27 aprile 2009 DOM. SALVATORE FRIGERIO

IL PENSARE DI PAOLO

Credo di poter introdurre il nostro lavoro riportando una puntualizzazione che Giuseppe Barbaglio scrive nel suo libro “Il pensare dell’apostolo Paolo”, EDB, p.15-16:
“…il Paolo pensatore è prevenuto dal Paolo credente, che confessa con la sua bocca e crede nel suo cuore che Dio con gesto salvifico è intervenuto "una volta per tutte", vale a dire in maniera decisiva e definitiva, a favore dell’umanità mediante Cristo morto, risorto e venturo. Il riferimento è allo stesso Dio della tradizione giudaica che ne ha trasmesso, vergate nelle Scritture sacre, le gesta a favore del popolo d’Israele; ma tale storia salvifica è vista da lui con occhi cristiani, cioè come promessa e profezia della salvezza finale. Perciò non possiamo dire che il suo sia un pensare filosofico, interessato alle verità eterne e sostenuto, in tutto e solo, dalle risorse della ragione umana: egli riflette con la sua mente su un evento soprannaturale creduto e confessato. E sotto questo aspetto appare assai diverso da Gesù, come annota Foessel: "Là dove Gesù ha predicato, Paolo ha teorizzato"[1]. In breve, la razionalità non gli ha fatto difetto, una razionalità però tutta interna alla stanza della fede.”.
Possiamo considerare Paolo non un “pensatore” secondo i canoni greci ma un credente che, nella piena e consapevole confessione di fede nel Cristo Gesù, elabora il messaggio dello stesso, maturandolo lungo il percorso apostolico che lo pone a contatto diretto con il mondo pagano e la sua cultura assolutamente aliena da quella giudaica.
A questo mondo egli si rivolge orgoglioso del suo ruolo di evangelizzatore: Ben consapevole di cosa sia il Vangelo, Paolo giunge a predicarlo persino nella città capitale del mondo civilizzato, Roma, mondo che egli considera una grandiosa attenuazione del vero. Nel suo annuncio egli pone in evidenza che il Vangelo non è solo un messaggio o una filosofia, o un sistema di pensiero che va imparato. Esso è il “racconto della croce”[2] che è la rivelazione della potenza di Dio[3] che esprime la dynamis con la quale Dio influisce sul corso della storia degli uomini.
E’ questa fede che Paolo vive e annuncia, dialogando con la gentilità che egli va via via scoprendo come luogo in cui lo Spirito del Cristo risorto opera in modo misteriosamente evidente, riempiendo lui stesso e il compagno Barnaba di meraviglia per ”tutti i prodigi e i miracoli che Dio aveva fatto per opera loro in mezzo ai Gentili” [4].
Ma il suddetto dialogo e la scoperta dell’azione positiva del Vangelo nei confronti di coloro che non conoscono la legge mosaica e quindi non ne vivono le prescrizioni, va affrancando sempre più da essa il suo pensiero, anche se ad essa fa continuo riferimento proprio per dimostrarne il superamento. E’ anche per l’apostolo un lungo cammino che lo porta da visioni ancora “giudaiche” o addirittura legate all’apocalittica giudaica, a dimensioni squisitamente pneumatiche, nelle quali lo Spirito dei liberi figli di Dio opera nella pienezza del suo potere salvifico manifestato nei confronti di tutta l’umanità e di tutta la creazione con essa solidale[5].
E’ questa “scoperta” che fa di Paolo il protagonista del “Concilio di Gerusalemme”[6] che apre la Chiesa, dove i Dodici stavano ancora riuniti, alla novità del messaggio universale al quale Pietro si era già timidamente affacciato nell’incontro con il pagano romano Cornelio[7] e del quale aveva dovuto rispondere alla comunità scandalizzata di Gerusalemme.

Dobbiamo certo pensare a quanto abbia influito sul pensiero di Paolo l’impatto con il mondo pagano, e quanto questo lo abbia sollecitato nella sua elaborazione epistolare.
Rifacciamoci al suo primo incontro in Antiochia di Siria.
Dagli Atti degli Apostoli[8] apprendiamo come Barnaba sia giunto in Antiochia di Siria, quale inviato degli Apostoli risiedenti in Gerusalemme. Antiochia era un autentico nodo culturale tra Medioriente e Occidente, una nuova Alessandria. In essa era presente una forte Sinagoga. Lì si erano rifugiati molti giudei cristiani sfuggiti alla persecuzione sollevata dal Sinedrio in Giudea e questi evevano annunciato il Signore Gesù anche ai Greci. La notizia della adesione di questi alla fede in Gesù giunse a Gerusalemme e da lì fu inviato Barnaba per confermarli e sostenerli nel nuovo cammino. Barnaba era uomo saggio. Si è trovato a confronto con un mondo che non conosceva, totalmente “altro” da quello ebraico da cui proveniva, assolutamente estraneo alle tradizioni e prescrizioni mosaiche, depositario di una grande cultura deduttiva e dunque opposta a quella induttiva semitica. Come affrontare quella realtà totalmente nuova e impensabile per un ebreo? Barnaba pensò all’uomo che poteva farlo perché conoscitore di entrambe le culture: Saulo di Tarso.
Questi, dopo la “crisi” di Damasco si era ritirato nel silenzio e nella meditazione per poter comprendere in qual modo Gesù di Nazaret aveva realizzato l’attesa messianica. A Tarso Barnaba lo ha cercato, trovato e condotto ad Antiochia dove il “giudeo” Saulo ha iniziato la sua predicazione, mettendosi in attento ascolto dell’azione nuova dello Spirito tra quei fedeli di origine tanto diversa. Egli conosceva la loro lingua e la loro cultura e ciò gli era di grande aiuto per un’attenta “predicazione” del Cristo che egli voleva sapientemente incarnare nella gentilità, pur rimanendo radicato nella sua matrice giudaica da lui comunque “riletta” con una dinamica cristologica che lo ha reso ermeneuta originale.
Nelle lettere di Paolo ritroviamo reminiscenze apocalittiche proprie del mondo ebraico, che via via si sono trasformate in teologia pneumatica. Incontriamo citazioni numerosissime dei testi della Prima Alleanza riletti e commentati in modi sorprendentemente cristologici, con quella libertà metodologica che proprio nelle scuole rabbiniche trovava il suo fondamento.
Di particolare interesse, ad esempio, sono le sue “riletture”[9] del libro di Abramo[10].
Commentando questa pagina, un esegeta come J.A.Fitzmyer, S.J.[11] affaccia l’ipotesi che possa essere stata la metafora di un madre a suggerire a Paolo lo sviluppo midrascico (interpretativo) del racconto della Genesi. Si tratta di un’allegoria su Sara, la madre del vero erede, Isacco.
Paolo dice che “Abramo ebbe due figli”: Ismaele nato da Agar, la schiava egiziana e Isacco nato dalla moglie Sara, ignorando i sei figli avuti dall’altra moglie Chetura[12]. D’altra parte egli stesso si preoccupa di precisare espressamente che le figure del racconto della Genesi hanno per lui un significato più profondo di quello storico (allegorèo): Agar rappresenta il Patto del Sinai, Sara quello stipulato con Abramo. I Giudei sono liberissimi di gloriarsi del Patto del Sinai, ma per Paolo esso “rese schiavi” tutti i figli nati da Abramo “secondo la carne” come il figlio di Agar nato nella schiavitù. Ma i cristiani possono vantarsi della vera Alleanza stipulata da Dio con Abramo, perché essi sono figli di Abramo “in virtù della promessa” come il figlio di Sara “senza legge” e libero. Dal Sinai infatti venne la legge che rende schiavi: “un patto che viene dal Monte Sinai…., ed è Agar”. “Il Monte Sinai infatti è nell’Arabia e corrisponde alla Gerusalemme attuale” la cui lettura è anche: “Ora Agar significa il Monte Sinai nell’Arabia”. Nell’intento di porre l’accento sul concetto che la schiavitù introdotta dalla legge era la condizione del figlio ripudiato di Abramo, Paolo identifica Agar con l’Alleanza del Sinai e con la “Gerusalemme attuale”. La sottolineatura geografica vuole spiegare in che modo Agar, benché legata a un luogo sacro situato al di fuori della terra promessa, possa essere identificata con la “Gerusalemme attuale”. Geograficamente Agar rappresenta un luogo dell’Arabia e anche in tal caso essa simboleggia la schiavitù e perciò corrisponde a Gerusalemme. Ma perché Paolo menziona l’Arabia? Forse perché il Monte Sinai si trova nell’Arabia, cioè nel territorio degli islamici così genericamente indicato: in tal modo egli associa il patto del Sinai con il patriarca delle tribù arabe, Ismaele[13], insinuando così l’idea che la legge ha avuto origine da una situazione estrinseca alla terra promessa e ai veri discendenti di Abramo. Possiamo capire l’opinione che il mondo ebraico esprime nei confronti di Paolo il quale, tra l’altro, costruisce questo argomento proprio secondo il metodo delle scuole rabbiniche.
Sempre in questa linea di paragone vengono confrontate le “due Gerusalemme”: quella “attuale” e quella “dall’alto” ed è logicamente Sara la donna che rappresenta la “celeste”, con la sua discendenza, cioè con i figli liberi di Abramo. Perciò Paolo applica alla Sara allegorizzata le parole con le quali Isaia invita Sion a gioire per il ritorno degli esiliati[14]. I cristiani devono gioire per la libertà dei loro figli.
Paolo inoltre cita le parole di Sara “manda via la schiava e suo figlio” come se fossero parole di Dio. Forzando il testo egli invita i lettori (i Galati) a mandare via i giudaizzanti in ossequio alla Torah (la cosa è piuttosto ironica) al fine di proclamare quella libertà annunciata dalla stessa Prima Alleanza che conferma il compiersi nel Cristo della nuova libertà di Dio.

