LE ERBE DA TAVOLAdi Graziella Picchi
Imprevedibile nocività dell'esodoIn principio l'uomo si nutrì di bacche, frutta, animali di piccola taglia, radici e foglie di erbe selvatiche. Non sappiamo, ma possiamo solo immaginarlo, il prezzo che egli ha dovuto pagare per imparare a distinguere le buone dalle cattive erbe e comprenderne la funzione nella strategia del creato.
Imparò comunque a nutrirsi col meglio che ogni stagione offriva: germogli e tenere erbette in primavera, frutti in estate, bacche in autunno, radici e foglie in inverno, specie di quelle appartenenti alla vasta famiglia delle Crucifere.
Questo modello ha resistito, con alti e bassi dovuti ai grandi cambiamenti climatici delle ere passate, fino in epoca recente, quando lo sviluppo industriale modifica sia la produzione sia la distribuzione del cibo, nonché la presenza più o meno intensa di erbe selvatiche, che risentono dell'abbandono delle campagne da parte di uomini e animali domestici. È alla scarsa presenza di questi che gli esperti riconducono buona parte del degrado e della perdita di risorse vegetali verificatasi negli ultimi decenni. Fino al 1935, nei pascoli alti le pecore potevano restare fino all'arrivo della prima neve, sotto la quale i semi indigeriti delle specie pregiate, disseminati con le deiezioni animali, rimanevano per tutto l'inverno, pronti a germinare in primavera e ricostituire così il manto erboso. Ed era questa pratica che manteneva in equilibrio la flora dei pascoli montani e di conseguenza la qualità degli alimenti, carne e formaggi soprattutto. Poi agli animali viene proibito, per decreto, di pascolare in alta quota, oltre i mille metri dopo il primo settembre - salvo permessi rilasciati di volta in volta su richiesta degli interessati - e i semi delle essenze più pregiate non vengono più disseminati dagli animali. Ovunque avanza l'invadente e tenace falasco - ed altre specie meno pregiate - colonizzando intere aree a scapito delle erbe buone come le commestibili e le leguminose foraggiere, sempre meno presenti nella copertura vegetale di alta quota, tanto che non superano il cinque per mille delle erbe presenti.
Imprevedibile nocività dell'esodoIn principio l'uomo si nutrì di bacche, frutta, animali di piccola taglia, radici e foglie di erbe selvatiche. Non sappiamo, ma possiamo solo immaginarlo, il prezzo che egli ha dovuto pagare per imparare a distinguere le buone dalle cattive erbe e comprenderne la funzione nella strategia del creato.
Imparò comunque a nutrirsi col meglio che ogni stagione offriva: germogli e tenere erbette in primavera, frutti in estate, bacche in autunno, radici e foglie in inverno, specie di quelle appartenenti alla vasta famiglia delle Crucifere.
Questo modello ha resistito, con alti e bassi dovuti ai grandi cambiamenti climatici delle ere passate, fino in epoca recente, quando lo sviluppo industriale modifica sia la produzione sia la distribuzione del cibo, nonché la presenza più o meno intensa di erbe selvatiche, che risentono dell'abbandono delle campagne da parte di uomini e animali domestici. È alla scarsa presenza di questi che gli esperti riconducono buona parte del degrado e della perdita di risorse vegetali verificatasi negli ultimi decenni. Fino al 1935, nei pascoli alti le pecore potevano restare fino all'arrivo della prima neve, sotto la quale i semi indigeriti delle specie pregiate, disseminati con le deiezioni animali, rimanevano per tutto l'inverno, pronti a germinare in primavera e ricostituire così il manto erboso. Ed era questa pratica che manteneva in equilibrio la flora dei pascoli montani e di conseguenza la qualità degli alimenti, carne e formaggi soprattutto. Poi agli animali viene proibito, per decreto, di pascolare in alta quota, oltre i mille metri dopo il primo settembre - salvo permessi rilasciati di volta in volta su richiesta degli interessati - e i semi delle essenze più pregiate non vengono più disseminati dagli animali. Ovunque avanza l'invadente e tenace falasco - ed altre specie meno pregiate - colonizzando intere aree a scapito delle erbe buone come le commestibili e le leguminose foraggiere, sempre meno presenti nella copertura vegetale di alta quota, tanto che non superano il cinque per mille delle erbe presenti.
Asparagus acutifolius L
Sparagio di bosco
Italia come espressione botanicaAbbandonate dagli esseri umani, dagli animali, distrutte dai diserbanti, dalle colate di cemento, dall'abbandono della terra, dalla copertura del manto stradale, dal ritmo della vita moderna, le erbe selvatiche, commestibili e non, hanno cercato rifugio, come ultima spiaggia, nei bordi delle strade, nelle scarpate, lungo le ferrovie, e ovunque esista ancora un minimo di manutenzione da parte dell'uomo. Segno evidente che di spontaneo, nella crescita delle erbe, c'è ben poco. Nei maggesi collinari è presente la varietà di erbe selvatiche più interessante: dalle Cicorie alle Cicerbite, dalle Scabiose alle Sileni, dalle Crepis alle Picris, fino alle Casselle. La Castagna di terra, bulbo ormai dimenticato, vive ancora nelle zone più alte del paese, ricercato da istrici e cinghiali, mentre gli azzurri pennacchi dei Cipollacci o Lampascioni che dir si voglia, spuntano qua e la in quasi tutti i margini della rete stradale di colline e montagne. Il Raponzolo, consumato sia allo stato di rosetta basale che di radice, si è trasferito dai luoghi abituali, prati erbosi e boschi, ai margini delle strade sassose che costeggiano le pendici delle montagne. Trovarlo è diventata un'impresa. I germogli degli Asparagi, del Pungitopo o della Cicerbita alpina, sono i più gettonati tanto da rischiare l'estinzione e la distruzione del delicato equilibrio del bosco e sottobosco, costituitosi in millenni di evoluzione. Così, anno dopo anno, chi si è sempre dedicato alla raccolta delle erbe, ha avuto modo di osservare come queste si siano adattate, per sopravvivere, ai profondi mutamenti verificatisi in agricoltura, con la fuga, per riapparire nelle zone usuali, al minimo ripristino di normalità, come se nulla fosse. Anche la riduzione del numero degli animali domestici in libera circolazione ha contribuito all'erosione e alla riduzione della flora selvatica più grata al palato degli umani. I margini delle strade e le scarpate rimangono i luoghi dove questa si rifugia più volentieri, ma la presenza dell'inquinante traffico automobilistico ne scoraggia la raccolta. Nelle zone con traffico ridotto, collinari e montane, questo problema è di minore entità, ma il fattore limitante, specie se i terreni sono abbandonati, è il falasco che colonizzando intere aree limita la presenza delle erbe mangerecce.
