opposte: quella del Signore che aveva la necessità di ammortizzare le spese sostenute nella costruzione dell’opificio molitorio, e quella della gente, delle famiglie che avevano tutto l’interesse a macinare in casa per risparmiare almeno nella molitura.

A proposito di queste lotte, voglio riportavi questo episodio. Nel 1326 in una località nei dintorni di Londra i sudditi di un convento reclamano  dal loro Signore (un Abate) una carta in cui fosse contemplato il diritto alla molitura domestica. Al diniego dell’Abate scoppiò una rivolta e per ben due volte i rivoltosi assediarono il convento.  Intervenne la mediazione del Re e un accordo venne raggiunto, ma lasciava insoluto il problema della bannalità. Con il favore di questa incertezza, ben presto circa 80 macine presero a funzionare nelle case. Ma nel 1331 il nuovo Abate, Riccardo II, il terribile Abate lebbroso, a colpi di processi riuscì a trionfare e ordina che tutte le macine famigliari venissero portate nel convento, e con esse i religiosi lastricano il loro parlatorio. Cinquanta anni dopo, nel 1381, scoppiarono rivolte  tra le comunità inglesi. Anche i sudditi del Convento   insorgono e  assaltano il monastero e per prima cosa distruggono la celebre pavimentazione, spezzando le macine e portandone a casa i frammenti in segno di vittoria.

Fino alla fine del X sec. le ruote idrauliche erano servite, salvo alcuni rari casi, solamente per macinare il grano. A partire dall’XI secolo i costruttori di mulini, cominciano ad usare la ruota idraulica non solo per macinare, ma anche per altre attività. E’ assodato che già nell’ 862 in Piccardia esistevano mulini per la macinazione del malto per la produzione della birra. In seguito le ruote idrauliche vennero adattate ad essere usate per la spremitura delle olive, la macerazione della canna da zucchero; per la macerazione dei pigmenti per tingere le stoffe, per la macerazione dei pigmenti per la colorazione delle ceramiche.

Un grosso salto di qualità nello sviluppo delle applicazioni meccaniche, legate all’energia idraulica si ebbe con l’introduzione della “ Camma”. La camma” è una protuberanza rigida, in legno o in ferro, fissata su un asse robusto, a sua volta fissato ad una ruota idraulica. Ad ogni rotazione dell’asse la camma ne incontra un’altra alzandola e lasciandola ricadere al termine del suo passaggio, per cui ad ogni passaggio della camma l’asse  viene sollevato e lasciato cadere. La camma era in grado di azionare pestelli, mazze, martelli. In seguito le mazze ed i martelli azionati dalla camma trovarono impiego in molte lavorazioni: nella follatura delle stoffe, nella produzione della carta, nell’industria siderurgica, nell’estrazione del ferro dal minerale, nel qual caso la ruota idraulica serviva per azionare i mantici per mantenere alta la temperatura dell’altoforno. Con la ruota idraulica erano azionati magli per la lavorazione del ferro, con i quali si otteneva una battitura più regolare ed offrivano la possibilità di variarne il  peso  (da 150 a 450 Kg.)


Gualchiera
Maglio
Mantici

Sega

Polvere da sparo
















Cipriano Piccolpasso (1524 – 1579) Progetta alcuni tipi di mulino per la preparazione di pigmenti per decorare le ceramiche.


 Tipologie dei Mulini

Il mulino ad acqua presenta altre tipologie: Il Mulino a Marea ed il Mulino su natante

Il Mulino a marea è  un tipo di mulino che veniva messo in movimento dal flusso e riflusso della marea. Era presente sulle coste dell’Oceano Atlantico ed in particolare sulle coste della Bretagna e di Dover, dove l’escursione tra alta e bassa marea è veramente imponente, tanto che in diversi punti di queste coste può raggiungere dai 12 ai 16 metri. Sfruttando l’energia naturale del flusso e riflusso sono stati dei mulini denominati “ Mulini a Marea”, o più poeticamente “Mulini ad acqua Blu”.  La tecnica di sfruttamento della marea prevede lo sbarramento di un’ansa della costa con delle dighe munite di saracinesca, che, durante il flusso della marea veniva aperta e al culmine della marea veniva chiusa imprigionando una grande quantità di acqua. Quando la marea aveva terminato il riflusso, la saracinesca veniva aperta ed il movimento dell’acqua metteva in moto  la ruota del mulino. L’edificio del mulino o era in muratura o costruito in legno. In tal caso però era sostenuto da chiatte ancorate alla terra ferma.

