IL PENSARE DI PAOLO
Credo di poter introdurre il nostro lavoro riportando una puntualizzazione che Giuseppe Barbaglio scrive nel suo libro “Il pensare dell’apostolo Paolo”, EDB, p.15-16:
“…il Paolo pensatore è prevenuto dal Paolo credente, che confessa con la sua bocca e crede nel suo cuore che Dio con gesto salvifico è intervenuto "una volta per tutte", vale a dire in maniera decisiva e definitiva, a favore dell’umanità mediante Cristo morto, risorto e venturo. Il riferimento è allo stesso Dio della tradizione giudaica che ne ha trasmesso, vergate nelle Scritture sacre, le gesta a favore del popolo d’Israele; ma tale storia salvifica è vista da lui con occhi cristiani, cioè come promessa e profezia della salvezza finale. Perciò non possiamo dire che il suo sia un pensare filosofico, interessato alle verità eterne e sostenuto, in tutto e solo, dalle risorse della ragione umana: egli riflette con la sua mente su un evento soprannaturale creduto e confessato. E sotto questo aspetto appare assai diverso da Gesù, come annota Foessel: "Là dove Gesù ha predicato, Paolo ha teorizzato"[1]. In breve, la razionalità non gli ha fatto difetto, una razionalità però tutta interna alla stanza della fede.”.
Possiamo considerare Paolo non un “pensatore” secondo i canoni greci ma un credente che, nella piena e consapevole confessione di fede nel Cristo Gesù, elabora il messaggio dello stesso, maturandolo lungo il percorso apostolico che lo pone a contatto diretto con il mondo pagano e la sua cultura assolutamente aliena da quella giudaica.
A questo mondo egli si rivolge orgoglioso del suo ruolo di evangelizzatore: Ben consapevole di cosa sia il Vangelo, Paolo giunge a predicarlo persino nella città capitale del mondo civilizzato, Roma, mondo che egli considera una grandiosa attenuazione del vero. Nel suo annuncio egli pone in evidenza che il Vangelo non è solo un messaggio o una filosofia, o un sistema di pensiero che va imparato. Esso è il “racconto della croce”[2] che è la rivelazione della potenza di Dio[3] che esprime la dynamis con la quale Dio influisce sul corso della storia degli uomini.
E’ questa fede che Paolo vive e annuncia, dialogando con la gentilità che egli va via via scoprendo come luogo in cui lo Spirito del Cristo risorto opera in modo misteriosamente evidente, riempiendo lui stesso e il compagno Barnaba di meraviglia per ”tutti i prodigi e i miracoli che Dio aveva fatto per opera loro in mezzo ai Gentili” [4].
Ma il suddetto dialogo e la scoperta dell’azione positiva del Vangelo nei confronti di coloro che non conoscono la legge mosaica e quindi non ne vivono le prescrizioni, va affrancando sempre più da essa il suo pensiero, anche se ad essa fa continuo riferimento proprio per dimostrarne il superamento. E’ anche per l’apostolo un lungo cammino che lo porta da visioni ancora “giudaiche” o addirittura legate all’apocalittica giudaica, a dimensioni squisitamente pneumatiche, nelle quali lo Spirito dei liberi figli di Dio opera nella pienezza del suo potere salvifico manifestato nei confronti di tutta l’umanità e di tutta la creazione con essa solidale[5].
E’ questa “scoperta” che fa di Paolo il protagonista del “Concilio di Gerusalemme”[6] che apre la Chiesa, dove i Dodici stavano ancora riuniti, alla novità del messaggio universale al quale Pietro si era già timidamente affacciato nell’incontro con il pagano romano Cornelio[7] e del quale aveva dovuto rispondere alla comunità scandalizzata di Gerusalemme.
Dobbiamo certo pensare a quanto abbia influito sul pensiero di Paolo l’impatto con il mondo pagano, e quanto questo lo abbia sollecitato nella sua elaborazione epistolare.
Rifacciamoci al suo primo incontro in Antiochia di Siria.