Stridi
I nomi delle erbeAnche tra le erbe ci sono quelle più ambite e quelle neglette, cioè dimenticate, o relegate ai periodi di grave penuria alimentare l'ultimo dei quali, almeno in Europa, si è verificato in coincidenza dell'ultima guerra mondiale.
Tra le prime, citiamo per il nord la Cicerbita alpina, la Myrrhis odorata, l' Aruncus dioicus. Così amate da correre il rischio di estinzione, se non fossero state fatte delle regole più severe per regolamentarne la raccolta, ammesso che bastino.
Per l'Italia centrale la Lactuca perennis, il Taraxacum glaciale; la Chondrilla juncea, la Reichardia picroides sono altrettanto ricercate, ma, relativamente alla Lactuca perennis, attualmente più che l'uomo a distruggerla è il cinghiale. Le prime due sono oggetto di raccolta soltanto in zone limitate di Marche e Abruzzo, mentre l'area di consumo delle altre due erbe è estesa a tutta l'Italia, ma sono particolarmente apprezzate, tanto da diventare oggetto di un vero e proprio culto di raccolta, soprattutto nel centro Italia, con picchi di alto gradimento anche in Liguria. La Chondrilla juncea, l'insalata selvatica per eccellenza, è un 'erba inquieta, delicata, permalosa che risente sia dell'uso dei diserbanti che dell'abbandono dei terreni, e quando questi non vengono più lavorati cambia sito e trovarla è sempre più difficile, tranne lungo i binari delle ferrovie, quando l'infiorescenza si erge rigogliosa, provocatoria, turgida e inaccessibile, come raramente capita di vederla nei prati.
Sono queste infiorescenze ad essere raccolte nelle regioni meridionali e la rosetta basale sembra essere meno interessate di queste, usate per fare la frittata o quale contorno dopo averle lessate. Nel sud il legame delle popolazioni rurali con il territorio e le tradizioni alimentari è più vivace e numerose sono le specie selvatiche ancora presenti e consumate: scontato citare il consumo della Leopoldia comosa, ma un po' meno quello della Reseda alba, esclusiva delle etnie grecaniche dell'Aspromonte, o dell'Asphodeline lutea, consumata nelle Murge.
L'uso dell' Amaranthus lividus, sporadicamente raccolto nel resto d'ltalia, è pratica comune sia in Basilicata che in Calabria. Il finocchio selvatico, ovunque usato come erba aromatica, in quest'ultima regione, la parte verde e tenera la si consuma anche lessa, condita con olio e limone e in tanti altri modi, come si fa in genere con le cicorie. L'asparago, al pari delle cicorie, unisce l'Italia da nord a sud, più di quanto non abbiano fatto le guerre d'Indipendenza. Rimandiamo alla lettura delle schede gli svariati ed originali modi di trattare le erbe in ambito culinario.
Il resto delle erbe meno note sono varianti locali, ognuna delle quali si carica di volta in volta di valenze etniche, antropologiche, geografiche, storiche, di costume e perfino fantastiche, i cui nomi popolari stanno diventando sempre più stinti, in dissoluzione, come scrive Gian Luigi Beccaria riferendosi alle parole: "...la più grande tristezza è incontrarle malvive, dissolte. [...] Nel nostro paese, in questo secolo, di parole ne sono morte a centinaia in specie voci della quotidianità, dialettali e popolari, legate alle opere e ai giorni del mondo contadino. [ ...] Con la fine della civiltà contadina e delle comunità rurali si sono stinte le parole popolari della flora e della fauna" . Se è vero che il solo evocare un nome ci riporta col ricordo agli anni verdi dell'infanzia, indagarne il significato spinge “...tra le pieghe di una cultura appena di ieri eppure già travolta con prepotenza dal presente urbano e tecnologico, per suscitare tra i campi e i boschi e il vento sciami di voci e di immagini vivide e perdute". Come i termini rapastello, caccialepre, ginestrella, cacazzimmeri, carleti, e tutti gli altri riservati alle erbe selvatiche, che al solo pronunciarli escono dal limbo delle parole in estinzione ed evocano davvero immagini vivide e perdute di donne curve nell'atto della raccolta, di paioli fumanti sulle fiamme del fuoco, di padelle profumate che sanno di aglio, patate e rape, irrompendo prepotenti nella nostra era tecnologica confermando ciò che scrive lo studioso poc'anzi citato: che i nomi dati alla flora dai ceti contadini obbediscono più a fattori psicologici ed emotivi piuttosto che a logiche di classificazione, proprie degli studiosi. Non a caso le parole e i ricordi degli anziani insistono più su alcune specie piuttosto che su altre, soprattutto su quelle legate ai periodi di scarsità alimentare (fitoalimurgia) o usate a scopo curativo, o che trovavano facile collocazione nei mercati paesani, permettendo la circolazione di qualche spicciolo in più, come nel caso del Taraxacum glaciale o della cicerbita alpina, erbe da tavola ricca, oppure su quelle alle quali si attribuivano proprietà apotropaiche (antidoto contro la iattura), o a favorire l'incontro con l'anima gemella, o la protezione divina o semplicemente per alimentare le facoltà oniriche e immaginarie.