Una Curiosità: Nei pressi di Saint Malò, lungo l’estuario del fiume Rance è in funzione una centrale elettrica   più potente del mondo che produce 600 milioni di Kwh, sfruttando il movimento delle maree e che, a differenza dei mulini, funziona perfettamente sia con la fase ascendente che con quella discendente delle maree.

Mulino su natante- La prima notizia di questi mulini ci viene da Procopio, il quale racconta che durante la guerra gotica, a seguito dell’assedio di Roma da parte della soldataglia di Totila (537 d. C.) Belisario avrebbe usato questi congegni legati ai ponti di Roma per sopperire alla mancanza di acqua perché gli acquedotti della città erano stati interrotti dagli assedianti. E’ certo pero che tra il XIV e XVI secolo, questi mulini erano presenti in maniera abbondante nei nostri grandi fiumi (Po, Adige, Arno, Tevere).

Tutto il complesso del mulino era relativamente semplice, risultando composto da due o tre scafi o pontoni, la ruota verticale, le macine e una capanna di legno contenente il mulino.

Due sono le tipologie dei mulini in relazione all’energia rinnovabile che usano: Mulini ad acqua, di cui abbiamo già parlato e Mulini a vento

 Il mulino a vento è conosciuto in epoca romana in area persiana, tanto che era chiamato anche “Mulino persiano”.  Nel VII sec. si diffuse nel mondo arabo e dal mondo arabo si diffuse in Spagna, dove ancora oggi caratterizza il territorio della Castiglia ed è stato reso celebre dal noto romanzo  di Miguel de Cervantes: Don Chisciotte de la Mancia. Si diffuse anche in Germania e soprattutto in Olanda, dove oggi, insieme ai tulipani, ne è diventato il simbolo.


Le componenti del mulino.

Tante sono le componenti che permettono al mulino di funzionare.  Da  quelle della ruota idraulica orizzontale, a quelle della ruota verticale, a quelle operative, a quelle esterne al mulino. Di alcune abbiamo parlato di altre daremo qualche accenno procedendo.

Tralasciando le altre, vi parlerò brevemente solo delle macine o mole.

Il palmento costituiva la parte essenziale ed operativa del mulino. Le due macine erano affacciate ed accoppiate ed avevano la forma rotonda. La macina sotto era fissa ed era appoggiata su un piedistallo in muratura. Era leggermente convessa verso il centro  dove aveva un foro piuttosto ampio attraverso il quale passava il fusello sulla cui punta veniva fissata la nottola, che doveva reggere  la macina ruotante, tenendola in equilibrio ed imprimerle il movimento rotatorio.  Questa macine era leggermente concava verso il centro, dove si apriva un foro entro il quale cadevano i cerali da macinare per finire nell’intercapedine tra le due macine, che nell’interno presentavano delle scanalature orientate nel senso del movimento della ruotante ed avevano il compito di espellere la farina che si accumulava fra le due ruote e nello stesso tempo di  permettere il passaggio dell’aria che doveva raffreddarle durante la macinazione.
Lavorando le macine si deterioravano ed era necessario ripulirle e ripristinare le scanalature abrasate. Questo lavoro di pulitura e  di ripristino  poteva essere fatto con cadenza mensile o dopo la macinatura di 100/10quintali di grano e poteva essere fatto direttamente dal mugnaio o da mano d’opera specializzata, i cosiddetti “Rabbigliatori”, esperti nella lavorazione delle varie qualità della pietra. Le macine  potevano venire sagomate da un monolite, ma il più delle volte erano assemblate, perché,  considerato che il peso di una macina si aggirava tra i 10/12 quintali, le parti erano più facilmente trasportabili. Questo tipo di macina era formata da una parte centrale, quasi sempre di pietra arenaria, in cui era ricavato il foro centrale e la sede della nottola,  mentre il suo perimetro esterno era irregolare in quanto vi erano scalpellati dei denti sui quali andavano a puntare i conci da assemblare in modo tale che la macina si muovesse tutta intera nel senso della rotazione impressa dalla ruota idraulica. Una volta assemblati i conci, la macina veniva stretta tra due cerchi di ferro il cui compito, oltre a quello di tenere legati i conci, era anche quello di evitare il suo sgretolamento quando veni spostata per la rabbigliatura. Le fessure tra i vari conci venivano chiuse con dello zolfo fuso, che raffreddandosi, diventava durissimo. Le macine venivano costruite con vari tipi di pietra, con quella più tenera e friabile come l’arenaria, venivano costruite macine per la molitura del grano tenero e dell’orzo ed erano dette “macine anconesi”. Con la pietra più dura venivano costruite macine adatte alla molitura del grano duro, del granoturco e di altri materiali come il carbonato di calcio, barite, cemento e gesso. In genere le macine avevano un diametro che oscillava tra i 110/135 cm. ed uno spessore di 25/30 cm.  Solitamente una macina del diametro di 110 cm. richiedeva una ruota idraulica armata di 12/13 pale, mentre una macina il cui diametro  misurava 135 cm. ne richiedeva una armata di 15/16 pale.  Durante la macinazione le macine non dovevano venire a contatto, pur essendo molto vicine, soprattutto verso gli orli, ed il mugnaio ne poteva regolare la distanza tramite una leva a vite (volantino) , collegata alla tavola su cui era fissata la ralla. Questa leva era molto importante nei mulini ad un solo palmento, con il quale si macinava ogni tipo di cereale.

