2 dicembre 2010 ALESSANDRO MARCHI

L'architettura nella pittura rinascimentale urbinate.
Tutto comincia quando la rappresentazione dello spazio non è più una mera esigenza accessoria alla costruzione di una storia figurata. Ma lo spazio diviene l’elemento determinante per rendere plausibile e vero un racconto in pittura.
E’ la storia dell’applicazione della prospettiva, la più grande ‘invenzione’ degli uomini del Rinascimento. Brunelleschi (*), Donatello e Masaccio – ognuno nella propria specialità e precisamente: architettura, scultura e pittura - meditando sull’antico, inventano un nuovo linguaggio dell’arte che, dalla Firenze umanistica, si propagherà in tutt’Italia e oltre.

DonatelloBanchetto di ErodeFormella in bronzo dorato – Battistero del Duomo - Siena


MasaccioLa TrinitàAffresco - Santa Maria Novella - Firenze

Questi sono i presupposti al nostro incontro, che verterà sulla rappresentazione dell’architettura nell’arte rinascimentale. Il suo culmine e insieme il suo più affascinante enigma è rappresentato dalla tavola con la Città Ideale della Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, icona del rinascimento matematico, che andremo ad investigare insieme nel nostro incontro.

Alessandro Marchi





(*) Filippo Brunelleschi è considerato dalla critica moderna il padre del Rinascimento italiano e, in quanto tale, il creatore di quella rivoluzionaria concezione artistica che pone l’uomo al centro del mondo.Tutti gli studi del maestro fiorentino in materia di prospettiva sono volti a creare un metodo prospettico che avalli la centralità umana nell’universo. E’ nei primi anni d’attività, quando egli è molto giovane e non ha ancora creato la celebre Cupola del Duomo, che Brunelleschi dipinge due tavolette in cui illustra questo metodo. All’epoca, egli compie molti esperimenti ottici atti a delineare la prospettiva lineare con un punto di fuga unificato, che sarà alla base di tutte le sue opere e di gran parte dell’architettura rinascimentale. Le due tavolette, oggi perdute ma menzionate da più fonti biografe, rappresentano una veduta di Piazza della Signoria con Palazzo Vecchio e la Loggia, ed una veduta del Battistero attraverso la porta centrale del Duomo. Le fonti dicono che l’architetto avesse praticato un foro nella seconda tavoletta, di dimensioni ridotte sul davanti rispetto al dietro. Lo scopo di quest’apertura sta nel poter porre l’occhio dietro alla tavoletta e vedere, mediante uno specchio posto di fronte, la riflessione dell’immagine in essa rappresentata.In questo modo, Brunelleschi mette in pratica la visione della sua prospettiva unica e monoculare. L’uso dello specchio gli serve per dimostrare la precisione e la matematicità della sua scoperta prospettica. L’impostazione geometrica e perfetta della sua prospettiva monoculare si discosta molto dalla binocularità medievale, nella quale si poteva scorgere “a colpo d’occhio” un ambiente semicircolare, ma con una veduta d’insieme che desse l’idea della veduta fuggevole e momentanea. La visione prospettica del Brunelleschi è perfetta ed equilibrata, armonica ed immutabile, e si basa sul senso del compiuto e della perfezione.

29 novembre 2010 DON FRANCESCO PIERPAOLI

VISITA A MONTORSO E LORETO
CON DON FRANCESCO PIERPAOLI
29 NOVEMBRE 2010

PROGRAMMA
Ore 08.00 Partenza dal Piazzale Bucci
Ore 10.00 Arrivo presso il Centro Giovanni Paolo II (Via Montorso, 3)
Ore 10.30 Presentazione del Centro e intervento di don Francesco Pierpaoli sul tema:
“EL COMPROMISO”: La Carta Europea dei giovani cristiani d’Europa.