Tra le prime, citiamo per il nord la Cicerbita alpina, la Myrrhis odorata, l' Aruncus dioicus. Così amate da correre il rischio di estinzione, se non fossero state fatte delle regole più severe per regolamentarne la raccolta, ammesso che bastino.
Per l'Italia centrale la Lactuca perennis, il Taraxacum glaciale; la Chondrilla juncea, la Reichardia picroides sono altrettanto ricercate, ma, relativamente alla Lactuca perennis, attualmente più che l'uomo a distruggerla è il cinghiale. Le prime due sono oggetto di raccolta soltanto in zone limitate di Marche e Abruzzo, mentre l'area di consumo delle altre due erbe è estesa a tutta l'Italia, ma sono particolarmente apprezzate, tanto da diventare oggetto di un vero e proprio culto di raccolta, soprattutto nel centro Italia, con picchi di alto gradimento anche in Liguria. La Chondrilla juncea, l'insalata selvatica per eccellenza, è un 'erba inquieta, delicata, permalosa che risente sia dell'uso dei diserbanti che dell'abbandono dei terreni, e quando questi non vengono più lavorati cambia sito e trovarla è sempre più difficile, tranne lungo i binari delle ferrovie, quando l'infiorescenza si erge rigogliosa, provocatoria, turgida e inaccessibile, come raramente capita di vederla nei prati.
Sono queste infiorescenze ad essere raccolte nelle regioni meridionali e la rosetta basale sembra essere meno interessate di queste, usate per fare la frittata o quale contorno dopo averle lessate. Nel sud il legame delle popolazioni rurali con il territorio e le tradizioni alimentari è più vivace e numerose sono le specie selvatiche ancora presenti e consumate: scontato citare il consumo della Leopoldia comosa, ma un po' meno quello della Reseda alba, esclusiva delle etnie grecaniche dell'Aspromonte, o dell'Asphodeline lutea, consumata nelle Murge.
L'uso dell' Amaranthus lividus, sporadicamente raccolto nel resto d'ltalia, è pratica comune sia in Basilicata che in Calabria. Il finocchio selvatico, ovunque usato come erba aromatica, in quest'ultima regione, la parte verde e tenera la si consuma anche lessa, condita con olio e limone e in tanti altri modi, come si fa in genere con le cicorie. L'asparago, al pari delle cicorie, unisce l'Italia da nord a sud, più di quanto non abbiano fatto le guerre d'Indipendenza. Rimandiamo alla lettura delle schede gli svariati ed originali modi di trattare le erbe in ambito culinario.
Il resto delle erbe meno note sono varianti locali, ognuna delle quali si carica di volta in volta di valenze etniche, antropologiche, geografiche, storiche, di costume e perfino fantastiche, i cui nomi popolari stanno diventando sempre più stinti, in dissoluzione, come scrive Gian Luigi Beccaria riferendosi alle parole: "...la più grande tristezza è incontrarle malvive, dissolte. [...] Nel nostro paese, in questo secolo, di parole ne sono morte a centinaia in specie voci della quotidianità, dialettali e popolari, legate alle opere e ai giorni del mondo contadino. [ ...] Con la fine della civiltà contadina e delle comunità rurali si sono stinte le parole popolari della flora e della fauna" . Se è vero che il solo evocare un nome ci riporta col ricordo agli anni verdi dell'infanzia, indagarne il significato spinge “...tra le pieghe di una cultura appena di ieri eppure già travolta con prepotenza dal presente urbano e tecnologico, per suscitare tra i campi e i boschi e il vento sciami di voci e di immagini vivide e perdute". Come i termini rapastello, caccialepre, ginestrella, cacazzimmeri, carleti, e tutti gli altri riservati alle erbe selvatiche, che al solo pronunciarli escono dal limbo delle parole in estinzione ed evocano davvero immagini vivide e perdute di donne curve nell'atto della raccolta, di paioli fumanti sulle fiamme del fuoco, di padelle profumate che sanno di aglio, patate e rape, irrompendo prepotenti nella nostra era tecnologica confermando ciò che scrive lo studioso poc'anzi citato: che i nomi dati alla flora dai ceti contadini obbediscono più a fattori psicologici ed emotivi piuttosto che a logiche di classificazione, proprie degli studiosi. Non a caso le parole e i ricordi degli anziani insistono più su alcune specie piuttosto che su altre, soprattutto su quelle legate ai periodi di scarsità alimentare (fitoalimurgia) o usate a scopo curativo, o che trovavano facile collocazione nei mercati paesani, permettendo la circolazione di qualche spicciolo in più, come nel caso del Taraxacum glaciale o della cicerbita alpina, erbe da tavola ricca, oppure su quelle alle quali si attribuivano proprietà apotropaiche (antidoto contro la iattura), o a favorire l'incontro con l'anima gemella, o la protezione divina o semplicemente per alimentare le facoltà oniriche e immaginarie.
