Abbazia di Santa Maria
Nuova ad Abbadia di Naro (Cagli)
(VISITA GUIDATA)
Introduzione
La presenza bizantina in quest’area appenninica dell’Italia centrale è
testimoniata dalla storia dopo la battaglia di Tagina del 520 d.C., alla quale è
seguita poi quella longobarda. Negli ultimi anni, grazie ad un’accurata lettura
da parte di alcuni ricercatori e studiosi, sono stati trascritti dagli archivi Comunali e Capitolari numerosi
documenti (pergamene, atti consiliari e notarili) riguardanti la storia antica
del Comune di Cagli. In seguito alla loro pubblicazione si è sviluppato un vivo interesse che ha portato
ad approfondimenti e studi vari [1].
Nel periodo Alto Medioevale nella nostra zona sorsero molte chiese e
chiesette di culto cristiano in sostituzione di quello pagano e più tardi,
lungo la Via Flaminia e i suoi diverticoli, nelle vallette nascoste tra i
monti, lungo i fiumi e i torrenti, sorsero numerosi monasteri benedettini
adatti alla vita monastica. Questi crebbero quasi subito grazie a varie
donazioni terriere o in altro modo e accumularono patrimoni così enormi da
diventare ricchi, potenti ed importanti. Di conseguenza da parte di taluni
abbati ci fu una forte ambizione di potere e una grande corruzione. Fu così che
abbati indegni compravano e vendevano di tutto: benefici ed indulgenze, cariche
e privilegi [2].
L’abbate feudatario faceva così prevalere la sua indipendenza sia dal
Vescovo che dal Comune di appartenenza e godeva dei suoi privilegi
nell’astenersi dai pagamenti dovuti: egli era infatti alla diretta dipendenza
della Santa Sede, anche per limitare l’eccessiva ingerenza dei “signori laici”
e dei vescovi nella vita interna della comunità abbaziale.
In tal modo la comunità monastica diventava vero centro di potere, ma
nello stesso tempo all’interno dei monasteri scoppiarono profonde e laceranti
crisi spirituali: Il sentimento di tradimento della regola benedettina
sintetizzata in “ora et labora” porterà a numerose secessioni.
Dopo il periodo di riforme (si veda S. Romualdo e S. Pier Damiani) che
va nelle Marche tra la fine dell’ XI al
XIII sec., l’energia del vasto ed importante fenomeno benedettino tende ad
esaurirsi e nel XV sec. tutte le abbazie saranno asservite alle mense vescovili
o ai cardinali commendatari.[3]
Questa sarà anche la storia e la sorte del monastero benedettino di
Santa Maria Nuova di Montelabbate in Naro, argomento che sarà oggetto del
nostro itinerario di visita guidata.
Certo: monastero e chiesa non possiamo paragonarli a quelli, seppur
coevi, più grandi e più ricchi di arte e di un diverso tipo di economia, ma li
possiamo eguagliare a questi per il loro non meno rilevante ed interessante
contesto ambientale, storico,artistico e culturale.
Tra le diverse iniziative della Unilit di Cagli (Università della
terza età), si sono susseguite con un certo interesse, fin dai primi anni della
sua nascita, numerose visite guidate per la conoscenza della nostra città
(chiese e palazzi) e quella del territorio circostante (santuari, pievi,
castelli).
In questi ultimi anni c’è stata la riscoperta dei vecchi monasteri
della zona; infatti, dopo la visita guidata a quello che resta del ricco e
potente monastero di San Pietro di Massa con l’annessa chiesetta di San Michele
Arcangelo di Cerreto, situata nella valle opposta del Monte Nerone, l’interesse
è stato rivolto alla conoscenza del vecchio e glorioso monastero di San
Vincenzo di Petra Pertusa. Quest’anno, risalendo il breve tratto di strada che
da Acqualagna si stacca dalla Via Flaminia e sale lungo la valle del
Candigliano tra i confini del Comune di Cagli, Piobbico ed Urbania, la nostra
attenzione può concentrarsi nella chiesa romanica di Santa Maria Nuova in
Abbadia di Naro, che apparteneva ad un vecchio e interessante monastero. Di
questo monastero, serrato da tutte le parti da aspre colline e monti, situato
nella parte sud ovest della chiesa, non è rimasto niente a causa di terremoti , per la
franosità del terreno e l’incuria del tempo, ma la bella chiesa con i suoi
reperti, è ancora testimone della sua importante storia.