Dagli Atti degli Apostoli[8] apprendiamo come Barnaba sia giunto in Antiochia di Siria, quale inviato degli Apostoli risiedenti in Gerusalemme. Antiochia era un autentico nodo culturale tra Medioriente e Occidente, una nuova Alessandria. In essa era presente una forte Sinagoga. Lì si erano rifugiati molti giudei cristiani sfuggiti alla persecuzione sollevata dal Sinedrio in Giudea e questi evevano annunciato il Signore Gesù anche ai Greci. La notizia della adesione di questi alla fede in Gesù giunse a Gerusalemme e da lì fu inviato Barnaba per confermarli e sostenerli nel nuovo cammino. Barnaba era uomo saggio. Si è trovato a confronto con un mondo che non conosceva, totalmente “altro” da quello ebraico da cui proveniva, assolutamente estraneo alle tradizioni e prescrizioni mosaiche, depositario di una grande cultura deduttiva e dunque opposta a quella induttiva semitica. Come affrontare quella realtà totalmente nuova e impensabile per un ebreo? Barnaba pensò all’uomo che poteva farlo perché conoscitore di entrambe le culture: Saulo di Tarso.
Questi, dopo la “crisi” di Damasco si era ritirato nel silenzio e nella meditazione per poter comprendere in qual modo Gesù di Nazaret aveva realizzato l’attesa messianica. A Tarso Barnaba lo ha cercato, trovato e condotto ad Antiochia dove il “giudeo” Saulo ha iniziato la sua predicazione, mettendosi in attento ascolto dell’azione nuova dello Spirito tra quei fedeli di origine tanto diversa. Egli conosceva la loro lingua e la loro cultura e ciò gli era di grande aiuto per un’attenta “predicazione” del Cristo che egli voleva sapientemente incarnare nella gentilità, pur rimanendo radicato nella sua matrice giudaica da lui comunque “riletta” con una dinamica cristologica che lo ha reso ermeneuta originale.
Nelle lettere di Paolo ritroviamo reminiscenze apocalittiche proprie del mondo ebraico, che via via si sono trasformate in teologia pneumatica. Incontriamo citazioni numerosissime dei testi della Prima Alleanza riletti e commentati in modi sorprendentemente cristologici, con quella libertà metodologica che proprio nelle scuole rabbiniche trovava il suo fondamento.
Di particolare interesse, ad esempio, sono le sue “riletture”[9] del libro di Abramo[10].
Commentando questa pagina, un esegeta come J.A.Fitzmyer, S.J.[11] affaccia l’ipotesi che possa essere stata la metafora di un madre a suggerire a Paolo lo sviluppo midrascico (interpretativo) del racconto della Genesi. Si tratta di un’allegoria su Sara, la madre del vero erede, Isacco.
Paolo dice che “Abramo ebbe due figli”: Ismaele nato da Agar, la schiava egiziana e Isacco nato dalla moglie Sara, ignorando i sei figli avuti dall’altra moglie Chetura[12]. D’altra parte egli stesso si preoccupa di precisare espressamente che le figure del racconto della Genesi hanno per lui un significato più profondo di quello storico (allegorèo): Agar rappresenta il Patto del Sinai, Sara quello stipulato con Abramo. I Giudei sono liberissimi di gloriarsi del Patto del Sinai, ma per Paolo esso “rese schiavi” tutti i figli nati da Abramo “secondo la carne” come il figlio di Agar nato nella schiavitù. Ma i cristiani possono vantarsi della vera Alleanza stipulata da Dio con Abramo, perché essi sono figli di Abramo “in virtù della promessa” come il figlio di Sara “senza legge” e libero. Dal Sinai infatti venne la legge che rende schiavi: “un patto che viene dal Monte Sinai…., ed è Agar”. “Il Monte Sinai infatti è nell’Arabia e corrisponde alla Gerusalemme attuale” la cui lettura è anche: “Ora Agar significa il Monte Sinai nell’Arabia”. Nell’intento di porre l’accento sul concetto che la schiavitù introdotta dalla legge era la condizione del figlio ripudiato di Abramo, Paolo identifica Agar con l’Alleanza del Sinai e con la “Gerusalemme attuale”. La sottolineatura geografica vuole spiegare in che modo Agar, benché legata a un luogo sacro situato al di fuori della terra promessa, possa essere identificata con la “Gerusalemme attuale”. Geograficamente Agar rappresenta un luogo dell’Arabia e anche in tal caso essa simboleggia la schiavitù e perciò corrisponde a Gerusalemme. Ma perché Paolo menziona l’Arabia? Forse perché il Monte Sinai si trova nell’Arabia, cioè nel territorio degli islamici così genericamente indicato: in tal modo egli associa il patto del Sinai con il patriarca delle tribù arabe, Ismaele[13], insinuando così l’idea che la legge ha avuto origine da una situazione estrinseca alla terra promessa e ai veri discendenti di Abramo. Possiamo capire l’opinione che il mondo ebraico esprime nei confronti di Paolo il quale, tra l’altro, costruisce questo argomento proprio secondo il metodo delle scuole rabbiniche.