e ssp. piperitum (Ucria) Goutinho
Finocchio selvatico
Finocchio selvatico
Erbe e migrazioniLa dove c'è stata una mescolanza di culture diverse - delocalizzazione e migrazione delle tradizioni - c'è stato uno scambio di conoscenze e un arricchimento reciproco: la lista delle erbe consumate si è allungata e la varietà dei piatti pure. Il fenomeno si sta ripetendo anche ai giorni nostri, nelle regioni dell'Italia centrale, con l'arrivo dei nord europei, tedeschi e inglesi soprattutto, tradizionali consumatori dei fiori e bacche di sambuco: una bevanda dissetante, che in Italia era usuale qualche secolo fa, facile da preparare, a base di questi fiori, circola sempre più di frequente durante l'estate anche sulle nostre tavole. La migrazione di conoscenze e di risorse è un fenomeno poco studiato che potrebbe spiegare il consumo di determinate erbe estranee alle popolazioni autoctone, come ad esempio la raccolta del Chenopodium album o dell'Amarantus lividus, il cui consumo è apparso di recente anche nell'Italia centrale, con conseguente arricchimento della varietà di erbe raccolte. Forse è anche merito dei tanti libri divulgativi, che segnalando il consumo di specie erbacee oggi non più di moda, hanno invogliato alla raccolta, come è avvenuto con l'ortica, mai usata dai ceti rurali per la loro alimentazione ma solo per quella animale, ai quali assicurava benessere fisico e resistenza alle malattie. Fatto è che conoscenze e risorse si muovono oggi molto più rapidamente che nel passato. I semi di qualsivoglia pianta possono arrivare nascosti nel fango di una ruota di un camion o mescolati con altri semi che circolano liberamente sul mercato, o nelle pieghe della suola di uno scarpone e via dicendo; lo abbiamo appurato nello svolgimento dei lavori, quando abbiamo trovato varietà di erbe la dove, stando alle guide botaniche di casa nostra, non dovrebbero esserci. Un fenomeno nuovo sulla migrazione delle conoscenze è in corso sotto i nostri occhi: spunti interessanti ci vengono dalle donne dell'est Europa, che molto più di quanto non si creda si dedicano alla raccolta delle erbe spontanee e considerano commestibili le erbe che morfologicamente assomigliano a quelle raccolte nella terra di origine.
Hanno dato un contributo non da poco, alla delocalizzazione delle tradizioni anche le nostre donne di origine contadina che si sono inurbate, specie quelle di una certa età, insegnando alle cittadine l'arte di raccogliere e consumare le erbe selvatiche. Al mezzo più rapido di divulgazione, la televisione, riconosciamo il merito di aver suscitato un notevole interesse e amore nei confronti della natura e del mondo contadino in genere. Oggi non ci si stupisce più se lungo i sentieri di campagna vediamo sempre più spesso donne di città curve nell’atto della raccolta; ma per imparare a riconoscere una pianta selvatica da una cattiva occorre un apprendistato "sul campo" che non può essere sostituito in nessun altro modo.
Speranze di saluteGermogli, erbe, fiori, radici e bacche selvatiche godono oggi di un ampio consenso gastronomico impensabile qualche decennio fa, con ricadute positive per quanti sanno riproporre vecchie ricette in modo nuovo. La natura della materia trattata è tale che fantasia e creatività della nuova generazione di chef vengono prepotentemente stimolate con risultati quantomeno sorprendenti. Dai consumatori, complice la pubblicità, tutto ciò che cresce "spontaneamente" viene percepito come dispensatrice di salute, che ci riconcilia con la natura. L'arte medica, come la conosciamo oggi, stando allo studio della storia della medicina, inizia la sua evoluzione proprio dalle pratiche erboristiche, agli albori in mano alle donne e passata, successivamente e in modo non del tutto indolore, agli uomini. Grazie a queste conoscenze sappiamo che piante ed erbe selvatiche contengono sostanze farmacologicamente attive, copiate dalla chimica, ma i cui effetti sulla salute sono però meno efficaci e più tossici di quelli della pianta originale. Da questa constatazione il rinnovato interesse di molti medici verso il mondo vegetale, convinti che le piante, comprese quelle mangerecce, possono ancora avere un ruolo importante nella cura delle più svariate patologie. Molte scoperte del passato hanno resistito alla prova del tempo: un esempio classico è fornito dalla scoperta della digitalina, principio attivo della digitale, impiegata nelle affezioni cardiache, ad opera degli etnobotanici del Settecento, quando osservarono l'usanza dei contadini inglesi di bere una tisana di fiorellini purpurei per superare le crisi cardiache. Si stima che più del 90% delle molecole, farmacologicamente attive oggi conosciute, derivi dalle piante da fiore. Due secoli fa, quando il naturalista svedese Carlo Linneo, inventariava la flora, l'introspezione chimica del mondo vegetale era appena agli inizi. Da allora molta strada è stata fatta, ma pare che il più resti ancora da fare, e non a caso oggi l'attenzione dei farmacognosti è rivolta all'individuazione dei principi attivi contenuti nelle piante selvatiche mangerecce, tradizionalmente consumate dai ceti popolari e contadini. Obiettivo di queste ricerche la messa a punto di integratori alimentari, fonte di sicuri profitti, vista la predilezione del moderno consumatore per tutto ciò che sa evocare scenari di vita bucolica immersi nella natura. Pare che estrarre da una pianta, che contiene un 'infinità di sostanze extranutrizionali, ciò che cura una determinata patologia sia più facile a dirsi che a farsi. Comunque tra le piante più ricche di questi principi, amici della nostra salute, la Reichardia picroides, la Silene vulgaris e la Condrilla giuncata, le più gettonate tra le selvatiche mangerecce. Ma per godere di questi vantaggi meglio continuare a consumarle come abbiamo sempre fatto, perche pare che il singolo principio attivo isolato, sia meno efficace della pianta intera. Un solo grande rammarico: dagli ultimi protagonisti della straordinaria Civiltà Contadina, prossimi al capolinea, ci arrivano ancora indicazioni sull'uso delle erbe selvatiche non solo per uso alimentare, ma anche curativo, puntualmente ignorate ieri come oggi. Chi l'ha detto che la testimonianza relativa all'uso di una piante selvatica, di anziani che vivono in uno sperduto paesino degli Appennini o dell’arco Alpino o del delta Padano, o del Cilento valga meno o non sia altrettanto ricca di possibilità di quella di un indigeno della foresta tropicale brasiana o di qualsiasi altra parte del mondo, dove oggi le case farmaceutiche si affannano a cercare molecole esotiche per futuri affari? Chi l'ha detto che le erbe di casa nostra, una volta studiate bene, partendo proprio dalla memoria degli anziani, non possano rivelarsi altrettanto preziose di quelle esotiche sia per l’economia che per la nostra salute? Come dire che le erbe oggi fanno ancora mangiare e. ..questa volta non solo gli affamati.