Ore 12.30 Pranzo
Ore 14.30 Visita guidata al Museo dell’Antico Tesoro di Loreto
Ore 16.00 Visita alla Sala del Tesoro e Saluto dell’Arcivescovo di Loreto Mons. Giovanni Tonucci

Ore 16.30 Visita al Santuario ed alla Santa CasaOre 17.30 Partenza per Cagli.



Ore 19.30 Arrivo a Cagli, Piazzale Bucci.

25 novembre 2010 GRAZIELLA PICCHI

"ERBE SPONTANEE COMMESTIBILI DELLA ZONA INTERNA DEL PESARESE TRA ANTROPOLOGIA, SCIENZA E MAGIA"


LE ERBE DA TAVOLAdi Graziella Picchi
Imprevedibile nocività dell'esodoIn principio l'uomo si nutrì di bacche, frutta, animali di piccola taglia, radici e foglie di erbe selvatiche. Non sappiamo, ma possiamo solo immaginarlo, il prezzo che egli ha dovuto pagare per imparare a distinguere le buone dalle cattive erbe e comprenderne la funzione nella strategia del creato.
Imparò comunque a nutrirsi col meglio che ogni stagione offriva: germogli e tenere erbette in primavera, frutti in estate, bacche in autunno, radici e foglie in inverno, specie di quelle appartenenti alla vasta famiglia delle Crucifere.
Questo modello ha resistito, con alti e bassi dovuti ai grandi cambiamenti climatici delle ere passate, fino in epoca recente, quando lo sviluppo industriale modifica sia la produzione sia la distribuzione del cibo, nonché la presenza più o meno intensa di erbe selvatiche, che risentono dell'abbandono delle campagne da parte di uomini e animali domestici. È alla scarsa presenza di questi che gli esperti riconducono buona parte del degrado e della perdita di risorse vegetali verificatasi negli ultimi decenni. Fino al 1935, nei pascoli alti le pecore potevano restare fino all'arrivo della prima neve, sotto la quale i semi indigeriti delle specie pregiate, disseminati con le deiezioni animali, rimanevano per tutto l'inverno, pronti a germinare in primavera e ricostituire così il manto erboso. Ed era questa pratica che manteneva in equilibrio la flora dei pascoli montani e di conseguenza la qualità degli alimenti, carne e formaggi soprattutto. Poi agli animali viene proibito, per decreto, di pascolare in alta quota, oltre i mille metri dopo il primo settembre - salvo permessi rilasciati di volta in volta su richiesta degli interessati - e i semi delle essenze più pregiate non vengono più disseminati dagli animali. Ovunque avanza l'invadente e tenace falasco - ed altre specie meno pregiate - colonizzando intere aree a scapito delle erbe buone come le commestibili e le leguminose foraggiere, sempre meno presenti nella copertura vegetale di alta quota, tanto che non superano il cinque per mille delle erbe presenti.