Il testo citato ci permette di comprendere meglio quanto dicevamo sopra riguardo alla diversità della predicazione di Paolo da quella dei Vangeli, o meglio di Gesù “interpretato” dai Vangeli.
Del resto le lettere di Paolo ci dicono sempre la sua preoccupazione di rispondere alle situazioni concrete delle Chiese a cui sono dirette e queste sue risposte partono sempre dal fondamento graniticamente cristologico della sua fede che va maturando con una riflessione provocata costantemente dai contesti sociali, culturali e religiosi delle Chiese stesse. Spesso sono episodi assai contingenti, assolutamente locali, che sollecitano in lui argomentazioni dottrinali che poi acquisteranno valore normativo per la Chiesa Universale.
L’unica lettera che non ha preoccupazioni contingenti è quella diretta ai Romani, tra i quali non era ancora arrivato e dei quali aveva solo notizie riportate da chi, come Aquila, aveva dovuto abbandonare Roma in seguito all’Editto di Claudio (50 d.C.)[15]. Perciò questa lettera, con la quale Paolo intendeva presentarsi ai Romani prima di raggiungerli, è uno straordinario compendio della sua teologia maturata in quegli anni tra il 51 e il 58.

Ecco dunque perché credo opportuno non considerare i testi paolini “un trattato” da usare come luogo teologico cui attingere isolando a nostro uso alcune frasi: occorre invece, guidati dal metodo della sinossi, leggere, di una tematica da lui trattata, quanto di essa ha detto prima e quanto dopo, cogliendo spesso la sua sorprendente capacità di approfondimento, tale che alle volte sembra addirittura contraddire il già detto. Non è contraddizione ma autentica capacità di lasciarsi guidare dallo Spirito che conduce la sua disponibilità all’evolversi del pensiero.
Dom Salvatore Frigerio

[1] M.FOESSEL, Saint Paul,la fondation du cristianisme et ses échos philosophiques, in Esprit n.292(2003), p.81.
[2] 1Cor, 1,18.
[3] Cfr.Rom 1,4.
[4] At 15,12.
[5] Cfr Rom 8,19-23.
[6] At 15,6-29.
[7] At 10.11.
[8] At 11,19-26.
[9] Gal 4,21-31.
[10] Gen 16,1-16; 21,10.
[11] J.A.FITZMYER, S.J., La lettera ai Galati, in Grande commento biblico, Queriniana Brescia, 1974, 1142.
[12] Gen 25,2.
[13] Gen 25,12-18.
[14] Is 54,1.
[15] At 18,2-3.

23 aprile 2009 ALBERTO FERRETTI

Cagli dal cielo: dalla geografia alla geologia.

Gli insediamenti umani.Italia centrale, Marche settentrionali, verso il confine con l'Umbria: da Cagli a Pietralunga viaggiate lungo la valle del F. Bosso. È la via più breve per raggiungere la valle del Tevere provenendo dalle regioni dell'Adriatico settentrionale. Non solo. È anche una via facilmente percorribile nel periodo invernale perché i valichi sono sempre a bassa quota e frane e piene non hanno mai rappresentato un grosso ostacolo.
Una via che scoprirono molto presto i nostri antenati che hanno lasciato le tracce della loro esistenza lungo tutto il percorso: dalle selci lavorate trovate nei pressi di Secchiano, alle sepolture d'età appenninica, ai cimeli dell'età del bronzo di Pieia. E poi gli Umbri, i Romani, i monaci avellaniti, che controllarono il traffico della valle costruendovi un eremo, e così via fino a noi.
La montagna umbro-marchigiana è poco popolata (anche meno di 30 abitanti per km2). I centri abitati non salgono oltre i 700 m e raramente superano i 1000. Essi sono per lo più ubicati sulla sommità delle colline o sui fondi delle valli maggiori che sono anche utilizzate dalle principali vie di comunicazione.
Fin dai tempi preistorici, dunque, l'uomo utilizzò le valli fluviali per i suoi spostamenti.
La storia dei primi abitanti del territorio è interessante, ma le conoscenze sono ancora incomplete. Dapprima l'uomo s'insediò probabilmente lungo la fascia costiera delle Marche e solo più tardi nella montagna appenninica sia perché il territorio costiero era più che sufficiente per le sue esigenze, sia perché la montagna in certi periodi era resa inospitale dai ghiacciai.
Nella montagna l'uomo trovò rifugio nelle numerose grotte, selce per costruire i suoi strumenti e le sue armi, abbondanza di animali e di frutti. La montagna, tuttavia, divenne sede di un importante popolamento solo con i pastori della civiltà appenninica che erano costretti a spostarsi con i loro greggi dalla costa ai pascoli montani con migrazioni stagionali. Queste genti, vissute circa 4000 anni fa, lasciarono numerose testimonianze della loro esistenza. Per le esigenze silvopastorali e per gli scambi commerciali utilizzarono le vie naturali rappresentate dalle valli fluviali.
Le gole fluviali, infatti, permettevano di attraversare facilmente la catena e raggiungere la valle del Tevere. Anche oggi esse sono sede di importanti vie di comunicazione: la strada statale Flaminia che va da Roma a Fano; la superstrada Fano-Grosseto (ancora in via di completamento) ed altre strade d'importanza regionale o provinciale che corrono nelle stesse gole percorse dall'uomo preistorico.
Oggi, però, le necessità di un traffico rapido e sicuro provocano troppo spesso la distruzione delle nostre belle gole fluviali che hanno conservato per moltissimo tempo i loro tesori naturali.
Nella valle del F. Bosso, in base alle caratteristiche geografiche del sito, i centri abitati si possono distinguere come:
- centri di fondo valle,
- centri su pendio,
- centri di sommità.
Sono centri di valle:
Cagli, situato su un terrazzo fluviale alla confluenza dei fiumi Bosso e Burano;
Pianello, ubicato allo sbocco della valle del T. Giordano in quella del F. Bosso;
Secchiano, situato in un fondovalle d'erosione.
Sono centri su pendio:
Cerreto, posto sul versante del M. Cimaio,
Moria, Polea e Massa, situati su tratti pianeggianti di altri versanti montuosi.
Fra i centri di sommità c’è Pieia che occupa però una posizione di sella.
I centri abitati si possono classificare anche rispetto alle vie di comunicazione.
La rete stradale delle Marche segue il corso dei fiumi principali nella zona montana o nella bassa pianura; segue invece la sommità delle dorsali nella parte collinare della regione. La rete stradale, pertanto, è di tipo idrografico nella bassa pianura e nella zona montana, mentre nella zona collinare è di tipo orografico.
Con tali criteri possiamo distinguere i centri abitati della valle del F. Bosso in centri stradali, ossia centri allineati lungo una strada, e in centri di crocicchio posti all'incrocio di due o più vie.
Proviamo a descrivere alcuni centri sulla base di queste classificazioni, tenendo conto che oggi essi hanno perduto gran parte delle loro antiche funzioni.
Cagli, ad esempio, aveva una posizione strategica perché posto su un terrazzo fluviale alla confluenza di due fiumi e allo sbocco delle lunghe e profonde gole del F. Burano e del F. Bosso. Centri di questo tipo furono preferiti dall'insediamento umano sia in epoca romana, per la sorveglianza della Flaminia e della Via per la Toscana, sia soprattutto in epoca medioevale quando le ragioni difensive ebbero la prevalenza su tutte le altre e quando perciò la popolazione si raccolse nella parte montana delle valli del F. Metauro e del F. Candigliano. Con i suoi due ponti, uno sul F. Burano ed uno sul F. Bosso, Cagli è al centro di un quadrivio formato dalle vie per Cantiano, Acqualagna, Piobbico (tramite Secchiano) e Pergola; rappresenta, dunque, un notevole centro di crocicchio nella valle del F. Candigliano e quindi del F. Metauro.
Anche Secchiano può essere classificato come un centro determinato dall'intersezione dì strade importanti, specialmente nel passato.
Pianello è un centro posto allo sbocco di un corso d'acqua nella valle principale, ma esso è anche all'estremità di una gola fluviale in posizione tale da dominare gli incroci delle vie di comunicazione o comunque le strade che percorrono la valle. In passato la posizione di tali centri era, in un certo senso, privilegiata perché essi spesso si trovavano nella zona di contatto tra regioni a diversa economia. Le aree lungo l'alveo fluviale, tuttavia, dovevano essere evitate per le scarse condizioni igieniche dovute anche alla lavorazione delle fibre tessili o delle concerie.
Pieia, invece, ha caratteri del tutto differenti essendo un centro di sella. Occupa una selletta fra due poggi calcarei, isolati dall'erosione, nella parte più alta del versante meridionale della Montagnola e cioè in un punto di più facile transito.
Altri elementi aiutano a comprendere ancor meglio la scelta del sito dei centri abitati, in particolare certi loro allineamenti in senso NO-SE. Dal centro principale che caratterizza questi allineamenti possiamo chiamarli: 1) allineamento di Cantiano; 2) allineamento di Piobbico; 3) allineamento di Cagli.
1) L'allineamento di Cantiano comprende: S. Andrea , S. Lorenzo di Carda, Colombara, S. Cristoforo di Carda, Serravalle di Carda, Valdara, Massa, Pianello, Moria, Palcano, Pontedazzo, Cantiano.
2) L'allineamento di Piobbico comprende: Piobbico, Acquanera, Bacciardi, Cardella, Cuppio, Fosto, Secchiano.
3) L'allineamento di Cagli comprende: Orsaiola, Naro, S. Vitale, Cagli, Acquaviva, Paravento.
Tale disposizione perfettamente allineata dei centri abitati deve avere una spiegazione.
Possiamo constatare che S. Cristoforo di Carda, Serravalle, Valdara, Massa, Pianello, Moria, Palcano sono allineate fra loro e stanno tutte sulla Scaglia Cinerea o sulla contigua formazione rocciosa del Bisciaro e più precisamente su ripiani a debole inclinazione.
La stessa cosa succede per Pieve d'Acinelli, Piobbico, Acquanera, Rocca Leonella, Fosto, Secchiano, ed inoltre per Abbadia di Naro, S. Vitale, Cagli, Acquaviva.
I fattori da prendere in considerazione per spiegare l'ubicazione dei centri abitati nella catena del Catria possono allora essere: fattori geologici, geomorfologici, idrografici, pedologici e geografici, questi ultimi in relazione con l'altitudine e con l'esposizione dei versanti.
La struttura geologica delle dorsali montuose è determinante sulla localizzazione dei centri abitati. La catena del Catria, per la sua struttura ad anticlinale, possiede una certa simmetria delle formazioni rocciose che la costituiscono.
I centri abitati stanno per la maggior parte su una striscia rocciosa di Scaglia Cinerea e Bisciaro, quasi sempre a quote basse, ai piedi del M. Nerone, del M. Petrano o del M. Catria.
Non è dunque solo l'altitudine che condiziona l'insediamento, ma un importante fattore è la natura litologica delle montagne. Nel territorio ad occidente d'Apecchio, ad esempio, i centri abitati raggiungono quote molto più alte che nella montagna del Nerone o del Catria perché essi sono ubicati su formazioni di natura diversa.
Il nucleo calcareo della catena appenninica, difficilmente erodibile, è circondato da rocce marnose o arenacee che sono invece facilmente erodibili. Ciò ha determinato la formazione di ripiani orografici che hanno favorito l'insediamento umano.
Le sorgenti hanno avuto una parte determinante sull'ubicazione dei centri abitati.
Nel nostro territorio gli orizzonti acquiferi, ossia le rocce che determinano l'emergenza delle acque e, dunque, le sorgenti, coincidono con le rocce marnosoargillose.
Ebbene gran parte dei nostri centri abitati sorgono su tali rocce e quasi sempre in vicinanza di sorgenti d'acqua. Per di più l'orizzonte sorgentifero principale è situato a quote generalmente basse, intorno ai 500 m, ed è un altro fattore correlabile con la bassa altitudine degli insediamenti.
Bisogna poi osservare che la maggior parte dei centri abitati ha un'esposizione a sud, ossia sono stati preferiti i versanti più caldi, le posizioni a solatio, che favoriscono un più rapido scioglimento delle nevi e migliori condizioni di luce.
Il versante a bacìo è in generale più umido. La quantità di calore solare, infatti, ricevuta dai versanti di una valle può essere molto differente. Il versante esposto a solatio riceve spesso una quantità di calore superiore al doppio rispetto al versante a bacìo.
La conseguenza è che nel versante a solatio il grado d'evaporazione è maggiore e pertanto è minore l'acqua contenuta nel suolo per cui la copertura vegetale è più rada e più povera rispetto a quella dell'altro versante. Tuttavia l'attività agricola si è sviluppata di più sul versante soleggiato rispetto a quello a bacìo dove prevale il bosco.
La presenza di rocce calcaree ostacola lo sviluppo dell'agricoltura perché il terreno calcareo non favorisce la formazione di suoli profondi. Ciò, invece, non avviene con le rocce marnoso-arenacee sulle quali troviamo case sparse, ossia poderi e perciò agricoltura, anche a quote abbastanza elevate.
E' importante rilevare che passando dai terreni più “teneri” di tipo marnoso-arenaceo ai terreni calcarei si doveva cambiare il mezzo di trasporto: sulle rocce tenere era infatti possibile utilizzare il carro con ruote e le strade erano anche abbastanza larghe; sulle rocce calcaree, invece, si doveva utilizzare il trasporto su muli lungo vie strette dette, appunto, mulattiere.
Nel passaggio dalle strade aperte su rocce tenere a quelle aperte su rocce dure dovevano esserci zone di sosta per il cambio del mezzo di trasporto e pertanto in quei punti potevano facilmente sorgere degli edifici, delle abitazioni.
La natura delle rocce, le forme del paesaggio, le sorgenti e i corsi d'acqua, le differenze climatiche dei versanti sono, dunque, fattori che dobbiamo tener presenti se vogliamo comprendere la scelta del posto in cui i nostri antenati costruirono le loro dimore.