Attraverso l’arte infatti si possono “decifrare” meglio le cose belle
della vita e della natura, nonché ricostruire la storia lontana.
La chiesa abbaziale, dedicata a Santa Maria Assunta, è sede di
parrocchia e ora ne è parroco don Luigi Parolini.
Nei tempi antichi i monaci benedettini, oltre alla Abbazia nel pianoro
verso il fiume, possedevano il castello di Montelabbate in alto. Del castello
rimangono solo scarsi ruderi ricoperti
da una folta vegetazione.
Pochi sono i documenti che possono illuminare sulle origini e sulla
storia di questa abbazia, il cui nome (Santa Maria Nuova) si direbbe legato
alla ricostruzione della Badia stessa.
Storia
Gli ultimi restauri della chiesa condotti qualche anno fa dalla
Sopraintendenza di Ancona (1974-75), hanno messo in luce la sua origine altomedievale
con moduli bizantini; il che ci porta molto più indietro, sì da dover
ammettere, secondo il Palazzini, che la costruzione della chiesa sia anteriore
all’insediamento dei Benedettini. Questi infatti, sopravvenuti più tardi,
portarono la loro abbazia ad un periodo di splendore attorno alla metà del XII
secolo fino a gareggiare con quella di San Pietro di Massa e quella di San
Geronzio in Cagli, mentre alla metà del XIII secolo la comunità religiosa
iniziò a manifestare forti segni di decadenza.
Nel 1217 il potere politico esercitato dall’abbazia di Santa Maria
Nuova sui terreni circostanti portò l’abbate feudatario Raniero a confrontarsi
con il Comune di Cagli e a decidere poi di sottoporre il Castello e gli uomini
di Montelabbate allo stesso Comune. Ma queste sottomissioni, consigliate dal
timore di mali maggiori e di sicura rovina, non erano sincere e ben presto
divamparono in aperta ribellione. Infatti l’Abbate, approfittando della
ribellione di altri feudatari, sottrasse il Castello alla giurisdizione della
Città.
Da una pergamena con data 31 dicembre 1223 risulta che i Cagliesi
ripresero con forza il Castello imponendo all’Abbate le condizioni di resa,
sottoscritte (nel monastero di S. Geronzio) dall’abbate Raniero per
Montelabbate e da Piero di Ugolino, Camerlengo, per il Comune di Cagli [4].
Seguì nel 1251 un’altra convenzione tra il Comune e l’abbate Don
Uguccio ed altri uomini, in cui l’Abbate cedeva o meglio sottoponeva di nuovo
il Castello al Comune di Cagli rinunciando così del tutto alla sua
indipendenza. Forse l’esempio del Monastero di San Pietro messo a ferro e fuoco,
dovette avere influito in questa determinazione.
A sua volta il Comune prometteva di concedere libera caccia nelle
selve circostanti e di non distruggere mai il castello, anzi di mantenerlo in
buono stato e difenderlo assieme al monastero. Inoltre si obbligava di dare
all’Abbate una delle migliori case del Castello stesso con due uomini a
servizio.
In base a questa cessione che esautorava i Benedettini, il Comune
mandò un capitano a custodia della torre di Montelabbate.
Verso la fine del secolo XIII, come già accennato, l’importanza e la
ricchezza del monastero andava calando; basandosi infatti sulle decime versate,
sembra che queste dovessero essere pari alla metà di quelle versate dal
Monastero di San Pietro di Massa, perché mentre quest’ultimo versava sedici libbre,
l’Abbadia di Naro ne pagava solo otto [5].
Ma la cessione al Comune di Cagli non proteggeva questo luogo dalle
invasioni dei vicini feudatari, intenti ad allargare il loro dominio e diventò
ben presto oggetto di contrapposti appetiti.