Sempre in questa linea di paragone vengono confrontate le “due Gerusalemme”: quella “attuale” e quella “dall’alto” ed è logicamente Sara la donna che rappresenta la “celeste”, con la sua discendenza, cioè con i figli liberi di Abramo. Perciò Paolo applica alla Sara allegorizzata le parole con le quali Isaia invita Sion a gioire per il ritorno degli esiliati[14]. I cristiani devono gioire per la libertà dei loro figli.
Paolo inoltre cita le parole di Sara “manda via la schiava e suo figlio” come se fossero parole di Dio. Forzando il testo egli invita i lettori (i Galati) a mandare via i giudaizzanti in ossequio alla Torah (la cosa è piuttosto ironica) al fine di proclamare quella libertà annunciata dalla stessa Prima Alleanza che conferma il compiersi nel Cristo della nuova libertà di Dio.
Il testo citato ci permette di comprendere meglio quanto dicevamo sopra riguardo alla diversità della predicazione di Paolo da quella dei Vangeli, o meglio di Gesù “interpretato” dai Vangeli.
Del resto le lettere di Paolo ci dicono sempre la sua preoccupazione di rispondere alle situazioni concrete delle Chiese a cui sono dirette e queste sue risposte partono sempre dal fondamento graniticamente cristologico della sua fede che va maturando con una riflessione provocata costantemente dai contesti sociali, culturali e religiosi delle Chiese stesse. Spesso sono episodi assai contingenti, assolutamente locali, che sollecitano in lui argomentazioni dottrinali che poi acquisteranno valore normativo per la Chiesa Universale.
L’unica lettera che non ha preoccupazioni contingenti è quella diretta ai Romani, tra i quali non era ancora arrivato e dei quali aveva solo notizie riportate da chi, come Aquila, aveva dovuto abbandonare Roma in seguito all’Editto di Claudio (50 d.C.)[15]. Perciò questa lettera, con la quale Paolo intendeva presentarsi ai Romani prima di raggiungerli, è uno straordinario compendio della sua teologia maturata in quegli anni tra il 51 e il 58.
Ecco dunque perché credo opportuno non considerare i testi paolini “un trattato” da usare come luogo teologico cui attingere isolando a nostro uso alcune frasi: occorre invece, guidati dal metodo della sinossi, leggere, di una tematica da lui trattata, quanto di essa ha detto prima e quanto dopo, cogliendo spesso la sua sorprendente capacità di approfondimento, tale che alle volte sembra addirittura contraddire il già detto. Non è contraddizione ma autentica capacità di lasciarsi guidare dallo Spirito che conduce la sua disponibilità all’evolversi del pensiero.