Hanno dato un contributo non da poco, alla delocalizzazione delle tradizioni anche le nostre donne di origine contadina che si sono inurbate, specie quelle di una certa età, insegnando alle cittadine l'arte di raccogliere e consumare le erbe selvatiche. Al mezzo più rapido di divulgazione, la televisione, riconosciamo il merito di aver suscitato un notevole interesse e amore nei confronti della natura e del mondo contadino in genere. Oggi non ci si stupisce più se lungo i sentieri di campagna vediamo sempre più spesso donne di città curve nell’atto della raccolta; ma per imparare a riconoscere una pianta selvatica da una cattiva occorre un apprendistato "sul campo" che non può essere sostituito in nessun altro modo.
Speranze di saluteGermogli, erbe, fiori, radici e bacche selvatiche godono oggi di un ampio consenso gastronomico impensabile qualche decennio fa, con ricadute positive per quanti sanno riproporre vecchie ricette in modo nuovo. La natura della materia trattata è tale che fantasia e creatività della nuova generazione di chef vengono prepotentemente stimolate con risultati quantomeno sorprendenti. Dai consumatori, complice la pubblicità, tutto ciò che cresce "spontaneamente" viene percepito come dispensatrice di salute, che ci riconcilia con la natura. L'arte medica, come la conosciamo oggi, stando allo studio della storia della medicina, inizia la sua evoluzione proprio dalle pratiche erboristiche, agli albori in mano alle donne e passata, successivamente e in modo non del tutto indolore, agli uomini. Grazie a queste conoscenze sappiamo che piante ed erbe selvatiche contengono sostanze farmacologicamente attive, copiate dalla chimica, ma i cui effetti sulla salute sono però meno efficaci e più tossici di quelli della pianta originale. Da questa constatazione il rinnovato interesse di molti medici verso il mondo vegetale, convinti che le piante, comprese quelle mangerecce, possono ancora avere un ruolo importante nella cura delle più svariate patologie. Molte scoperte del passato hanno resistito alla prova del tempo: un esempio classico è fornito dalla scoperta della digitalina, principio attivo della digitale, impiegata nelle affezioni cardiache, ad opera degli etnobotanici del Settecento, quando osservarono l'usanza dei contadini inglesi di bere una tisana di fiorellini purpurei per superare le crisi cardiache. Si stima che più del 90% delle molecole, farmacologicamente attive oggi conosciute, derivi dalle piante da fiore. Due secoli fa, quando il naturalista svedese Carlo Linneo, inventariava la flora, l'introspezione chimica del mondo vegetale era appena agli inizi. Da allora molta strada è stata fatta, ma pare che il più resti ancora da fare, e non a caso oggi l'attenzione dei farmacognosti è rivolta all'individuazione dei principi attivi contenuti nelle piante selvatiche mangerecce, tradizionalmente consumate dai ceti popolari e contadini. Obiettivo di queste ricerche la messa a punto di integratori alimentari, fonte di sicuri profitti, vista la predilezione del moderno consumatore per tutto ciò che sa evocare scenari di vita bucolica immersi nella natura. Pare che estrarre da una pianta, che contiene un 'infinità di sostanze extranutrizionali, ciò che cura una determinata patologia sia più facile a dirsi che a farsi. Comunque tra le piante più ricche di questi principi, amici della nostra salute, la Reichardia picroides, la Silene vulgaris e la Condrilla giuncata, le più gettonate tra le selvatiche mangerecce. Ma per godere di questi vantaggi meglio continuare a consumarle come abbiamo sempre fatto, perche pare che il singolo principio attivo isolato, sia meno efficace della pianta intera. Un solo grande rammarico: dagli ultimi protagonisti della straordinaria Civiltà Contadina, prossimi al capolinea, ci arrivano ancora indicazioni sull'uso delle erbe selvatiche non solo per uso alimentare, ma anche curativo, puntualmente ignorate ieri come oggi. Chi l'ha detto che la testimonianza relativa all'uso di una piante selvatica, di anziani che vivono in uno sperduto paesino degli Appennini o dell’arco Alpino o del delta Padano, o del Cilento valga meno o non sia altrettanto ricca di possibilità di quella di un indigeno della foresta tropicale brasiana o di qualsiasi altra parte del mondo, dove oggi le case farmaceutiche si affannano a cercare molecole esotiche per futuri affari? Chi l'ha detto che le erbe di casa nostra, una volta studiate bene, partendo proprio dalla memoria degli anziani, non possano rivelarsi altrettanto preziose di quelle esotiche sia per l’economia che per la nostra salute? Come dire che le erbe oggi fanno ancora mangiare e. ..questa volta non solo gli affamati.
Graziella Picchi è Sociologo Rurale presso l’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale.
Diploma di Perito Agrario presso l'Istituto Tecnico Agrario di Fabriano (An)
Diploma di Laurea in Sociologia presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Urbino (PU) - marzo del 1986 - con votazione 110/110 e dichiarazione di lode, con una tesi di economia politica sul mercato della soia.
Attestato di partecipazione al corso d'Analisi Sensoriali organizzato dalla Sezione di Scienze e Tecnologie Alimentari dell’Università della Basilicata.