Orogenesi appenninicaIl sollevamento della catena appenninica si è realizzato in più tempi procedendo dal M. Tirreno verso l'Adriatico, ossia da ovest verso est. Questa affermazione è confermata dalla successione dei depositi sedimentari che sono sempre più giovani procedendo in questo senso.
Dallo studio dei fenomeni sismici è anche possibile comprendere che le deformazioni che avvengono oggi nella catena appenninica hanno origine da processi di tipo distensivo (ossia che allungano il territorio), mentre nell'avanfossa adriatica sono di tipo compressivo (accorciano il territorio).
Possiamo distinguere tre grandi domini strutturali:
il dominio tosco-tirrenico, che sta estendendosi a causa di un assottigliamento della crosta terrestre (in quest'area i flussi di calore che provengono dall'interno sono elevati);
il dominio della catena appenninica, sollevata durante il Miocene-Pliocene;
il dominio dell'avanfossa adriatica, deformata da strutture compressive di età Pliocene-Pleistocene ed ancora attive.
Al contrario di quanto avviene nel primo dominio, in quello della catena e dell'avanfossa il flusso di calore ha bassi valori.
L'interpretazione di dati geofisici (sismici, magnetici e gravimetrici) ha permesso di riconoscere delle superfici immergenti verso ovest, che interessano la copertura sedimentaria e il suo basamento, lungo le quali si ritiene che avvenga un accavallamento della crosta tosco-tirrenica su quella adriatica.
Per spiegare l'evoluzione della catena appenninica, la maggior parte dei geologi, che si dedicano agli studi di geodinamica, hanno adottato l’ipotesi della collisione di grandi masse terrestri, dette placche o zolle continentali, e della loro subduzione. Si ha subduzione, ad esempio, quando della crosta oceanica è costretta a scorrere al di sotto di una placca continentale.
Nel caso della nostra regione al di sotto della copertura sedimentaria è stato individuato un basamento di rocce prevalentemente metamorfiche, in cui si distingue una parte superiore che deriverebbe dalla crosta tosco-marchigiana ed una inferiore dalla crosta adriatica.
Lo studio delle formazioni rocciose e l'interpretazione dei dati raccolti mediante varie metodologie d'indagine geofisica hanno permesso, inoltre, di evidenziare l'esistenza di diversi scollamenti tra le formazioni rocciose ed il basamento.
Lo scollamento più marcato corrisponde alle Anidriti di Burano.
Questi scollamenti, che con termini più rigorosi possiamo chiamare faglie inverse, sovrascorrimenti, ma anche retroscorrimenti, hanno determinato la sovrapposizione, più o meno accentuata, delle anticlinali sulle sinclinali.
Gli assi delle grandi pieghe anticlinali sono subparalleli ai sovrascorrimenti. La sommità di tali pieghe è piuttosto appiattita; il loro fianco orientale, al contrario di quello occidentale, è subverticale, ma può anche essere rovesciato al di sopra delle formazioni rocciose che lo precedono e che costituiscono delle sinclinali. Tali sinclinali appaiono molto strizzate, fenomeno di cui i geologi si erano accorti da tempo.
Nel 1954, grazie alle perforazioni per le ricerche del petrolio condotte nella gola del F. Burano, era stato possibile scoprire che, al di sotto del Calcare Massiccio, esiste un'altra formazione rocciosa denominata Anidriti di Burano. Questa è costituita da dolomie, anidriti e gessi che probabilmente furono deposti in un ambiente di lagune e piane costiere.
Il ritrovamento delle Anidriti del F. Burano è stato molto importante per la comprensione dei vari fenomeni relativi alla struttura tettonica dell'Appennino marchigiano.
La storia dell'Appennino umbro-marchigiano inizia nel Triassico medio quando esisteva un unico grande continente chiamato Pangea. Ruscelli, torrenti, ghiacciai e venti modellavano la sua superficie; ciottoli, sabbia e fango prodotti dalla loro azione erosiva, erano poi trasportati dai fiumi fino alla loro foce e quindi al mare.
Successivamente il mare cominciò ad avanzare sulla terraferma e in questa trasgressione gli accumuli detritici furono rimaneggiati e rielaborati cosicché ebbe origine una nuova formazione rocciosa alla quale i geologici danno oggi il nome di Verrucano.
Gessi e calcari si accumularono al di sopra del Verrucano per oltre 1000 m di spessore ed essi sono la testimonianza di un clima caldo per cui evaporavano facilmente le acque da bacini più o meno chiusi lasciando depositare invece i sali che avevano disciolto.
Le Anidriti di Burano, che non affiorano nelle Marche,sono a loro volta ricoperte dai Calcari e Marne a Rhaetavicula contorta, che più o meno segnano il passaggio dal Triassico al Giurassico, o meglio al Lias.
Le coste di Pangea erano orlate da grandi barriere coralline; il loro insieme costituiva un'estesa piattaforma marina composta prevalentemente da sostanze minerali carbonatiche. Da queste ebbe poi origine il Calcare Massiccio.
Nel Lias inferiore questa piattaforma fu spezzata in parecchi blocchi cosicché il rilievo sottomarino presentava profondi bacini dove i blocchi erano sprofondati e dorsali montuose dove invece l'annegamento risultò attenuato. Alcuni blocchi probabilmente emersero.
Che cosa stava avvenendo? Secondo una ipotesi geologica, attualmente dominante, esisteva un unico, grande continente, denominato Pangea, circondato da un grandissimo oceano chiamato Pantalassa. Sul bordo orientale di Pangea esisteva un grandissimo golfo marino che i geologi chiamano Tetide.
La parte più interna del golfo corrispondeva all'incirca a Gibilterra.
In posizione diametralmente opposta, Pangea si stava spaccando con grandi linee di frattura in senso ovest-est. Era l'inizio dell'Oceano Atlantico centrale che s'incuneava tra due parti di Pangea, ossia Laurasia a nord e Gondwana a sud, i due nuovi continenti che derivarono dalla divisione di Pangea.
Questi eventi, che potrebbero sembrare catastrofi rapidissime, avvenivano in realtà molto lentamente.
La storia della Terra s'estende per un lungo arco di tempo e le "catastrofi" non sono mai state più disastrose di quelle che accadono oggi: eruzioni vulcaniche, terremoti, frane. Piccoli effetti accumulati possono, però, alla fine di un lungo periodo di tempo, produrre un risultato straordinario.
Secondo l’ipotesi della tettonica delle placche, a far spostare le masse continentali sarebbero delle celle di convezione del calore che agiscono sotto la crosta terrestre.
Il calore provocherebbe una dilatazione ed un assottigliamento della crosta terrestre fino a determinarne la rottura.