La Gualchiera o Follone in Cagliese Ingualdara-  La ruota idraulica come ho già accennato,  è stata usata per espletare tante lavorazioni, compresa la follatura delle stoffe attraverso un nuovo strumento chiamato Gualchiera o follone che svolgeva un compito di macerazione. La gualchiere era uno strumento pre-industriale collegato alle manifatture di lana e di alcuni tessuti in genere. Era una macchina di fabbricazione artigianale ed era adeguata al posto in cui doveva funzionare. La sua struttura era formata da una ruota verticale a cui era fissati un grosso fusello di larice, sul quale erano fissate delle alette (Camme) che avevano il compito di alzare e lasciar cadere grosse mazze, trasformando il moto rotatorio in moto alternativo. Le mazze erano fissate ad un aggancio  che ne permetteva il movimento e al passare della camma si alzavano e ricadevano battendo i tessuti o altri materiali che si trovavano in una vasca in corrispondenza del loro movimento. Questo spostamento delle mazze serviva a   battere ed infeltrire i tessuti di lana. La follatura quindi consisteva in un processo di rifinizione laniera che riguardava il tatto, l’aspetto e la compattezza del tessuto, sfruttando il fenomeno della feltratura, caratteristica della lana, che riduce la dimensione del tessuto in larghezza e lunghezza, aumentandone la densità, tenacia, spessore e impermeabilità agli agenti atmosferici.

La follatura si usava prevalentemente su tessuti di lana cardata per ottenere panni e flanelle. Durante la follatura il tessuto doveva essere imbevuto di soluzioni alcaline, saponose e acidi o con argilla smetica, detta anche terra di follone, che ha proprietà detergenti.

Il Mulino luogo d’incontro e di socializzazione

Se abbiamo presente l’orografia del nostro territorio posto a ridosso degli Appennini e la sua antropizzazione, possiamo anche immaginare  quale doveva essere l’isolamento delle persone e delle famiglie che abitavano nelle nostre campagne, in mezzo ai monti o nelle  vallate, prive di strade   e di ogni comodità. Durante l’anno, solo in alcune occasioni particolari vi era la possibilità  di un incontro con i loro circonvicini, di un momento di socializzazione, di scambio di notizie, di conoscenza degli eventi che accadevano lontano o vicino alla propria dimora. Erano sporadicamente situazioni di lavoro, come la falciatura dei foraggi, la mietitura, la sfogliatura del granoturco, la vendemmia. Non essendoci i mezzi meccanici di oggi, tutto il lavoro si doveva svolgere a mano, era quindi naturale “prestarsi l’opera”, come si diceva, vicendevolmente. E siccome tali lavori richiedevano del tampo, più si era a lavorare insieme e prima si finiva. In tali occasioni era facile vedere sei o sette falciatori, uno dietro l’altro, tagliare una striscia di foraggio, o vedere otto o dieci mietitori procedere in fila tagliando le spighe di grano e cantando gli stornelli fino al  momento in cui arrivava la padrona di casa che portava, in una capiente cesta, l’occorrente per il pranzo, sia le stoviglie che le pietanze e le bevande e dopo avere steso una candida tovaglia per terra e all’ombra di una pianta, invitava tutti a prendere posto ed a servirsi e l’appetito certamente non mancava dopo diverse ore di lavoro sotto il sole. Grande importanza aveva anche la messa domenicale, che costituiva l’occasione d’incontro di quasi tutte le famiglie della Pievania. Terminata la messa era facile vedere sul prato della chiesa capannelli di gente discutere, scambiarsi le notizie, prendere appuntamenti per la prestazione d’opera per la settimana successiva. Non mancavano gli appassionati del gioco della morra, che, nell’occasione, non disdegnavano di giocare una partitina, che aveva come vincita un buon bicchiere di vino. Altri luoghi d’incontro erano il mulino e la fiera.

