Tratto da: "Romani pesci - Da Paolo Giovo agli odierni ristoratori" a cura dell'Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, ROMA 2011
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Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Direzione Gener-pesca
IL MERCATO DEL
PESCE: TRADIZIONI,
CONTRADDIZIONI E PROPOSTE OPERATIVE.
Tradizioni
Pescatore-Ortolano
“La
spiaggia tra terra e mare, la foce di un fiume a volte canalizzato, il porto:
sono questi i riferimenti comuni ad una terza società che, accanto a quella
rurale e urbana, caratterizza le Marche lungo i 174 chilometri di costa, per lo
più bassa, e le fa anche adriatiche”[1].
Questa terza società era quella
costituita dai pescatori, che lungo i 174 chilometri di costa, a bordo delle
loro barche contribuirono, con il loro
lavoro al benessere delle popolazioni costiere e dell’entroterra, per non dire dell’equilibrio
biologico del mare. C’erano anche i pescatori senza barca, che muniti di
attrezzi di facile fattura catturavano Arselle, Telline, Cannolicchi,
immersi nell’acqua fino all’inguine, mentre in apnea pescavano Mitili, Ostriche,
Tartufi e, quando andava molto bene anche qualche Aragosta. Di
questa categoria di lavoratori l’acuto studioso marchigiano Sergio Anselmi[2],
docente di Storia economica e direttore dell’Istituto di Storia economica e
Sociologia dell’Università di Ancona, scomparso nel 2003, ha sottolineato i
tratti antropologici più interessanti dei pescatori:
“Il
contatto con l’elemento liquido, gli incontri nei porti, le occasioni offerte
dal rapporto con la città, “i caffé della marina” ad esempio, le relazioni
politiche col primo socialismo anarchico, il mutuo soccorso, ecc. ne fanno un
ceto con particolare peculiarità. Sono fieri della discendenza marinara, dicono
di non aver padroni, perché il mare è di chi lo sa navigare, sono più alfabetizzati
dei contadini. Come i nobili, alzano una insegna, la vela colorata con
l’emblema della famiglia: la mezzaluna, una croce, la stella, il sole, il
delfino, l’angelo Gabriele, il drago, la spada, ecc., di diverso colore su
fondo arancione, spesso con i segni dell’araldica (palle, bande, galloni), a
volte una scritta di protesta”[3].
I pescatori che avevano in prossimità della
costa un pezzo di terra, grande come un orto, non disdegnavano affatto di fare,
quando non andavano in mare, gli ortolani. Li chiamavano pescatori-ortolani,
e vivevano alle foci dei fiumi con
“…barche
di canne e tela cerata, calano nasse per seppie, barattoli da guàttoli, affondano
lenze con decine di ami per la cattura di anguille, infilzano, restando in
ginocchio sul minuscolo e instabile trabiccolo, passere e sogliole, ben
visibili sul fondo, quando l’acqua dell’Adriatico era ancora trasparente”[4].
L’orgoglio di appartenenza dei lavoratori del
mare era molto alto, ritenendosi più evoluti dei campagnoli, in virtù della
loro vita sociale e di relazioni molto più dinamica e diversificata di quella
dei contadini.
Così a primavera, aprile/maggio, quando erano
pronti i primi teneri e dolci piselli, il pescatore-ortolano iniziava la
pesca delle seppie con le nasse, barchetta
a remi dal fondo piatto, facile da tirare fino a terra. Incastravano tra le
reti rami di alloro potati nell’orto, come richiamo per il deposito delle uova
delle seppie, irresistibilmente attratte da questa terrestre pianta aromatica.
I pescatori/ortolani non si spingevano mai oltre un chilometro dalla costa, ma
rimanevano vicino ad essa. Oltre alle nasse usavano anche la sciabica
da spiaggia per catturare Triglie ad agosto, Zanchetti, pesce
azzurro e in genere tutti i pesci che stanno vicino alla costa. Quando non
riuscivano a vendere tutto il pesce pescato per tirare su qualche soldo, lo
cucinavano per casa abbinandolo ai prodotti dell’orto: piselli, fave, carciofi,
cavolfiori, peperoni, pomodori, prezzemolo, timo, maggiorana, rosmarino, salvia
e molto altro ancora, dipendeva dal pescato, dalla stagione, da quello che
rimaneva invenduto nell’orto. E così hanno visto la luce ricette davvero
straordinarie come, ad esempio, le Seppie coi piselli, la Rostita, la
Mormora ingluppata di cui parleremo in seguito. Degli pescatori-ortolani
ce ne parla Rolando Ramoscelli[5],
che per decenni ha cucinato una infinità di piatti con i pesci poveri
dell’Adriatico, forniti da questa speciale categoria di pescatori. “L’Ortolano-Pescatore
organizzava la pesca secondo le stagioni, proprio come obbligava il lavoro di
ortolano: Seppie a primavera, Lumachine a fine inverno-primavera,
con piccole nasse metalliche, dette cestini, con dentro un’esca
che di solito è un pesce azzurro un po’ andato perché così attira di più le
lumachine, pur conferendo loro un sapore pungente di “pescino”[6].
I pesci li prendeva con il cogollo,rete a camere consecutive che
imprigiona i pesci; la pesca con la sciabica detta tratta; tramaglio
(tremaglio) tre teli di rete uno vicino all’altro, i due esterni con
maglie grandi e tese, quello interno con le maglie piccole e non tese; retino,
rete di sbarramento, selettiva per taglia, che cattura i pesci che entrano nella
maglia con la testa e non con la pancia, per cui restano incastrati”[7].
Tra tutti questi modi di pesca la tratta è quella più spettacolare,
osservabile dalla spiaggia: “A volte nelle reti non c’era nulla, a volte la
pesca era copiosa, specie quando il pesce azzurro di piccole dimensioni, facile
preda dei pesci più grossi, nei bassi fondali sabbiosi veniva da questi spinto
fino a riva, cadendo più facilmente nella tratta. Un rito che si ripeteva dalla
primavera a tutto l’estate. Un’altra pesca spettacolare”, continua il nostro
interlocutore, “…era quella relativa all’arrivo dei piccoli pesci tra le
secche; il pesce era così numeroso che l’acqua sembrava ribollire, buligava,
nel gergo marinaro della costa fanese. La gente entrava nell’acqua con canestri
e catturava abbastanza pesci per una cena preparata nei seguenti modi: se il
pescato era abbondante si cocevano alla griglia; se i pesci erano pochi si
marinavano che così facevano più companatico[8].