Nel Lias inferiore, una penisola si prolungava nella Tetide da quella che possiamo considerare l'Africa attuale. Tale penisola è chiamata Adria,
Ad ovest e a nord di Adria era situata Laurasia, comprendente le terre che, oggi, rappresentano le aree mediterranee di Spagna, Francia, Sardegna e Corsica: tutte queste, saldate fra loro, sono indicate dai geologi come Iberia.
Nelle formazioni di origine sedimentaria dell'Appennino settentrionale si trovano delle ofioliti che sono, invece, rocce di origine magmatica. Queste ofioliti, tuttavia, non hanno un collegamento con un apparato magmatico, sembrano senza radici. Più precisamente si ritiene che le ofioliti derivino da un magma che, attraverso delle fratture, fuoriusciva da un fondale oceanico in espansione. Per complessi eventi geodinamici le ofioliti sono finite in mezzo alle rocce sedimentarie.
Se veramente queste rocce sono la testimonianza di un fondo oceanico, ciò significa che doveva esistere un oceano tra Adria ed Iberia. Questo oceano è stato chiamato "oceano ligure-piemontese".
Contemporaneamente, l’evoluzione dell'Atlantico doveva provocare la rotazione dell'Africa che ha avuto, come conseguenza, lo scontro di Adria con il margine del continente euro-asiatico. Tutto ciò produsse, ad un certo punto, anche la separazione di Adria dall'Africa.
Adria è il basamento profondo sul quale poggia il nostro Appennino e le loro storie, dunque, s’identificano.
La frammentazione della piattaforma carbonatica, rappresentata dal Calcare Massiccio, è la conseguenza di questi eventi.
Grandi blocchi sprofondati diedero origine a bacini marini, mentre altri mantennero più o meno la stessa posizione o anche emersero e sono i cosiddetti alti strutturali.
Alcuni geologi ritengono che il dislivello tra gli alti strutturali ed i fondali marini non superasse qualche decina o forse un centinaio di metri, altri invece pensano che il dislivello fosse maggiore. Tralasciando queste considerazioni, noi oggi possiamo riconoscere le formazioni rocciose che si formarono in un ambiente di bacino, oppure su un alto strutturale perché le condizioni biologiche e chimico-fisiche che caratterizzavano questi ambienti erano molto diverse.
Si è già detto di una lacuna di sedimentazione nella Formazione del Bugarone messa in evidenza dalla mancanza di livelli ad Ammoniti. Tale lacuna corrisponde ad un intervallo temporale compresso tra il Bajociano e l'Oxfordiano, ossia da 167 e 145 milioni d’anni fa. Secondo recenti studi questa pausa rappresenta un periodo di stasi della subsidenza che era stata invece intensa dal Lias medio al Bajociano. La subsidenza dei fondali riprenderà ad aumentare dal Giurassico superiore fino alla fine del Cretacico inferiore quando s'incontra un'altra grande lacuna, durata circa 13 milioni di anni, corrispondente all'intervallo Berriasiano-Valanginiano.
Nel Cretacico superiore, nell'arco di tempo corrispondente al deposito delle Marne a Fucoidi e di parte della Scaglia, la subsidenza ritornò ad accentuarsi, particolarmente nelle aree coincidenti con i precedenti bacini del Giurassico.
Nel Calcare Rupestre e nella Scaglia si trovano infatti ancora degli slumpings che sono la testimonianza dell'esistenza di alti strutturali e di bacini contigui.
Solo nell'Eocene, ossia 50 milioni d’anni fa, queste differenze nel rilievo sottomarino sembrano scomparire completamente.
L'oceano ligure-piemontese terminò di esistere nell’Eocene superiore.
A causa delle spinte prodotte dallo spostamento dell’Africa, la crosta oceanica, che si era formata sul fondo dell’Oceano ligure-piemontese, e una parte dei sedimenti che si erano deposti al di sopra, cominciarono ad essere trascinati per subduzione sotto il continente euro-asiatico, ossia Laurasia.
Un’altra parte, invece, di quei sedimenti, sotto forma di grandi scaglie tettoniche, si sovrapposero fra loro al di sopra della zona di subduzione e costruirono un enorme accumulo, ossia un prisma di accrezione.
I sedimenti di questo prisma sono stati chiamati unità liguri e nel tempo, sempre più frammentate o caotiche, furono traslate verso Est. Una parte di esse formano oggi la struttura principale del M. Carpegna.
Nell’Oligocene superiore, in corrispondenza della zona di collisione tra Iberia ed Adria, si formarono varie fosse tettoniche. Queste indicate come bacino del Macigno, bacino delle Arenarie del M. Cervarola e bacino della Marnoso-Arenacea compaiono successivamente nel tempo procedendo da ovest verso est e, dunque, con un orientamento ben definito.
Dai sedimenti deposti in questi bacini hanno avuto origine le dorsali montuose della Liguria, della Toscana, dell'Emilia e dell'Umbria che nel loro insieme formano l'Appennino settentrionale.
Ciò avvenne non solo con una successione temporale che potremmo dire cadenzata, ma anche con un orientamento ben preciso in senso SW-NE.
In questo lungo periodo di tempo l'area umbro-marchigiana pare che si mantenesse relativamente tranquilla. Arrivò però il suo momento e anche l’Appennino umbromarchigiano cominciò ad emergere sotto l’azione delle forze compressive che deformarono, piegarono e spezzarono le sue formazioni rocciose.
Durante il Miocene, il dominio umbro-marchigiano si trasformò in una fossa tettonica in cui sono stati riconosciuti più bacini: l'umbro-romagnolo, il marchigiano interno e il marchigiano esterno separati rispettivamente dalle dorsali umbro-marchigiana (catena del Catria) e marchigiana (catena dei monti del Furlo).
In questi bacini si deposero le torbiditi che hanno ricoperto la formazione dello Schlier.
Nel bacino umbro-romagnolo si depositò invece la Formazione Marnoso-Arenacea.
Continuò dunque quella caratteristica migrazione dei bacini da occidente ad oriente, ossia verso il Mare Adriatico, che era iniziata in precedenza. Gran parte delle formazioni rocciose che si formarono in tali bacini sono rappresentate da torbiditi.
Nel Bacino Marchigiano interno e in quello Esterno, dal Tortoniano in poi, si ebbero infatti parecchi piccoli bacini caratterizzati da una grande variabilità di litotipi.
Si tratta del bacino di M. Vicino (quello più interno) in cui si depositarono marne e arenarie; del bacino di Pietrarubbia - Peglio - Urbania; del bacino di Montecalvo in Foglia e del bacino di Monteluro; un po’ più a sud ne troviamo altri ancora.
Nel Messiniano tutta l'area mediterranea attraversò un periodo d'aridità, conosciuto come “crisi di salinità”, durante il quale il livello marino subì un forte abbassamento.
In varie parti s’instaurarono ambienti salmastri ove si depositò la Formazione gessoso-solfifera.
Nel successivo Pliocene il mare ritornò ad occupare le aree che aveva abbandonato durante la crisi di salinità.
In questo periodo, tuttavia, gli eventi tettonici furono particolarmente frequenti e potenti tanto da completare il corrugamento di tutto il bacino umbro-marchigiano.
Dopo una breve pausa, nel successivo Pleistocene un'altra intensa fase tettonica, caratterizzata da faglie verticali, portò la catena appenninica al suo assetto definitivo.






I due brani sono trati dal testo "La valle del fiume Bosso" di A. Ferretti - 2007

20 aprile 2009 URBANO URBINATI

Gustave Flaubert: "L'educazione sentimentale"

La trama (da un riassunto sul web di Alfio Squillaci)

“1840. Federico Moreau, uno studente liceale di 18 anni, scorge, sul battello che lo riconduce alla sua città natale di Nogent sur Marne, la signora Arnoux, moglie di Jacques Arnoux, uno speculatore dilettante. Scambia con lei alcune parole ed uno sguardo: è il colpo di fulmine. Questo momento lo segnerà per sempre. La passione per questa donna, amore vero ma di testa, non troverà mai il suo esito naturale. Sia le circostanze come anche le singolari disposizioni mentali dei due amanti non consentiranno il passaggio del sentimento alla fase carnale. ( In occasione del loro ultimo straziante e patetico incontro, 27 anni dopo, lei sembrerebbe avere un ripensamento e gli confesserà, troppo tardi, che ha corrisposto al suo amore, pur non cedendogli mai).
Per intanto Federico dovrà tornare a vivere in provincia a causa della precarietà della sua situazione economica, prima che una inaspettata eredità gli consenta di vivere nuovamente a Parigi. Frequenterà in seguito Rosanette, una donna facile, incontrata durante un ballo mascherato, e che era stata l’amante di M. Arnoux. Avranno un bambino che morirà. Federico avrà anche una relazione con la signora Dambreuse, vedova di un banchiere dagli affari poco chiari. Deslauriers, il suo migliore amico, sposerà Louise Roque, amica d’infanzia che invece avrebbe voluto sposare Federico. Il romanzo descrive in una suite di scene totalmente prive di carattere “romanzesco” (e risiede qui il suo difficile fascino) la vita ordinaria di Federico a Parigi, lo segue nelle giornate rivoluzionarie del 1848, immerso in piccoli e minuti affari, spesso fallimentari, e nei suoi incontri quotidiani con amici e conoscenti: Deslauriers, Pellerin, Dussardier, Sénécal, Martinon, Vatnaz, oltre che con M. e M.me Arnoux.
E’ tuttavia con Deslauriers, amico d’infanzia, anch’egli carico di disillusioni, che Federico trarrà, nel ricordare gli episodi giovanili di frequentazione dei bordelli “L’ultima lezione della loro educazione sentimentale”: nulla vale i ricordi e le illusioni dell’adolescenza. Su questa scena si chiude “L’Educazione sentimentale”.