Nel 1294, infatti, con un colpo di mano, se ne impadroniva
Puccio,figlio di Trasmondo Brancaleoni e di Guglielmina Mastini, conte di
Roccaleonella. L’ iroso Puccio aveva già partecipato come ghibellino ai
luttuosi eventi cagliesi del 1287 e, promettendo difesa, ottenne che gli uomini
di Montelabbate gli giurassero soggezione ed obbedienza.
I Cagliesi, profondamente addolorati di tanta perdita, fecero una
fortunata spedizione, sconfissero l’usurpatore e lo costrinsero, come dice lo
storico Gucci, “a tornare fra l’aspre giogaie di Roccaleonella”.
Ma nonostante l’insistenza di Puccio per la riconquista, Montellabate
tornò nel 1299 alla obbedienza di Cagli, che vi lasciò alla difesa molti
soldati con il capitano Consolo Leoni.
Il mantenimento della giurisdizione cagliese su Montelabbate si
sarebbe fatto difficile perché Galasso, conte di Montefeltro, ghibellino e
grande amico di Puccio Brancaleoni, occupava il castello stesso; ma l’impresa
riuscì favorevole al Comune che si era ben preparato all’attacco, tanto da
riconquistare il castello.
Ciò nonostante i Brancaleoni di Rocca non distolsero la loro
attenzione, sempre poco benevola, dal castello e il figlio di Puccio, Nicolò,
vi fece una scorreria nel 1324, non trascurando il monastero e perfino ai danni
della chiesa di Santa Maria Nuova.
L’elenco dei beni, che il monastero possedeva attorno a quei tempi, lo
abbiamo nel “Liber appassatus” – libro di estimo a finalità fiscale - del 1339
e parte di quei beni i monaci li concessero in enfiteusi [6].
L’Abbazia, ormai in crisi, gradatamente ebbe a perdere la sua
autonomia verso la metà del 1400 e venne data in commenda con tutti i suoi beni
e le chiese dipendenti ai vescovi di Cagli: questa fu la sua rovina e così fu
anche quella di altre Abbazie circostanti.
Il primo vescovo commendatario con il titolo di Abbate e la mitra fu -
a dire di alcuni storici locali - mons. Antonio Severi (1442-1444). L’unione
alla Mensa Episcopale avvenne sotto il Papa Leone X che aveva concesso pure quella della Abbazia di
Massa, ed è documentata nel 1533, ma dovette probabilmente avvenire attorno al 1515
con il vescovo Albizi con l’obbligo di stipendiare un cappellano per la cura
delle anime. Da allora vi succedettero diversi cappellani fino ad arrivare a
don Gottardo Buroni (1911-1920) con la presenza di seicento anime [7].
Nel 1930 con pochi beni necessari la chiesa diveniva sede parrocchiale
indipendente. Il primo parroco fu don Egizio Bischi di Piobbico che dal 1920
era cappellano; vennero poi don Nazzareno Bartolucci dal 1969 al 1980, e don
Elpidio Torri fino al2008. Da questa data la parrocchia è assegnata a don Luigi
Parolini che la cura assieme a quella di San Severo di Smirra, in modo puntuale
e davvero scrupoloso.
Descrizione esterna e stile della chiesa
La chiesa di Santa Maria Nuova è quanto rimane dell’antica abbazia;
essa nel tempo ebbe diverse trasformazioni con notevoli danni e crolli. E’ ritenuta
una delle più antiche chiese romaniche marchigiane.
Stile
L’architetto Fabio Mariano ha riscontrato. in alcune chiese marchigiane
contemporanee alla nostra, moduli deutero bizantini per il loro riferirsi al
secondo periodo aureo dell’arte del millenario Impero Romano d’Oriente. In essa
ci sono infatti alcune strutture architettoniche di prima fase di costruzione
con materiale lapideo di reimpiego e
reperti archeologici alto-medievali ed antecedenti (come quelli romani) che
meriterebbero uno studio più approfondito.
A questi si aggiungono elementi di stile romanico.