I piccoli Spratti finivano in padella in frittata, ma infinite erano le
ricette con questi pesci a cominciare dal
brodetto di Sardoncini e cavolfiore, un accostamento perfetto per
Fano, nota per la produzione di cavolfiori che esporta in tutta Europa, piatto
che se ben calibrato è da novelle cucine. Sgombri freschi e
piccoli, i Suri, Sugarelli, di una certa misura si facevano
arrosto, bolliti al forno con patate e pomodori, rugù di pesce con piselli e
fave. Una minestra di riso, rimasta memorabile nella mia esperienza di chef,
era fatta con seppie e piselli. Un altro piatto dove il pesce e l’orto
formavano un connubio perfetto era la peperonata con gli Sgombri: sulla
peperonata si adagiavano le carni di Sgombro già scottato e spinato, poi
in forno per 10 minuti. Se si sostituivano gli Sgombri con lo Scorfano
il piatto era ancora più buono. La scarpetta in questi casi col pane di casa
era d’obbligo. La Sarda, spinata e cucinata dopo due ore dalla pesca,
indorata con uovo e pangrattato era fritta nell’olio. Negli anni ’60 nelle zone
di costa, quando la pesca era abbondante il pesce si vendeva a piatto,
neanche con la bilancia e la frittura di Sardoncini si faceva con lo
strutto. Il pesce risultava così più croccante, perché il punto di fumo è più
alto dell’olio, e sette, otto Sardoncini con due belle fette di pane
saziavano anche gli appetiti più robusti. Con questi pesci, che avevano il
grande pregio di essere freschissimi, si facevano dei primi piatti davvero
strepitosi, sia asciutti che in brodo”. In certi periodi di pesca abbondante il
pesce era fritto nelle piazze durante i mercati
e le fiere e allora il pesce di poco valore trovava una eccezionale valorizzazione
monetaria: pesce Azzurro, Zanchetti, Sogliole, Busbane,
Paganelli[9],
Seppie, Galere (fettucce rosa), qualche Merluzzetto, dentro
grossi cartocci di carta paglia, avidamente consumati dai montanari che
scendevano a valle durante la fiera dei mercati del bestiame. Tra strette di
mano, e una pacca sulle spalle, che coronavano la riuscita della vendita o l’acquisto
di una Marchigiana o una Sopravvissana, venivano mangiati quintali di fritto di
mare, cotti nello strutto, abbondantemente salati e con l’osteria a portata di
mano dove consumare, in religiosa compagnia di compari, amici, familiari e
l’immancabile quartino di vino, bianco o nero non faceva differenza, questa
leccornia portata dalla costa. “In famiglia, per chi non poteva abusare di
fritture e sughi densi, c’era il brodo di pesce fatto con le Mindole (il
mendolame prende il nome da Menola, nome italiano di un tipo di
pesce molto spinoso ma assai gustoso), nella cassetta ci mettevano il Risso,
lo Zerro, il Carlino (piccolo Sargo), l’Occhiata, e
la Mormora. Questi erano pesci da brodo, da bollire poi con le erbe
aromatiche e gli ortaggi di casa. Quando era pronto si filtrava stringendo tra
le mani il pesce cotto sminuzzato, in modo di avere un brodo più saporito. Nel
brodo si cocevano i quadrucci oppure ci si metteva a bagno del pane secco. Il
brodo di “lusso” era fatto con la testa del pesce Rospo, la Mazzola o
Gallinella, il pesce Lucerna o Bocchiucava. Una volta
bolliti, la polpa era recuperata per farne polpette, o condita con olio come
companatico. La parte più ordinaria di questi pesci era la Busbana o il Morgan
o Moletto, pescato al largo. Lo stesso uso degli altri ma non la stessa
funzione gastronomica/nutrizionale, come nel caso dei pescatori di San
Benedetto del Tronto, che spinavano Busbane o Merluzzetti gialli,
li insaporivano con acqua di mare, li esponevano al vento sulla barca e in 24
ore si seccavano. Si consumavano con
mistrà allungato con acqua come fanno i francesi con il pastis e i frutti di
mare in Normandia. Quando secchi erano meglio conosciuti col nome di Alfacetti
o Alfacetto. Un altro brodo da “sballo” è quello fatto con i granchi
rossi quando hanno le uova. D’obbligo cuocerci i passatelli o i cappelletti
farciti con la polpa del Paganello. Il brodo di Scorfano era
riservato allo zio monsignore o zio d’America, che si ottiene con un
bilanciamento di sapori che comprende tutto il pesce”[10].
Ma la ricetta è top secret!. Il nostro chef ci regala un’altra chicca fatta con
la Mormora, uno Sparide dell’Adriatico tra i più saporiti: la Mormora
ingluppata, di cui riportiamo la ricetta. “Anche il Pagello, una Mindola
cresciuta, è adatto a questa preparazione. Tra i pesci azzurri la Chieppa o Salpa
in italiano è quello meno consumato, perché molto spinoso e con pochi stimatori.
Va meglio per la Guglia, pescata con metodi antichi con rete di
superficie, che i pescatori pescavano con la Guslara. E’ un pesce con la
spina di color smeraldo. Tagliata a rocchi, insaporiti con il classico
pangrattato delle arrostite marchigiane, si aggiunge del pomodoro che da un
colore rosseggiante. Salvia, cipolla, pomodoro e un goccio di vino bianco e
quando bolle si buttano le canocchie vive, coprendole subito. Si chiamano Canocchie
alla Sant’Andrea, patrono dei pescatori, che,
pare sia stato ucciso così, bollito”[11].
Nelle zone adriatiche ogni famiglia ha le sue ricette e, secondo Rolando
Ramoscelli, gli pescatori-ortolani della costa hanno consentito, con le
loro fatiche, di variare la dieta dei lavoratori dell’entroterra, che, come
tutti i cristiani, avevano ben 180 giorni di vigilia in un anno e potevano
contare solo sul pesce salato del nord Europa. Dalla costa, gli pescatori-ortolani
invece inviavano ben altro: pesce azzurro, vongole, seppie, ecc. Il pesce
azzurro, per la caratteristica biochimica degli acidi grassi omega 3, è buono
solo quando è appena pescato e cucinato. Il tempo che passa tra la pesca e la
messa in tavola oggi è troppo lungo e il sapore si altera al punto da non
essere più appetibile, specie ai giovani. Tra i pescatori circola infatti un
detto che ad ogni ora che passa il pesce azzurro perde una qualità; così dopo
24 ore le ha perse tutte. Per questo il suo consumo è oggi in ribasso. Ma ci
sarà qualche altro motivo? E’ noto che l’uomo si nutre anche di simboli, e il
colore del pesce azzurro ricorda il colore dell’ossido di rame, che rimanda
alle polente di mais cotte nei paioli fatti di questo metallo. Il colore
dell’ossido, molto simile all’azzurrino del pesce di cui parliamo, le Guglie,
è secondo Piero Ricci[12],
un colore ancora percepito come repellente nell’immaginario della gente, tanto
che per sdoganarlo e immetterlo nel filone alimentare, c’è voluto l’azzurrino gelato
dei Puffi. Ci pare una osservazione interessante. Tornando al tempo che fu “Ogni
stagione aveva la sua frittura: a primavera c’era il pesce azzurro, la Papalina,
oggi è proibito pescarla e lo Spratto; in estate il Rosciolo
(triglia), più il pesce azzurro; in autunno la Triglia, il pesce
azzurro, le Zanchette, le Busbane, Paganelli, Merluzzetti,
Calamaretti, Seppie giovani, ecc.; in inverno lo stesso
dell’autunno, a gennaio il Bianchetto, a novembre c’erano ancora i Paganelli,
buoni perché avevano il giallo (uova), quindi più saporiti. E poi la Razza che
si mangiava con la salsa dei peperoni, broccoli bolliti, uova sode. Non si usava nei brodi ma solo nei brodetti. La
Boga sfilettata e arrotolata (involtini) su se stessa con erbe
aromatiche era una favola. I pesci più piccoli erano fritti e poi marinati e si
davano come antipasto”[13].