Il mulino è stato sempre un luogo di coesione sociale, di scambio di notizie e di contatti umani. Infatti, molti utenti si incontravano contemporaneamente davanti al mulino in attesa di macinare il proprio carico di cereali e di biade. Spesso l’attesa era lunga perché i carichi da macinare erano tanti e la capacità di molitura del mulino a ruota orizzontale era limitata. Era, quindi, naturale ingannare l’attesa del proprio turno conversando con quelli che attendevano il loro, scabiandosi idee, esperienze, notizie inerenti la stagione, la semina, il raccolto, la vendemmia o trattando altri argomenti di interesse comune, facendo confronti e verifiche. A questo proposito leggiamo l’intervista fatta ad un colono da Emilio Pierucci per il suo lavoro: “Il Mulino ad acqua nella realtà contadina” (1982) <<Quando si andava al mulino bisognava aspettare anche una giornata intera, perché c’erano cinque o sei birocci per volta carichi di sacchi da macinare che aspettavano il loro turno. [……….] Quando si andava a macinare, oltre al grano si portavano anche le biade per gli animali; per questo l’attesa era lunga. Mentre si aspettava si parlava del più e del meno e si finiva per trattare argomenti che ci interessavano di più in quei momenti: della riscossa del grano, che per noi contadini era molto importante, della situazione della stalla, alla quale guardavamo con cura e attenzione, perché il bestiame era gran parte della nostra piccola risorsa economica. Le mucche ci aiutavano nei pesanti lavori dei campi, ci davano vitelli, un po’ di latte; per questo le consideravamo un della famiglia. Inoltre, quando era la stagione favorevole si parlava della vendemmia, della semina, dell’andamento delle culture e così di seguito. (Lustrissimini)  Al mulino spesso si veniva a conoscenza delle novità, dei piccoli o grandi eventi, che, in qualche modo, avrebbero potuto incidere in senso positivo o negativo nel commino del vivere civile,  mentre “gli asini gravati dal basto e legati per la cavezza agli appositi anelli, vincevano la monotonia dell’attesa, rubando alle crepe del muro steli d’erba rinsecchiti” (E. Dini). L’attesa, quindi, diventava uno dei pochi momenti di socializzazione e di incontro per il colono, che, per la maggior parte del suo tempo, viveva isolato nel suo podere.

Il Mugnaio o Molinaro

Legato al suo mulino, è un elemento indivisibile e determinante di esso. Il personaggio, oggetto di tanti canti popolari e di simpatici e, a volte, salaci aneddotti, che la trdizione presenta sempre infarinato e ricurvo sulle macine per percepirne il più piccolo rumore sospetto, è il sacerdote della situazione. Mentre la mola gira, ad intervalli quasi regolari, stende la mano verso l’uscita del macinato per prendere un po’ di farina e  farla scorrere tra le dita ormai esperte per capire se le macine eseguono alla perfezione il loro lavoro. Egli si muove a suo agio all’interno del mulino la cui conduzione richiede sensibilità, attenzione e molte competenze. Sa percepire e valutare ogni minimo rumore non consueto delle macine e degli ingranaggi ed è subito pronto ad intervenire per correggerlo. Deve regolare le macine, riempire la tramoggia, e regolare l’uscita del prodotto dalla stessa. Deve tenere efficiente ogni ingranaggio, martellare periodicamente la superficie delle macine, e fare in modo che la ruotante si trovi in perfetto equilibrio ed alla giusta distanza con la “dormiente”. La distanza fra le due macine, infatti, è solo di qualche millimetro ed il loro contatto brucerebbe la farina. Spetta a lui controllare la qualità dei cereali da macinare, perché senza cereali di prima qualità è impossibile produrre buon pane. Frumento, segale e spelta vanno ridotte in farina finissima. Le sue conoscenze specialistiche gli consentono di programmare, governare e sorvegliare tutte le fasi di lavorazione che trasformano i creali in farina ed è lui che è responsabile  dello svolgimento del processo di macinazione e del controllo finale sulle farine prodotte. Deve sostituire le pale rotte ai “ritrecini”, tenere pulite le gore, il bottaccio, ungere gli ingranaggi del troppopieno, riparare i danni causati dalle piene. Deve effettuare da solo anche tutte le riparazini necessarie, sia murarie, che meccaniche e idrauliche. Egli conosce per esperienza la quantità di granaglie che può essere macinata con la riserva d’acqua contenuta nel “bottaccio” e l’intervallo tra una macinatura e l’altra che dipendeva dalle sue dimensioni e dalla portata stagionale del corso d’acqua. Qualche volta la sua onestà è messa in dubbio ed allora i contadini si difendono seguendo direttamente la macinatura e compiendo essi stessi l’abburattamento della farina. Così il mulino brulica di vita e diventa un centro d’incontro e di socializzazione più importante nella modesta società rurale.