Letture dal romanzo:
Il primo incontro di Frédéric con Madame Arnoux
Fu come un’apparizione.
Lei sedeva, in mezzo alla panchina, sola; o così gli parve, abbacinato com’era dalla forte luminosità dello sguardo di lei. Nel mentre passava lei alzò la testa, lui inclinò involontariamente le spalle, e, quando si fu messo più lontano, dallo stesso lato, la guardò.
Aveva un ampio cappello di paglia con nastri rosa che palpitavano al vento dietro di lei. I suoi capelli neri, divisi a metà, contornavano da una parte e dall’altra le sue ampie sopracciglia e scendevano in giù a pressare vezzosamente l’ovale del suo viso. Il suo abito chiaro di mussola, a petits pois, le cadeva addosso in mille minuscole e morbide pieghe. Stava ricamando qualcosa; ed il suo naso diritto, il suo mento, tutta la sua persona si stagliavano sullo sfondo dell'aria blu.
Poiché lei manteneva la stessa postura Frédéric fu costretto a fare molti movimenti di capo a destra e a manca per dissimulare la sua manovra; quindi si pose vicino all’ombrello, posto contro la panca, e affettò di osservare una scialuppa sul fiume.

Mai egli aveva visto tale splendore di pelle bruna, la seduzione della sua figura, né questa scorrevolezza delle dita solcate dalla luce. Guardava il suo cesto da lavoro con stupore, come ad una cosa straordinaria. Qual era il suo nome, la sua dimora, la sua vita, il suo passato? Desiderava conoscere i mobili della sua camera, vedere gli abiti che aveva portato con sé, sapere della gente che frequentava; ed il desiderio del possesso fisico perfino spariva sotto un desiderio più profondo, in una curiosità penosa che non aveva limiti.
Una negra, con un foulard annodato a turbante, avanzò, tenendo per mano una ragazzina. Costei, gli occhi colmi di lacrime, si era appena svegliata. La prese sulle sue ginocchia. «La signorina non fa la brava, sebbene abbia ormai sette anni. Mamma non le vorrà più bene. Le ha fatto passare troppi capricci!» E Frédéric gioiva nel sentire queste cose, come davanti ad una scoperta o un’acquisizione.
La pensava d'origine andalusa, creola forse; dalle isole aveva portato con sé questa negra?
Un lungo scialle a nastri viola era appoggiato dietro lei sul passamani di rame. Certamente, molte volte, lei durante le traversate, nelle sere umide, se n’era drappeggiato il corpo, coperto i piedi, forse ci si era avvoltolata nel sonno! Ma, trascinato dal peso delle frange scivolava lentamente e stava per cadere nell'acqua. Frédéric fece un salto e lo recuperò.
Lei: «Molte grazie, signore.»
I loro occhi si incontrarono.
«Mogliettina, sei pronta?» gridò Monsieur Arnoux, che apparve nella capot della scala."
...

L'ultimo incontro di Fredéric con Madame Arnoux

Viaggiò.
Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto le tende, lo smarrimento dei paesaggi e delle rovine, l'amarezza delle amicizie interrotte.
Ritornò.
Partecipò alla vita di mondo ed ebbe altri amori. Ma il ricordo incessante del primo glieli rendeva insipidi; e poi anche la veemenza del desiderio e la freschezza delle sensazioni erano svanite. La sua stessa forza d’animo s’era affievolita. Erano trascorsi anni bigi a puntellare l’ozio dell’ intelligenza e l'inerzia del cuore.
Verso la fine del marzo 1867, ad un’ora inoltrata della sera, mentre si trovava da solo nel suo salotto, entrò una donna.
- Madame Arnoux!
- Frédéric!
Lei gli prese le mani, lo trasse dolcemente verso la finestra, e lo esaminò lungamente ripetendosi:
- Siete voi... Siete dunque voi!
Tra la penombra del crepuscolo egli scorgeva soltanto i suoi occhi sotto la veletta di pizzo nero che le copriva il corpo.
Dopo aver deposto sul bordo del camino un piccolo portafoglio di velluto granata, lei si sedette. Tutti e due restarono interdetti senza parlare, sorridendosi l’un l’altro.
Infine, lui la investì di domande su di lei e il marito.
Abitavano in fondo alla Bretagna, adesso, per vivere economicamente e pagare i loro debiti. Arnoux quasi sempre malato, sembrava un vecchio ora. Sua figlia s’era sposata a Bordeaux, e il maschio era di guarnigione a Mostaganem. Quindi sollevò la testa:
- Ma vi rivedo! Sono felice!
Lui non trascurò di dirle che alla notizia del loro rovescio economico, era accorso da loro.
- Lo seppi!
- Come?
Lo aveva scorto in cortile e si era nascosta.
- Perché?
Allora, con una voce tremante e con lunghi intervalli tra le parole:
- Avevo paura! Sì... paura di voi... di me!
Questa rivelazione diede a Frédéric come un brivido di piacere. Il suo cuore batté al galoppo. Lei riprese:
- Scusatemi se non sono venuta prima (e indicò il piccolo portafoglio granata decorato di palme d'oro:) l’ho ricamato non facendo che pensare a voi. Contiene una somma, del valore dei terreni di Belleville .
Frédéric la ringraziò, rimproverandola di essersi disturbata.
- No. Non è per questo che sono venuta! Ci tenevo a questa visita... poi me ne tornerò laggiù.
E gli parlò del posto in cui abitava.
Era una casa bassa, a un solo piano, con un giardino con siepi altissime ed un doppio viale di castagni che salgono fino alla sommità della collina, da cui si scorge il mare.
- Mi vado a sedere là, su una panchina, che ho chiamato col vostro nome la ‘panchina Frédéric’.
Quindi si mise ad osservare i mobili, i soprammobili, i quadri, avidamente, per portarli con se nel ricordo . Il ritratto della Marescialla era seminascosto da una tenda. Ma gli ori e i lucori che emergevano dall’oscurità, attirarono la sua attenzione.
- Conosco questa donna, nevvero?
- Impossibile! disse Frédéric. È un vecchio dipinto italiano.
Lei gli sussurrò che desiderava fare una passeggiata al suo braccio, per le vie.
Uscirono.
La luce dei negozi illuminava, a tratti, il suo profilo pallido; ma l'ombra lo ricopriva nuovamente; e, in mezzo alle carrozze, tra la folla e il tramestio, i due camminavano concentrati in se stessi, a tutto estranei, come coloro che passeggiano insieme in campagna, su un letto di foglie morte.
Riparlarono dei giorni andati, dei ricevimenti ai tempi dell’ Art Industriel , delle manie di Arnoux, del suo modo di tirarsi le punte del colletto, di impiastricciarsi di pomata i baffi, di altre cose più intime e profonde. Quale estasi egli aveva provato la prima volta che l’aveva sentita cantare! Quant’era bella, il giorno del suo compleanno, a Saint-Cloud! Le ricordò il piccolo giardino di Auteuil, le sere al teatro, un incontro al boulevard, i vecchi domestici, la cameriera negra.
Lei si mostrò meravigliata per la sua memoria. E gli disse:
- A volte, le vostre parole mi ritornano come un’ eco lontana, come il suono di una campana portato dal vento; e mi sembra che siate vicino a me quando leggo storie d'amore nei libri.
- Tutto ciò che si biasima come esagerato in amore voi me lo avete fatto provare, disse Frédéric. Ho capito infine la scena di Werther che non disdegna le tartine di Charlotte.
- Povero caro amico!
Lei sospirò. E dopo un lungo silenzio:
- Non importa, ci siamo molto amati.
- Senza averci, tuttavia!
- Forse è stato meglio così, lei riprese.
- No, no. Chissà quale felicità avremmo provato!
- Oh sicuro, con un amore come il vostro!
E doveva essere un amore così forte se aveva resistito anche ad una separazione così lunga!
Frédéric le chiese come lo avesse scoperto.
- Fu quella sera che mi baciaste il polso tra il guanto ed la manica. Mi sono detta: «Dunque mi ama»...« Mi ama! » Ma avevo paura a sincerarmene. Il vostro riserbo era così seducente che ne gioivo come di un uno omaggio involontario e continuo.
Ma egli non rimpiangeva più nulla. Le sofferenze di un tempo erano state ripagate.
Quando rientrarono, Madame Arnoux si tolse il cappello. La lampada, posta su una console, le illuminò i capelli bianchi. Fu come un pugno in pieno petto.
Per nasconderle la delusione, egli si pose a terra in ginocchio, e, prendendole le mani, si mise a dirle cose dolci.
- La vostra persona, i vostri più insignificanti movimenti, mi sembravano avere in questa terra un significato sovraumano. Il mio cuore, come polvere, si sollevava al vostro passaggio. Mi facevate l'effetto del chiaro di luna in una notte d'estate, quando tutto è profumo, ombre sfumate, chiarori infiniti; e le delizie della carne e del cuore erano contenute per me nel solo vostro nome che mi ripetevo, provando a baciarlo tra le labbra. Non desideravo più nulla. Era Madame Arnoux: nient’altro ciò che voi eravate, con i suoi due figli, tenera, seria, e bella da morire, e così buona! Quest'immagine cancellava tutte le altre. E ad essa sola pensavo, ed avevo sempre in fondo al mio cuore la musica della vostra voce e lo splendore dei vostri occhi!
Lei riceveva in estasi quest'adorazione per quella donna che lei non era più. Frédéric, che si ubriacava con le sue parole, arrivava a credere a ciò che diceva. Madame Arnoux, di spalle alla luce, si chinò verso lui. Sentiva sulla sua fronte la carezza del suo alito, attraverso gli abiti il contatto esitante di tutto il suo corpo. Le loro mani si strinsero; la punta del suo stivaletto spuntava appena da sotto il vestito di lei, e lui le disse, con voce cedevole:
- La vista del vostro piede... mi turba.
Un moto di pudore la indusse ad alzarsi. Quindi, immobile, e con la voce strana dei sonnambuli:
- Alla mia età! Oh Frédéric! ... Nessuna è stata mai amata come me! No, no, a che serve essere giovane? Quando ci penso me la rido, e disprezzo tutte quelle che vengono qui!
- Oh, ma non viene nessuno, riprese lui amabilmente.
Il suo viso s’illuminò, e volle sapere se si sarebbe sposato. Egli giurò di no.
- Veramente? Perché?
- A causa vostra, disse Frédéric, stringendola nelle sue braccia.
Lei non si ritraeva, il corpo all’indietro, la bocca socchiusa, gli occhi girati verso l’alto.
Improvvisamente, lo respinse con un'aria di disperazione; e, poiché lui la supplicava di rispondergli, disse abbassando la testa:
- Volevo rendervi felice.
Frédéric sospettò che Madame Arnoux fosse venuta ad offrirsi; e venne preso da un desiderio intenso, furioso, rabbioso. Tuttavia, sentiva qualcosa di inesprimibile, una repulsione, come la paura di un incesto. Un altro timore lo fermò, quello di provarne disgusto più tardi. E del resto quale cosa imbarazzante! E quindi per prudenza e per non sciupare il proprio ideale, girò sui talloni e si mise ad arrotolare una sigaretta.
Lei lo guardava stupefatta:
- Che essere delicato! Non ci siete che voi, voi!
Suonarono le undici
- Di già! disse lei. Al quarto andrò via.
Lei si ripose a sedere senza staccare gli occhi dalla pendola, e lui continuava a muoversi fumando.
Tutti e due non trovavano più nulla da dirsi. C’è un momento, nelle separazioni, in cui la persona amata non è già più con noi.
Infine, la lancetta aveva superato i venticinque minuti, lei prese il suo cappello per le tese, lentamente.
- Addio, caro, caro amico. Non vi rivedrò mai più! Era il mio ultimo atto di donna. Il mio cuore non vi lascerà mai. Che tutte le benedizioni del cielo scendano su di voi!
E lo baciò come una madre.
Ma parve ancora che stesse cercando qualcosa, e gli chiese delle forbici.
Disfece il tupé; tutti i suoi capelli bianchi caddero.
Se ne tagliò, brutalmente, alla radice, una lunga ciocca.
- Conservatela, addio!
Lei uscita, Frédéric aprì la finestra. Madame Arnoux, sul marciapiede, fece un cenno ad un fiacre d’accostare. Vi salì. La carrozza scomparve.
E fu tutto.