Credo di poter introdurre il nostro lavoro riportando una puntualizzazione che Giuseppe Barbaglio scrive nel suo libro “Il pensare dell’apostolo Paolo”, EDB, p.15-16:
“…il Paolo pensatore è prevenuto dal Paolo credente, che confessa con la sua bocca e crede nel suo cuore che Dio con gesto salvifico è intervenuto "una volta per tutte", vale a dire in maniera decisiva e definitiva, a favore dell’umanità mediante Cristo morto, risorto e venturo. Il riferimento è allo stesso Dio della tradizione giudaica che ne ha trasmesso, vergate nelle Scritture sacre, le gesta a favore del popolo d’Israele; ma tale storia salvifica è vista da lui con occhi cristiani, cioè come promessa e profezia della salvezza finale. Perciò non possiamo dire che il suo sia un pensare filosofico, interessato alle verità eterne e sostenuto, in tutto e solo, dalle risorse della ragione umana: egli riflette con la sua mente su un evento soprannaturale creduto e confessato. E sotto questo aspetto appare assai diverso da Gesù, come annota Foessel: "Là dove Gesù ha predicato, Paolo ha teorizzato"[1]. In breve, la razionalità non gli ha fatto difetto, una razionalità però tutta interna alla stanza della fede.”.
Possiamo considerare Paolo non un “pensatore” secondo i canoni greci ma un credente che, nella piena e consapevole confessione di fede nel Cristo Gesù, elabora il messaggio dello stesso, maturandolo lungo il percorso apostolico che lo pone a contatto diretto con il mondo pagano e la sua cultura assolutamente aliena da quella giudaica.
A questo mondo egli si rivolge orgoglioso del suo ruolo di evangelizzatore: Ben consapevole di cosa sia il Vangelo, Paolo giunge a predicarlo persino nella città capitale del mondo civilizzato, Roma, mondo che egli considera una grandiosa attenuazione del vero. Nel suo annuncio egli pone in evidenza che il Vangelo non è solo un messaggio o una filosofia, o un sistema di pensiero che va imparato. Esso è il “racconto della croce”[2] che è la rivelazione della potenza di Dio[3] che esprime la dynamis con la quale Dio influisce sul corso della storia degli uomini.
E’ questa fede che Paolo vive e annuncia, dialogando con la gentilità che egli va via via scoprendo come luogo in cui lo Spirito del Cristo risorto opera in modo misteriosamente evidente, riempiendo lui stesso e il compagno Barnaba di meraviglia per ”tutti i prodigi e i miracoli che Dio aveva fatto per opera loro in mezzo ai Gentili” [4].
Ma il suddetto dialogo e la scoperta dell’azione positiva del Vangelo nei confronti di coloro che non conoscono la legge mosaica e quindi non ne vivono le prescrizioni, va affrancando sempre più da essa il suo pensiero, anche se ad essa fa continuo riferimento proprio per dimostrarne il superamento. E’ anche per l’apostolo un lungo cammino che lo porta da visioni ancora “giudaiche” o addirittura legate all’apocalittica giudaica, a dimensioni squisitamente pneumatiche, nelle quali lo Spirito dei liberi figli di Dio opera nella pienezza del suo potere salvifico manifestato nei confronti di tutta l’umanità e di tutta la creazione con essa solidale[5].
E’ questa “scoperta” che fa di Paolo il protagonista del “Concilio di Gerusalemme”[6] che apre la Chiesa, dove i Dodici stavano ancora riuniti, alla novità del messaggio universale al quale Pietro si era già timidamente affacciato nell’incontro con il pagano romano Cornelio[7] e del quale aveva dovuto rispondere alla comunità scandalizzata di Gerusalemme.
Dobbiamo certo pensare a quanto abbia influito sul pensiero di Paolo l’impatto con il mondo pagano, e quanto questo lo abbia sollecitato nella sua elaborazione epistolare.
Rifacciamoci al suo primo incontro in Antiochia di Siria.
