25 maggio 2010 ETTORE SORDINI

Il paesaggio nella pittura italiana del Novecento.
Nel '900 la ricerca pittorica sul paesaggio italiano ha seguito un percorso ricco di suggestioni diverse e approdi i più svariati e fecondi.L 'Italia è stato il luogo dove le varie derive descrittive e le più diverse concezioni si sono incontrate dando vita ad un complesso mondo di immagini con una forte connotazione narrativa. Si potrebbe affermare che la pittura del '900 abbia liberato il paesaggio italiano dalla sua connotazione storica per immetterlo nell ' attualità facendone un "soggetto" e non più il contorno di un avvenimento.
Il paesaggio quindi come avvenimento in sé.
Nel vastissimo panorama di opere, sarebbe stata difficile una scelta esaustiva. Ho privilegiato così le opere che sono state più significative per la mia formazione d'artista.
Boccioni - Mattino

Balla - Fallimento
Carrà - Marina
Sironi

Morandi

De Chirico

Semeghini

Lilloni

Tosi

Guidi
Tomea


Licini

Rosai

De Pisis


Scipione


Mafai


Stradone

Cagli


Turcato


Morlotti

Chidine

D'Angelo

Peverelli

Crippa


Fontana

Marcucci

Bartolini


Sordini - Marina
Ettore Sordini è nato a Milano nel 1934. Sotto la guida di A. Malerba, scultore capo della Fabbrica del Duomo, studia, disegna e scolpisce fino ai primi anni '50. Più tardi farà esperienza di pittura con A. Barchi, pittore eclettico di grande mestiere. Conosce Crippa, Peverelli, Fontana e ne diviene amico, collaboratore e discepolo. Più tardi a Roma avrà un lungo sodalizio con G. Turcato. Invitato da L. Fontana, partecipa alla Triennale del 1954 e collabora con gli architetti Porcinai e Viganò alla sistemazione del Parco di Milano insieme a Chighine, Bergolli, Crippa, Peverelli ecc. Nel '56 redige il manifesto " Per la scoperta di una zona di immagini " con Manzoni, Zecca, Corvi Mora.
Tra il '57 e il '58 redige e firma i manifesti " Per una pittura organica ", " Contro lo stile ", il Manifesto di Albissola e di Napoli. Nel '57 espone con Manzoni e Verga alla Galleria Pater con presentazione di L. Fontana. Già nelle prime opere traspare una sensibilità matura attraverso un grafismo del tutto originale e personalissimo. Sono immagini segniche intimamente complesse che trovano respiro nel campo incontaminato, "libero" della superficie.
Sordini "si avvale di una tecnica tutta grafica per costituire sulla tela. campita di un solo tono, tracce rade e sottili di colore che rimandano a memorie di immagini antropoidi filamentose ", così da arrivare " al segno già attraverso un processo di azzeramento di una matericità di origine esistenziale come conquista di libertà lirica ". Verso la fine degli anni ' 50 attua un approfondimento del rapporto tra segno-gesto- natura e l' opera acquista così una spazialità lirica maggiore accompagnata da un cromatismo tenue e delicato. Si può dire che Sordini “parte dal segno per arrivare a/la pittura servendosi del colore in funzione spaziale e luminosa". Nella nuova serie di quadri " Paesaggi ", poi nei "Campi dei Paladini ", nelle " Annotazioni " e in seguito nelle " Battaglie ", Sordini lavora in un ' area di valori elementari sia sotto il profilo cromatico che grafico, cercando di portare sia il colore che il segno alle loro costitutive proprietà semantiche. I bianchi delle tele e le trasparenti campiture monocromatiche acquistano valenze spaziali, di uno spazio dilatato da una luce assoluta su cui vivono segni deputati, sequenze ritmiche orizzontali o ascendenti a significare presenze musicali, allusioni favolistiche, abbandoni intimistici.
Traduzioni grafiche di meditazioni e letture, crittogrammi collegabili anche alla cultura Zen. Nel 1962-63 tende a limitare, nei suoi quadri, la personale "corrività scritturale" e individua serie di lemmi variamente raggruppati e in rapporto tra loro e con la tela. Nel 1962 si lega d'amicizia con Agostino Ferrari, Ugo La Pietra e Arturo Vermi e con questi, insieme ad Angelo Verga, forma il Gruppo del Cenobio. Il gruppo esporrà nella Galleria il Cenobio a Milano una seri di mostre personali e collettive; l'anno successivo alla Saletta del Premio del Fiorino a Firenze e alla Galleria L'Indice di Milano; nel 1964 alla Galleria Cavallino di Venezia e in seguito in numerose altre occasioni fino alla mostra allestita nel 1981 al AAB, Museo Laboratorio di Arti Visive, di Brescia, a cura di Bruno Passamani, quando già da tempo il gruppo si era sciolto. Nel 1989 Angela Vettese riunirà di nuovo il gruppo del Cenobio nella mostra "Milano et Mitologia"( titolo ripreso da un quadro di Manzoni), una mostra sugli anni cruciali della ricerca artistica milanese tra il 1958 e il 1964, organizzata dal Centro Bellora di Milano. Una occasione che la Vettese ripeterà con la mostra "Un percorso, ricerca e ipotesi 1959-1994: il Gruppo del Cenobio" del dicembre 1994 a Palazzo Martinengo di Brescia e nel maggio 1995 alla Galleria Peccolo di Livorno.
Dopo la Biennale di Venezia del 1966, dove espone una serie di opere di preminente carattere grafico e monocromo, Sordini si stabilisce a Roma. Qui espone alla Galleria dell'Oca, alla Galleria Romero e a tutte le iniziative della Galleria La Salita, partecipando anche a grandi rassegne nazionali quali quella allestita nel Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1981 "Linee della ricerca artistica Italiana " e l' Esposizione Quadriennale di Roma nel 1986.
In questi anni l'artista approfondisce l'uso del colore e vincola il segno in più stringenti strutturazioni geometriche. Infatti nel 1970 espone le sue prime " Assonometrie" dalle forti tonalità.
Si apre una nuova fase che Bruno Passamani definisce "de/la emozione strutturata e del dialogo con la geometria".
Le esperienze plastiche giovanili e la naturale curiosità lo portano a interessarsi al rapporto tra pittura e architettura e tra pittura e illustrazione. Ha illustrato diverse raccolte di poesie e ha dedicato una mostra alla poesia di Delio Tessa "Finester". Nel 1988 realizza un Monumento ai Caduti per la Libertà nel comune di Montone. Nel 1990 realizza, in collaborazione con A.A.M.progetti per Roma, la Scultura per le Fontane nel Palazzo Mauro De Andre a Ravenna e nel 2003 una fontana policroma per il comune di Cagli.
Nel 2002 collabora con l' Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Perugina, realizzando, in coJlaborazione con Antonio Capaccio, un progetto dal titolo " Atlante Ragionato d' Arte Italiana" che prevede una serie di mostre dedicate ad artisti appartenenti ad un'area alternativa a quelle forme dell'arte contemporanea che ricercano un facile consenso comunicativo attraverso "stili internazionali" ed una acritica adesione allo spettacolo tecnologico e mediatico.
L 'iniziativa viene realizzata negli spazi del CERP (Centro Espositivo Rocca Paolina) e si conclude nel 2003 con una mostra antologica di Sordini.
In questi ultimi anni, soprattutto nei quadri più recenti, cerca una sintesi tra le due principali derive dell'arte moderna, quella surrealista e libertaria e quella astratta e formalista, arrivando talvolta, pur nella più totale astrazione, a risultati come di paesaggio di memoria quasi novecentista. Lampi di pittura visti e vissuti attraverso la lente della propria disciplina.
Ettore Sordini vive e lavora a Cagli ( Pesaro-Urbino )






















































