Cultrice della materia presso l'Università di Urbino.
Diploma di Laurea in Sociologia presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Urbino (PU) - marzo del 1986 - con votazione 110/110 e dichiarazione di lode, con una tesi di economia politica sul mercato della soia.
Attestato di partecipazione al corso d'Analisi Sensoriali organizzato dalla Sezione di Scienze e Tecnologie Alimentari dell’Università della Basilicata.
Cultrice della materia presso l'Università di Urbino.
Alla fine degli anni 1970 ha favorito una collaborazione tra la Comunità Montana di Fabriano, il Distretto Scolastico e la Coop Italia, con la quale collaborava come volontaria sulle tematiche dell’Educazione Alimentare, una vasta ricerca sulle abitudini alimentari dell’Alta Valle dell’Esino, che ha coinvolto gli studenti delle elementari e delle medie di tutto il territorio montano. Un esempio di alimentazione marginale in un territorio agricolo marginale. Da questo lavoro è stato tratto un libro dal titolo Antologia della cucina popolare (vedi elenco opere pubblicate), premiato a Lisbona nella giornata mondiale dell’alimentazione.
Ha organizzato numerosi eventi fieristici e di promozione dei prodotti tipici (nicchie produttive di manufatti alimentari di pregio) nel corso degli anni 1990 di cui segnaliamo i più significativi: Fiera di Cremona. Esposizione e degustazione di formaggi DOC; Vicenza: in forma DOC, reparto delle piccole realtà produttive; Roma Villa Miami: degustazione di oltre 200 tipologie casearie in presenza di numerosi addetti ai lavori, Ministro dell’Agricoltura compreso (Giovanni Goria); Roma Casina Valadier, in occasione della presentazione Atlante delle Conserve degustazione delle stesse; Firenze: per il Gruppo dei Verdi della regione Toscana ha organizzato, in più di sei anni di collaborazione, numerosi convegni di divulgazione scientifica sui temi delle tecnologie appropriate, sulla produzione e trasformazione del cibo, sull’uso razionale delle risorse. E’ in fase di organizzazione il primo premio nazionale (INSOR- Fiera di Cremona 12/15 novembre 2010) per il miglior salame d’Italia riservato ai maestri artigiani di norcineria.
Ha fornito collaborazioni e consulenze sottoforma di contratto a progetto, conferenza, ricerche, monografie, indagini statistiche sulla qualità degli alimenti, i sistemi produttivi, i sistemi agricoli tradizionali, le varietà vegetali di interesse agrario. Su incarico della Provincia di Ancona ha condotto per il terzo anno, insieme al geologo Mauro Coltorti, escursioni lungo il fiume Esino alla identificazione della flora fluviale.
Partecipa (e organizza) numerose iniziative, in qualità di docente, gestite da diverse associazioni di animazione turistica e ambientale, in varie regioni italiane, con escursioni alla ricerca e identificazione delle erbe spontanee commestibili,
corsi di educazione alimentare, lezioni sulla identificazione, trasformazione e consumo delle erbe spontanee.
corsi di educazione alimentare, lezioni sulla identificazione, trasformazione e consumo delle erbe spontanee.
Si occupa inoltre di Musica e Canti Popolari. Narrativa Popolare e favolistica. Scrittura: è autrice di numerosi racconti, editi e inediti sul declino della Civiltà Contadina, con particolare attenzione allo spessore antropologico della gente di campagna prima del boom economico.
Attività didattica e di ricerca
1976/1986: ha svolto attività didattica, nelle scuole di ogni ordine e grado, sui temi dell’educazione alimentare, per l'organizzazione di Consumatori Coop Italia, coordinando iniziative didattiche con: Distretti Scolastici, Comuni, Circoscrizioni, Comunità Montane, Usl, Associazioni di Consumatori.
1981/1982: ha condotto un'indagine sulle abitudini alimentari delle popolazioni rurali dell'Alta Valle dell'Esino, raccolta nel volume "Antologia della cucina popolare". Il lavoro, condotto con criteri originali, è servito come modello per altre indagini simili.
1986/2007 collabora con l'Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, svolgendo attività di ricerca, su tutto il territorio nazionale, di carattere socio economico, tacnologico ed antropologico sulle minifiliere agroalimentari: suinicola, casearia, ittica, conserviera, cerealicola, ortofrutticola, i cui risultati sono pubblicati negli Atlanti (vedi elenco opere pubblicate) editi da Franco Angeli e riediti da Agra Rai Eri, dal 2008 da Mondadori
1993/1994: ha collaborato con l'Istituto Nazionale d'Economia Agraria con ricerche di carattere economico e sociologico, sui sistemi caseari meridionali (Vedi elenco opere pubblicate)
2006/2007: docente al Master Le rotte del gusto presso il Dipartimento Letterature Moderne, Scienza dei Linguaggi, Università di Siena, distaccamento di Arezzo.
1981/1982: ha condotto un'indagine sulle abitudini alimentari delle popolazioni rurali dell'Alta Valle dell'Esino, raccolta nel volume "Antologia della cucina popolare". Il lavoro, condotto con criteri originali, è servito come modello per altre indagini simili.
1986/2007 collabora con l'Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, svolgendo attività di ricerca, su tutto il territorio nazionale, di carattere socio economico, tacnologico ed antropologico sulle minifiliere agroalimentari: suinicola, casearia, ittica, conserviera, cerealicola, ortofrutticola, i cui risultati sono pubblicati negli Atlanti (vedi elenco opere pubblicate) editi da Franco Angeli e riediti da Agra Rai Eri, dal 2008 da Mondadori
1993/1994: ha collaborato con l'Istituto Nazionale d'Economia Agraria con ricerche di carattere economico e sociologico, sui sistemi caseari meridionali (Vedi elenco opere pubblicate)
2006/2007: docente al Master Le rotte del gusto presso il Dipartimento Letterature Moderne, Scienza dei Linguaggi, Università di Siena, distaccamento di Arezzo.