Bibliografia essenziale
Raccolte di opere in traduzione italiana::
Tutte le opere narrative e di teatro – Mursia (Milano) 1967 – 2 volumi
I capolavori di G. Flaubert, a cura di Carlo Bo – Mursia (Milano) 1997-2000, 2 voll.
Monografie e saggi su Flaubert:
B. Croce, Flaubert in “Poesia e non poesia” – Bari, Laterza 1923
M Bonfantini, Flaubert e il realismo romantico – Torino, De Silva 1950
V. Lugli, Lo stile indiretto libero in Flaubert, Verga, Dante e Balzac – Napoli 1952
A. Cento, La dottrina di Flaubert – Napoli, Liguori 1964
S. Cigada, G. Flaubert: Dagli scritti giovanili a M.me Bovary – Milano 1971
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Profilo del Prof. Urbano Urbinati Nato a Cagli e trasferitosi subito dopo la guerra a Roma, Urbano Urbinati si è laureato in Lettere a pieni voti con lode all’Università degli Studi di Roma (ora “La Sapienza”) discutendo una tesi su François Mauriac con il prof. Giovanni Macchia e avendo come controrelatore il poeta Giuseppe Ungaretti.
Ha prestato servizio in varie scuole, tra cui il Liceo francese “Chateaubriand” in Roma, dove ha insegnato “italien spécial” alle ultime classi superiori. Ha poi insegnato per molti anni all’estero, prima all’Istituto Internazionale Zugerberg in Svizzera e poi al Liceo italiano di Madrid, dove ha svolto anche funzioni di preside.
Superati il concorso a preside e quello per addetto negli istituti italiani di cultura all’estero, ha optato per l’estero ed è stato inviato dal Ministero degli Esteri ad Ankara per 8 anni e poi a Bucarest per 3 anni, dove ha svolto funzioni di addetto e di direttore nei locali istituti di cultura, nonché di Addetto Culturale d’Ambasciata.
E’ autore di numerosi saggi sulla scuola e i giovani, di critica letteraria, di storia, di politica e problemi morali, pubblicati nella rivista “Studium” (Roma) in prevalenza durante gli anni 1964 – 74. Nella rivista “Le lingue straniere” ha pubblicato due saggi su F. Mauriac. E’ autore anche di recensioni, articoli e racconti pubblicati su quotidiani e riviste varie. Ha fondato un periodico di attualità e cultura cagliesi, “Il Torrione”, e lo ha diretto per alcuni anni. E’ stato titolare per circa 4 anni della rubrica “L’Opinione” pubblicata nella rivista mensile marchigiana “I Protagonisti”.
Fondatore, con altri, dell’Accademia del Teatro di Cagli ne è stato presidente per tre anni. In tale veste ha curato la presentazione del catalogo del 1° Festival dell’Accademia (dicembre 2000- gennaio2001) firmandone i testi di presentazione e di commento.
Nel dicembre 2006 gli è stata conferita al Teatro Capranica in Roma la “Medaglia d’oro” dal Centro Internazionale “Foyer des artistes” per “avere illustrato e diffuso la nostra cultura come docente e Preside nelle Scuole Italiane all’Estero e come Addetto e Direttore di importanti Istituti Italiani di Cultura con l’incarico di Addetto Culturale d’Ambasciata”
E’ socio rotariano dal 1977 e in seno all’Associazione ha svolto per due volte il ruolo di presidente (Club di Urbino 1993/94 – Club di Cagli-Terra Catria Nerone 2003/04), è stato rappresentante del Governatore per il Distretto 2090 nell’anno 1994/95, membro per due anni della Commissione distrettuale preposta allo sviluppo della stampa rotariana e per 9 anni presidente della Commissione distrettuale per le Borse di Studio. Generalmente attivo nelle varie commissioni di club, dove ricopre spesso l’incarico di presidente. Ha svolto relazioni nei “Forum” distrettuali su temi inerenti alla Fondazione Rotary e alla cultura. Collabora attivamente alla stampa rotariana. E’ titolare di due “Paul Harris Fellow”. Recentemente gli è stato concesso il “Commitment to service” in considerazione del servizio al Rotary per più di 25 anni.
Attualmente svolge il ruolo di assistente del Governatore per l’anno rotariano 2007-08.

16 aprile 2009 IVANA BALDASSARRI e GILBERTO CALCAGNINI

Il madrigale napoletano: Gesualdo da Vernosa.


Carlo Gesualdo da Venosa (1566-1613), conosciuto, fino alla metà del secolo scorso, soprattutto per la ricca letteratura, sia colta che popolare, fiorita intorno alla sua tragedia familiare - il delitto d’onore perpetrato con l’uccisione della prima moglie, la bellissima e sensuale cugina Maria d’Avalos, e del suo amante Fabrizio Carafa - e solo recentemente "riscoperto" come uno dei più coinvolgenti protagonisti della storia della musica.
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Fu autore di madrigali su testi dei maggiori poeti contemporanei, fra cui Torquato Tasso, al quale fra l’altro appartengono i versi del madrigale “Beltà poi che t’assenti…”, la cui sorprendente modernità ha indotto Igor Stravinskij a definire Carlo di Gesualdo “un compositore tanto grande quanto inquietante”.
La sua vita non gli diede molte gioie e lo colpì con sofferenze fisiche e psichiche, con delusioni e perdite dolorose, ultima quella dell’unico figlio, Emanuele, che distrusse irrimediabilmente il suo già precario equilibrio psicofisico e lo fece precipitare in un’ebbrezza di sofferenza che si concludeva con la morte, sopraggiunta la sera dell’8 settembre 1613.