In generale si rammenta che lo stile romanico si sviluppa nelle Marche
nei secoli XI –XII e XIII, con tardi echi nel XIV, prevalentemente
nell’architettura religiosa più che su quella civile. Nelle Marche e in Italia
si manifesta con diverse caratteristiche, sia di origine locale sia con diversi
apporti alloctoni. Infatti i contatti commerciali e culturali che le Marche ebbero
con l’oriente erano all’epoca notevoli, tramite Venezia e Ravenna, anche grazie
al vicino Adriatico, diretti e determinanti; contatti che si arricchirono
enormemente con lo scambio e l’intreccio delle reciproche esperienze.
Inoltre sono di grande considerazione le maestranze lombarde, ormai
monopolistiche, che nelle Marche costituivano un modo significativo di stile
nelle costruzioni.
Origine
Hildegard Sahler (1998), critica tedesca, fa risalire l’origine della
chiesa di Santa Maria Nuova agli inizi dell’XI secolo, anche sulla base di
confronti con pievi del territorio circostante (San Michele di Lamoli, San
Gervasio di Bulgaria presso Mondolfo e con altre chiese umbre).
La chiesa con la sua severa e massiccia costruzione, si presenta
subito importante e poderosa perché costruita in pietra e con prevalenza dei
pieni sui vuoti. Il tetto è a capanna e l’orientamento è da Est a Ovest secondo
il moto solare; in origine era a tre navate (pur nel contesto di uno spazio
centralizzato), essendo i sostegni originari parzialmente visibili – come
vedremo – all’interno dei muri perimetrali dell’unica navata attuale.
Paramenti murari esterni
Il paramento murario esterno, sul lato sinistro (verso Nord e il fiume)
mostra vari rifacimenti e quindi alcune parti più antiche con conci di pietra
calcarea (corniola e marmarone) a filari regolari e più finemente lavorati; ma
in tutta la sua costruzione (esterna ed interna) si nota anche materiale di
recupero (reimpiego romano per le parti più resistenti) e non manca neanche il
materiale laterizio.
Su questo fianco,articolato da un’unica lesena superstite, si notano
le piccole aperture rettangolari immediatamente al di sotto della gronda; individueremo
meglio all’interno della chiesa la loro origine.
Sempre nel fianco Nord si legge un piccolo portale occluso in
prossimità dell’attuale facciata. Poco più oltre resta la parte inferiore di un
portale esterno caratterizzato da una soglia in pietra con “dadi arrotondati
sporgenti” che appare simile a quella del portale Sud situato sotto il portico.
Il retro della chiesa, verso est, è dominato da un campanile a vela
con due campane e la superficie muraria è marcata dalla bellissima strombatura
della grande monofora d’impostazione romanica originale, sotto la quale è una
piccola apertura, un tempo forse ad uso della sottostante cripta.
Nel lato destro, verso Sud, vi è un portico realizzato a seguito della
demolizione della canonica che era ridotta in cattive condizioni e costituiva
una parte aggiunta in questi ultimi decenni. L’orditura di questa costruzione è
in legno a vista ed è poggiante su tre bassi pilastri quadrangolari di sembianze
altomedievali, rinvenuti durante i lavori di ristrutturazione e recupero del
1974-75. Altro portale, probabilmente più recente, lo notiamo nella parte di
accesso alla sacrestia, vano di problematica lettura stratigrafica.
Descrizione interna della chiesa
Attualmente all’interno della chiesa sono riconoscibili le varie fasi
di costruzione alto-medievali e successive. Dalla porta d’ingresso si scende e
si arriva all’interno superando un piccolo dislivello. Al soffitto sono le
capriate a vista, essendo andate distrutte sia la volta (forse a botte) della
prima fase di costruzione, sia quella della seconda fase (a botte spezzata).
A seguito dei lavori citati sono riemersi nei muri di cortina le
antiche colonne e i pilastri di sostegno alle navate laterali. Alcuni sono in
cotto, altri in conci di pietra e sono tutti con capitelli lapidei difformi: in
alcuni si nota la forma arrotondata, cioè smussata a mo’ di scudo, secondo un
modulo noto alle costruzioni ravennati e bizantine in genere, diffusosi poi nell’alto
medioevo.