Collaborazioni e consulenze
Le C.I.D.I.L. (Centre Interprofessionnel de Documentation et D'Information Laitières) Paris.
C.N.A.C. ( Conseil National des Arts Culinaires)
C.N.R. ( Consiglio Nazionale delle Ricerche )
Università di Portici ( Gruppo socio-economico).
INEA (Istituto Nazionale d'Economia Agraria).
Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza.
Rai Radiotelevisione Italiana.
Rai International.
INSOR (Istituto Nazionale di Sociologia Rurale)
Tecnagro, Roma.
Astrolabio, Roma
Ager, Roma
Regione Toscana, Gruppo Verdi.
Provincia d'Ancona, Assessorato Agricoltura.
Provincia di Macerata, Assessorato Agricoltura.
Senato della Repubblica, Gruppo Verdi.
Coldiretti Roma.
C.I.A. Ancona
AMAB Marche.
Coop. Agric. “Cornale” Magliano Alfieri (CN).
Conservatorio della Cucina Mediterranea, Provincia di Genova.
Accademia della Cucina di Vibo Valentia
C.N.A.C. ( Conseil National des Arts Culinaires)
C.N.R. ( Consiglio Nazionale delle Ricerche )
Università di Portici ( Gruppo socio-economico).
INEA (Istituto Nazionale d'Economia Agraria).
Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza.
Rai Radiotelevisione Italiana.
Rai International.
INSOR (Istituto Nazionale di Sociologia Rurale)
Tecnagro, Roma.
Astrolabio, Roma
Ager, Roma
Regione Toscana, Gruppo Verdi.
Provincia d'Ancona, Assessorato Agricoltura.
Provincia di Macerata, Assessorato Agricoltura.
Senato della Repubblica, Gruppo Verdi.
Coldiretti Roma.
C.I.A. Ancona
AMAB Marche.
Coop. Agric. “Cornale” Magliano Alfieri (CN).
Conservatorio della Cucina Mediterranea, Provincia di Genova.
Accademia della Cucina di Vibo Valentia
1986: AA.VV, Antologia della cucina popolare, edito dalla Comunità Montana di Fabriano.
1989: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: i salumi, Franco Angeli Mi.
1990: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: i formaggi, Franco Angeli Mi.
1990: Insor, L'allevamento del suino lucano fra tradizione e mercato, Regione Basilicata.
1991: Agriturist, I magnifici 100 sconosciuti, Franco Angeli Mi.
1991: Insor/Terranostra, I prodotti tipici della Campania, Regione Campania.
1991: Insor/Terranostra, Per una doc al torrone di Benevento, a cura di Terranostra
Napoli.
1992: M.A.F., L'Italia dei formaggi DOC, Franco Angeli Mi.
1992: Insor: Itinerari agrituristici del Sannio a cura della Camera di Commercio di Benevento.
1993: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: le conserve, Franco Angeli Mi.
1994: G. Picchi, R.Rubino, Guida ai formaggi ovicaprini, a cura dell'Uiaproc.
1995: Insor, L'Atlantedei prodotti tipici: il pane, Franco Angeli Mi.
1996: INEA, G. Picchi, C. Tripaldi, R. Ciappelloni, Guida ai sistemi caseari tradizionali, in Collana Quaderni di Zootecnia.
1995: AAVV, I prodotti agroalimentari tipici della Campania, Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Economia Agraria, Portici.
1996: Insor, Capitale umano e comparti produttivi in agricoltura, Franco Angeli, MI.
1998: G. Picchi, “Le erbe nei prodotti tipici italiani” da Erbi boni, erbi degli streghi, a cura di Andrea Pieroni, Experiences Verlag Koln.
1999: G. Picchi, "Erbe ed animali nelle società agricole tradizionali" da Erbe, uomini e bestie a cura di Andrea Pieroni, Experiences Verlag Koln.
2001: redazione schede per il testo: Viaggio intorno ai prodotti agricoli e alimentari di qualità italiani, cura dell'Ager, Edizioni Tellus, Roma.
2001: Graziella Picchi, La mappa del gusto. Il Montefeltro: la gente, i luoghi, il cibo, Agenzia Turistica Montefeltro, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Sant'Angelo in Vado.
2001: Graziella Picchi, I cereali nella cucina del Montefeltro, a cura della Cia d'Ancona, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Bottega Grafica Torrette di Ancona.
2001: Graziella Picchi, Itinerari rurali del vastese, le contrade dei formaggi, a cura del Gal Vastese Inn e Anfosc, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Ars Grafica, Villa d'Agri (PZ).
2001: Graziella Picchi, Itinerari rurali del vastese, le contrade dei salumi, a cura del Gal Vastese Inn e Anfosc, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Ars Grafica, Villa d'Agri (PZ).
2002: Graziella Picchi, Terre e cibo dalla Marca d'Ancona, a cura dell'Assessorato Agricoltura Provincia di Ancona.
2002: Graziella Picchi, Alimentazione e cultura del territorio, saggio introduttivo della Guida 2003 Verde e naturale, a cura di Ulysse. Net srl, Milano settembre 2002.
2003: Graziella Picchi, Risorse e cibo dalla terra delle armonie, Provincia di Macerata Assessorato all'Agricoltura, Macerata novembre 2003. 2005: Graziella Picchi, Andrea Pieroni, Atlante dei prodotti tipici, Le erbe, Agra Rai Eri, Roma.
1989: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: i salumi, Franco Angeli Mi.
1990: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: i formaggi, Franco Angeli Mi.
1990: Insor, L'allevamento del suino lucano fra tradizione e mercato, Regione Basilicata.
1991: Agriturist, I magnifici 100 sconosciuti, Franco Angeli Mi.