24 maggio 2010 ALBERTO FERRETTI

PIETRE, ROSE E SERPENTI
L’ANTICO PORTALE DEL DUOMO DI CAGLI In nomine Domini. Amen. Hanc portam fecit fieri Ser Angelus De Accursolis pro anima D. Marci Brigantis Maphei ejus cognati ven. canonici caliensis AD MCCCCXXIV per magistrum Antonium magistri Cristophori de Callio.Questo portale è giudicato in modo differente dagli storici cagliesi.

• Così lo descrive Gucci:
"Angelo della nobile famiglia degli Accorsoli, con molta spesa, ma col cattivo gusto di quei tempi, v'aveva fatto lavorare in marmi l'ornamento della porta maggiore e dell'architrave che chiudendo l'arco lo riquadra, e v'avea fatto incidere la iscrizione".

• Osserva, invece, Maestrini:
"Se l'ornamento della porta, il quale tuttora esiste, sia di cattivo gusto, può giudicarlo chiunque s'intenda anche mediocremente di arte. Piuttosto è desiderabile che in qualche modo si faccia rivivere il dipinto a fresco sopra l'architrave essendo divenuto per le intemperie quasi invisibile.“

Non crediamo dunque niente affatto, o buon Teologo, alle vostre parole, quando ci dite che quasi tutte quelle cappelle erano triviali et ordinarie e di poco valore et anticaglie. Il vostro secolo, che tanto delirò nelle Lettere non fu savio neppure nelle Arti e stimando brutto il bello si adoperò a disfare le opere dell'aurea età del Rinascimento, sicché noi perdemmo i freschi, ond'erano dipinte le chiese di S. Francesco, di S. Domenico e della Misericordia, i quali vennero barbaramente distrutti.”
Antonio di Mastro Cristoforo da Cagli, era in realtà originario di Fossombrone, come rilevò il Vernarecci.
In età adulta Antonio si trasferì a Cagli.
Come risulta dall’iscrizione, è l’autore del portale del Duomo.
In nomine domini amen. Hanc portam fecit fieri ser Angelus De Accursolis pro anima D. Marci Brigantis Maphei eius cognati ven. canonici calliensis a. d. MCCCCXXIIII per magistrum Antonium magistri Cristophori de Callio.”
Infatti in un atto (Rogito del 27 novembre 1401 di Do: Marco Briganti notaro cagliese al quale è dedicato il portale) Antonio di Cristoforo, ricordato come testimonio, è detto “olim de forosinfronio, nunc habitator di civitat. Calli”.
In un altro atto dello stesso notaio (7 aprile1402) si legge: “laboritium perfectum fuit per Magistrum Antonium Cristofori habitatorem dicte clvitatis” e cioè Cagli.
Da un altro atto ancora dello stesso notaio (rogato in Cagli il 10 novembre 1404) apprendiamo il nome e la professione di un fratello: “… magister Sanctes Christofori de forosinfronio … frater dicti Magister Antonius”.



L'URNA DEL BEATO GIOVANNI SAZIARI
MIRACULIS CLARET HIC SANCTUS UT SEMPER APPARET
QUEM DEUS DEORUM VOCAVIT AD REGNA POPULORUM

Questo santo (è) illustre per i suoi miracoli (ottenuti) in modo chiaro e aperto.
Il Dio degli dei lo chiamò nei regni dei popoli. (cfr. mons. A. TARDUCCI)

E nelle righe sottostanti:
HOC OPUS FECIT MAGISTER ANTONIUS DE CALLIO AD HONOREM B. IOHANNIS
TEMPORE GUARDIANATUS FRATIS SAMPERJ DE URBINO MCCCLXXII

Maestrini riteneva che la porta della Cattedrale di Cagli e l'urna del Beato Giovanni Saziari, esistente in San Francesco, fossero opere della stessa persona.
Vernarecci non condivide questa opinione.
Infatti “la porta fu compiuta nel 1424 e l'urna nel 1372; e sebbene in essa pure dicasi che “hoc opus fecit magister Antonius de Callio etc.”, tuttavia è un po' difficile che dei due lavori, condotti alla distanza di 52 anni l'uno dall'altro, possa credersi uno solo l'autore”.