Le colonne sono con la base a circa 40 cm sotto la quota pavimentale
dell’attuale navata centrale, e sono sorrette da lastre quadrangolari che
denotano anch’esse uno stile deutero bizantino, già presente a Santa Sofia di
Costantinopoli e a Benevento, e quindi nelle chiese circostanti ricordate.
Assai parzialmente visibili sono alcuni archi alla parete che
permettevano l’accesso alle navate laterali. Nei sottarchi si notano frammenti
di affreschi romanici, per lo più elementi decorativi quali meandri alla greca
e cornici a motivi fitomorfi e geometrici. I sostegni sono di forma circolare e
rettangolare, in alternanza.
Dalla tecnica muraria si sarebbe indotti a confermare la cronologia
della Sahler, che ha proposto – come già detto – la prima fase di costruzione
agli inizi dell’XI secolo, sicuramente a tre navate, e confermando il fatto che
la chiesa sia una delle più antiche delle Marche.
La volta “berceau-brisé”
Sempre dalla Sahler è stato osservato in seconda fase, nel XIII
secolo, che l’edificio, ridotto ad una navata centrale, doveva essere coperto
da una volta a botte spezzata, con profilo di arco acuto (ogivale); questa
volta è detta anche “berceau-brisé” [8].
Della volta in oggetto non restano per la verità che gli attacchi su
due lati, ma il profilo spezzato sembra verosimile. Spicca infatti su due lati
più lunghi della chiesa una cornice a “toro”, con sporgenza gonfia, che costituiva
la base per la linea d’imposta della volta stessa. La cornice prosegue anche
all’esterno della facciata attuale sulla parete Sud ovest, dove si nota anche
la partenza della volta. La costruzione della volta “berceau brisé” ha un
sicuro “ante quem” in un affresco della parete Nord (che ingloba i sostegni
preesistenti) raffigurante una “Vergine in trono col Figlio”, databile tuttavia
alla fine del XIV secolo, quindi successivo al tamponamento degli archi di
prima fase.
All’interno la volta è forata da alcune rade e piccole monofore
rettangolari, visibili – come detto sopra – anche all’esterno, proprio sotto la
gronda. Le considerevoli spinte laterali di questo tipo di volta, anche se
spezzata, non consentono infatti di aprire finestre nelle pareti che la
reggono, ma lo consentono nella volta stessa, che viene così alleggerita.
Presbiterio
Una scalinata, con qualche gradino ancora esistente davanti
all’attuale altare, posta in corrispondenza di due pilastri inglobati nelle
pareti di seconda fase, permetteva l’accesso al presbiterio o coro, decisamente
più alto rispetto all’odierno. Proprio in corrispondenza di questi pilastri,,
un’immorsatura verticale tamponata (con pietre rientranti e sporgenti) che
attraversa una fase successiva, lascia pensare ad un “arco trasversale” che
nella seconda fase avrebbe delimitato il santuario (coro).
IL coro monastico avrebbe potuto identificarsi con le due campate
antistanti i gradini, e si potrebbe pensare che all’origine arrivasse a metà
della chiesa stessa (si vedano i pilastri rettangolari oltre 1 metro),
considerando che questa era più lunga dell’attuale.
Cripta
Al di sotto del presbiterio doveva essere la cripta, il cui scavo è
ben visibile all’interno dell’abside quadrangolare (riconoscibile nella
muratura frontale). Questa a sua volta si è sovrapposta – come è evidente –
alla rasatura dell’abside semicircolare più antica. Si tratta di una cripta “mono-colonnare”
come nelle chiese marchigiane ed umbre (San Gervasio di Bulgaria presso
Mondolfo e Sant’Angelo di Lamoli). Si nota bene un unico pilastro circolare
centrale in pietra, incluso dentro l’abside originaria che doveva sorreggere la
volta a botte anulare della cripta stessa.
La continuità tipologica con le cripte e chiese romaniche sopra
menzionate induce a supporre che ad essa si accedesse in origine attraverso
vani simmetrici, posti al termine delle navate laterali, attraverso due portali
ancora esistenti nell’incavo.