Lo stereotipo del mugnaio furbo ed imbroglione non appartiene solo alle nostre zone, ma un po’ a tutta  l’Europa. Infatti, nel vecchio continente, assai ricco di mulini, tanto che quasi ogni borgo ne possiede uno, il mestiere di mugnaio è uno dei più diffusi  e, in genere,  i mugnai occupano una posizione sociale privilegiata nel villaggio. Tutto ciò ha creato un certo risentimento nei loro confronti. Ed allora non mancano proverbi popolari che legano la figura del mugnaio a qualla del ladro condannato alle “fiamme eterne”. Un canto popolare toscano indica “il mulinar della barba bianca” come il dannato più “tristo” dell’inferno. Mentre in Germania un aneddoto racconta che le cicogne evitano di nidificare sui tetti dei mulini per paura di essere derubate delle uova.

Questo stereotipo è in qualche modo avvalorato anche dagli statuti comunali e in seguito dalle leggi degli stati italiani. Nel 1232 a Treviso veniva proibito ai mugnai  di “ facere bagnatura”, cioè di bagnare la farina per farla aumentare di peso. Oppure di commettere “aliquam falsitate de farina” mescolandola con

altre sostanze come la calce, la semola od altro. Indicazioni simili vengono anche dalle varie Legazioni pontificie. Nel 1774 a Cesena si vieta di dare “tant’acqua alle macine per far crescere, con l’umidità che si comunica alla farina, il di lei peso”.

A Lucca, nel 1535 e 1540 vengono emesse dagli Anziani due deliberazioni contro le frodi nei mulini. Anche nello scenario apecchiese di fine cinquecento, sotto la Signoria di Gentile II Ubaldini, uomo energico e attivo, si verificano frodi da parte di mugnai, tanto che un testimone narra: “ho veduto che [il conte] ha fatto giustiziare un molinaro che rubbava il grano ai sudditi nella macina…)  (NOTA: C. Berliocchi- Apecchio tra Conti, Duchi e Prelati – Petruzzi Editore –Aprile 1992 –pag. 191 nota 82)

Come ha scritto Marc Bloch, questo odio contro i mugnai è nato in quanto, durante l’età feudale i mulini erano quasi tutti “bannali”, ossia di proprietà del Signore del luogo e ciò legava il mugnaio al feudatario titolare del diritto di macina. Il contadino era obbligato a portare il suo grano in quel mulino e quindi identificava il mugnaio con tutta la società che lo angariava. Naturalmente, questo regime di monopolio esponeva il contadino a qualsiasi frode, senza che potesse ribellarsi.

Nel momento in cui sparisce il diritto di macina e decade l’obbligo per il contadino di adoperare il mulino del feudatario, ciascuno è libero  di recarsi al mulino che vuole, anche perché tutti i mulini erano passati alla proprietà privata, quindi senza alcuna dipendenza feudale. Ora al mugnaio non conviene più usare astuzie o mezzi illeciti prima di riconsegnare il macinato, perché se si accorge di essere defraudato, niente impedisce al contadino di ricorrere ad altro mulino, visto il gran numero di edifici molitori sorti lungo i fiumi e i torrenti.


Il mulino ed il mugnaio nei proverbi, detti, canzoni, poesie e favole
 Proverbi


       - Tirare l’acqua al proprio mulino

          E’ riferito a persone che fanno sempre il proprio interesse


   -  Parlare come un mulino a vento

     E’ usato per indicare persone che parlano sempre, logorroiche


    -  Chi va al mulino si infarina

    Viene usato per indicare persone che compiono azioni disoneste delle quali rimane sempre il segno

    -  Combattere contro i mulini a vento

E’ riferito a persone che lottano contro nemici immaginari

      -  Acqua passata non macina più

    Si dice riferendosi ad occasioni perdute, che non si ripresenteranno più

      -  Chi ha il pane non ha i denti

   Allude al fatto che si possono avere i mezzi,  ma non si sa adoperali

      -  Chi prima arriva, prima macina

   Allude al fatto che chi arriva prima potrà avere cose migliori, o scegliere meglio.