Una strana pietra
Il portale è fatto con pietre diverse, mal assortite. È rimaneggiato.È asimmetrico nei particolari.Presenta strane figure.


Le rose
Alcune rose sono a forma di bottone e sembrano coincidere con elementi del portale che appaiono come rifatti (in modo piuttosto sbrigativo). Questa particolare croce a bracci uguali è un simbolo.
Esso è interpretato come mezzo di unificazione fra cielo e
terra, spirito e materia.


Quando compare a forma di scudo o di bandiera, è stato interpretato come simbolo di dualità, ma allora presenta sempre una suddivisione in due parti simmetriche di colori opposti, bianco e nero.
Alcuni studiosi ritengono che il dualismo di questo emblema esprima le forze cosmiche opposte, ossia la lotta tra il Bene e il Male.
Un particolare significato ha anche il numero 4, numero dei bracci.
Quattro è il numero dell’universo terreno, dei fiumi del paradiso che irrigano i quattro paesi della Terra, degli umori dell’uomo, ossia dei 4 temperamenti (sanguigno, flemmatico, collerico, melanconico), delle 4 lettere che formano il nome di Adam, delle 4 virtù cardinali, dei 4 profeti maggiori, dei 4 evangelisti.
La costruzione quadrato-cubica è molto diffusa nell’architettura delle chiese, essendo fondata sul cubo come è descritto nella Gerusalemme celeste dell’Apocalisse.

La stella a cinque punte, secondo alcuni autori, è un simbolo di materialità. Secondo i Pitagorici questo numero rappresenta l’uomo. Uno studioso, E. Zehren, dice che questo è il Sigillo di Salomone, o Pentagramma, così appellato dai mistici ebraici dell'Età Medievale.
Il pentagramma (formato da 5 triangoli o 5 A) secondo la Cabala ha un significato negativo quando due punte sono rivolte verso l’alto; per l’arte romanica tale disposizione è il segno diabolico del capro. Sarebbe un simbolo piuttosto raro da trovarsi nelle cattedrali; mentre sarebbe invece utilizzato nelle pratiche occulte.
Il numero 5, nella Bibbia, è il numero dei libri di Mosè, il numero dei pani e delle vergini savie del
Vangelo. Le 5 piaghe di Gesù sono rappresentate nello stemma del Portogallo che ha 5 scudi con 5
gocce di sangue ed inoltre, in relazione alle piaghe, sull’altare cristiano sono incise per la consacrazione 5 croci.
Sant’Agostino è un autore che discute a lungo sul significato dei numeri. Un altro autore è Ildegarda di Bingen che considera l’uomo contrassegnato in vario modo dal numero 5.
I fiori con cinque petali delle sculture romaniche hanno “sempre” un valore simbolico.

L'Esagramma, la stella con sei punte, è un simbolo antichissimo.
È un simbolo dell’ebraismo, che gli Ebrei chiamano Stella di Davide, o anche Scudo dell'Arcangelo Michele. Esso è presente nella bandiera dello stato di Israele.
La Sapienza Ebraica lo ha associato all'Albero Sephirotico o Albero della Vita (o della Conoscenza).
Nella Cabala rappresenta l'armonia dell'universo essendo formato da due triangoli uguali e contrapposti: il triangolo con la punta verso l'alto, simboleggia il bene, quello con la punta verso il basso, invece, il male.
Per gli alchimisti simboleggiava l'unione tra il fuoco (triangolo con la punta verso l'alto) e l'acqua (triangolo con la punta verso il basso), ossia era il simbolo dell'equilibrio cosmico.
Come Chiave di Salomone, invece, è rappresentato nei più antichi trattati di Magia.
È il Fiore della Vita, simbolo antichissimo trovato in tutto il mondo ed in ogni cultura.
Gli Etruschi, lo hanno raffigurato sullo scudo di un guerriero in un bassorilievo nelle rovine di Vetulonia; i primi cristiani copti lo incisero sulle pareti del tempio di Ibis, a El Kharga, o nelle mura dell'Osireion di Abydo; i Cinesi, nella dimora dell'Imperatore, sotto le zampe di un leone solare; gli Ebrei lo raffigurarono all'interno del Tempio di Gerusalemme.
Presso gli antichi Celti rappresentava la potenza vivificatrice e generatrice del Sole che trasmetteva il suo potere guaritore e protettivo. Procurava una nascita e una vita fortunate, per cui era posto in luoghi bisognosi di protezione e di difesa, come serrature o culle dei neonati.
Il numero 6 rappresenta i giorni della creazione, ma anche il monogramma di Cristo formato dalle iniziali greche X (chi) e P (rho) che sovrapposte danno un segno a 6 braccia. Sant’Agostino vedeva nel 6 un segno della creazione.
L’esagramma composto da due triangoli equilateri è diffuso fra ebrei, cristiani e maomettani. Si trova spesso nelle sinagoghe.
Gli antichi architetti lo hanno inserito in ogni struttura da loro costruita, i pittori rinascimentali ne facevano un modello di perfezione nelle scene rappresentate con proporzioni auree.

I simboli che richiamano il numero otto, come la rosa ad otto petali, sono stati diffusamente utilizzati nell'arte e nell'architettura antica e medievale.
Il fonte battesimale ottagonale (basiliche di Ravenna) indica l’ottavo giorno della creazione, cioè la nuova creazione che inizia con la resurrezione di Cristo. È il numero delle otto beatitudini, della rinascita, della vita Eterna: nell’arte romanica il fiore a otto petali (stella a otto raggi) compare con questo significato. Anche la croce di Malta a otto punte può avere questo significato.

Dodici è il prodotto dei quattro punti cardinali per i tre piani del mondo (terra, aria, cielo) e divide il cielo, considerato una cupola, in dodici settori ciascuno dominato da un segno dello zodiaco.
È un numero ben rappresentato nella Bibbia: le 12 tribù di Israele, i 12 profeti minori, i 12 apostoli.
Il 12 è un numero ideale uguale a 3x4, così come 7=3+4.
7 è un numero sacro che unifica Dio (espresso da 3) e il mondo (espresso da 4). È un antico simbolo ebraico ed ha un ruolo importante nell’Apocalisse. Ebbe un ruolo importante anche nelle considerazioni teologiche connesse all’arte gotica e romanica. 7 sono i doni dello Spirito Santo, 7 i sacramenti, 7 le virtù ( 3 cardinali e 4 teologali), 7 le scienze o arti (trivio e quadrivio).

