17 novembre 2011 Gilberto CALCAGNINI

Il teatro d’opera e il Risorgimento italiano


Scrive Francesco Cento, nel suo libro Il patriottismo in musica da Rossini a Verdi, che «l’opera lirica fu, nell’età del Risorgimento, la “Biblia pauperum” del popolo analfabeta e semialfabeta.
«Il canto patriottico serví, nell’800, alla causa nazionale quasi quanto le immagini devote avevano servito alla cristianizzazione nel Medio Evo».
Il primo esempio di canto patriottico che mi è venuto in mente, cosí di primo acchito nel leggere queste parole, è il coro, trascinante nel suo effetto, «Si ridesti il leon di Castiglia» nella scena della congiura di Ernani della quale vi mostro ora una registrazione.
Come abbiamo sentito e visto, le parole del librettista Francesco Maria Piave e, soprattutto la musica di Verdi, hanno toccato le corde, sensibili alle prime istanze risorgimentali, degli spettatori che la sera del 9 marzo 1844 affollavano la sala e le gallerie della Fenice di Venezia.
Qualcuno potrebbe domandarsi come abbia fatto Verdi a toccare la corda nazionale con un soggetto romantico, di ambientazione spagnola, come quello del dramma di Victor Hugo dal quale Francesco Maria Piave aveva tratto il libretto.
Niente di piú facile: bastava leggere, mentalmente, i primi versi «Si ridesti il leon di Castiglia / e d’Iberia ogni monte, ogni lito / eco formi al tremendo ruggito …», come «Si ridesti il leon di San Marco / e d’Italia ogni monte, ogni lito / ecc.», per conferire loro un’allusione patriottica cosí precisa e determinata da assumere addirittura l’aspetto di una istigazione all’insurrezione.
Istigazione alla quale erano particolarmente sensibili i veneziani, memori del tradimento perpetrato da Napoleone Bonaparte con il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) quando aveva consegnato agli austriaci le spoglie della millenaria Repubblica della Serenissima, cosicché, qualche anno dopo il debutto di Ernani, e precisamente il 17 marzo 1848, sull’onda dei moti costituzionali dilaganti ormai in tutta Europa, Venezia, prima fra le città d’Italia, insorgeva cacciando gli oppressori austriaci e proclamando, sotto la guida di Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, la Repubblica Veneta.
Si è trattato, com’è noto, di un effimero ritorno all’indipendenza, che la città lagunare avrebbe vissuto intensamente, fornendo innumerevoli prove di eroismo, nel 1849 durante l’assedio cui fu sottoposta per oltre cento giorni dalle truppe del maresciallo Radetzky, finché, come recitano le celebri strofe del poeta Arnaldo Fusinato, «Venezia! l'ultima ora è venuta; / illustre martire, tu sei perduta... / Il morbo infuria, il pan ti manca, / sul ponte sventola bandiera bianca!», il 22 agosto 1849, Daniele Manin e il suo governo firmavano la resa.
Quello di Ernani, è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come le idee risorgimentali, mentre ebbero la stampa quale principale mezzo di comunicazione fra gli intellettuali, trovarono nell’opera lirica, forma d’arte popolare, lo strumento capace di diffondere, grazie alle parole del libretto non meno che in forza delle note musicali, il verbo patriottico, caricando di significati le parole libertà, patria, unità d’Italia, Dio, onore, gloria, che ebbero decisiva importanza nel vocabolario dei poeti, da una parte, e nel sillabo dei censori, dall’altra.
Perché, una cosa è una persona che legge un libro nel silenzio della propria stanza, ben altra è una massa numerosa di spettatori pronti ad infiammarsi allo scoccare della benché minima scintilla.
Qualche scintilla, ad esempio, pare l’abbia fatta scoccare anche un opera buffa come L’italiana in Algeri di Rossini, quando, dopo il delirante successo della prima rappresentazione al teatro San Benedetto di Venezia il 22 maggio 1813 (35 repliche), incominciò a girare per la penisola italiana divenendo oggetto di cambiamenti derivanti, non solo dalle consuete convenienze dei cantanti, ma anche, e soprattutto, dai pruriti suscitati, nei funzionari attenti e sospettosi della censura, dall’aria con coro «Pensa alla Patria, e intrepido il tuo dover adempi… ».