Quello di sinistra è testimoniato da un arco in mattoni e stipiti in
pietra, quello di destra si può intravvedere nel portale che attualmente conduce
alla sacrestia. Oggi alla cripta si accede attraverso una piccola scalinata che
parte dal presbiterio.
Uno scavo della chiesa primitiva sarebbe di grande interesse.
Nello spazio della cripta sono raccolti vari ed interessanti reperti
archeologici, in buona parte romani (forse provenienti dall’antico e vicino
municipio romano di Pitino Mergente), altri di epoca alto-medievale e
bizantineggianti. Si nota una grossa pietra, forse antica ara pagana, un
capitello dorico, avanzi di un magnifico portale di pietra corniola ed altri
relitti calcarei con scannellature e cornicione. Si distingue anche uno stemma
in pietra, che è quello dei Berardi, ovvero dei signori del sovrastante
Castello di Naro; forse potrebbe riferirsi a Pandolfo Berardi, in quanto ha la
sigla P B. E’ chiaramente leggibile il ghepardo rampante a mezzobusto, simbolo
araldico della famiglia.
Segue descrizione chiesa
Nella parte sinistra della chiesa è appeso un quadro raffigurante la
“Madonna del Rosario e Santi”. Una volta era posto sopra l’altare maggiore, ed
era stato menzionato in un documento del 1579, assieme alla appena istituita
“Confraternita del Rosario“. La tela è riquadrata dai Misteri del Rosario; è
ben visibile il Pontefice con vari altri prelati, nonché un guerriero
inginocchiato in primo piano, forse un Berardi.
E’ da ritenere che si tratti di un esplicito riferimento alla
Battaglia di Lepanto (1571) che ebbe un rilievo politico(la cacciata dei Turchi
dall’Europa) e spirituale (devozione alla Madonna del Rosario).
Sul quadro si notano pesanti ridipinture e quindi risulta di difficile
lettura: nello sfondo pare riaffiori una città, forse la “Gerusalemme Celeste”.
La tela sembra alquanto interessante anche dal punto di vista storico; potrebbe
trattarsi di un pittore cinquecentesco operante nel territorio.
Nel Cinquecento, oltre alla Confraternita del Rosario, esisteva la
Compagnia del SS Sacramento e la chiesa aveva tre altari.
Come è stato detto, la chiesa fu ridotta ad una navata nella seconda
fase e sono visibili i muri perimetrali esterni di notevole spessore. Ma non è
da escludere che siano stati gli effetti di un terremoto a determinare il
restringimento.
La “tour-porche”
La chiesa, più stretta e dotata di volta, doveva fornire garanzie
statiche maggiori. Tuttavia probabilmente non bastò, infatti ci fu senz’altro un
evento successivo che causò il crollo ad occidente (forse si tratta del
terremoto del 1781 che distrusse anche il villaggio di Cabaldo). Di questo
crollo si conserva una testimonianza molto interessante: la parte inferiore
delle pareti di un vano che appare come una poderosa struttura quadrata di 3,35
metri per 3,40 all’interno, con muri di circa 1,60 metri di spessore, con due
aperture di portali ad Ovest e ad Est, ipotizzabile come torre campanaria di
facciata, secondo il modulo della “tour-porche” del romanico francese e
risalente forse alla seconda fase della chiesa [9].
Nel crollo occidentale verificatosi, probabilmente la torre rovinò
completamente e a questo punto fu decisa la decurtazione della navata stessa
della chiesa.
In terza fase fu eretta una nuova facciata d’entrata. Anche la parte
absidale quadrangolare, che come abbiamo detto risulta costruita sopra l’abside
semicircolare, potrebbe essere di quest’ultima fase.
Nella seconda metà del Novecento si rinvenne l’antica mensa di pietra
corniola, lunga circa 2 metri, con l’incavo in mezzo per le reliquie ed avanzi
di pietre lavorate ad arte; la mensa fu messa a sostegno del nuovo altare (don
Gottardo Buroni).
Paolo Piva “Il Romanico nelle Marche” Banca delle Marche 2012
Conclusione
Nonostante i vari rifacimenti e i recuperi di questi ultimi anni, la
chiesa di Santa Maria Nuova mantiene la sua importante storia ed il suo fascino
ambientale.