Dio è espresso da 1.

2 è il bene e il male, Adamo ed Eva, antico e nuovo testamento, anima e corpo.

3 è la Perfezione, è il simbolo della Trinità.
Secondo Sant’Agostino 3 è il numero dell’anima, come 4 è
quello del corpo.

I serpenti





Dobbiamo tener conto di tre culture:

• cultura greco-romana. Il serpente era uno degli animali più onorati nell’antichità per la periodica muta della pelle, equivalente ad un rinnovo annuale dell’individuo. Il serpente era simbolo di rinascita, eternità, ripetersi del ciclo agricolo stagionale. È presente in due simboli:
– il bastone di Esculapio costituito da un serpente attorcigliato ad una verga, simbolo dell’arte medica
– il Caduceo, un bastone al quale sono attorcigliati due serpenti, simbolo del dio Mercurio. Il Caduceo (il nome deriva dal greco araldo) caratterizzava il messaggero degli dei. Era un simbolo di pace, di concordia e del commercio.
• cultura ebraico-cristiana. Negli scrittori ecclesiastici il serpente ha una doppia interpretazione. Nel Nuovo testamento, il demonio è chiamato l’antico serpente, dotato d’intelligenza malvagia ed astuzia ingannatrice. Per i Padri della Chiesa il serpente divenne il simbolo del male. Per Clemente Alessandrino il serpente è l’animale ingannatore; per Ireneo e Giovanni Crisostomo è invidioso dei doni elargiti all’uomo da Dio; per Girolamo e Agostino è l’immagine del peccatore. Per Isidoro di Siviglia è il simbolo della lussuria. Prevale l’aspetto negativo del serpente collegato al pensiero medievale che ne vedeva la valenza malefica dal racconto del Genesi. A volte il misticismo cristiano ha fatto riferimento al serpente, ad esempio quando ha affermato che il cristiano deve spogliarsi dell’uomo vecchio come il serpente si spoglia della sua pelle per indossare la nuova. Dal XI al XIV secolo, inoltre, la figura del Cristo è richiamata da numerose pastorali dei vescovi e degli abati che hanno volute modellate a testa di serpente con la croce fra i denti, a significare la guida sicura del vescovo o dell’abate nel governo della diocesi loro affidata.
• cultura longobarda. I Longobardi, benché avessero ricevuto il battesimo, si attenevano ancora ad antichi usi pagani e si chinavano davanti alla raffigurazione del serpente (Paolo Diacono). La loro religiosità era legata ai riti druidici comuni nell’area celtica (germano-scandinava). Dalle pianure dell’Elba i Longobardi si spostarono verso l’Ungheria e successivamente verso l’Italia. Quando occuparono l’Italia avevavo già combattuto a fianco delle truppe bizantine e si erano convertiti all’eresia ariana. Perlomeno agli inizi, la loro religione era un misto di credenze druidiche, romane e cristiane.

Nel salone d’ingresso del Palazzo Comunale c’è una colonna trasformata in una specie di contenitore. È datata 1548 (?). Non è una pietra del nostro Appennino. Sembra essere dello stesso tipo litologico di alcuni elementi dell’antico portale del Duomo e di qualche altro pezzo situato nella facciata della chiesa di San Francesco.

Per individuare l’area di provenienza delle pietre dobbiamo ricorrere alle tecniche della petrografia che, nei casi più semplici, impiega:
- il semplice riconoscimento visivo,
- lo studio in sezione sottile mediante il microscopio petrografico
e nei casi difficili:
- studio di sezioni lucide mediante microsonda
- analisi geochimica di elementi in tracce.
L’impiego di queste ultime tecniche sofisticate ci aiuterebbe sicuramente a risolvere qualche questione.


QUESTIONI

I marmi provengono dall’antica Pitinum Mergens ed erano ornamenti di un tempio o di un ospedale? Quali altre storie ci possono raccontare queste pietre?

Oppure sono pietre che provengono dall’antica Cale?

I serpenti sono il simbolo di una famiglia longobarda? è Accorsoli?

Gli Accorsoli (famiglia con uomini dediti alle armi) aveva avuto dei rapporti con i Templari? O con i Cavalieri di Malta (Gerosolomitani) la cui presenza è nota a Cagli?

Rose e serpenti esprimono una tradizione alchemico-filosofica?

Mastro Antonio di Cristoforo era davvero uno sprovveduto lapicida che prendeva delle lastre di marmo per collocarle tal quali? E allora chi sarebbe il vero autore delle rose e dei serpenti? E perché?