1991: Insor/Terranostra, I prodotti tipici della Campania, Regione Campania.
1991: Insor/Terranostra, Per una doc al torrone di Benevento, a cura di Terranostra
Napoli.
1992: M.A.F., L'Italia dei formaggi DOC, Franco Angeli Mi.
1992: Insor: Itinerari agrituristici del Sannio a cura della Camera di Commercio di Benevento.
1993: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: le conserve, Franco Angeli Mi.
1994: G. Picchi, R.Rubino, Guida ai formaggi ovicaprini, a cura dell'Uiaproc.
1995: Insor, L'Atlantedei prodotti tipici: il pane, Franco Angeli Mi.
1996: INEA, G. Picchi, C. Tripaldi, R. Ciappelloni, Guida ai sistemi caseari tradizionali, in Collana Quaderni di Zootecnia.
1995: AAVV, I prodotti agroalimentari tipici della Campania, Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Economia Agraria, Portici.
1996: Insor, Capitale umano e comparti produttivi in agricoltura, Franco Angeli, MI.
1998: G. Picchi, “Le erbe nei prodotti tipici italiani” da Erbi boni, erbi degli streghi, a cura di Andrea Pieroni, Experiences Verlag Koln.
1999: G. Picchi, "Erbe ed animali nelle società agricole tradizionali" da Erbe, uomini e bestie a cura di Andrea Pieroni, Experiences Verlag Koln.
2001: redazione schede per il testo: Viaggio intorno ai prodotti agricoli e alimentari di qualità italiani, cura dell'Ager, Edizioni Tellus, Roma.
2001: Graziella Picchi, La mappa del gusto. Il Montefeltro: la gente, i luoghi, il cibo, Agenzia Turistica Montefeltro, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Sant'Angelo in Vado.
2001: Graziella Picchi, I cereali nella cucina del Montefeltro, a cura della Cia d'Ancona, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Bottega Grafica Torrette di Ancona.
2001: Graziella Picchi, Itinerari rurali del vastese, le contrade dei formaggi, a cura del Gal Vastese Inn e Anfosc, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Ars Grafica, Villa d'Agri (PZ).
2001: Graziella Picchi, Itinerari rurali del vastese, le contrade dei salumi, a cura del Gal Vastese Inn e Anfosc, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Ars Grafica, Villa d'Agri (PZ).
2002: Graziella Picchi, Terre e cibo dalla Marca d'Ancona, a cura dell'Assessorato Agricoltura Provincia di Ancona.
2002: Graziella Picchi, Alimentazione e cultura del territorio, saggio introduttivo della Guida 2003 Verde e naturale, a cura di Ulysse. Net srl, Milano settembre 2002.
2003: Graziella Picchi, Risorse e cibo dalla terra delle armonie, Provincia di Macerata Assessorato all'Agricoltura, Macerata novembre 2003. 2005: Graziella Picchi, Andrea Pieroni, Atlante dei prodotti tipici, Le erbe, Agra Rai Eri, Roma.
2006: Graziella Picchi, I frutti ritrovati della Marca d’Ancona, a cura dell'Assessorato Agricoltura Provincia di Ancona, Ancona maggio 2006
2007: Graziella Picchi, Risorse naturali dell’Appennino: la lumaca, a cura del Montefeltro Leader +, Urbania 2007.
2007: Graziella Picchi: I formaggi dell’Appennino Pesarese, a cura del Montefeltro Leader- Flaminia Cesano, Urbania Fossombrone, settembre 2007.
2008: Graziella Picchi, I frutti ritrovati nel Montefeltro, a cura della Comunità Montana Alto Medio Metauro, Urbania.
Sta lavorando alla redazione dell’Atlante Nazionale dell’olio.
E’ autrice di studi monografici per il recupero produttivo di risorse naturali quali il Cynara cardunculus e la Carlina acaulis, cagli vegetali usati nel Montefeltro (PU) e nei monti Sibillini; la fava di Fratterosa (PU); la lumaca dell’Appennino (PU). E’ in fase di studio il recupero del Bunias erucago, e della Mela rosa dei Sibillini zona Monte San Martino (MC).
Ø Inoltre ha pubblicato, su Cucina e vini, Buon gusto, Previdenza sociale e pubblica a sua firma, articoli su: Mediterraneo, Caseus.
Ø E' relatrice in numerosi convegni nazionali sulle tematiche dei Prodotti locali, Sistema qualità alimentare, Storia delle tradizioni alimentari e contadine.
2007: Graziella Picchi, Risorse naturali dell’Appennino: la lumaca, a cura del Montefeltro Leader +, Urbania 2007.
2007: Graziella Picchi: I formaggi dell’Appennino Pesarese, a cura del Montefeltro Leader- Flaminia Cesano, Urbania Fossombrone, settembre 2007.
2008: Graziella Picchi, I frutti ritrovati nel Montefeltro, a cura della Comunità Montana Alto Medio Metauro, Urbania.
Sta lavorando alla redazione dell’Atlante Nazionale dell’olio.
E’ autrice di studi monografici per il recupero produttivo di risorse naturali quali il Cynara cardunculus e la Carlina acaulis, cagli vegetali usati nel Montefeltro (PU) e nei monti Sibillini; la fava di Fratterosa (PU); la lumaca dell’Appennino (PU). E’ in fase di studio il recupero del Bunias erucago, e della Mela rosa dei Sibillini zona Monte San Martino (MC).
Ø Inoltre ha pubblicato, su Cucina e vini, Buon gusto, Previdenza sociale e pubblica a sua firma, articoli su: Mediterraneo, Caseus.
Ø E' relatrice in numerosi convegni nazionali sulle tematiche dei Prodotti locali, Sistema qualità alimentare, Storia delle tradizioni alimentari e contadine.
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