Attraverso recenti studi di ricerca da parte di storici dell’arte, si
sono avvalorate importanti tesi circa le caratteristiche architettoniche del
suo più antico stile romanico marchigiano.
Sarebbero veramente auspicabili altri accertamenti e scavi
archeologici per una maggiore lettura e valorizzazione.
La visita guidata ed attenta a quello che resta dell’antica chiesa
abbaziale, ci può dare chiarimenti e porre nuove curiosità
Tersicore Paioncini
BIBLIOGRAFIA
Sac. Prof. Gottardo Buroni “La
diocesi di Cagli” – Scuola tipografica Bramante – Urbania 1943
Giuseppe Palazzini , Pietro Palazzini, Ernesto Paleani “Pievi, parrocchie, chiese, oratori nella
Diocesi storica di Cagli dalle origini ai nostri giorni” – E.Paleani
editore 2008
A.Mazzacchera “Catria e Nerone, un
itinerario da scoprire” Comunità Montana del Catria e del Nerone 1990
A.Mazzacchera “Il forestiere in
Cagli” Pro Loco, Cagli 1997
Luigi Michelini Tocci “Eremi e
Cenobi del Catria” Cassa di Risparmio di Pesaro 1972
E.Baldetti “Documenti del Comune di
Cagli. La città antica 1115-1287.” Comune di Cagli. Urbania 2006
Paolo Piva “Il Romanico nelle
Marche” Banca delle Marche 2012
Fabio Mariano “Architettura nelle
Marche” Nardini editore. Banca delle Marche 1995
Un vivo ringraziamento a Lucio Palazzetti dell’UNILIT
di Cagli per la sua pregevole collaborazione editoriale e la sua costante
disponibilità.
Un grazie ad Ermes Maidani per i suoi consigli in
loco.
N O T E
[1] E. Baldetti
(a cura di), Documenti del Comune di
Cagli. I, 1: La città antica (1115-1287), Urbania 2006.
E.Baldetti e altri studiosi hanno potuto constatare che
“l’assetto fondiario (ordinamento giuridico delle proprietà) nell’Alto Medioevo
marchigiano era soggetto al fisco longobardo”; nei possedimenti terrieri della
zona, sicuramente poco coltivabili, è
probabile che si sia sviluppata un’economia silvo-pastorale. L’insediamento
bizantino e poi quello longobardo viene ancor oggi riscontrato in alcuni
toponimi locali e nella flessione linguistica di alcune parole.
[2]
L’abbate, assumendo un modello di vita molto simile a quello dei nobili
laici, era il capo del monastero ed era quindi anche feudatario; possedeva castelli
e terreni, aveva il potere ecclesiastico e civile (amministrativo e
giudiziario) su parrocchie, su chiese dipendenti, sul territorio e sulle
persone. Per questo egli aveva a sua disposizione degli uomini che l’aiutavano
nel combattere anche con le armi in caso di bisogno, che sorvegliavano e
proteggevano castello e monastero. Ma castello e monastero - come vedremo in seguito - potevano essere appetibili per altri “signori
vicini” e nello stesso tempo “scomodi” per l’Istituzione comunale che in quel
tempo, attraverso una spregiudicata politica
espansionistica, mirava anch’essa ad affermarsi e a fortificarsi.
[3]
I Vescovi o i Cardinali commendatari ricevevano la “commenda”. Questa
proveniva da autorità superiore: nel nostro caso dal Papa; era una sostituzione
o delega del comando che poteva essere affidato anche ad una persona estranea
all’ambiente monastico sia per formazione che per provenienza, ma con la
facoltà di godere dei benefici e dei beni economici ecclesiastici. Purtroppo
però la commenda ha segnato la decadenza della vita monastica, anche se mirava
a controllare e sottrarre difficoltà interne ed esterne; ma il rimedio si
rivelò distruttivo spiritualmente e materialmente: spesso il commendatario
sfruttava a proprio vantaggio le rendite.