In barca coi pescatori
Nel passato, quando la pesca era un’attività
ancora importante per la sopravvivenza delle persone che ci lavoravano, per
l’economia della regione e l’ecologia
del mare, le attività legate a questo lavoro davano ad ognuno dei membri
dell’equipaggio una dignità di ruolo, derivante dalla consapevolezza, che svolgendo
bene il proprio lavoro si facilitava anche quello degli altri membri. Il saggio
Pescatori e trabaccolanti, da cui abbiamo tratto il brano successivo,
descrive i modi di spartizione del pescato tra i lavoratori del mare, che ci fa
capire perché questo contesto favorisse l’utilizzo di tutte le specie di pesci,
e il ruolo non marginale avuto delle donne nell’economia della pesca.
“Nelle barche si fanno le “parti”, cioè si assegna a ciascuno una
quota del ricavato, secondo precisi criteri: tanto al paròne o comandante,
tanto al marinaio, tanto al giovanotto, tanto al morè. Una
parte va alla barca, per remunerazione del capitale e spese di riparazione. I
pescatori hanno tutti, oltre al prenome e al nome, il soprannome, che passa da
padre in figlio[14].
[…] Le donne dei pescatori partecipano attivamente al lavoro dei loro uomini.
Trasportano al mercato il pesce che nelle lunghe condotte delle paranze è
inviato a terra giornalmente con la barchetta del “battellante”, aiutano nei
momenti della pittura delle vele, della tinta e impermeabilizzazione delle
reti, trattano qualche piccola partita di pesce direttamente venduta sulla
spiaggia o in banchina, cuciono e rattoppano gli abiti degli uomini di casa,
fanno per loro calzerotti, baschi di lana colorata con il nappo in mezzo,
maglie e maglioni di lana di pecora, pigiano neve e paglia nelle “conserve” (che
serviva anche per trasportare il pesce nell’entroterra N.DR.), dalle quali si
trarrà il ghiaccio “nella stagione calda […] Nelle giornate di tempesta
aspettano in gruppo sulle spiagge e sui moli sperando di riconoscere presto la
vela della barca di casa. Di notte cercano di dirigere la gente in mare verso
la riva, agitando fiaccole”[15].
Ciò accadeva non secoli fa ma appena qualche
decennio, quando ancora i pescatori, col vento di bonaccia al mattino, verso le
nove, facevano la prima colazione con l’arrostita di pesce. Il brodetto invece quando
c’era il mare mosso. Al giorno si accontentavano di una alice salata o di un
po’ di tonno, ma alla sera la pastasciutta era d’obbligo, sempre col sugo di
pesce, anche perché la carne è apparsa sulla scena intorno agli anni ‘50. In
pratica si mangiava il pesce tutti i giorni, qualche volta facevano il brodo,
ma sempre di pesce era, con il raro privilegio di consumarlo appena tirato su
dall’acqua. Per i pescatori, a motivo dell’inquinamento generale del pianeta e
con il Po’ che riversa nell’Adriatico ogni schifezza, il sapore del pesce non è
più lo stesso di quello pescato quando loro erano appena ventenni. Poi la vita
è cambiata, la dieta a base di pesce venne integrata con un po’ di carne e in
barca le ricette subirono delle varianti: il pesce qualche volta si lessava, si
friggeva o si cucinava coi piselli e le fave, specie le seppie. In pratica le
ricette di casa[16]. Non amano parlare dei tempi recenti, perché
tutto è cambiato così in fretta da non dare loro tempo di farsene una ragione.
Le note vicende degli ultimi tempi, relative al mancato dragaggio dei fondali
del porto che impedisce il passaggio delle barche più grosse, costringendoli a
un forzato riposo o a cambiare porto, ha tolto ai pescatori della costa
adriatica e ai loro figli ogni speranza di futuro sul mare.
Contraddizioni
“Dal confine “della
Cattolica”, come un tempo si diceva, a quella del Tronto, limite antico del
Reame di Napoli, scorrono verso sud le rupi di Focaia, le città di Pesaro,
Fano, Senigallia, Ancona, il Conero, e poi Sirolo, Numana, Porto Recanati,
Porto Civitanova, Porto San Giorgio, Pedàso, Cupra Marittima, San Benedetto,
Porto d’Ascoli. E non pochi castelli aggrappati alla prima linea di colline,
sotto le quali si stende il mare e dalle quali nei giorni di particolare
luminosità, si vedono i monti Valebit
della costa dalmata. Anche in queste cittadine vivono i pescatori, che ogni
giorno, nelle stagioni adatte, scendono sulle spiagge, armano le barche, vanno
in cerca del pesce sempre più raro”[17].
Da allora è passato quasi un quarto di secolo,
di pesce ce n’è ancora di meno, con il porto di Ancona, “gran porto
dell’Adriatico centrale”, in sofferenza già dall’Unità d’Italia, “quando
Venezia le soffia il ruolo di primo scalo italiano nel mare austro-balcanico”[18].
Le cittadine costiere complessivamente potevano contare, al tempo del
tramonto dello Stato Pontificio, su un numero consistente di barche e
battelli da carico e da pesca di circa 1200 imbarcazioni per un peso
complessivo di 27000 tonnellate, e 6000 uomini di equipaggio, pescatori
compresi[19].
Dunque già alla fine degli anni ‘80 del secolo appena trascorso, il docente di
Storia economica, Sergio Anselmi, sottolineava
la perdita di pescosità dell’Adriatico. Anche le imbarcazioni e gli uomini di
equipaggio addetti alla pesca erano già di molto ridimensionati, passati al turismo
di massa, esploso con il boom economico, che darà il colpo di grazia a tutte le
attività pescherecce tradizionali e al loro posto alberghi, attività di
spiaggia con la gestione dei filari degli ombrelloni, le cabine e barche
da diporto. Per non dire delle possibilità di lavoro offerte dai porti più
grandi come quello di Ancona, dove si prendono i traghetti per andare in
vacanza e dove approdano navi porta containers, o si costruiscono navi
da guerra e yachts da turismo. E sono queste attività che hanno messo
fuori uso le antiche e gloriose marinerie pescherecce marchigiane e non.
La parola all’esperto.