Asparagus acutifolius L


Sparagio di bosco


Italia come espressione botanicaAbbandonate dagli esseri umani, dagli animali, distrutte dai diserbanti, dalle colate di cemento, dall'abbandono della terra, dalla copertura del manto stradale, dal ritmo della vita moderna, le erbe selvatiche, commestibili e non, hanno cercato rifugio, come ultima spiaggia, nei bordi delle strade, nelle scarpate, lungo le ferrovie, e ovunque esista ancora un minimo di manutenzione da parte dell'uomo. Segno evidente che di spontaneo, nella crescita delle erbe, c'è ben poco. Nei maggesi collinari è presente la varietà di erbe selvatiche più interessante: dalle Cicorie alle Cicerbite, dalle Scabiose alle Sileni, dalle Crepis alle Picris, fino alle Casselle. La Castagna di terra, bulbo ormai dimenticato, vive ancora nelle zone più alte del paese, ricercato da istrici e cinghiali, mentre gli azzurri pennacchi dei Cipollacci o Lampascioni che dir si voglia, spuntano qua e la in quasi tutti i margini della rete stradale di colline e montagne. Il Raponzolo, consumato sia allo stato di rosetta basale che di radice, si è trasferito dai luoghi abituali, prati erbosi e boschi, ai margini delle strade sassose che costeggiano le pendici delle montagne. Trovarlo è diventata un'impresa. I germogli degli Asparagi, del Pungitopo o della Cicerbita alpina, sono i più gettonati tanto da rischiare l'estinzione e la distruzione del delicato equilibrio del bosco e sottobosco, costituitosi in millenni di evoluzione. Così, anno dopo anno, chi si è sempre dedicato alla raccolta delle erbe, ha avuto modo di osservare come queste si siano adattate, per sopravvivere, ai profondi mutamenti verificatisi in agricoltura, con la fuga, per riapparire nelle zone usuali, al minimo ripristino di normalità, come se nulla fosse. Anche la riduzione del numero degli animali domestici in libera circolazione ha contribuito all'erosione e alla riduzione della flora selvatica più grata al palato degli umani. I margini delle strade e le scarpate rimangono i luoghi dove questa si rifugia più volentieri, ma la presenza dell'inquinante traffico automobilistico ne scoraggia la raccolta. Nelle zone con traffico ridotto, collinari e montane, questo problema è di minore entità, ma il fattore limitante, specie se i terreni sono abbandonati, è il falasco che colonizzando intere aree limita la presenza delle erbe mangerecce.