  
Detti


-         Acqua di giugno rovina il mugnaio


    -         Bevi buon vino e lascia andare l’acqua al mulino


-         Il mulino della fame quando ha l’acqua non ha il grano


-         Il mulino di Dio macina piano ma sottile


-         Prodigo e bevitore di vino non fa né forno né mulino


-         Il mugnaio onesto ha il pollice d’oro


-         7 tessitori, 7 mugnai, 7 sarti = 21 ladri.


-         Puoi cambiare il mulino, non cambierai il ladro


-         Berretto bianco e bianco berretto (se non è zuppa è pan bagnato)


-         Domanda: qual è l’animale più coraggioso? – Risposta: E’ l’asino del mugnaio, che vive tutti i giorni in mezzo ai ladri e non ha paura.


-         Mugnaio onesto ha pollice d’oro


-         Quando il topo è nel sacco si prende per il mugnaio


-         Domanda: Perché le cicogne non fanno il nido sul tetto del mulino? – Risposta: Perché sanno che il mugnaio ruberà le loro uova (Indovinello alsaziano).


-         Se ogni casa ha la sua croce, è il mugnaio che ha la più grande….ma ne vive (Proverbio della fiandra)


-         Un usuraio, un mugnaio, un cambiavalute e un esattore sono quattro cambia valute per Lucifero. (Proverbio della Fiandra.)


Le notizie dell’ultima parte sono tratte da 
“Il mulino – L’avventura del pane quotidiano” -  Giunti



   Canzoni e poesie


La mamma
di Rosina


La mamma di rosina era gelosa bim bom bam
Rosina amami per carità
Nemmeno a prender l'acqua con gli occhi bianchi e neri
Nemmeno a prender l'acqua la mandava
Un giorno si alzò presto e andò al mulino bim bom bam
Rosina amami per carità
Un giorno si alzò presto con gli occhi bianchi e neri
ma trova il mulinaio addormentato
E sveglia mulinaio che l'è giorno bim bom bam
Rosina amami per caritò
E sveglia molinaio dagli occhi bianchi e neri
che devo macinare questa farina
E già che sei venuta mia Rosina bim bom bam
Rosina amami per carità
Ti voglio macinare con gli occhi bianchi e neri
Ti voglio macinare fina fina
E mentre la mola macinava bim bum bam
se la stringeva al petto sopra al sacco della farina
Rosina amami per carità
se la stringeva al petto e la baciava
Sta fermo molinaio con le mani bim bum bam
Rosina amami per carità
Io tengo sei fratelli con gli occhi bianchi e neri
io tengo sei fratelli ti uccideranno


La canzoncina del mulino 


Quando, a giugno, biondeggiare
per i bei campi fiorenti
vedo il gran che lieto ai venti
freme e ondeggia come un mare,
nella mia felicità
dico in cuor: «Se non mi inganno,
grazie al cielo, anche quest'anno
il lavor  non mancherà ».
Un timor solo mi punge:
il timor della tempesta.
Ma che gioia, ma che festa
quando il gran vedo che giunge!
Me lo portan di lontano,
dicon tutti: «Buon mulino,
trita, trita il nostro grano! ».
Ed io macino contento,
e la ruota gira e canta:
dalle pale l'acqua infranta
spuma e brilla come argento.

Da “Il Ruscello” di Agiolo Silvio Novaro

Rise il ruscello e tremolò commosso
al cenno delle amiche mani tese;
e con un tono di voce cortese
disse: "Non posso!
Vorrei: non posso! il cuor mi vola: ho fretta.
A mezzo il piano, a leghe di cammino,
la sollecita ruota del mulino
c'è che mi aspetta;

…………………………………………….




Le favole

Anche alcuni autori di favole hanno  preso spesso il mulino ed il mugnaio come soggetti dei loro racconti: I fratelli Grimm, Oscar Wilde, Charles Perrault.

I fratelli Grimm ne “I Musicanti di Brema” raccontano che “In un piccolo Villaggio tedesco, nei pressi della città di Brema viveva un asino che lavorava per un mugnaio, trasportando pesanti sacchi di grano da macinare al mulino. Quando fu troppo vecchio per continuare il suo lavoro, il mugnaio decise che se ne sarebbe  disfatto e  lo avrebbe sost presto con un asino più giovane in grado di aiutarlo nel trasporto del grano al suo mulino. L’asino si  accorse delle sue intenzioni e fuggì e….…la favola, che certamente conoscono tutti, continua con l’incontro dell’asino con un vecchio cane, con un gatto e con  un gallo e insieme formarono una sgangherata e stonata banda musicale.