20 maggio 2010 PIO BRACCO

ROMA NELLA CIVILTÀ OCCIDENTALE

L'eredità di Roma ed il suo influsso sulla civiltà occidentale sono ben più vasti di quanto si è portati a pensare.
Infatti al di là delle opere architettoniche e letterarie, di quelle sul diritto e degli innumerevoli reperti museali, la presenza di Roma continua nella nostra vita quotidiana in maniera diffusa e capillare ma al contempo così familiare che non viene notata.
Fu una società complessa e dinamica che affrontò meglio e prima di altre le sfide che una espansione prepotente le poneva. Ebbe problemi simili a quelli dei nostri giorni sia nel campo politico che nella sfera personale e famigliare ai quali seppe dare risposte efficaci ed innovative. Non si rintanò in un atteggiamento sciovinistico ma prese pragmaticamente dalle altre società, dagli altri popoli ciò che gli altri sapevano fare meglio e lo fece romano. Un popolo nel quale scarseggiarono i filosofi ma abbondarono onesti amministratori, arditi ingegneri e capaci generali. Ai popoli offri l'efficienza del suo Stato e li coinvolse nella realizzazione di un impero universale. La sua eredità è ancora viva sia nella urbanistica di innumerevoli città europee sia nel sistema giudiziario di moltissimi Stati entrando così nei gangli vitali degli scambi, dei rapporti interpersonali ed internazionali. Al cristianesimo, che tanto influì nella costruzione della società europea, offri la matrice organizzativa del suo Stato e ne agevolò la diffusione attraverso la sua efficientissima rete di strade ed attraverso rotte sicure e protette.
Ma la sua presenza è anche in molte delle nostre abitudini, in molti dei nostri costumi; caratterizza la nostra sfera individuale; è madre di nostri pregi e di nostri numerosi difetti. Quindi la sua non è una eredità riservata alle elites ma è compartita tra coloro che vivono in questa società, scrivono e leggono, studiano e lavorano e che inconsapevolmente ripropongono modi e riti, tecniche e prassi, valori e credenze che affondano la loro origine in quel mondo.
L’Amm. Pio Bracco è nato a Roma. Dopo il conseguimento della Maturità Classica entra nell’Accademia Navale di Livorno da cui esce nel 1969 con il grado Guardiamarina di S.M.Svolge servizio a bordo di Fregate ed Incrociatori come Ufficiale addetto alla lotta Antisom e come Capo Servizio Operazioni (1969 - 1981).Svolge tre turni di Comando Navale su Nave Brenta (1977-1978), Nave Sagittario (1986-1987), Nave San Marco (1992-1993).Dal 1981 al 2000 presta servizio in vari incarichi a terra presso il Comando in Capo della Squadra Navale come responsabile dell’Addestramento Antisommergibile, presso lo Stato Maggiore Marina nel settore Studi Armi e Mezzi Antisom, nel settore delle infrastrutture della N.A.T.O. , della Pianificazione Logistica e della Pianificazione delle Forze Anfibie. Dal 1994 al 1996 ha lavorato presso l’O.N.U. e presso lo Stato Maggiore della Difesa come Vice Presidente dell’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze. Dal 1996 al 1999 è stato Addetto Navale presso le Ambasciate D’Italia a Mosca e a Varsavia. Dal 1999 al 2000 ha ricoperto l’incarico di Capo Reparto del Servizio Fari e Fanali nazionale.Ha frequentato L’Istituto di Guerra Marittima di Livorno, ed il Naval Command Course di Newport (R.I.) negli U.S.A..Ha conseguito la laurea in Scienze Marittime e Navali presso l’Università di Pisa, parla l’inglese, lo spagnolo ed il russo.Si è ritirato dal servizio attivo nel settembre 2000 con il grado di Contrammiraglio, vive a Smirra, frazione di Cagli ( P.U.) dove gestisce un Bed & Breakfast di sua proprietà.

17 maggio 2010 LUIGI MARRA

IGNAZIO DI LOJOLA E LA COMPAGNIA DI GESU'
Ignazio di Loyola (Inigo Lòpez) nacque nel 1491 nel castello di famiglia di Loyola nella Spagna settentrionale. Destinato fin da piccolo alla vita di corte, all'età di 13 anni entrò al servizio di Juan Velàzquez di Arevado. Nel 1517, attratto dalla vita militare, si arruolò nelle truppe del vicere di Navarra. Quattro anni dopo, durante l'assedio di Pamplona contro l'esercito francese, fu gravemente ferito alla gambe. Nel periodo di degenza nella casa natale dovette rinunciare alle sue letture preferite di argomento cavalleresco e ripiegare su quelle di argomento religioso, la Vita di Gesù e le Vite dei Santi.


Fu allora, così viene riferito, che ebbe inizio la sua straordinaria trasformazione spirituale nel considerare le eroiche vicende di quei campioni di santità come qualcosa da ammirare e imitare. Nel 1523 recatosi in Terra Santa a Gerusalemme e resosi conto che la città era troppo pericolosa per un soggiorno prolungato, decise di tornare in Europa per dedicarsi alla formazione universitaria. Da Barcellona si trasferì ad Alcalà e nel 1527 a Salamanca presso Università di prestigio che però accolsero con freddezza le sue idee. Fu allora che decise di varcare il confine con la Francia e il 2 febbraio 1528 raggiunse a piedi Parigi, dove trascorse i sei anni successivi studiando all'università della Sorbona, vivendo di carità ai limiti dell'indigenza e dedicandosi incessantemente alla preghiera e alla meditazione.
A Parigi si unirono ad Ignazio altri giovani studenti della Sorbona (4 spagnoli, 2 francesi, 1 portoghese e 2 della Savoia) che costituirono il nucleo da cui sarebbe nata la Compagnia di Gesù. Il gruppo era stato concepito come un'organizzazione rigidamente gerarchica, una milizia scelta, al servizio del papa e della Controriforma. L'8 gennaio 1537 il gruppo si trasferì a Venezia con il proposito di fare un pellegrinaggio in Terra Santa, ma a causa di un'incombente minaccia di guerra tra la Repubblica di Venezia e i Turchi, nessuna nave "pellegrina" salpò. I giovani, ad eccezione di uno che era già sacerdote, decisero allora di ricevere l'ordinazione sacerdotale che venne loro impartita dal vescovo di Arbe, mons. Vincenzo Nigusanti, nativo di Fano e residente a Venezia.
Svanita quindi la possibilità del pellegrinaggio, Ignazio e suoi "compagni nel Signore" nel 1538, prima di trasferirsi a Roma per mettersi a disposizione del papa, stabilirono di darsi un nome. Visto che non avevano un capo se non Gesù, parve loro bene prendere il nome da colui che avevano per capo, chiamandosi la Compagnia di Gesù.
A Roma Ignazio si mise all'opera per redigere la Formula Instituti che conteneva le linee essenziali dell'Ordine, vera magna carta dell'istituzione, equivalente alla Regola degli antichi Ordini Religiosi. Papa Paolo III Famese approvò verbalmente la Formula il 3 settembre 1539 a Tivoli e riconobbe ufficialmente la Compagnia di Gesù il 27 settembre 1540 con la bolla "Regimini militantis Ecclesiae". Il 19 aprile 1541 Ignazio accettò l'incarico di Generale dell'Ordine, anche se in un primo momento si era rifiutato di accettare.
Fine primario della Compagnia di Gesù era la maggior gloria di Dio, da cui il motto "Ad maiorem Dei gloriam et salutem animarum", con l'impegno di conseguire la perfezione dell'anima propria e altrui, con un'ascetica incentrata su un particolare sistema di meditazione, gli Esercizi Spirituali, e sulla perfetta fedeltà al ministero sacerdotale.
Anche se la bolla di approvazione della Compagnia di Gesù non prevedesse tra le sue attività, quella educativa, Ignazio si preoccupò di offrire ai suoi confratelli una solida preparazione con la frequenza delle più prestigiose università europee, come lui e i suoi "compagni." avevano fatto a Parigi. In seguito, per ovviare alla mediocrità dell'insegnamento impartito nelle università, i Gesuiti, nome con cui più comunemente sono chiamati i componenti della Compagnia di Gesù, cominciarono gradualmente a organizzare corsi di studi da tenere all'interno dei loro collegi che dal 1548 accolsero anche allievi laici provenienti dalla nobiltà e dalla borghesia per preparare la classe dirigente di una società colta e raffinata.
L'aspetto più seducente per i Gesuiti era quello di dedicarsi all'azione missionaria tra gli infedeli e nella stessa Europa. Questa loro azione di evangelizzazione, spesso in contrasto con gli interessi coloniali della Spagna e del Portogallo, provocò la reazione delle corti borboniche che ottennero nel 1773 la soppressione della Compagnia di Gesù, che fu poi ricostituita nel 1814. Con questa "rinascita" l'Ordine riacquistò nuovo vigore e prestigio in seno alla Chiesa. A testimoniare questa nuova vitalità della Compagnia di Gesù fu la fondazione nel 1850 della rivista "La Civiltà Cattolica", che ancora oggi rappresenta l'organo più autorevole del pensiero cattolico.