Per avere idee chiare sulle cause della perdita
di pescosità dell’Adriatico e per capire l’origine delle contraddizioni più
stridenti che fanno ributtare in mare il 30% del pescato, costituito per lo più
dal cosiddetto pesce povero perché nessuno lo consuma più, nonostante l’impoverimento
generale della gente verificatosi in questi ultimi tempi, abbiamo interpellato
lo studioso Prof. Corrado Piccinetti, direttore del Centro di Biologia Marina
di Fano che ci ha fornito illuminanti argomenti: “Le tecniche di pesca sono
diverse e ognuno cattura un certo numero di pesci. In alcuni sistemi di pesca
certe specie non vengono più portate a terra e si ributtano in mare senza
essere vendute per una serie di motivi: la specie non è più richiesta; per
esempio i Sugarelli o Suretti, un pesce azzurro grande come uno
sgombro, quando sono di 20 cm non hanno valore commerciale, e così il pescatore
li ributta in mare. Le Minole o Mindole, di tre differenti
specie, che in Croazia sono molto apprezzate per il loro sapore, non lo sono
altrettanto in Italia ma non per il sapore ma per le spine e nessuno le vuole
lavorare; ma una volta sfilettate e tolte le lische la carne è meravigliosa. La
Cepola, pesce nastriforme rosato, ha una carne molto buona specie
fritta, ma meglio ancora da farci il brodo per cuocere i passatelli. Un tempo
oltre che per cucinare lo si comprava per il gatto, mentre oggi non viene
nemmeno più portato a terra perché la richiesta è bassissima; le Canestrelle,
che assomigliano alle Cappesante, sono bivalvi, pesano pochi grammi, e
dalla rete vanno tirate su una per una, lavate, messe in un sacchetto e portate
a terra. Per i pescatori non ne vale proprio la pena. Questa fatica un tempo
era fatta su una barca dove lavoravano sei/sette persone e più, dipendeva dalla
grandezza della barca. Aiutava anche il sistema di pagamento dove il pescato
veniva diviso tra tutto l’equipaggio, compreso l’armatore, cioè il proprietario
della barca per coprire le spese di gestione del mezzo. Dividere però fra sei/sette
persone il pesce pescato ne risultava
una parte così piccola che costrinse i pescatori a ridurre l’equipaggio: da
sette si passò a sei, cinque, quattro, tre. Oggi la maggior parte delle barche
grandi vanno in mare con tre/quattro persone al massimo, due persone sono nelle
barchette e nelle barche a strascico una sola persona. Una sola persona dovendo
fare tutto il lavoro da sé deve scegliere bene quello che fa e non può
raccogliere tutte le specie che finiscono nella rete e finirà per privilegiare
le specie che hanno un sicuro mercato: le metterà in cassetta le coprirà di
ghiaccio il resto lo ributterà in mare. E’ questo è circa quel 30% del
pescato che manca all’appello nei consumi degli italiani. E’ un cane che si
morde la coda: il pescatore non trova conveniente prendere il pesce, portarlo
al mercato perché il prezzo non è remunerativo; il consumatore non trovandolo
più finisce col non richiederlo più. Se nessuno lo chiede neanche i ristoratori
lo cucinano più. Così è finito il
consumo di certe specie, con conseguente perdita di sapori e tradizioni
straordinarie. Il paradosso è che nel mediterraneo abbiamo più di 500 specie
ittiche diverse, ma noi ne consumiamo si e no una ventina. Dove finiscono
quando cadono nella rete? Si ributtano in acqua morte, innescando così una
catena ecologica perversa, molto diversa da quella naturale: la catena del
detrito che viene incentivata in modo anormale. Tutti gli organismi morti, di
cui l’Adriatico è ricco, arrivano dai pescherecci e sono cibo prediletto dei
granchi, al punto da farli aumentare così tanto di numero da alterare
l’equilibrio biologico del mare. I granchi sono come le Canestrelle: se
uno ne porta una cassetta al mercato all’ingrosso la può anche vendere, ma se
porta tutte quelle che pesca, il mercato crolla e alla terza cassetta il prezzo
decresce e non è più conveniente per il
pescatore. Quindi si rischia di faticare per nulla. Ogni zona dell’Adriatico ha
le sue specie perché non è che tutti i pesci vivono dappertutto. Ogni pesce ha
il suo areale e la sua stagionalità. I pesci si spostano trasversalmente da una
costa all’altra. Triglie, Roscioli, Gostinelli, che noi
abbiamo sulle nostre coste in agosto settembre, a ottobre inizia la migrazione
e a novembre sono sulla costa croata e non sono più accessibili ai nostri
pescatori. Le Sogliole nascono sulla costa est dell’Adriatico, ma
tornano a crescere sulla nostra costa, per poi tornare a riprodursi di nuovo ad
est. Il pesce passa sotto gli occhi dei pescatori seguendo i ritmi stagionali,
ed ecco il concetto di stagionalità anche per i prodotti ittici e non solo per
quelli della terra. Pescando meno specie il quantitativo totale pescato in
Italia sta diminuendo e ricorriamo sempre più all’importazione delle specie,
soprattutto di quelle che non hanno
spine, come ad esempio i Cefalopodi - Seppie, Calamari, Totani,
Polpi-. Queste sono quasi tutte importate. Poi abbiamo i Gamberi,
molto apprezzati sia di allevamento che di pesca. Altre specie sono comode da
cucinare, perché pronte da mettere in pentola, come il Tonno, il Salmone,
il pesce Spada. In qualsiasi ristorante offrono questi pesci di
importazione, ma il Tonno, per esempio, non è quello del mediterraneo,
di carne rossiccia, ma quello a pinna gialla i cui filettoni vengono importati
sottovuoto e al momento dell’uso tagliati a fette. Il tonno che vive nei nostri
mari è una qualità pregiata, quella che lavoravano una volta le vecchie tonnare
fisse a costa. Sul mercato internazionale vale molto di più, tanto che i
pescatori preferiscono venderlo ai numerosi acquirenti, che non sono pochi e
che lo possono pagare, Giappone a parte. Chi non ama consumare il pesce crudo e
dunque non percepisce le differenze qualitative e sensoriali si accontenta
della scatoletta comprata al supermercato dentro la quale non c’è il Tonno
rosso del mediterraneo”[20].
E’ emblematica la storia di questo pesce[21]
il cui sapore è diverso da specie a specie, circa trenta ma in Adriatico ce ne
sono circa 14 specie differenti. Come ci
ha spiegato il professor Corrado Piccinetti, il Paganello (Gobius niger
yozzo L.), all’epoca della riproduzione, si divide il territorio, cioè
un sasso o un copertone o altri oggetti presenti nei fondali bassi del mare,
sui quali le femmine depongono le uova.
“E’ una delle poche specie che ha questa modalità di riproduzione, mentre le
altre specie di pesci le depongono in acqua dove rimangono in sospensione
galleggiando. Andando e venendo dai luoghi della riproduzione, prima o poi i Paganelli
finiscono nelle reti dei pescatori”. I maschi più grossi e più scuri, le
femmine più piccole e più chiare se ne sono
pescati in abbondanza nei decenni scorsi, e questa era la loro destinazione
d’uso gastronomico: fritti, come già
detto, specie nelle piazze dei paesi durante le fiere e i mercati. “In brodo
con i passatelli, oppure dentro un brodetto o una zuppa di pesce, perché anche
se le carni si disfacevano nel brodo di cottura, il sapore conferito al sugo
era molto più buono. Solo qualche decennio fa se ne pescavano due o tre mila
tonnellate all’anno, oggi non se ne pescano più, o meglio si pescano ancora, ma
si ributtano sistematicamente in mare e al resto ci pensano i granchi. Le
motivazioni del rifiuto sul mercato sono sempre le stesse: ha troppe spine, il
bimbo non lo mangia; ci vuole troppo tempo per pulirlo e così via”[22].