Oscar Wilde, nel racconto “L’amico fedele” tratteggia la figura negativa di un mugnaio, Ugo, ricco proprietario di un mulino, di una casa, di mucche da latte e di un gregge di pecore, ed è  anche un furbo campione della logica dell’utile, che riesce a ammantare il suo egoismo di amicizia. Egli riesce a sfruttare, fino a provocarne la morte, Hans, un povero contadino dall’animo ingenuo e puro.


Perrault, nel racconto “Il Gatto con gli stivali”,  narra di un mugnaio povero che possiede solo un piccolo mulino, un asino ed un gatto. Prima di morire lascia ai suoi tre figli queste tre cose: Al figlio maggiore lascia il mulino, al secondo lascia l’asino ed al terzo il gatto, che poi farà la sua fortuna facendolo sposare con la figlia del re.


I mulini e la grande letteratura


Anche la grande letteratura non ha disdegnato di assumere come oggetto del racconto vicende riguardanti i mulini,  singoli personaggi o vicende famigliari  di mugnai.

Ricordiamo i romanzi di Miguel Cervantes: Don Chisciotte, di George Elliot: Il Mulino sulla Flos, e di Riccardo Bacchelli: Il Mulino del Po.

I mulini a vento più famosi sono certamente quelli della Mancha (Spagna) contro cui lotta Don Chisciotte, straordinario personaggio inventato dalla fantasia di Miguel Cervantes (1547 – 1616).


Il Mulino della Flos è l’opera di una  scrittrice inglese piuttosto famosa ai suoi tempi che si firmò con uno pseudonimo maschile. Racconta la vicenda famigliare di Maggi, figlia di un mugnaio, che, dopo una fanciullezza vissuta serenamente nella sua casa e nel suo mulino, da giovane, una serie di circostanze predisposte dal suo pretendente, la portano a trascorrere una notte in barca con lui. Questo fatto la compromette irrimediabilmente agli occhi della Società, anche se fra i due giovani non è successo nulla. Ormai le regole sociali vorrebbero che i due giovani si sposassero, ma lei rifiuta di sottostare a questa costrizione. Questo rifiuto per lei è una condanna. Deve quindi allontanarsi dal mulino e dalla casa che ha infangato. Finirà travolta dalla piena della Flos, corsa a salvare con la barca il fratello, che l’ha fatta allontanare e la madre. Anche il mulino verrà travolto, ma sarà ricostruito.


Il Mulino del Po.  Il nostro Riccardo Bacchelli, nel suo romanzo storico, ci racconta la vicenda di una dinastia di  mugnai padani. Il primo si arruola nell’esercito napoleonico e partecipa alla campagna di Russia, durante la quale costruirà la sua fortuna. Il secondo, tra disonestà e tradimenti, accresce la sua proprietà, ma finisce in manicomio, L’ultimo, combattendo sul Piave nel 1918, soldato del genio pontieri, rimane ucciso nel momento in cui si profila il successo di Vittorio Veneto.


La decadenza del mulino a palmenti


Diverse e concomitanti sono state le cause che hanno determinato la decadenza dei mulini a palmenti. La prima, e certamente la più importante, è dovuta allo spopolamento delle campagne. Questo fenomeno ha avuto inizio subito dopo il secondo conflitto mondiale, raggiungendo la  massima estensione negli anni 50/60 del 1900. I motivi che hanno incoraggiato questa fuga dai campi sono molteplici e vanno dall’azzeramento del valore della terra, ai notevoli incentivi elargiti dallo Stato per la forestazione, previsti dal primo piano verde; dall’isolamento in cui erano condannate molte famiglie per la mancanza di strade, di luce elettrica , per non parlare del telefono, che non esisteva nemmeno nei piccoli centri (dove tutt’al più  poteva essere presente un posto telefonico pubblico, quando funzionava), alla mancanza delle più elementari comodità, presenti nelle città e che cominciavano a rendere la vita meno difficile anche nei piccoli centri. Altra causa la scarso rendimento della produzione agricola, a causa del terreno posto in alta collina e del clima, e che costava enormi fatiche, non ricompensate, quindi, da una giusta mercede. Inoltre, essendo vigente nelle campagne il fenomeno della mezzadria, non è stata ininfluente all’abbandono dei fondi  una marcata conflittualità con la parte padronale, la quale aveva sempre preteso di avere di più  di quanto le spettava e, nel contempo, di spendere il meno possibile per le necessità della sua proprietà, lasciando al mezzadro l’onere maggiore delle spese da fare.  Questo esodo dalle campagne della popolazione agricola, ha avuto come conseguenza l’eliminazione della lavorazione delle farine per uso famigliare, assestando quindi un colpo mortale alla sopravvivenza dei mulini ad acqua in generale, ma soprattutto dei tanti piccoli mulini sparsi nel territorio. L’altra causa che ha concorso in maniera determinante alla scomparsa dei mulini ad acqua  è stato anche l’avvento di nuove tecnologie di macinazione dei cereali e di altri prodotti, conseguenti all’uso del mulino a cilindri.