13 maggio 2010 TERSICORE PAIONCINI

La chiesa di San Martino di Castellonesto.
RELAZIONE STORICO-ARTISTICA

Introduzione
Una particolare attenzione, per conoscere meglio la città di Cagli ed il suo territorio, potremmo rivolgerla al suo passato non privo di potenza e di splendore: lieti infatti si dichiaravano gli imperatori di accordarle protezione, i pontefici di accordarle numerosi privilegi.
I Bizantini, nel VI secolo, dopo la battaglia di Tagina (oggi Gualdo Tadino) del 552 d.C., sono padroni dell’Italia settentrionale e centrale e per esercitare maggior controllo nei loro territori, pongono l’Esarcato a Ravenna creando uno “strategico cordone ombelicale” tra Ravenna e Roma, dove gli arcivescovi osavano contrapporsi ai pontefici romani. Inoltre, per difendersi dagli insediamenti gotici-longobardi, essi fortificarono un tratto della via consolare Flaminia con agguerriti baluardi, quindi con castelli, chiese,…

Castellonesto e la chiesa di San Martino
visti dal monte Donico
Primo fra i tanti, ed il più potente, si presenta Castellonesto con la relativa chiesa di San Martino; ambedue meritano di essere illustrati per la loro remota antichità e ragguardevole importanza.
Il Castello è nominato come “castellum S. Martini” dal biografo del pontefice Stefano II, nel 756, nell’elenco dei centri restituiti (compreso Callis) dal re longobardo Astolfo al Pontefice e più tardi, nel 776, “nei diplomi di donazione” da parte del re Pipino il Breve, sempre alla Chiesa.
Secondo lo storico G.Buroni, la chiesa di San Martino sarebbe stata costruita nel periodo bizantino e avrebbe dato poi nome al Castello stesso (Castellum S. Martini). È da ricordare poi che nella diocesi di Cagli, in quel periodo, le chiese dedicate ai più celebri santi venerati a Ravenna erano diverse, come Sant’Apollinare, San Vitale, San Severo, San Martino.

Breve storiografia del Castello
Il Castello dovette assumere il nome di Castellonesto nel momento in cui venne in mano alla famiglia Onesti di Ravenna, proprietari di varie terre nell’Esarcato (San Romualdo, fondatore di eremi nella nostra diocesi attorno al Mille, era della famiglia degli Onesti).
A questa potente e ricca famiglia andrebbe ricondotta quella “Sophoneste feminae“ oggetto di una Bolla di scomunica da parte del Pontefice Giovanni VIII nell’881-882, quando la ricca ereditiera, vedova Sofonesta, progettò di convolare a nuove nozze con un “forestiero” estraneo ai nobili casati locali.
Secondo lo storico A. Gucci (1596-1678) il motivo della Bolla potrebbe essere stato politico poiché era il tempo in cui l’aristocrazia laicale locale (che comprendeva larghi possedimenti terrieri) e tanto più quella “straniera” non appartenente alla Chiesa, potevano esercitare facoltà di giurisdizione sui sudditi e quindi potevano sorgere pericoli ai danni della supremazia della Chiesa stessa.
Castellonesto sarebbe entrato come feudo nel clan ghibellino dei Mastini con i fatti d’arma del 1162, anno in cui Federico Barbarossa assediò la città di Cagli. La famiglia Mastini era perlopiù una famiglia di guerrieri e di capitani che seppero prestare appropriatamente i loro servizi agli stessi Montefeltro. Già nel 1290 un ramo possedeva il castello di Massa; nel 1388 il castello di Naro era in possesso di Nolfo Mastini che sposò Calepretissa, sorella del conte Antonio da Montefeltro. Di qui nascono i riferimenti allo stemma di famiglia.
Nel 1446 Castellonesto fa atto di giuramento al Comune di Cagli. Nel 1500 non mancano però gli screzi tra gli abitanti del Castello e l’Autorità comunale: il Gucci riporta la “non gradita iniziativa” di un certo Sabbatino Garota verso il Comune. A costui si revocava la cittadinanza cagliese e lo si dichiarava “indegno assieme ai suoi figli”. Inoltre viene sottolineata la facoltà data dallo stesso Comune, di vendere carne al macello di Castellonesto.
Amava, il Duca di Urbino, venire a cacciare a Cagli: la “lepre” in Magliano dove era la bandita e la “porca” nella Corte di Castellonesto.
Alla fine del 1500 il Castello, con molti fondi limitrofi, dai Mastini va in possesso alla famiglia Buroni. Era questa una nobile famiglia, proveniente da Macerata, la cui origine risale al XIII sec. e che si sparse un po’ in tutta l’Italia e quindi nelle Marche.
I ruderi del Castello furono abbattuti nel 1910; rimane in piedi un solo fianco dell’antico splendido portale ed un muro di notevole spessore che è inglobato superbamente nell’attuale abitazione di un ramo della famiglia Buroni.