Eppure qualche pescivendolo ha trovato il modo di valorizzarlo spinandolo e
infilando i filetti in uno spiedino. E’ semplicemente delizioso. Anche in brodo
questo pesce da molte soddisfazioni sensoriali, perché è delicato, specie
quando vi si cuociono i passatelli, perché come sottolinea il prof Piccinetti
nella famiglia dei Gobiformi, le differenze sensoriali si colgono.
Quando si stava peggio, alcuni erano così raffinati da cuocere nel brodo di Paganello
la varietà di riso detta Originale e lo stesso valeva per il risotto. Il
non disporre più di certe specie è una perdita non solo per la cultura, la
tradizione, ma soprattutto per il palato non più addestrato a distinguere le
minime differenze di gusto tra una specie e un'altra, mentre un tempo le donne
dei pescatori, e non solo, erano in grado di distinguerle perfettamente. E il mangiare
quotidiano un po’ alla volta ha perso la sua variabilità, il suo spessore
sensoriale. In mare c’è una varietà di pesci davvero notevole. “Pensiamo a ciò
che abbiamo a terra” sottolinea il biologo marino “Tra tutti gli animali di cui
l’uomo si ciba arriveremo si e no a trenta specie. In mare con una sola calata
di reti si possono pescare come minimo una trentina di pesci diversi. Se si
moltiplica per le stagioni di pesca sono centinaia e centinaia di sapori
diversi”.
Quando si dice “non mi piace il pesce”.
Le contraddizioni dei consumatori sono un altro
aspetto che in qualche modo viene messo sotto l’impietosa lente analitica del
prof. C. Piccinetti.
“Dire che non piace il pesce è davvero
fuorviante: quale pesce non ti piace? Non ti piace il sapore di una razza fatta
con la salsa di peperoni, non ti piace il pesce bollito, o non ti piacciono le
triglie o le sogliole? Senza contare che il pesce non ha ovunque lo stesso
sapore. Mentre possiamo distinguere la carne di un agnello da quella di una di
pecora, o quella di un vitello da quella di un vitellone, le differenze
gustative non si colgono nel pesce, perché non c’è più l’allenamento, come già
visto prima. Quando si acquistano dei merluzzetti se sono piccoli ci faccio una
frittura, se di 25/30 cm, che di solito si fa bollito per i bambini, anche
questo è ancora buono per farlo fritto, ma se è un merluzzo di 40 cm, comincia
ad avere un sapore di “baccalà” e non è più la stessa cosa del piccolo
merluzzo. Accade così anche per le carni dei mammiferi. Il sapore del pesce
cambia con l’età ma anche da zona a zona: una sogliola pescata in Adriatico,
dove c’è abbondanza di nutrienti, o un ecosistema ricco dove può mangiare molto,
se la pesco nel tirreno dove il pesce ha meno da mangiare, la sogliola è più
magra, più asciutta e sa un po’ di fango. Da noi in Adriatico sono più
apprezzate perché al gusto risultano più delicate e “morbide”, e la morbidezza è data dal
grasso. Un altro esempio sono le alici che in Adriatico normalmente si fanno in
teglia, al forno, arrosto sulla griglia, cotture che le asciugano; nel Tirreno
le stesse acciughe pescate a Salerno, a Napoli o a Sorrento che sia, fatte allo
stesso modo risultano secche, grinzose, asciutte, stoppacciose, tutti attributi
non gradevoli al palato. Quelle dell’Adriatico se si fanno alla pizzaiola non
vanno bene perché non pigliano il sapore in quanto il grasso loro ce l’hanno da
cedere. Quelle del tirreno fatte così vengono una meraviglia. La specie è la
stessa ma l’habitat, più o meno ricco di cibo, fa la differenza perché
determina la sapidità delle carni”.
L’inquinamento
Alcuni marinai del porto di Fano sono stati
espliciti: il sapore del pesce non è più quello di un tempo. Il prof. Corrado
Piccinetti però non è d’accordo con i professionisti della pesca e secondo lui
l’inquinamento non influisce sul sapore. Si spiega meglio: “Noi non abbiamo più
le specie di grosse dimensioni, perché non gli diamo il tempo di crescere. La
crisi di produzione è determinata dal fatto che i pesci non gli facciamo
crescere. Quelli nati un anno fa gli abbiamo pescati tutti, cominciando ad
ottobre ed andando avanti per tutto l’inverno. Quella quota che rimane non
compensa l’eccesso di prelievo e ai pesci non gli si da il tempo di riprodursi
in modo qantitativamente significativo per il riequilibrio. C’è un eccesso di
pesca. Si potrebbe ipotizzare allora di interdire delle aree per dare modo ai
pesci di riprodursi, ma questa strategia è ostacolata dagli stessi pescatori
che si troverebbero nella impossibilità di pescare per lunghi periodi. Quando
c’è la pesca degli Agustinèl (giovane), Mullus barbatus L.,
Triglia di fango, ne ammazzano una infinità, non dovrebbero farlo, è vietato,
eppure lo fanno. Si butta la rete e viene su ogni sorta di pesci. Si
stabiliscono allora delle regole per imporre la maglia larga nella rete e
trovano (i pescatori N.d.R.) tutti gli artifici per fare in modo di non far
fuggire il pesce piccolo[23].
Occorre fare una riflessione per capire alcune contraddizioni di fondo del
mondo della pesca: le risorse agricole non sono di tutti. Si immagina di avere
un campo dove c’è dell’uva, delle ciliegie, e tutti si sentono in diritto di
raccogliere quello che vogliono!? In questa ipotetica situazione quando mai uno
raccoglierebbe una ciliegia o un grappolo d’uva maturo al punto giusto? Ci sarà
sempre qualcuno che arriverà prima di noi. Noi siamo in mare e gli spazi di
pesca se li prende chi arriva per primo. Se gli spazi vengono assegnati ai
pescatori ognuno avrebbe interesse a rispettare
regole che favoriscono la riproduzione e la crescita numerica dei pesci.
Non è che in agricoltura se qualcuno è in difficoltà per sfamarsi va a tagliare
il grano quando è verde per venderlo come fieno. Nel mare succede proprio
questo: se si pesca il pesce non cresciuto, che non ha raggiunto il peso giusto
e l’età giusta per la riproduzione, non
dovrebbe avere valore commerciale, così nessuno lo acquisterebbe.
Dalla stessa risorsa si può realizzare sul piano
economico molto di più, si tratta solo di darsi delle regole e rispettarle.