Un altro esempio lo offre la biografia di Gaetano Donizetti, dove leggiamo che il 3 febbraio 1831 a Modena, la polizia, che aveva scoperto una congiura in casa di Ciro Menotti, faceva sospendere le rappresentazioni della sua opera Esiliati in Siberia, perché una marcia della stessa era diventata l’inno dei rivoltosi.
Il teatro d’opera fu dunque il luogo dove, pur nella variopinta stratificazione sociale (platea, palchetti, loggione), le idee risorgimentali trovarono terreno fertile per svilupparsi, anche in considerazione del fatto che nell’Ottocento il melodramma in Italia rappresentò incontestabilmente il genere musicale più apprezzato e seguito e quindi, per la maggior parte della popolazione, l'interesse per la musica s'identificò quasi completamente nell'apprezzamento dell'opera.
In effetti, l'amore per il teatro d'opera del primo Ottocento è riconducibile a due fattori.
Il primo di ordine sociologico: i teatri rappresentavano gli unici luoghi d'incontro non solo per l'aristocrazia ma anche per i ceti borghesi e, in minor parte, popolari.
Il secondo di natura culturale: le opere di quegli anni furono in grado di rispecchiare le correnti di pensiero, i gusti e soprattutto gli ideali politici della società italiana del periodo del Risorgimento, che ufficialmente va dai primi moti rivoluzionari del 1820-21 alla proclamazione del Regno d’Italia del 1861, anche se, per la precisione storica, unita ad un sano orgoglio regionalistico, ci tengo a ricordare che il primo moto carbonaro, peraltro soffocato sul nascere dalla polizia papalina, fu tentato a Macerata nella notte fra il 24 e 25 giungo 1817.
In ogni modo, fu proprio durante il Risorgimento, quando il popolo italiano lottò duramente per cacciare gli invasori stranieri dal proprio territorio e riorganizzarsi, all'interno dei propri confini, in un unico stato indipendente, che l'opera lirica, date le sue potenti influenze sulla società dell'epoca, giocò un ruolo determinante nel promulgare questi ideali.
Ha scritto in proposito Massimo Mila, che, contrariamente a quanto accadeva presso altri popoli, come in Polonia, Boemia e Ungheria, che anch’essi sorgevano o risorgevano allora a unità e indipendenza di nazione, dove musicisti come Smetana, Dvořák, e lo stesso Chopin, stavano in rapporto di filiale devozione verso la loro patria dalla quale raccoglievano nutrimento di canti, ritmi e accenti armonici particolari, in Italia stava avvenendo miracolosamente l’opposto.
«Da noi - precisa Massimo Mila - il rapporto di filiazione va dall’artista alla nazione e riguarda assai piú lo spirito che i sensi.
«Il procedimento storico - attraverso il quale Rossini, Manzoni (vedi Adelchi «Dagli atri muscosi, dai fori cadenti …»), Verdi, e prima di loro e con loro Parini, Alfieri, Goldoni, Foscolo, Leopardi - fanno l’italiano moderno, non partecipa della cieca e preoccupante necessità delle forze naturali, ma è libera e luminosa scelta dell’intelletto».
Si trattò di un procedimento graduale poiché, già sino dai primi anni dell’Ottocento, i nuovi ideali politici ispirati a quelli liberali derivanti dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, e quelli fortemente patriottici dovuti alle correnti di pensiero romantiche, avevano fatto in modo che la musica in genere, e il teatro d’opera in particolare, da lezioso, galante, scettico e edonistico qual’era nel Settecento, diventasse appassionato, generoso, entusiastico e vibrante, e cominciasse a dare il suo contributo alla nascita dell’Italia.
So bene che un grande ostacolo alla comunicazione tra intellettuali e popolo, fu la non coincidenza di codice tra coloro che porgevano il messaggio e quelli che lo ricevevano, poiché, mentre da un lato gli insorti e i volontari delle varie correnti risorgimentali reclamavano entusiasti «Libertà! Indipendenza!», i contadini, come quelli descritti da Ippolito Nievo nelle Confessioni d'un italiano, ribattevano, cocciuti e sordi: «Polenta! Polenta!».So pure che i cultori delle statistiche si sono affrettati a spiegarci che il Risorgimento fu in realtà un movimento di minoranze, in pratica un’eroica sopraffazione di pochi scalmanati che trascinarono e sospinsero una massa inerte!