Breve storia della Chiesa di San Martino.
Riprendendo l’origine bizantina della Chiesa è da rilevare un documento che ne qualifica la sua importanza: nel “privilegio” del 1144 concesso dal pontefice Lucio II al monastero di Sant’Apollinare in Classe di Ravenna, si fa riferimento alla chiesa di “S.Martini cum castro sibi subiacente, cum capellis, villis et omnibus sibi pertinentibus”.

Veduta della chiesa di San Martino. Sullo sfondo il
Monte Donico, oltre la sottostanta via Flaminia.

La Chiesa è poi menzionata sia in un documento del 1299 riguardante le “decime” da pagare, quanto nel 1339 nell’elenco delle chiese cagliesi del Liber Appassatus (libro di estimo delle proprietà ecclesiastiche). Fu abitualmente governata da un canonico della Cattedrale di Cagli.
Nel 1562, per volontà del vescovo di Cagli, il cardinale di Marsiglia Cristoforo del Monte, la parrocchia di San Martino diveniva ”prebenda canonicale” e a questa si univano redditi e benefici provenienti da terreni e case. Il primo canonico prebendato fu il nobile Camillo Bonclerici e molti canonici prebendati appartenevano a famiglie nobili cagliesi.
Nel 1500 la Chiesa venne più volte restaurata e ridipinta con affreschi che si sovrapponevano a quelli più antichi, forse del 1400.
Nel 1807 il vescovo Alfonso Cingari invita il canonico Domenico Benincasa a restaurare la Chiesa con l’altare in isola e vano per il Corpo Santo che verrà deposto nel 1825 e a cui verrà imposto il nome di San Liberato.
Nel 1929 monsignor Venturi separa la parrocchia dal canonicato a prebenda e vengono così due beni distinti che verranno in parte anche venduti.

Descrizione della Chiesa

Esternamente la Chiesa ha il tetto a capanna. A sinistra si nota un antico accesso con arco leggermente rialzato e un’antica piccola monofora mediovale, residuo di altre. Nel 1997 all’abside, esternamente, fu addossato uno sperone di sostegno con conci di pietra rosa e corniola. Il campanile a vela è rimaneggiato.
L’interno della chiesa di San Martino di Castellonesto

Internamente l’aula è unica con quattro capriate di legno a vista, poggianti su grandi mensoloni lignei sagomati.
Il pavimento è ottocentesco con cinque lastre tombali delle sepolture e il presbiterio è di poco rialzato. L’abside ha una cornice aggettante che corre lungo la linea d’imposta del catino semicircolare, interrotta dalle due lunette contenenti gli oculi. Ci sono residui di affreschi con incisa la scritta: “Questa figura ha facto fare Berto de…1509”.
Alla parete destra della Chiesa ci sono frammenti di affreshi fatti eseguire dal vescovo Paolo Mario della Rovere nel 1573 e si possono identificare la figura di San Giovanni Battista, di San Cristoforo, della Vergine col Bambino, inoltre un superbo Angelo o forse un Santo Stefano (indossa la dalmatica), un monaco con l’aureola (forse più antico), San Sebastiano e San Rocco. Questi affreschi di autore ignoto risultano di una elevata qualità pittorica, sono racchiusi in spazi geometrici ed è facile capire che si tratti di figure devozionali di intercessione presso la Vergine e di ex voto. Come detto, alcuni lasciano intravedere segni di pitture più antiche; si potrebbe migliorare la visione del tutto con un accurato restauro.
L’altare maggiore ha la mensa lapidea e l’ornamento in stucco. Sul lato sinistro è la cella per gli oli sacri con un’elegante cornice lapidea di linguaggio tardo seicentesco, con porticina lignea originale. Sulla destra si nota una piccola acquasantiera lapidea e l’accesso alla sagrestia sormontato da una gelosia (grata) e un curioso lavabo lapideo.
L’altare con la pala dipinta ad olio è dedicato a San Vincenzo de’ Paoli, è opera del canonico Amatori e porta la data del 1856.
Alla parete sinistra si notano nell’intonaco segni di antica nicchia. Nella controfacciata sono un’acquasantiera lapidea e un fonte battesimale con la data del committente don Gottardo Buroni del 1944.

La chiesetta di San Liberato
Non si conoscono le origini; anticamente apparteneva al Castello e poi agli uomini del Castello. Secondo lo storico don Gottardo Buroni nasce come piccolo oratorio ed era dedicata a Santa Caterina. Fu più volte restaurata e nel campanile fu sistemata nel 1500 la campana del Castello, risalente al 1313. Nel 1731 prese il nome di San Liberale o Liberato. Un romito l’ufficiava. Sotto il portico nel 1930 fu messo lo stemma dei Mastini, antichi feudatari di Castellonesto. Il quadro che si venera rappresenta Santa Caterina di Alessandria, la Madonna col Bambino, San Martino vescovo e San Liberato. Si dice dipinto da Antonio Conti di Acqualagna nella seconda metà dell’Ottocento.
San Liberato si festeggia il 17 agosto. Prerogativa della famiglia Buroni (*) è l’organizzazione della festa.