6 aprile 2009 SILVIA BLASIO

ARTISTI, OPERE E PERSONAGGI IN VIAGGIO TRA MARCHE E TOSCANA.
Sebbene le relazioni tra Toscana e Marche costituiscano un capitolo molto importante per l’arte della regione adriatica, non esisteva finora uno studio unitario che ne prendesse in esame i diversi aspetti. I territori delle due regioni, benché vicinissimi geograficamente, e per un certo tratto anche confinanti, si sviluppano infatti a ridosso dei due versanti degli Appennini, e se in passato queste catene di monti non costituivano un ostacolo per la circolazione della cultura figurativa, il cui cammino si snodava attraverso i valichi e lungo le vallate, nei tempi moderni abituati alla velocità, danno l’impressione falsata di barriere invalicabili, visto che un viaggio da Firenze, da Siena o da Pisa verso Ancona o Pesaro, per non dire Urbino, Ascoli Piceno o Macerata impegna molte ore e non può trarre vantaggio dalle rapide vie di scorrimento che attraversano e collegano altre aree geografiche italiane. Forse anche in conseguenza di questa situazione particolare, gli studi hanno dedicato alle relazioni artistiche tra Marche e Toscana un’attenzione occasionale, con la sola eccezione dei Luigi Serra che parlò, per il Rinascimento, di “influsso toscano”, e hanno sempre privilegiato i rapporti tra le Marche e il Veneto, sotto il segno della comune appartenenza alla cultura adriatica, con l’Emilia e la Romagna, con cui la zona settentrionale della regione ha profonde affinità e ovviamente con Roma, come centro propulsore per l’arte del territorio dello Stato Pontificio, cui le Marche hanno lungamente appartenuto.
“Ogni marchigiano colto usa mettere in guardia contro la tentazione di vedere le Marche come un tutto uniforme. Le Marche sono un plurale. Il nord ha tinta romagnola; l’influenza toscana ed umbra è manifesta lungo la dorsale appenninica; la provincia di Ascoli Piceno è un’anticamera dell’Abruzzo e della Sabina. Ancona, città marinara, fa parte a se stessa. In uno spazio così breve anche la lingua muta, e ha impronte romagnole, toscane umbre, abruzzesi secondo i luoghi.”
Proprio in questa molteplicità così efficacemente descritta da Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia si definisce il volto più autentico delle Marche che del pluralismo linguistico e della recettività dal punto di vista culturale hanno fatto il tratto distintivo della propria identità o, come ha sottolineato Sergio Anselmi di quella “fisionomia che (le Marche) sono riuscite a creare per farsi riconoscere e localizzare”. Luogo d’incontro di culture diverse e punto di partenza per esperienze originali, la regione adriatica ha accolto opere e artisti toscani che hanno lasciato un’impronta decisiva su un contesto culturale tutt’altro che passivo, ma capace di rispondere vivacemente agli stimoli provenienti dall’esterno.
Ad uno sguardo complessivo appare evidente come la presenza di artisti e opere toscane sia distribuita irregolarmente riguardo ai tempi e ai luoghi, riflettendo in qualche modo il policentrismo politico e amministrativo, ma anche culturale, tipico delle Marche. I secoli di cui mi occuperò, dal XV al XVII, sono quelli in cui i rapporti tra Toscana e Marche furono scanditi dagli episodi di maggior rilevanza artistica: Urbino si trasformò in modo sorprendentemente veloce in una grande capitale del Rinascimento nel secondo Quattrocento anche grazie al consistente numero di pittori, scultori e architetti toscani chiamati da Federico da Montefeltro a prestare la propria opera al grandioso cantiere di Palazzo Ducale, e all’inizio del Cinquecento una generazione di scultori toscani dette il proprio contributo al magnifico rivestimento marmoreo della santa Casa di Loreto; pale robbiane e dei continuatori marchigiani sono disseminate per l’intero territorio della Marca e pittori e orafi toscani si trasferirono in terra adriatica oppure vi inviarono le proprie opere; l’attività nelle Marche di Andrea Boscoli e di Orazio Gentileschi scopre una rete di relazioni che vanno al di là delle arti figurative per coinvolgere anche la poesia, la letteratura, la musica e la scienza. Sono anche i secoli, soprattutto il Seicento, in cui, dopo l’unificazione della Maniera, la lingua figurativa ritornò a differenziarsi e ad articolarsi in vivaci scuole locali e il tessuto variegato della regione, anche con il contributo dei toscani, si arricchì di apporti disseminati sul territorio, ma spesso legati tra loro.
Poiché infine i marchigiani furono viaggiatori curiosi e spesso raggiunsero le città toscane, Firenze e Siena soprattutto, mi è sembrato giusto almeno ricordare i contributi e gli impulsi all’innovazione che alcuni personaggi –da Gentile da Fabriano fino a Luigi Lanzi – hanno dato alla storia delle arti in Toscana, recando al di là degli Appennini molto della loro “terra filtrata, civile, la più classica anzi delle nostre terre”.

Silvia Blasio ha frequentato la Facoltà di Lettere dell’Università degli studi di Firenze, laureandosi con Mina Gregori con una tesi dal titolo Ricerche sull’iconografia di Firenze e i suoi esiti nella veduta del Settecento, col massimo dei voti e la lode.
Si è diplomata presso la Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte e Archeologia dell’Università di Siena.
Ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Storia dell’Arte presso l’Università di Pisa, discutendo una dissertazione intitolata Pittori inglesi di paesaggio nel Settecento: i rapporti con la tradizione, l’incontro in Italia con Claude-Joseph Vernet, per la quale ha svolto ricerche a Londra presso il Courtauld Institute ( Witt Library) e il Mellon Center for British Art.
Ha fatto parte del comitato scientifico della mostra Firenze e la sua immagine, tenutasi a Firenze nel 1994.
Nel 1994 con Mina Gregori, ha pubblicato un volume intitolato Firenze nella pittura e nel disegno dal Trecento al Settecento (Cinisello Balsamo- Milano, Silvana Editoriale). Sul tema della veduta fiorentina nel febbraio 1997, ha svolto una relazione presso l’Istituto Italiano di Cultura a Londra.
Ha tenuto varie lezioni per il corso di Storia dell’Arte Moderna dell’Università di Firenze. Dal ’97 al ‘99 è stata titolare del corso di Storia dell’Arte Moderna e del corso di Storia dell’Arte Barocca presso la Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Firenze.
Nel 1997 ha collaborato alla mostra Magnificenza alla corte dei Medici. Arte a Firenze alla fine del Cinquecento, (Milano, Electa, 1997). Per la mostra Pasión por la pintura. La colección Longhi, tenutasi a Madrid nel 1998, ha studiato per il catalogo i dipinti di Filippo Napoletano, Claude Lorrain e Johann Zoffany.
Ha tenuto varie lezioni sulla pittura di paesaggio presso la Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi di Firenze e presso l’Università di Pisa.
E’ stata titolare del corso di Storia dell’Arte Moderna presso il corso di Diploma Universitario in Operatore dei Beni Culturali dell’Università di Macerata, per gli anni accademici 1998-1999 e 1999-2000 e in seguito, fino al 2005, titolare del corso di Storia dell’arte nelle Marche presso la stessa università e di un modulo di Metodologia della Storia dell’arte, presso la facoltà di Lettere.
Dall’anno accademico 1999-2000 al 2002-2003 ha svolto attività di coordinamento e segreteria scientifica per il Master in Conservazione e Gestione dei Beni Culturali dell’Università di Macerata, sede di San Severino Marche, facendo parte del Consiglio scientifico del Master stesso.
Ha collaborato alle mostre Gli ultimi Della Rovere. Il crepuscolo del Ducato di Urbino di Urbino, Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta a Rimini, Tutta per ordine dipinta. La Galleria dell’Eneide di Palazzo Buonaccorsi a Macerata (Urbino Macerata, 2001-2002), sull’La principessa saggia. Anna Maria Luisa Elettrice Palatina (Firenze, 2007), pubblicando vari articoli su riviste scientifiche e in volumi di saggi. Per i volumi La pittura in Italia. Il paesaggio, a cura di A. Ottani Cavina, ha redatto saggi relativi ai pittori inglesi del Settecento.
Ha curato, insieme a Pierluigi De Vecchi, il catalogo della Pinacoteca Duranti di Montefortino ( Bergamo 2003).
Ha fatto parte del comitato scientifico della mostra Pietro Perugino. Il divin pittore, tenutasi a Perugia e varie località dell’Umbria nel 2004 e ha curato la sezione Perugino e il paesaggio (Città della Pieve, Palazzo Della Cornia).
Nel 2007 ha curato il volume Marche e Toscana. Terre di grandi maestri tra Quattro e Seicento . Nel 2008 ha pubblicato tre saggi sulla decorazione pittorica nel volume Sub tuum praesidium. La basilica di Santa Maria della Misericordia a Macerata che sarà presentato il 24 aprile a Macerata dal prof. Antonio Paolucci.
Ha collaborato al catalogo della mostra Raffaello a Urbino, attualmente in corso.
Attualmente svolge ricerche sul Settecento nelle Marche, con studi su Ignazio Stern, Francesco Mancini, Sabastiano Conca, Pierleone Ghezzi e sulla pittura di paesaggio, con vari saggi e articoli in corso di pubblicazione. E’ docente di ruolo di storia dell’arte presso l’Istituto Tecnico Serrani di Falconara.

30 marzo 2009 MARCO LEOPOLDO UBALDELLI

INTRODUZIONE ALL’ARTE ROMANA

PERIODIZZAZIONE
Età regia (753-509 a.C.)
Età repubblicana (509-27 a.C.)
Età imperiale (27 a.C. – 476 d.C.)

URBANISTICA
La rete fognaria (la Cloaca Maxima)
Mura di protezione (le Mura Serviane)
Strade di collegamento
Ponti e acquedotti

TECNICHE COSTRUTTIVE
Opus quadratum
Opus poligonale
Opus caementicium [rivestimenti in pietra e / o in mattoni]

ARCHITETTURA MONUMENTALE

LA PITTURA
I quattro stili

LA SCULTURA
La ritrattistica
Il rilievo

L’ETA’ AUGUSTEA (27 a.C.-14 d.C.)
La ritrattica imperiale
Il foro di Augusto
L’Ara Pacis Augustae
L’artigianato di corte

L’ETA’ DEI FLAVI (69-96 d.C.)
Colosseo
Arco di Tito

L’ETA’ DI TRAIANO (98-117 d.C.)
Il foro di Traiano e la colonna coclide

L’ETA’ DI ADRIANO (117-138 d.C.)
L’Hadrianeum
Il Panth
eon
Il Mausoleo di Adriano (Castel Sant’Angelo)
Villa Adriana a Tivoli

L’ETA’ SEVERIANA (193-235 d.C.)
Terme di Caracalla

L’ETA’ TARDO ANTICA
Il Palazzo di Diocleziano a Spalato
I Tetrarchi di Venezia
L’Arco di Costantino a Roma



Marco-Leopoldo Ubaldelli è nato a Cagli ed è residente a Tarquinia (VT).