Ma, ricordo di aver letto, non so piú in quale libro o rivista, un articolo in cui questi pochi scalmanati erano paragonati a quei numeretti che, come insegna l’algebra, posti all’apice destro di un altro numero, ne sollevano il valore a grande potenza!
E questi esponenti furono quei giovani mazziniani e carbonari precocemente barbuti, che cospirarono, combatterono, languirono nelle segrete dei Piombi di Venezia, di Castel Sant’Angelo e dello Spielberg, o marciarono incontro alla morte cantando cori d’opera.
Significativa, a proposito, l’epopea dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera che, dopo il tragico fallimento della loro spedizione in soccorso di una presunta insurrezione mazziniana in Calabria, il 25 luglio 1844 affrontarono, insieme con altri nove amici, il plotone di esecuzione borbonico nel Vallone di Rovito (presso Cosenza) intonando la seconda strofa del coro «Aspra del militar» dall’opera di Saverio Mercadante Donna Caritea, regina di Spagna, libretto di Paolo Pola, rappresentata per la prima volta alla Fenice di Venezia il 21 febbraio 1826, in cui avevano modificato il primo verso «Chi per la gloria muor / vissuto è assai... » in « Chi per la patria muor / vissuto è assai... ».Non fu questo del martirio dei fratelli Bandiera un incontro casuale della storia patria con la storia della musica, bensí, com’è stato scritto, «un simbolo patetico e significativo della fecondazione attivissima che la musica recò all’uomo nuovo, all’italiano del Risorgimento».
Musica che, come abbiamo già visto, si identificava sostanzialmente con l’opera lirica, al punto da far scrivere a qualcuno che il melodramma è stato la culla sonora nella quale il nostro processo di unificazione nazionale è giunto a compimento.
Non fu un caso, del resto, che il massimo creatore di atmosfere tra i registi italiani, Luchino Visconti, per immergere subito lo spettatore nel clima risorgimentale – in particolare, quello della terza guerra d’indipendenza del 1866 – del suo film Senso, ne ambientasse la prima scena alla Fenice di Venezia nel momento in cui il Trovatore (Manrico) canta «Di quella pira» e, con l'ultimo acuto del fatidico «All'armi!», da il là, anche se in questo caso si tratta di un do di petto, ad una preordinata manifestazione a base di grida «Fuori lo straniero da Venezia!» accompagnate da una pioggia di sediziosi manifestini tricolori che calano dal loggione sulla platea gremita di ufficiali austriaci assai poco entusiasti dell'inatteso coup de théâtre.
Ma era, soprattutto, nelle parti corali che si realizzava il perfetto punto di saldatura tra i sentimenti del singolo e quelli collettivi della nazione, e l’opera lirica diventava, come auspicato nel 1836 da Giuseppe Mazzini nella sua Filosofia della musica, il veicolo ideale per un messaggio politico-patriottico.
La censura austriaca, come abbiamo già visto, avvertì prontamente il pericolo e tentò di reagire bersagliando compositori e librettisti con i veti più bizzarri.
La sfida però era persa in partenza perché, indipendentemente dalla collocazione storica o geografica dell'azione scenica, il minimo richiamo a categorie frequentissime nel melodramma quali la guerra, l'eroismo in battaglia, il canto di uomini in armi, era sufficiente a esaltare un pubblico la cui temperatura patriottica era già elevatissima.
Pur ambientati tra i clan degli highlander scozzesi all’epoca di Giacomo V (XVI secolo), o nell’Inghilterra delle sanguinose lotte fra i seguaci di Cromwell e gli Stuart (XVII secolo), o tra le tribù dell’antica Gallia o tra gli ebrei schiavi dei babilonesi, cori come «Già un raggio forier» della Donna del lago di Rossini, «Guerra, guerra!» di Norma o «Suoni la tromba e intrepido» dei Puritani di Bellini, per non tacere «Va, pensiero» del Nabucco di Verdi, finivano cosí immediatamente ed immancabilmente per mutarsi nel canto della riscossa nazionale italiana.
A riprova della fondatezza delle mie affermazioni, penso valga la pena di ascoltare uno di questi cori, «Già un raggio forier» che chiude il primo atto della Donna del lago, una delle pagine piú dense, non solo del Rossini del periodo napoletano, ma di tutta la storia dell’opera in generale.