Questo tipo di mulino, dotato di vari cilindri di ghisa o di altro materiale che ruotano a coppie,  risponde adeguatamente alle nuove esigenze di pulizia e di igiene.

E’, infatti, dotato di un triplo apparato  pulitore e selezionatore: uno per  una pulizia preliminare, per via secca;  un secondo per la pulizia per via umida ( tinello spietratore); il terzo per la selezione dei prodotti macinati (setaccio piano, buratto)  Con il mulino a cilindri era anche possibile  produrre grandi quantità di farine, rispetto al tradizionale mulino a palmenti.

Da un elenco stilato da Emilio Pierucci  nel 1982 per il suo lavoro “Il Mulino ad acqua ed i suoi usi nella realtà contadina”, nella nostra Provincia erano ancora 93 i mulino idraulici, per i quali era stata richiesta al Genio Civile la concessione per l’uso delle acque pubbliche per macinare. Oggi, la maggior parte di queste concessioni, che avevano una validità trentennale, sono quasi tutte scadute. Ne restano solo una quindicina. Altre difficilmente verranno rinnovate perché  molti dei 93 mulini per i quali esisteva la richiesta di uso delle acque pubbliche nel 1982, sono ormai fuori uso e sono stati abbandonati, e corrono verso la definitiva rovina, com’è accaduto per i 10 impianti molitori del Candigliano in terra umbra e del Fosso  Scalocchio, e del fosso di Bòtina  suoi afferenti, e di tanti altri lungo le stesso fiume e lungo il Biscubio ed i suoi afferenti. Al fine di evitare la completa rovina di alcuni opifici molitori meglio conservati, sarebbe un’azione interessante, sia dal punto di vista storico- archeologico, sia sotto l’aspetto didattico e turistico,  se gli Enti territoriali intervenissero per cercare di salvarne qualcuno  di quelli ancora meglio conservati “per le generazioni future come testimonianza di come l’uomo per secoli sia riuscito ad utilizzare un’energia pulita senza recare danno o deturpare il paesaggio, anzi, riuscendo, con il sistema delle chiuse, a regolare i corsi d’ acqua e contenerli nei loro alvei”. (E. Pierucci – 1983).

I pochi mulini idraulici ancora in funzione forniscono i fornai del luogo e macinano granturco e pochi biadami.  Alcuni sono stati convertiti in segherie, altri in piccole centrali elettriche. Per una diversa destinazione è stato ristrutturato il mulino di Ponte Vecchio, in Comune di Frontino. Diventerà, infatti, sede di un museo della civiltà contadina. E’ dotato di due macine che funzionano elettricamente, ma ha anche un apparato molitorio che funziona ad acqua ed è stato allestito a scopo didattico.

Dobbiamo essere grati all’Amministrazione Provinciale, che nel 2005, nell’ambito del “Progetto Centoborghi”, ha commissionato un censimento di tutti i mulini idraulici della Provincia. La ricerca è stata realizzata in brevissimo tempo dal dott. Giovanni Lucerna, ed oggi abbiamo a disposizione il pregevole volume “Ruote sull’Acqua”, in cui sono annotati 386 mulini, inestimabile patrimonio storico-archeologico della nostra Provincia, esempio di “tipologie costruttive, spesso di dimensioni ridotte, bene inserite nei contesti urbani, come in paesaggi agrari, strutture produttive e di scambio che più hanno integrato le attività e gli interessi della città con quelli della campagna, dove più si sono manifestate il rapporto e la simbiosi tra “fabbrica” e territorio ..." . (G. Lucerna-Ruote sull’acqua,  2007)                                                                                                                                      


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