Regole sulle quali i partecipanti a questa ricchezza si devono accordare per
gestirle al meglio. Invece attualmente non c’è accordo di sorta. Per tornare
all’inquinamento se ne risente sulla fascia costiera, dove non c’è una pesca
produttiva, nel senso che le specie che ci sono nella fascia a un km o due
dalla costa, dove arriva l’acqua dei fiumi, sono pesci che si spostano, non
stanno fermi. Ci può essere un problema di inquinamento con le vongole,
telline, cannolicchi, ecc. Ognuna di queste specie ha una velocità di
rinnovamento, cioè il tempo in cui il pesce nasce, cresce, si riproduce; in
alcuni casi questo avviene in tempi molto brevi, in altri casi invece ci
vogliono quattro/cinque anni, come nel caso del Gattuccio, Palombo,
Razza e molti altri ancora. Non solo, l’uovo dopo l’accoppiamento ci
mette 8 mesi prima di arrivare alla nascita, mettendo al mondo non più di (9/10
figli per femmina. Con una pressione di pesca elevata quando mai arriveranno
alla riproduzione? E anche questo spiega la diminuzione del pesce. Se invece ho
una Triglia, una Sogliola, un Nasello con una elevata
fecondità, ogni femmina dispone di circa 200.000 uova, e, nel caso della Triglia
a un anno e mezzo è pronta per la riproduzione. Queste specie si riproducono
con relativa facilità. Altri pesci sono più lenti altri più veloci. Alcuni
pesci a un anno finiscono il proprio ciclo biologico e con la riproduzione
muoiono. Se peschiamo quando i pesci, seppioline e altro ancora sono molto
piccole è chiaro che il pescato sarà sempre meno, se è vero che ad ogni pescato
ne preleviamo appena il 2/3% dei nati perché gli altri li abbiamo presi prima.
Le specie molto feconde non ne risento le altre molto di più. I pesci a lenta
crescita e bassa fecondità ne risentono di più e quelli sono i primi a
diminuire fino alla totale scomparsa e pescandone pochi per settimane hanno
totalmente perso il loro peso economico”.
Proposte operative
Ristoranti e pesci dell’adriatico
Ci chiediamo se i ristoratori sono ancora in
grado di cucinare il pesce dell’Adriatico o stanno scivolando verso la
banalizzazione delle ricette, privilegiando i pesci importati o in tranci.
Secondo il prof. Piccinetti i ristoratori che sanno utilizzare il pesce locale
sono sempre meno e il fenomeno non sembra arrestarsi. Cucinare il pesce
dell’Adriatico vuol dire andare al mercato quasi tutti i giorni, prendere
quello che si trova quel giorno, quindi il menù è all’insegna della variabilità,
mentre i clienti chiedono sempre quelle
sei sette specie che il mercato fa fatica a mettere insieme. Così un numero
crescente di ristoratori si orienta verso il pesce congelato, pescato in altri
mari, lo scongelano e questo è quanto. C’è anche una frazione della ristorazione che approvvigionandosi di pesce
sul mercato internazionale ha ampliato la gamma delle specie ittiche che da noi
non esistono. Il salmone non vive nell’Adriatico
e importandolo si è superato il problema della stagionalità perché ci si può
contare in ogni momento, cosa fino a trenta anni fa impensabile. La
disponibilità della materia prima consente abbinamenti creativi creando profili
sensoriali inediti. Un pesce che arriva dal sud America può essere accostato a
verdure che arrivano magari dall’Asia, proponendo abbinamenti sorprendenti. C’è
un fiorire di cucine che non sono più le nostre cucine tradizionali a cui
eravamo abituati. Oggi, relativamente al pesce, la cucina non è poi così
mediterranea e la fretta di vivere ha tolto ogni possibilità di sopravvivenza
alle ricette tradizionali: tutto deve essere fatto in poco tempo. Il pesce
congelato lo possono mangiare anche nell’entroterra. Lungo la costa il consumatore urbano che vive
a Milano o in altre città non marinare, vuole il pesce fresco, che se cucinato
e consumato subito dopo la pesca i piatti hanno una caratteristica qualitativa
notevole. La freschezza dunque, e non altro, diventa l’attrattiva principale
per cui vale la pena fare un bel viaggio lungo la costa adriatica.
A proposito di uno scambio di risorse tra la
costa e l’entroterra.
Cosa fare per far tornare a consumare i pesci
tradizionali?
Facendo una sintesi di quanto riferito dagli
interpellati, pescatori, commercianti, ristoratori, consumatori e il
responsabile del Centro di Biologia Marina, prof. C. Piccinetti, sulle
strategie da adottare per valorizzare i pesci tradizionali, ne risulta un
quadro piuttosto complesso.
Gli addetti ai lavori - pescatori, commercianti,
ristoratori e consumatori - è un pezzo
che girano intorno a questo problema e portano ad esempio il caso del pesce
azzurro. L’esperienze fatte non hanno dato risultati esaltanti perché gli spot
una volta mostravano le immagini di un consumatore che andando al mercato non
trovava il pesce azzurro; altra pubblicità mostrava i pescatori che portavano
il pesce al mercato ma nessuno glielo comprava. “I tentativi fatti non hanno
mai preso di mira tutta la filiera mettendo d’accordo pescatori, commercianti,
ristoratori, consumatori su come trattare quel determinato prodotto. Esempio:
un ristorante può fare un accordo con un commerciante di pesce per averlo due
volte la settimana, non tutti i giorni; il produttore si organizza e per due
volte la settimana ci sarà qualcuno che glielo compra e così per tutti gli
altri tipi di pesce e non solo per il pesce azzurro” sostiene il prof. C.
Piccinetti. Questo garantirà un risultato, in termini economici costante nel
tempo ed è quello che ci vuole per un mercato in equilibrio. Se la filiera è
ben organizzata e tutti i componenti sono d’accordo sulle strategie, il
risultato è garantito, ma se manca uno solo degli anelli i risultati saranno
sempre deludenti. Per meglio capire: se i commercianti non sono coinvolti
alcune iniziative, relative alla valorizzazione del pesce povero, non potranno
essere portate a termine, in quanto normalmente questi non vogliono trattare i
pesci poveri con la motivazione che non ci guadagnano abbastanza. L’esperienza
e il buon senso suggeriscono un diverso approccio. I pescatori conferiscono il
pescato ad un certo prezzo, perché anche loro devono avere i loro benefici
economici, il commerciante deve fare un ricarico non tre quattro volte di
quello che è stato pagato, ma del 30/40% e non di più. Invece certi pesci da
poveri stanno diventando un lusso per molti consumatori: razza, busbane,
merluzzetti, tanto per fare qualche esempio. Il ristorante farà un ricarico in
base a quello che aggiunge del suo valore, ma soprattutto la pescheria che va a
comprare il pesce deve trovarlo a un certo prezzo che non sia esagerato in modo
che lo trovi conveniente. Chi lo acquista, sapendo di dover lavorare di più per
liberarlo dalle spine, non venga scoraggiato anche da un prezzo eccessivo. In
alcuni casi i pesci sono stati sottoposti alle lavorazioni presentandoli già
puliti. Ma di solito se non c’è il cliente che lo chiede il pesce non si
pulisce prima. E questo è quanto risulta dalle testimonianze degli
interpellati.