Prima di passare alla sua visione, ricordo che questa pagina ha un aggancio storico con una delle figure piú discusse e controverse del Risorgimento, Papa Pio IX, perché lo stesso Rossini, nel 1846 in occasione dell’elezione al soglio pontificio del Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, ne ha curato una rielaborazione per l’inno Grido di Esultazione Riconoscente al Sommo Pontefice Pio IX («Su fratelli, letizia si canti»).È, questo brano, una di quelle eccezioni balenanti, di quei lampi d’intuizione precorritrice che illuminano il mondo drammatico ed espressivo di Rossini che abbraccia, sia pure sotto una maschera di sorridente saggezza, tutte le possibilità dell’animo umano, ogni aspetto della vita individuale e sociale del suo tempo.
Ma i tempi imponevano un passo avanti verso l’estensione della drammaturgia del teatro d’opera italiano nell’approfondimento di nuovi aspetti; passo questo, che storicamente significava entrare nell’età romantica, «di cui Rossini capí benissimo la necessità, e si cavò il gusto di far vedere, col Guglielmo Tell, che, volendo, l’avrebbe saputo fare».
«Voglio amore, e amor violento – scriveva Donizetti a un suo librettista – ché senza questo i soggetti sono freddi!».Ed in questa dichiarazione, si potrebbe condensare la poetica di quei cantori di anime innamorate che rispondono ai nomi di Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti, i cui capolavori, pur ricuperando ai personaggi melodrammatici la vibrazione umana che si era estinta nei manichini convenzionali della tragedia musicale classica o mitologica del Settecento, danno però la sensazione che il romanticismo dovesse da noi manifestarsi soltanto in un approfondimento quasi maniaco della passione amorosa limitandosi solo all’espressione degli affetti individuali senza immedesimarsi in quello che Mazzini ha definito «il moto progressivo dell’universo».
E quando leggiamo che Mazzini, continuando a sviluppare questa sua esigenza di completezza dell’individualità umana dei personaggi, giungeva a chiedersi come mai nel dramma musicale italiano dell’Ottocento non fosse concesso al coro un piú ampio sviluppo per innalzarlo, dalla sfera secondaria e passiva finora concessagli, ad una rappresentazione solenne e intera dell’elemento popolare, ecco allora il pensiero correre inevitabilmente ai cori del Nabucco e dei Lombardi alla Prima crociata e al nome di Giuseppe Verdi al cui genio, scrive Massimo Mila: «toccò ricondurre l’opera italiana all’universalità di sentimenti che c’era già stata, ma su ben altro piano di autentico impegno umano e morale, in Rossini».Verdi infatti seppe musicare, con la stessa partecipazione appassionata con cui Bellini e Donizetti cantavano le pene d’amore di Norma e di Lucia, sentimenti d’altra e piú virile natura, come l’ansia di libertà di un popolo oppresso, la nostalgia di una patria perduta, e, nel periodo piú maturo della sua arte, anche fatti apparentemente prosaici come la ragion di Stato, l’interesse, i puntigli di casta, i contrasti del trono e dell’altare, sia nella monarchia spagnola di Filippo II, sia alla corte dei faraoni egiziani.
È noto ad ogni attento frequentatore del teatro d’opera, l’aneddoto relativo alla genesi del Nabucco, la terza opera di Verdi dopo l’incoraggiante successo di Oberto, conte di San Bonifacio (Teatro alla Scala, 17 novembre 1839) e il doloroso, terribile fiasco di Un giorno di regno andato in scena, sempre alla Scala il 5 settembre 1840, fiasco che sembrava aver sepolto ogni sua speranza di affermarsi come compositore d’opere e ridurlo a vivere un’assurda bohème, senza fantasia, senza bagliori, senza genio e sregolatezza, ma con una gran miseria.
In questo stato d’animo, una sera del mese di novembre 1841, durante una delle sue solite passeggiate per le vie di Milano, Verdi s’imbatteva nell’impresario della Scala Bartolomeo Merelli che, fra una chiacchierata e una battuta, gli chiedeva di leggere un libretto d’opera di Temistocle Solera, intitolato Il proscritto, e nonostante il suo rifiuto, prima di lasciarlo andare, glielo infilava in una tasca del pastrano.