[4]
Tra le altre condizioni, gli uomini di Montelabbate che abitavano nel
centro fortificato erano soggetti e dovevano obbedire agli ordini del Podestà e
del Consiglio Generale e avrebbero dovuto pagare otto libbre di lucchesi o di
ravennati per i loro dazi o collette (denaro per beneficenza). Inoltre l’Abbate
avrebbe dovuto pagare le soldatesche del castello quando erano al servizio del
suo monastero, ma quando queste erano a servizio della città le doveva spesare
il Comune. Vicendevolmente le parti promettevano e giuravano di rispettare
quanto stabilito sotto pena di cento marchi d’argento.
[5]
La decima era una tassa, un pagamento da parte della chiesa, del
convento, del monastero o di un privato, che costituiva la decima parte delle
entrate annuali (per lo più sui frutti agrari di un terreno o di altro) e che periodicamente
veniva versata al vescovo o, nel nostro caso, alla Sede Apostolica. Si dovrà
aspettare l’Unità d’Italia, dopo il 1887,per l’abolizione della decima
trasformata in obolo per i Sacramenti.
[6]
L’enfiteusi era il diritto di godere un fondo agricolo altrui con
annessi beni immobili per un tempo
stabilito. Spesso le abbazie restituivano di fatto i beni ricevuti ai donatori
sottoforma di concessione enfiteutica dotata di immunità. In questo caso
l’istituto dell’enfiteusi permetteva una curiosa forma di “evasione fiscale”
quando concedeva in affitto le terre agli stessi nobili che le avevano donate
ai monaci e in cambio di un modesto affitto annuale permetteva ai “benefattori”
di continuare ad utilizzarle, come proprie, fino alla terza generazione
maschile (di solito per 99 anni). Altri terreni erano dati in enfiteusi a censo
modesto a contadini senza terra, che
ricompensavano l’Abbazia con un censo annuo di solito in natura (giornate di
lavoro o metà o un terzo del prodotto o con focacce o capponi). Nel complesso
l’istituto dell’enfiteusi concorse nel Medioevo ad alleviare la miseria dei
contadini e a migliorare in parte la redditività agraria di vaste zone
altrimenti abbandonate.
[7] È da segnalare la figura del cappellano curato don Gottardo Buroni che
fra le tante attività svolte in 9 anni di presenza eseguì diversi lavori di
recupero della canonica e della Chiesa stessa.
Nella piccola zona di terreno intorno all’edificio religioso ha incentivato
diversi benefici agrari, quali piantagioni di filari di viti, di alberi da frutto … Inoltre
introdusse la floricoltura e l’apicoltura a sistema moderno, con un nuovo tipo
di arnia. Ma la sua fama però è ancora oggi legata alla sua attività di storico
locale. I suoi studi e le sue ricerche sulla storia antica ed archeologica di
Cagli, sulle chiese e sui monasteri della Diocesi di Cagli sono stati oggetto
di numerose pubblicazioni con la rivisitazione di documenti antichi. I suoi
scritti continuano ad essere di base e di sostegno agli studiosi e ricercatori
contemporanei.
[8] La volta spezzata è detta anche
“berceau-brisé” perché la sua prima comparsa risulterebbe in Francia nelle
chiese cluniacensi, agli inizi del XII secolo. C’è un’ipotesi che nelle Marche
questa venne inaugurata in alcune chiese di prima fase quasi contemporaneamente
agli esempi francesi, come nella chiesa di Portonovo (Ancona) e più tardi nel
duomo di Fano; ma ci sono forti indizi che invece questo tipo di volta sia da
collocare alla fine del XII secolo (si veda Fonte Avellana) e soprattutto (come
nel nostro caso) al XIII secolo.
[9] La “tour-porche” quadrangolare costituiva
parte integrante della chiesa originaria in quanto era addossata centralmente
alla facciata della chiesa stessa. Potrebbe avere avuto origine dalla trasformazione
della torre circolare ravennate o dalla torre della Cappella di Carlo Magno ad
Aquisgrana.
In Francia già si afferma prima dell’anno Mille, giunge in
Italia in età protoromanica ed ha applicazione in Lombardia, in Emilia, nel
Lazio e in alcune chiese delle Marche. In Santa Maria Nuova risalirebbe appunto
alla seconda fase, cioè al XIII secolo.
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