Cosa fare per far si che il pesce azzurro arrivi
fresco in tavola e non quando è già ossidato?
A proposito della percezione della freschezza
del pesce, ci fermiamo un attimo sulle modalità di trasporto del pesce dalla
costa fino all’entroterra Umbro-Marchigiana, e precisamente a Gubbio, ancora in
uso fino a 70/80 anni fa, e cioè tramite carri trainati da cavalli, sui quali
si sistemavano le cassette di pesce coperte di neve, prelevata dalle “conserve”.
Si arrivava a destinazione un paio di giorni dopo, quando la neve si era già
sciolta. Il pesce comunque si vendeva ugualmente. Questa circostanza
spiegherebbe, secondo alcuni, perché agli Umbri ancora oggi il pesce piacerebbe
(d’obbligo il condizionale) un po’ fatto.
La domanda posta nel titolo del paragrafo ha
ottenuto la seguente risposta: “Educare la gente a riconoscere il pesce fresco
e consumarlo finché è fresco. Ancora oggi molte persone acquistano il pesce
azzurro fresco, tornano a casa, lo mettono in frigorifero e lo tirano fuori un
paio di giorni dopo. Il pesce azzurro dicono, i soliti vecchi che non ci sono
più, perde una qualità ogni ora che passa. Dopo 24 ore le ha perse tutte, figuriamoci
dopo tre giorni, quando acquista quel non so che di “pescino” come dicono i
pescatori, che sta “passando”. Al terzo giorno poi si vede l’occhio smorto,
incavato, allora è meglio darlo al gatto, sempre che lo gradisca anche lui.
Quando è fresco è straordinario e in cucina, sapendolo trattare da grandi
soddisfazioni, aspetto salutistico a parte che ruota intorno ai famosi omega
tre. Da qui si evince che lo sforzo della filiera pesce deve essere incentrato sulla valorizzazione della
freschezza del pesce e non sulle furbizie per ingannare i consumatori. C’è
anche un’altra possibilità per avere un pesce fresco e cioè quella di aspettare
la barca al porto, se ne prende una cassetta e poi si sentirà la differenza di
sapore. Al mercato del pesce di Ancona ci sono le cassette di pesce,
all’ingrosso, dal peso di 8 chili, che si vendono a 4 € al chilo, quindi cifre
modeste. I pescatori non dovrebbero venderlo, ma tramite amicizia non è difficile l’acquisto,
pagandolo qualcosa in più, come 10 € a cassetta. E anche questo è un sistema
per studiare la differenza di gusti tra i pesci freschi e quelli che non lo
sono più”. E questo è quanto suggerisce Piccinetti per rieducare il palato alla
freschezza del pesce appena pescato. Quando è fresco non c’è bisogno di mascherare
i cattivi sapori con le essenze delle erbe aromatiche, anche se i loro principi
attivi non mascherano i cattivi sapori del pesce non più fresco, ma caso
mai neutralizzano le sostanze ossidate, che una volta ingerite creano problemi
al processo digestivo. Ed è questo il ruolo delle erbe aromatiche!
Normative inadeguate
A complicare la vita dei pescatori, dei
commercianti, dei ristoratori e dei consumatori, ci si mettono anche le Normative
Comunitarie, che impediscono di fatto il dragaggio del porto. Per le
imbarcazioni di oltre 100 tonnellate di peso il transito nel porto, con i
fondali resi intransitabili dalla sabbia sedimentata è impossibile,
costringendo i pescatori ad un forzato riposo. Se dai canali del porto si tira
fuori la sabbia che si è accumulata con il gioco delle correnti e con le
attività dell’uomo e la si butta in mare, si commette un reato sanzionabile.
Cosa stabilisce la normativa? Stabilisce che se si prende la sabbia, si
analizza, individuando quello che c’è in fatto di inquinamento, compresi i
residui di idrocarburi, questo materiale, una volta analizzato, non si può più
ributtare in mare, come sarebbe logico, perché una volta tirato fuori
dall’acqua si deve scaricare in una discarica, magari per rifiuti speciali,
pagando non un tanto a metro cubo ma un tanto al chilo. Ciò rende proibitivi i
costi per i pescatori e le amministrazioni locali, comune e regione che devono
provvedere. “Questa pulitura, fatta con una certa frequenza”, ci spiega il
prof. Piccinetti “si potrebbe anche non portare fuori dall’acqua, ma
trascinarla fuori con una corrente e ridistribuirla un po’ più al largo,
esattamente come si è sempre fatto con le draghe, prima che arrivassero le
norme comunitarie. Si pensi al porto di Ravenna, dove si crea un polmone di acqua
che la corrente spinge col flusso di marea, lasciando il porto libero[24].
Nella zona di Fano, con la centrale elettrica del Metauro, il flusso di acqua
non è più sufficiente e tenere pulito il fondale dell’imboccatura del porto,
tranne quando si verifica una portata d’acqua sufficiente. E così la sabbia si
deposita e quando le barche entrano nel porto toccano. Le autorità marittime
chiudono il porto lasciando passare solo le barche piccole e le grandi restano
fuori, costringendole a cambiare porto con tutto ciò che ne consegue per la
pesca, le tradizioni e tutto il resto. Così molte barche hanno smesso di
pescare. Un tempo ci pensava lo stato azionando le draghe, e non c’erano tutte
queste norme che hanno reso il sistema così complesso da gestire da renderlo
ingovernabile. Fino a qualche decennio fa, a tre o quattro miglia al largo, si
poteva scaricare dove c’era un fondale più o meno simile alla granulometria del
sedimento che in genere sono dei fanghi, buttando così fango su fango. Dopo
qualche tempo si ossidavano e l’inquinamento si riduceva fino a scomparire del
tutto. Quelle zone erano interdette alla pesca per un po’, e in poco tempo tutto
tornava in equilibrio senza danni né per i pescatori, né per i commercianti, né
per i consumatori né tanto meno per i pesci. Invece hanno imposto normative che
possono andar bene per i rifiuti tossici speciali provenienti da terra, ma
siccome nel porto non si scaricano materiali tossici, le normative risultano
inadeguate e penalizzano un settore, quello dei pescatori fanesi e non solo, perché
tutti i porti d’Italia risentono di questa problematica”. L’intervista è
terminata e il registratore spento. L’istituto di Biologia Marina
dell’Università di Bologna sorge proprio sul porto. Col professor Piccinetti
diamo un’occhiata fuori dalla finestra e ammiriamo la spiaggia di Sassonia, con
i sassi illuminati da un pallido sole e poche persone che passeggiano con i
cani sulla riva del mare. Con lo sguardo, chi scrive, cerca inutilmente qualche
trabucco, la palafitta da pesca che caratterizzava il litorale marchigiano.
Così come inutile sarà la ricerca dei mucchi di reti in riparazione, i velacci, i cesti
e cordami, ancore e pennoni, gli strumenti
di lavoro dei pescatori tradizionali della costa marchigiana. E i nuovi?