Tornato nella stanzetta dove viveva da solo, essendogli nel frattempo morti la moglie Margherita Barezzi e i due figlioletti nati da quel matrimonio, Verdi sfogliava distrattamente il libretto e il caso volle – come racconta lo stesso musicista – che i suoi occhi si soffermassero a leggere il verso «Va, pensiero, sull’ali dorate».Incuriosito, scorreva gli altri versi e, per farla breve, la sua sensibilità d’artista e il fiuto da uomo di teatro, gli facevano presentire che questa storia, che ha per protagonista un popolo che geme sotto il tallone della schiavitú e vuole riscattarsi, questo rimpianto-lamento per la «patria sí bella e perduta», avrebbe trovato nel pubblico un’immediata rispondenza.
E punta gran parte dell’opera proprio su questa linea e recupera, rispetto al precedente Oberto, conte di San Bonifacio, una cultura di maggior respiro e sfrutta con abilità il «fare grandioso» che guarda indietro al modello rossiniano delle grandi opere corali: Mosè.
Penso, infatti, di poter affermare, senza tema di smentita, che quando si ascolta la preghiera «Dal tuo stellato soglio» dal capolavoro rossiniano, si prova lo stesso brivido che suscita in noi il rimpianto-lamento degli ebrei deportati e schiavi, nel coro «Va, pensiero, sull’ali dorate», «una grande aria ridotta a piú voci insieme - come fa notare il musicologo Antonio Basevi - in cui la coscienza popolare si eleva a unità melodica, senza impennate rivoluzionarie, ma chiamando a testimone una commozione, cosí netta e virile, che diventa inno e farà voltare indietro gli italiani, al loro passato, ogni volta che lo canteranno».
A conferma di ciò, proprio mentre scrivevo queste righe, mi è capitato di leggere un libro di Chiara Bertoglio, intitolato “sì bella e perduta”, nel quale, al di là dell’aspetto storico-politico, musicologico e sociologico, mi ha colpito la ricchezza e la purezza delle numerosissime testimonianze della struggente nostalgia che, dopo piú di sessant’anni, gli esuli istriani, fiumani e dalmati provano, e che riescono ad esprimere attraverso la condivisione di un canto - «Va pensiero» - che fa vibrare le corde piú intime del loro cuore.
Ascoltiamo quindi «Va, pensiero, sull’ali dorate» in una esecuzione diretta da Riccardo Muti nel 2011 al Teatro dell’Opera di Roma.

«Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco / per que' pochi scherzucci di dozzina, / e mi gabella per anti-tedesco / perché metto le birbe alla berlina, / o senta il caso avvenuto di fresco / a me che girellando una mattina / càpito in Sant'Ambrogio di Milano, / in quello vecchio, là, fuori di mano».Sono questi i primi versi della poesia Sant’Ambrogio del toscano Giuseppe Giusti, poeta e patriota vissuto tra il 1809 e il 1850, che ci ricorda un’altra pagina di chiarissima ispirazione risorgimentale, una di quelle liriche munizioni che il Cigno di Busseto offrí alla causa dei patrioti italiani; cioè il coro «O Signore, dal tetto natio» da I Lombardi alla Prima Crociata che, come si legge in un altro punto della poesia del Giusti, «tanti petti ha scossi e inebriati».
Nonostante il prevedibile successo conseguito la sera della prima, 11 febbraio 1843, con particolare rilievo al delirio del pubblico per il coro «O Signore, dal tetto natio», l’opera I Lombardi alla prima crociata, tratta dall’omonimo poema storico di Tommaso Grossi, non è un vero capolavoro.
Sa di maniera, di lavoro di routine, teso a sfruttare il successo del Nabucco di cui ricalca l’impianto: cioè, qualcosa di molto corale, con al momento giusto un pezzo che rinnovi il successo di «Va, pensiero», con il contrappunto di un intreccio di vicende personali e di situazioni ambientali tese a sfruttare il filone patriottico dell’indipendenza nazionale.
Tutto questo, non mi impedisce però di farvi gustare «O Signore, dal tetto natio», dal Concerto di Capodanno 2011 al Teatro La Fenice di Venezia, direttore Daniel Harding.
Durante la vita di Verdi, che abbraccia quasi un secolo (1813-1901), l’Italia si trasformò, da paese sotto il dominio straniero, in uno stato unificato indipendente, desideroso di far parte delle grandi potenze europee.
Verdi si sentì sempre partecipe di questo processo e mai si rinchiuse in un’arte d’élite, distante dai problemi della realtà della sua epoca.