Dagli Atti degli Apostoli[8] apprendiamo come Barnaba sia giunto in Antiochia di Siria, quale inviato degli Apostoli risiedenti in Gerusalemme. Antiochia era un autentico nodo culturale tra Medioriente e Occidente, una nuova Alessandria. In essa era presente una forte Sinagoga. Lì si erano rifugiati molti giudei cristiani sfuggiti alla persecuzione sollevata dal Sinedrio in Giudea e questi evevano annunciato il Signore Gesù anche ai Greci. La notizia della adesione di questi alla fede in Gesù giunse a Gerusalemme e da lì fu inviato Barnaba per confermarli e sostenerli nel nuovo cammino. Barnaba era uomo saggio. Si è trovato a confronto con un mondo che non conosceva, totalmente “altro” da quello ebraico da cui proveniva, assolutamente estraneo alle tradizioni e prescrizioni mosaiche, depositario di una grande cultura deduttiva e dunque opposta a quella induttiva semitica. Come affrontare quella realtà totalmente nuova e impensabile per un ebreo? Barnaba pensò all’uomo che poteva farlo perché conoscitore di entrambe le culture: Saulo di Tarso.
Questi, dopo la “crisi” di Damasco si era ritirato nel silenzio e nella meditazione per poter comprendere in qual modo Gesù di Nazaret aveva realizzato l’attesa messianica. A Tarso Barnaba lo ha cercato, trovato e condotto ad Antiochia dove il “giudeo” Saulo ha iniziato la sua predicazione, mettendosi in attento ascolto dell’azione nuova dello Spirito tra quei fedeli di origine tanto diversa. Egli conosceva la loro lingua e la loro cultura e ciò gli era di grande aiuto per un’attenta “predicazione” del Cristo che egli voleva sapientemente incarnare nella gentilità, pur rimanendo radicato nella sua matrice giudaica da lui comunque “riletta” con una dinamica cristologica che lo ha reso ermeneuta originale.
Nelle lettere di Paolo ritroviamo reminiscenze apocalittiche proprie del mondo ebraico, che via via si sono trasformate in teologia pneumatica. Incontriamo citazioni numerosissime dei testi della Prima Alleanza riletti e commentati in modi sorprendentemente cristologici, con quella libertà metodologica che proprio nelle scuole rabbiniche trovava il suo fondamento.
Di particolare interesse, ad esempio, sono le sue “riletture”[9] del libro di Abramo[10].
Commentando questa pagina, un esegeta come J.A.Fitzmyer, S.J.[11] affaccia l’ipotesi che possa essere stata la metafora di un madre a suggerire a Paolo lo sviluppo midrascico (interpretativo) del racconto della Genesi. Si tratta di un’allegoria su Sara, la madre del vero erede, Isacco.
Paolo dice che “Abramo ebbe due figli”: Ismaele nato da Agar, la schiava egiziana e Isacco nato dalla moglie Sara, ignorando i sei figli avuti dall’altra moglie Chetura[12]. D’altra parte egli stesso si preoccupa di precisare espressamente che le figure del racconto della Genesi hanno per lui un significato più profondo di quello storico (allegorèo): Agar rappresenta il Patto del Sinai, Sara quello stipulato con Abramo. I Giudei sono liberissimi di gloriarsi del Patto del Sinai, ma per Paolo esso “rese schiavi” tutti i figli nati da Abramo “secondo la carne” come il figlio di Agar nato nella schiavitù. Ma i cristiani possono vantarsi della vera Alleanza stipulata da Dio con Abramo, perché essi sono figli di Abramo “in virtù della promessa” come il figlio di Sara “senza legge” e libero. Dal Sinai infatti venne la legge che rende schiavi: “un patto che viene dal Monte Sinai…., ed è Agar”. “Il Monte Sinai infatti è nell’Arabia e corrisponde alla Gerusalemme attuale” la cui lettura è anche: “Ora Agar significa il Monte Sinai nell’Arabia”. Nell’intento di porre l’accento sul concetto che la schiavitù introdotta dalla legge era la condizione del figlio ripudiato di Abramo, Paolo identifica Agar con l’Alleanza del Sinai e con la “Gerusalemme attuale”. La sottolineatura geografica vuole spiegare in che modo Agar, benché legata a un luogo sacro situato al di fuori della terra promessa, possa essere identificata con la “Gerusalemme attuale”. Geograficamente Agar rappresenta un luogo dell’Arabia e anche in tal caso essa simboleggia la schiavitù e perciò corrisponde a Gerusalemme. Ma perché Paolo menziona l’Arabia? Forse perché il Monte Sinai si trova nell’Arabia, cioè nel territorio degli islamici così genericamente indicato: in tal modo egli associa il patto del Sinai con il patriarca delle tribù arabe, Ismaele[13], insinuando così l’idea che la legge ha avuto origine da una situazione estrinseca alla terra promessa e ai veri discendenti di Abramo. Possiamo capire l’opinione che il mondo ebraico esprime nei confronti di Paolo il quale, tra l’altro, costruisce questo argomento proprio secondo il metodo delle scuole rabbiniche.