“I nuovi
pescatori, considerati dai vecchi e dagli anziani “rozzi predoni del mare”,
quasi non conoscono il mestiere: le loro barche sono confortevoli, riscaldate
in inverno e refrigerate d’estate, dispongono di tutto, ma mancano di capobarca
o paròni capaci di sfruttare il mare senza distruggere le risorse, come i nuovi
coltivatori dei campi, sui quali le macchine e la chimica agiscono
indiscriminatamente, massimizzando le rese, arando tutta la terra tutti gli
anni, senza darle un attimo di riposo. I nuovi pescatori fanno lo stesso: arano
il mare con la forza degli 800-1000 HP, capaci di trainare quattro “gabbie” di
tre quattro metri ciascuna, che ripuliscono il fondo di tutto quel che esso
genera e ospita con strisce di 12-16 metri. […] Una cultura se ne è andata. Il
marchigiano rampante delle altre attività economiche si è fatto sentire anche
sul mare…[…] L’impressione è che l’Adriatico, un mare stretto e poco salato,
pieno di scarichi, dai fondali bassi, dragato con ogni tempo dai pescherecci,
non possa dare ancora per molto il poco che da adesso”[25].
Era l’anno 1986.
AAVV.: Storia d’Italia: Le regioni dall’unità d’Italia a oggi – Le Marche
a cura di Sergio Anselmi – Giulio Einaudi Editore Torino 1987.
Sergio Anselmi: Sulla pesca dei cannelli, Stampato da Tecnostampa di
Ostra Vetere (AN) nel 2004, con il contributo finanziario della Regione Marche.
Sergio Anselmi, La pesca in Italia, in Viaggio nel mondo della pesca,
Ente Autonomo Fiera di Ancona,
1990.
Agostino Bagnato, Mare e pescatori nella storia d’Italia, Lega Pesca
– L’Albatros, Roma 2007
A cura di Luciano Poggiano, Pesci dell’Adriatico, Quaderni
dell’Ambiente, Provincia di Pesaro e Urbino, Bellocci di Fano (PU) 2009.
Gianfilippo Centenni, Romano Ramoscelli, Cucina da Mare Marchigiana,
Futura Officine Grafiche – Senigallia 2004
Piero Ricci, Simona Ceccarelli, Frammenti di un discorso culinario,
Guerini E Associati, Milano 2000
Itinerari di cultura Gastronomica, L’Italia del pesce, Accademia
Italiana della Cucina, Milano 2006
Regione Emilia-Romagna, Il pesce dell’Adriatico nelle ricette
dell’Alma, Trebbo di Budrio – Bologna
2009.
Ettore Iani, Devolution ed economia della pesca, Albatros Editore,
Roma 2006
Corrado Barberis, F. Donati, Per una sociologia della pesca, Franco
Angeli, Milano 1987
Agostino Spataro, Bichara Khader, Il Mediterraneo, Edizioni
Associate, Roma 1993
Sergio Angeletti, Ostriche, seppie ed altre delizie, Edizione Tea
Pratica, Milano 1994
Sergio Marzocchi, Colori e simboli sulle vele adriatiche, Montefeltro
Edizioni Urbino, Urbino 1983
Albina Sogno, Il mare in tavola, Mallucci Editore, Passo Ripe -
Ancona 2006
Graziella Picchi, Le acciughe sotto sale, in Atlante dei prodotti
tipici: Le conserve, Insor – Agra-Rai-Eri, Roma 2005
Comune di Fano, Regione Marche, Comunità Europea, Sei pesci a
stagione, Agenda 2006, Fano 2005
[1] Così
scriveva Sergio Anselmi alla fine degli anni ’80 del secolo appena trascorso in
Pescatori e trabaccolanti, tratto da Storia D’Italia - le Marche, Giulio
Einaudi Editore, Torino 1987, pag. 525.
[2] Tra l’altro
Sergio Anselmi, che amava profondamente il mare, era anche un abile pescatore
di cannolicchi e ci ha lasciato un gustoso trattato sui metodi di pesca
manuale: Sergio Anselmi: Sulla pesca dei
cannelli, Stampato da Tecnostampa di Ostra Vetere (AN) nel 2004, con il contributo
finanziario della Regione Marche.
[5] Rolando
Ramoscelli, noto chef di San Costanzo (PU), che per decenni ha trattato il
pesce povero, appena pescato, dell’Adriatico, poi le difficoltà di reperimento
della materia prima di questi ultimi anni, gli fanno abbandonare il pesce e
oggi, nel suo ristorante, si degustano piatti a base di carni marchigiane.
[9] Il Paganello, nelle Marche ha una storia
tutta speciale in quanto era il primo pesce che i ragazzi che si avviavano al
mestiere di pescatori, pescavano con la canna sul molo.
[14] Questi i
sopranomi: Barbone, Birella, Sibilino, Pellenera, Fiamma, Capitano, Tacca,
Scorzone, Calabrese, Poletta, Rum, Stiknik, Tagliavento, Spacca, tutti
sottoposti alle varianti dialettali. Capitano e Calabrese frequentano ancora il
bar del porto di Fano.
[20] Già ai
tempi della redazione dell’Atlante dei prodotti tipici: le conserve, agli inizi
degli anni ’90, segnalammo che il tonno rosso del Mediterraneo finiva quasi
tutto sulla mensa dei giapponesi, mentre sulla nostra arrivava il tonno pescato
in lontani oceani.
[21] Questo
pesce era il primo pesce che i figli dei pescatori, sui moli delle città
marinare, imparavano a pescare con l’amo, per iniziarsi al mestiere dei padri.
[22] Il prof.
C. Piccinetti, che fa parte dell’Accademia della Cucina Italiana, è anche un
profondo conoscitore della gastronomia del pesce.
[23] Si fa
presente che la vendita dei pesci piccoli, pur essendo vietata, gode di un
mercato parallelo, non ufficiale, che nel concreto procura un reddito. Anche i
piccoli tonni, i merluzzetti, e molto altro ancora, entrano in questo circuito
parallelo.
[24] Questo
sistema è in uso da diversi secoli e anche Leonardo da Vinci ha utilizzato
questo sistema per tenere aperte le imboccature dei porti.
[28] Queste le
erbe consigliate: Pimpinella (Sanguisorba minor
e Sanguisorba officinalis L.), rucola selvatica, germogli di cicoria,
epilobio (Epilobium montano L.), valerianella, ecc.
[29] Il parangallo
è una lunga corda tesa con degli ami per la cattura dei dentici, un pesce
scarsamente presente nella parte ovest dell’Adriatico, dove, secondo il Prof.
Piccinetti, biologo marino se ne pescheranno si e no una decina all’anno.
[30] La
ricetta è stata presa da un testo, pubblicato dalla Regione Emilia-Romagna, dal
titolo Il pesce dell’Adriatico nelle ricette dell’Alma, Trebbo di Budrio –
Bologna 2009. L’Alma è la scuola di alta
cucina, di Parma, diretta da Gualtiero Marchesi.
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