Al compositore sorgeva la necessità di intraprendere un dialogo con il presente e con l’attualità storica.
Scrissero di lui: «Diede una voce alla speranza e ai lutti. Pianse e amò per tutti».La sua arte si può considerare popolare, nel significato più alto del termine, nella misura in cui parla al fruitore in un linguaggio che egli può comprendere immediatamente.
Un linguaggio che, spesso, si presenta sotto forma di dramma, in perfetta sintonia con i grandi ideali del momento.
Il Risorgimento, con le sue lotte per l’unificazione d’Italia, non poteva lasciare indifferente il compositore; esso va, infatti, considerato come l’humus dove immergono le loro radici Nabucco, I Lombardi, Attila, Macbeth, ovvero di quelle pagine dove Verdi esprime il suo sincero amore patriottico e il suo dolore per un popolo oppresso e soggiogato.
Né si può d’altro canto dimenticare che, dopo il successo del Nabucco, Verdi fu accolto nei più importanti circoli intellettuali lombardi del momento, che mai nascosero i loro sentimenti antiaustriaci.
Questo non vuol dire che Verdi abbia partecipato attivamente alla vita politica, anche se aveva idee fortemente repubblicane che gli erano state instillate, fin da ragazzo, dal suo maestro di musica di Busseto, il libertario Ferdinando Provesi.
L’unico momento in cui Verdi manifestava senza indugi i suoi ideali patriottici è nel 1848, quando la libertà dell’Italia sembrava essere molto vicina.
Indicative le parole che scriveva al suo amico Piave il 21 aprile 1848: «L’ora della liberazione è arrivata, capacitatene. È il popolo che la desidera; e quando il popolo la vuole, non vi è nessun potere assoluto che può opporre resistenza! Potranno impedire con tutto quello che possono, coloro che credono che sia necessaria la forza, però non riusciranno più a privare il popolo dei propri diritti. Sì, in pochi anni, forse mesi, l’Italia sarà libera, sarà una Repubblica».In questo clima il compositore accettava l’invito di Mazzini, che aveva conosciuto a Londra nel 1847, a comporre un inno sui versi di Goffredo Mameli, «Suona la tromba: ondeggiano / le insegne gialle e nere. / Fuoco! Per Dio, sui barbari / sulle vendute schiere. / Già ferve la battaglia / al Dio dei forti, osanna! / La baionetta in canna / è giunta l’ora di pugnar!».In seguito scriveva un’opera con un messaggio politico evidente, La battaglia di Legnano, dove la sconfitta e la conseguente cacciata di Federico Barbarossa simboleggia la liberazione dell’Italia dal dominio straniero.
L’opera, su libretto di Salvatore Cammarano, è andata in scena per la prima volta, alla presenza dello stesso Verdi, il 27 gennaio 1849, al Teatro Argentina di Roma.
La storia patria c’insegna che, proprio nello stesso periodo, il triunvirato formato da Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi, a conclusione dei moti che, il 25 novembre del 1848, avevano indotto papa Pio IX a rifugiarsi a Gaeta, si apprestava a issare il vessillo della Repubblica Romana, e a scrivere una tra le pagine più epiche, dopo quella della Repubblica Veneta, del Risorgimento italiano.
Pagina che si concludeva, il 1° luglio 1849, dopo un’impari lotta contro l’assalto delle truppe francesi al comando del generale Oudinot, in cui rifulsero, fra le altre, le figure di Luciano Manara, Giuseppe Garibaldi, Goffredo Mameli, che fu curato da Cristina Trivulzio di Belgioioso e dalle sue infermiere, morendo tra le loro braccia, accompagnato dall’affetto di donne che fecero il Risorgimento, spesso come eroine invisibili.
Stimolata dal clima creato da questo e dai coevi avvenimenti bellici delle Cinque Giornate di Milano e della successiva prima guerra di indipendenza, La battaglia di Legnano, nonostante le attese di Verdi, trovò proprio in questo ideale legame un limite alla sua stabile affermazione sulle scene europee.
Va da sé che la prima rappresentazione dell’opera ebbe, prevedibilmente, un clamoroso successo, un tripudio d'esultanza popolare tra sciarpe, nastri e coccarde tricolori.
Numerose le chiamate per il maestro e gli interpreti, tra le grida di «Viva Verdi! Viva l'Italia!».Addirittura bissati il coro del giuramento del Terzo atto, «Giuriam d’Italia por fine ai danni», e l'intero Quarto atto.