Sempre in questa linea di paragone vengono confrontate le “due Gerusalemme”: quella “attuale” e quella “dall’alto” ed è logicamente Sara la donna che rappresenta la “celeste”, con la sua discendenza, cioè con i figli liberi di Abramo. Perciò Paolo applica alla Sara allegorizzata le parole con le quali Isaia invita Sion a gioire per il ritorno degli esiliati[14]. I cristiani devono gioire per la libertà dei loro figli.
Paolo inoltre cita le parole di Sara “manda via la schiava e suo figlio” come se fossero parole di Dio. Forzando il testo egli invita i lettori (i Galati) a mandare via i giudaizzanti in ossequio alla Torah (la cosa è piuttosto ironica) al fine di proclamare quella libertà annunciata dalla stessa Prima Alleanza che conferma il compiersi nel Cristo della nuova libertà di Dio.
Il testo citato ci permette di comprendere meglio quanto dicevamo sopra riguardo alla diversità della predicazione di Paolo da quella dei Vangeli, o meglio di Gesù “interpretato” dai Vangeli.
Del resto le lettere di Paolo ci dicono sempre la sua preoccupazione di rispondere alle situazioni concrete delle Chiese a cui sono dirette e queste sue risposte partono sempre dal fondamento graniticamente cristologico della sua fede che va maturando con una riflessione provocata costantemente dai contesti sociali, culturali e religiosi delle Chiese stesse. Spesso sono episodi assai contingenti, assolutamente locali, che sollecitano in lui argomentazioni dottrinali che poi acquisteranno valore normativo per la Chiesa Universale.
L’unica lettera che non ha preoccupazioni contingenti è quella diretta ai Romani, tra i quali non era ancora arrivato e dei quali aveva solo notizie riportate da chi, come Aquila, aveva dovuto abbandonare Roma in seguito all’Editto di Claudio (50 d.C.)[15]. Perciò questa lettera, con la quale Paolo intendeva presentarsi ai Romani prima di raggiungerli, è uno straordinario compendio della sua teologia maturata in quegli anni tra il 51 e il 58.
Ecco dunque perché credo opportuno non considerare i testi paolini “un trattato” da usare come luogo teologico cui attingere isolando a nostro uso alcune frasi: occorre invece, guidati dal metodo della sinossi, leggere, di una tematica da lui trattata, quanto di essa ha detto prima e quanto dopo, cogliendo spesso la sua sorprendente capacità di approfondimento, tale che alle volte sembra addirittura contraddire il già detto. Non è contraddizione ma autentica capacità di lasciarsi guidare dallo Spirito che conduce la sua disponibilità all’evolversi del pensiero.
Dom Salvatore Frigerio
[1] M.FOESSEL, Saint Paul,la fondation du cristianisme et ses échos philosophiques, in Esprit n.292(2003), p.81.
[2] 1Cor, 1,18.
[3] Cfr.Rom 1,4.
[4] At 15,12.
[5] Cfr Rom 8,19-23.
[6] At 15,6-29.
[7] At 10.11.
[8] At 11,19-26.
[9] Gal 4,21-31.
[10] Gen 16,1-16; 21,10.
[11] J.A.FITZMYER, S.J., La lettera ai Galati, in Grande commento biblico, Queriniana Brescia, 1974, 1142.
[12] Gen 25,2.
[13] Gen 25,12-18.
[14] Is 54,1.
[15] At 18,2-3.
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