(*) Nota
Nel Seicento Vittoria Buroni sposò Domenico Pierleoni del Montione, membro di una piccola nobile famiglia feudataria locale, mantenendo il suo cognome che risultò Buroni-Pierleoni. In seguito a questo, ai Buroni passò l’appellativo “del Montione”. Nel Settecento i Buroni possedevano ancora numerosi terreni: Castellonesto, il Montione, la Genga, Risecco, l’Ara Vecchia, Pigno, Drogo e alcune terre di Pian di Donico.
Un Pierleoni, nel 1548, era pittore e risultò fra i primi maestri del grande pittore urbinate Federico Barocci.
Maria Vittoria Buroni (1756 – 1819) è dichiarata per tradizione “Beata” dai parenti, perché era una santa donna che splendette per virtù cristiane per il suo amore verso il prossimo. Faceva penitenza (digiuni, contemplazioni e cilicio) nella “celletta” della sua casa paterna. Si recò a Rocca Leonella presso un nipote canonico e ivi morì. Le sue spoglie riposano nella chiesa di Santa Maria di Piobbico.



Bibliografia essenziale
G.Buroni – La diocesi di Cagli. – Urbania 1943
G.Buroni – Castellonesto e la Bolla di Giovanni VIII – Cagli 1930
A.Mazzacchera – Comuni e Castelli Catria-Nerone – Pesaro 1990
A.Mazzacchera – Il forestiere in Cagli – Urbania 1997G.Palazzini – Pievi e parrocchi

10 maggio 2010 CARLO MIGANI

I PITTORI GARIBALDINI
L’11 Maggio 1860, 150 anni fa, un piccolo esercito di ardimentosi sbarcava sulle spigge di Marsala da due vecchi Piroscafi appena capaci di tenere il Mare: Il Lombardo ed il Piemonte. Il numero totale di costoro, compreso il loro comandante Giuseppe Garibaldi, era di 1089 persone, tutti maschi eccetto la famosa ROSALIA MONTMASSON, moglie di quel Francesco CRISPI che sarebbe poi diventato primo ministro del Regno d’Italia. Appartenti alle più diverse classi sociali della penisola, in maggioranza lombardi, Piemontesi e Veneti, ma anche Romagnoli, Toscani, Liguri, Umbri, Siciliani, costoro si arruolarono tutti con grande entusiasmo per restituire all’Italia, Una, Grande, Indivisibile, l’ unitarietà politica e geografica che mai aveva posseduto. Quella che Von Metternich affermava essere solo una espressione geografica stava per diventare una unica nazione. Ecco il numero per regioni:


LOMBARDIA 435 -UMBRIA 5 - CAMPANIA 17
LIGURIA 163 (incl. Nizzardi) MARCHE 11 CALABRIA 18
VENETO 151 LAZIO 9 PUGLIA 4
TOSCANA 82 ABRUZZO 1 BASILICATA 1
EMILIA ROM. 39 - SICILIA 12
PIEMONTE 29 SARDEGNA 3
TRENTINO A.A. 12 FRIULI 21

Si apprende che v’erano
60 POSSIDENTI
50 INGEGNERI
150 AVVOCATI
100 MEDICI
20 FARMACISTI
per un totale di 380. Il resto dei mestieri era distribuito tra militari, artigiani, contadini, studenti e semplici cittadini con altri mestieri.

1/3 proveniva dalla Provincia di BERGAMO. Il più giovane era Giuseppe MARCHETTI di Chioggia, non ancora undicenne, al seguito del padre LUIGI.


Tutto in contrapposizione alla volontà al desiderio nascosto di quel monarca francofono savoiardo che avrebbe preferito lasciare tutto allo status quo dei fatti senza togliere il regno a quello che ancora l’8 maggio 1860 chiamava “ cugino” e che non avrebbe in alcun modo voluto scontentare. Il suo Primo Ministro, quel conte di Cavour retrivo conservatore piemontese, che non aveva esitato ad infilare nel letto di Napoleone III la cugina, contessa di Castiglione, per raggiungere i suoi scopi che erano poi quelli di poter conseguire solo la parte “migliore” dell’Italia, quel nord produttivo che meglio conosceva e che in ogni caso non avrebbe potuto deludere senza rischiare una rivolta repubblicana che avrebbe potuto mettere in dubbio la stabilità stessa dello stato monarchico piemontese, si adoperò in ogni modo per far fallire l’impresa. Avallò molto velocemente l’operato del governatore della città di Milano, quel Massimo d’Azeglio savoiardo che fece sequestrare tutti gli ottimi fucili Enfield di ultima generazione che Garibaldi era riuscito a comperare con sottoscrizione internazionale per poi far avere, tramite intercessione del garibaldino Giuseppe La Farina, un migliaio di vecchi fucili al generale. Dà ordine all’ammiraglio Persano di impedire comunque lo sbarco dei garibaldini in Sardegna e che seguissero i due velieri da vicino in modo di poterli in qualsiasi caso bloccare.
Il 5 maggio, comunque (data scelta a caso?) i 1000 si imbarcarono presso Genova, a Quarto.
Fra loro questi ed altri pittori, i pittori garibaldini:

Alessandro Pavia
Celestino Turletti
Heinrich Gerhardt
Gerolamo Induno
Luigi Cauda
Antonino Gandolfo
Giuseppe Ghedina
Giuseppe Abbati
Francesco Lo Jacono
Sebastiano De Albertis

6 maggio 2010 GIANLUCA RAGGI

Implantologia: una rivoluzione in odontoiatria.


(pagina in costruzione)

29 aprile 2010 ANNA MARIA BENEDETTI PIERETTI

Visita guidata al Museo Civico di Pesaro

Per una interessante rivisitazione delle opere viste con la Prof.ssa Pieretti si rimanda al sito del museo dove, nella pagina intitolata "le sezioni", sotto le voci "pinacoteca" "museo delle ceramiche" e "arti decorative", si trovano anche le immagini delle opere esposte, sala per sala :