Quando, però, i movimenti rivoluzionari del 1848-49 sfociarono in un bagno di sangue, Verdi si allontanò dalla linea di battaglia e tornò ad essere, prima di tutto, un compositore che continuava a sperare in privato nella libertà nazionale.
Il suo nome rimase comunque vincolato agli ideali del Risorgimento, fino a trasformarsi in un acrostico rivoluzionario che fu dipinto, per la prima volta, sulle mura di Roma all’epoca della prima rappresentazione di Un ballo in maschera al Teatro Apollo (17 febbraio 1859).
L’idea si diffondeva rapidamente per tutto il paese, che era sottoposto ad un clima di controllo politico duro ed asfissiante.
Il graffito “VIVA VERDI”, dall’aspetto così innocuo, alludeva in realtà, ad una aspirazione che con gli anni stava diventando sempre più popolare e condivisa: Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia!



Lo stesso Verdi finí per aderire al progetto del Regno d’Italia quando capí che l’unità del paese si poteva concretizzare, non attraverso l’insurrezione popolare e l’utopia repubblicana di Mazzini, ma esclusivamente mediante il paziente lavoro diplomatico, che si andava realizzando in nome della casa Savoia, data la sua possibilità di ottenere l’appoggio delle cancellerie dei paesi più importanti d’Europa.
Tuttavia, le alchimie politiche erano estranee alla personalità di Verdi, come si deduce dal fatto che, dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, il musicista entrava in Parlamento soltanto per cinque anni, dal 1861 al 1865.
Successivamente, lasciava da parte questa attività con la convinzione di essere più utile al suo paese come artista che come deputato.
Il suo impegno politico, dopo l’unità, si trasformava in un fermo richiamo agli ideali di pace e di fraternità, a un livello superiore, distante da ogni compromesso e dalle strategie machiavelliche dei partiti politici.
Richiamo di cui sostanzierà la propria ispirazione musicale drammatica di opere in cui i vari ostacoli, che le ragioni del trono o dell’altare oppongono agli amori dei personaggi, hanno per lui interesse pari, se non addirittura superiore, a quello che prova per i casi amorosi in sé e per sé.
Ricordo, tanto per fare qualche esempio:
- la sollevazione del popolo palermitano contro gli occupanti francesi, nei Vespri siciliani;
- l’innesto della petrarchesca esortazione alla pace fra gli italiani («Italia mia benché ‘l parlar sia indarno … »), nella straordinaria Scena del Consiglio nel Simon Boccanegra;
- il conflitto fra Stato e Chiesa, in Don Carlos, e la causa dell’indipendenza etiopica, in Aida.
Il personaggio verdiano ci si presenta dunque, sia pure sotto diversi cieli, epoche e costumi, come un uomo diventato sociale, inserito nel tessuto connettivo del consorzio umano.
È l’italiano nuovo, l’italiano del Risorgimento al quale, in quest’anno in cui si celebra la ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, rinnoviamo tutta la nostra ammirazione e gratitudine per il prezioso patrimonio di ideali che ci ha lasciato.






Gilberto Calcagnini è nato a Pennabilli (PU) e vive a Pesaro. Laureato in Chimica Industriale, ha insegnato materie tecniche negli istituti tecnici e professionali statali. Per il suo fattivo e concreto interessamento alle manifestazioni culturali pesaresi, è stato chiamato a far parte dei direttivi di importanti associazioni culturali ed enti cittadini attivi nei settori della musica operistica e strumentale pesarese. Negli anni 1980, con la collaborazione di un gruppo di altri appassionati cultori di musica operistica, ha curato, per conto di un’emittente televisiva locale, un ciclo di trasmissioni dedicate alla storia del Teatro Rossini, il cui materiale ha poi utilizzato per la redazione del volume “Il Teatro Rossini di Pesaro fra spettacolo e cronaca: 1898 – 1966” pubblicato nel 1997 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro. Nel 1999 ha curato, per la Fondazione Rossini, l’allestimento di “Manifesti in Musica”, una mostra dedicata alle vicende musicali pesaresi dal 1864 al 1932. Attualmente collabora con varie associazioni culturali del territorio, tenendo conferenze su argomenti di storia della musica lirica e strumentale.

















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