TITOLI DI STUDIO E CULTURALI
- Laurea in Lettere Classiche presso l'Università degli Studi di Urbino con una tesi in Archeologia e Storia dell'Arte Greca e Romana conseguita il 3. 7. 1989, con votazione 110/110 e dichiarazione di lode.
- Nel dicembre 1990 ha vinto un posto di Perfezionamento in Storia dell'Arte e Archeologia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, della durata di tre anni. Durante la permanenza presso la Scuola Normale ha frequentato attivamente con propri seminari i corsi dei proff. Salvatore Settis (Storia dell'Arte e dell'Archeologia Classica), Paola Barocchi (Storia della Critica d'Arte), Armando Petrucci (Paleografia e Diplomatica), incentrando i suoi interessi sulla storia del collezionismo di antichità e sulle problematiche relative alla tradizione dell'antico.
- Nell’anno scolastico 1995-96 ha conseguito l’attestato di frequenza al Corso di Aggiornamento per docenti dal titolo “La Comunicazione Didattica”, organizzato dal Liceo Scientifico “Galilei” di Tarquinia (VT).
- Nell’anno scolastico 1996-97 ha conseguito l’attestato di frequenza al Corso di Aggiornamento per docenti, organizzato dall’Università degli Studi di Roma La Sapienza e dall’Associazione Italiana di Cultura Classica, dal titolo “Prospettive dell’Antico”.
- Nel luglio 1997 ha conseguito il diploma di Biblioteconomia presso la Biblioteca Apostolica Vaticana con votazione 29/30.
- Nell’anno scolastico 1997-98 ha conseguito l’attestato di partecipazione al corso di Autoaggiornamento “Metodologie di Insegnamento e di Apprendimento”, rilasciato dal Liceo Scientifico Statale “G.Galilei” di Tarquinia.
- Nell’anno scolastico 1997-98 ha conseguito l’attestato di frequenza del corso di Formazione e Perfezionamento di durata annuale in “Problemi delle letterature greca e latina” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, con superamento della prova finale.
- Nel maggio 1998 ha conseguito l’attestato di frequenza del Corso di Aggiornamento dal titolo “Il conflitto inesistente: umanisti e scienziati per il rilancio della cultura classica nella scuola del 2000”, presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.
- Negli anni 1999-2000 ha conseguito l'abilitazione all'insegnamento nei concorsi ordinari e riservati nelle seguenti materie: Materie letterarie nelle medie e negli istituti superiori (A043, A050); Materie letterarie e latino nei licei e negli istituti magistrali (A051); Materie letterarie, latino e greco nei licei classici (A052); Storia dell'arte (A061).
- Nel dicembre 2006 ha superato le prove di accertamento della conoscenza delle lingue francese e tedesco per l’inclusione nelle graduatorie permanenti di insegnamento all’estero.
- Nei mesi di giugno e ottobre 2008 ha conseguito la patente europea ecdl (european computer driving licence) e gli attestati di superamento dei moduli avanzati di Word e PowerPoint, rilasciati dal Centro di Calcolo dell’Università degli Studi della Tuscia.

TITOLI DI SERVIZIO
Docente a tempo determinato presso
- Liceo Classico "Buratti" di Viterbo;
- Liceo Classico "Buratti" sede di Civita Castellana;
- Liceo Scientifico "Meucci" di Ronciglione, sede di Bassano Romano;
- Liceo Scientifico-Classico "Galilei" di Tarquinia;
- Liceo Scientifico “Meucci” di Ronciglione (VT);
-I.S.I.S. di Tarquinia (liceo classico).
-Landesgymnasium Latina H.Francke di Halle.

BORSE DI STUDIO
- Nel 1984 ha usufruito di una borsa di studio erogata dalla Fondazione Lemmermann per completare con il soggiorno di un anno a Roma gli studi relativi alla tesi di laurea.
- Nel mese di agosto 1989 si è recato in Germania con una borsa di studio dell'Università di Urbino per ampliare le sue conoscenze della lingua tedesca presso l'Università di Tübingen.
- In occasione di un soggiorno con una borsa di studio presso l'Istituto di Archeologia dell'Università di Tübingen, nel semestre invernale 1992-93, ha tenuto un seminario sui ritratti di Aristotele nella tradizione medievale e rinascimentale.
- Nell'anno accademico 1993-94 ha usufruito di una borsa di studio presso l'Istituto di Archeologia dell'Università di München.

SCHEDATURE
- Negli anni 1994-1996 ha schedato materiale archeologico (marmi architettonici) per la Soprintendenza Archeologica di Roma, proveniente dalla Domus Tiberiana del Palatino.
- Dal 1995 al 1999 ha collaborato con la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Modena e Reggio Emilia alla catalogazione delle gemme antiche e moderne della collezione estense.
- Dal maggio 1998 collabora con la cattedra di Topografia e Urbanistica del Mondo Antico dell'Università degli Studi di Perugia (prof. Maurizio Matteini Chiari) in qualità di schedatore del materiale glittico per il catalogo del Museo Archeologico di Sepino e del materiale glittico rinvenuto nelle stipi del santuario extraurbano di S. Pietro in Cantoni (Sepino).

ATTIVITA’
- Durante l'elaborazione della tesi di laurea e in vista della pubblicazione a stampa, allo scopo di ricostruire la storia della collezione di intagli e cammei del marchese Alessandro Gregorio Capponi, ha avuto modo di consultare numerose biblioteche, archivi e musei (Biblioteca Apostolica Vaticana; Archivio di Stato di Roma; Archivio Storico Capitolino; Biblioteca Casanatense; Biblioteca Angelica; Biblioteca Marucelliana di Firenze; Biblioteca e Museo dell'Accademia Etrusca di Cortona; Museo Nazionale Romano, Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo).
- Tra la fine del 1994 e i primi mesi del 1995, in seguito ad un preciso incarico conferito dal Comune di Cagli (delibera del 18.10.1994), ha organizzato il Museo Archeologico della Via Flaminia di Cagli, catalogando i materiali antichi delle collezioni comunali.
- Nel luglio 1997 ha partecipato ad uno scavo dell'Ecole Française di Roma alla Magliana (proff. J. Scheid e H. Broise).
- Nel febbraio 2005 ha tenuto presso l’Università La Sorbona di Parigi un seminario dal titolo “Alonso Chacon, Sallustio Peruzzi e Pirro Ligorio al tempio dei Fratres Arvales”.

PUBBLICAZIONI
1. “Le tendenze dell’universo giovanile: gli indicatori statistici”, in L’incerta traiettoria. Rapporto sui giovani 1987 (a cura di L.Bobba e D.Nicoli), Milano 1988, pp.27-42.
2. "Le Antichità Romane di Alonso Chacón. Prolegomena", in Studia Oliveriana, XI, 1991.
3. "Le milieu romain des amateurs d'antiquités: les collectionneurs de gemmes", in La fascination de l'antique. Rome et l'Europe, 1700-1770. Rome découverte, Rome inventée, Paris 1998
4. Dactyliotheca Capponiana. Collezionismo romano di intagli e cammei nella prima metà del XVIII secolo, Bollettino di Numismatica. Monografia 8.1, Roma 2001.
5. La Dea, il Santo, una Terra. Materiali dallo scavo di San Pietro di Cantoni di Sepino (a cura di Maurizio Matteini Chiari), Roma 2004, sezione: Ornamenti e specchi (p.131); schede 249, 255, 256, 257, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265.

26 MARZO 2009 LUCIANO GALLI

UN FAMOSO MEDICO DEL NOVECENTO: ALBERT BRUCE SABIN.

Il dott. Luciano Galli è nato a Cagli. Conseguita la maturità classica a Fano nell’immediato dopoguerra, si è laureato nel 1954 in medicina e chirurgia con il massimo dei voti presso l’Università di Bologna dove, nel 1961, ha acquisito anche la specializzazione in chirurgia generale.Nel 1963 ha inoltre ottenuto la specializzazione in ortopedia presso l’Università di Pisa, dove ha altresì seguito il corso di specializzazione in chirurgia della mano. Infine, presso l’Università di Padova, ha seguito, nel 1992, il corso di “Day surgery”.Ha svolto tutta la sua attività di chirurgo nell’Ospedale Civile di Pergola, prima come assistente, poi come aiuto ed infine come primario chirurgo fino al 1996.Attualmente è in pensione e vive a Pergola.

23 marzo 2009 STEFANO PAPETTI

L'INFLUENZA DI LORENZO LOTTO SULLE OPERE DI RAFFAELLO

















































































Marchigiano di origine, ma fiorentino di studi, Stefano Papetti è Direttore delle Raccolte Comunali di Ascoli Piceno.Docente di storia dell'arte moderna presso il corso per operatori dei beni culturali dell'Università di Macerata è dal 1996 vicepresidente Regionale del Fondo Ambiente Italiano e Direttore del Centro Studi sui Giochi Storici.E' Socio Onorario dell'Associazione per le Dimore Storiche Italiane e membro dell'Accademia Marchigiana di Lettere, Scienze ed Arti.Autore di molti saggi ed articoli relativi all'arte marchigiana dal XIV al XIX secolo, apparsi su prestigiose riviste (Paragone, Notizie da Palazzo Albani, FMR) ha svolto negli ultimi anni un'intensa attività nell'organizzazione di alcune importanti mostre tra le quali ricordiamo quelle per il Cinquecentenario della morte di Carlo Crivelli per il Bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi e le iniziative dedicate al Gotico nelle Marche delle quali ha curato anche i relativi cataloghi editi da Marsilio ("Il tempo del bello"; "Leopardi ed il Neoclassico fra Marche e Roma") e da Mazzotta ("Lorenzo e Jacopo Salimbeni e la civiltà tardo gotica nelle Marche").Ha partecipato alla realizzazione di numerose pubblicazioni relative ad alcuni aspetti poco conosciuti dell'arte marchigiana con particolare riguardo all'iconografia sacra ("L'iconografia della Madonna di Loreto nell'Arte"; "Il culto e l'immagine", premiato nel 1999 con l'assegnazione del premio Frontino-Montefeltro), alla storia del collezionismo ed alle arti minori ("La maiolica ad Ascoli dal Neoclassicismo al Decò"; "La scultura lignea nelle Marche", premiato nel 2000 con l'assegnazione del premio Frontino-Montefeltro).Tra le sue pubblicazioni a carattere monografico ricordiamo: "Fermo" per la collana Gran Tour dell'Editore Franco Maria Ricci, "Vittore Crivelli e la pittura marchigiana del suo tempo" edito da Federico Motta nel 1997 e presentato da Federico Zeri, "I Papi marchigiani" di recente uscita nell'ambito delle iniziative giubilari con il contribuito delle Fondazioni delle Casse di Risparmio marchigiane.E' Presidente della Commissione Arte e Cultura dell'Associazione Culturale "Bichi Reina Leopardi Dittajuti" e cura personalmente le schede tecnico-artistiche e la presentazione dei luoghi dove si svolgono i Concerti proposti dall'Associazione.La Regione Marche deve molto all'opera di attento studioso delle arti locali del Prof. Papetti cui va anche il merito di aver contribuito, in maniera determinante, alla salvaguardia ed alla valorizzazione di una parte considerevole del patrimonio artistico regionale.