Silene vulgaris (Moench) Garke


Stridi


I nomi delle erbeAnche tra le erbe ci sono quelle più ambite e quelle neglette, cioè dimenticate, o relegate ai periodi di grave penuria alimentare l'ultimo dei quali, almeno in Europa, si è verificato in coincidenza dell'ultima guerra mondiale.
Tra le prime, citiamo per il nord la Cicerbita alpina, la Myrrhis odorata, l' Aruncus dioicus. Così amate da correre il rischio di estinzione, se non fossero state fatte delle regole più severe per regolamentarne la raccolta, ammesso che bastino.
Per l'Italia centrale la Lactuca perennis, il Taraxacum glaciale; la Chondrilla juncea, la Reichardia picroides sono altrettanto ricercate, ma, relativamente alla Lactuca perennis, attualmente più che l'uomo a distruggerla è il cinghiale. Le prime due sono oggetto di raccolta soltanto in zone limitate di Marche e Abruzzo, mentre l'area di consumo delle altre due erbe è estesa a tutta l'Italia, ma sono particolarmente apprezzate, tanto da diventare oggetto di un vero e proprio culto di raccolta, soprattutto nel centro Italia, con picchi di alto gradimento anche in Liguria. La Chondrilla juncea, l'insalata selvatica per eccellenza, è un 'erba inquieta, delicata, permalosa che risente sia dell'uso dei diserbanti che dell'abbandono dei terreni, e quando questi non vengono più lavorati cambia sito e trovarla è sempre più difficile, tranne lungo i binari delle ferrovie, quando l'infiorescenza si erge rigogliosa, provocatoria, turgida e inaccessibile, come raramente capita di vederla nei prati.
Sono queste infiorescenze ad essere raccolte nelle regioni meridionali e la rosetta basale sembra essere meno interessate di queste, usate per fare la frittata o quale contorno dopo averle lessate. Nel sud il legame delle popolazioni rurali con il territorio e le tradizioni alimentari è più vivace e numerose sono le specie selvatiche ancora presenti e consumate: scontato citare il consumo della Leopoldia comosa, ma un po' meno quello della Reseda alba, esclusiva delle etnie grecaniche dell'Aspromonte, o dell'Asphodeline lutea, consumata nelle Murge.
L'uso dell' Amaranthus lividus, sporadicamente raccolto nel resto d'ltalia, è pratica comune sia in Basilicata che in Calabria. Il finocchio selvatico, ovunque usato come erba aromatica, in quest'ultima regione, la parte verde e tenera la si consuma anche lessa, condita con olio e limone e in tanti altri modi, come si fa in genere con le cicorie. L'asparago, al pari delle cicorie, unisce l'Italia da nord a sud, più di quanto non abbiano fatto le guerre d'Indipendenza. Rimandiamo alla lettura delle schede gli svariati ed originali modi di trattare le erbe in ambito culinario.
Il resto delle erbe meno note sono varianti locali, ognuna delle quali si carica di volta in volta di valenze etniche, antropologiche, geografiche, storiche, di costume e perfino fantastiche, i cui nomi popolari stanno diventando sempre più stinti, in dissoluzione, come scrive Gian Luigi Beccaria riferendosi alle parole: "...la più grande tristezza è incontrarle malvive, dissolte. [...] Nel nostro paese, in questo secolo, di parole ne sono morte a centinaia in specie voci della quotidianità, dialettali e popolari, legate alle opere e ai giorni del mondo contadino. [ ...] Con la fine della civiltà contadina e delle comunità rurali si sono stinte le parole popolari della flora e della fauna" . Se è vero che il solo evocare un nome ci riporta col ricordo agli anni verdi dell'infanzia, indagarne il significato spinge “...tra le pieghe di una cultura appena di ieri eppure già travolta con prepotenza dal presente urbano e tecnologico, per suscitare tra i campi e i boschi e il vento sciami di voci e di immagini vivide e perdute". Come i termini rapastello, caccialepre, ginestrella, cacazzimmeri, carleti, e tutti gli altri riservati alle erbe selvatiche, che al solo pronunciarli escono dal limbo delle parole in estinzione ed evocano davvero immagini vivide e perdute di donne curve nell'atto della raccolta, di paioli fumanti sulle fiamme del fuoco, di padelle profumate che sanno di aglio, patate e rape, irrompendo prepotenti nella nostra era tecnologica confermando ciò che scrive lo studioso poc'anzi citato: che i nomi dati alla flora dai ceti contadini obbediscono più a fattori psicologici ed emotivi piuttosto che a logiche di classificazione, proprie degli studiosi. Non a caso le parole e i ricordi degli anziani insistono più su alcune specie piuttosto che su altre, soprattutto su quelle legate ai periodi di scarsità alimentare (fitoalimurgia) o usate a scopo curativo, o che trovavano facile collocazione nei mercati paesani, permettendo la circolazione di qualche spicciolo in più, come nel caso del Taraxacum glaciale o della cicerbita alpina, erbe da tavola ricca, oppure su quelle alle quali si attribuivano proprietà apotropaiche (antidoto contro la iattura), o a favorire l'incontro con l'anima gemella, o la protezione divina o semplicemente per alimentare le facoltà oniriche e immaginarie.




Foeniculum vulgare Miller ssp. vulgare


e ssp. piperitum (Ucria) Goutinho
Finocchio selvatico



Erbe e migrazioniLa dove c'è stata una mescolanza di culture diverse - delocalizzazione e migrazione delle tradizioni - c'è stato uno scambio di conoscenze e un arricchimento reciproco: la lista delle erbe consumate si è allungata e la varietà dei piatti pure. Il fenomeno si sta ripetendo anche ai giorni nostri, nelle regioni dell'Italia centrale, con l'arrivo dei nord europei, tedeschi e inglesi soprattutto, tradizionali consumatori dei fiori e bacche di sambuco: una bevanda dissetante, che in Italia era usuale qualche secolo fa, facile da preparare, a base di questi fiori, circola sempre più di frequente durante l'estate anche sulle nostre tavole. La migrazione di conoscenze e di risorse è un fenomeno poco studiato che potrebbe spiegare il consumo di determinate erbe estranee alle popolazioni autoctone, come ad esempio la raccolta del Chenopodium album o dell'Amarantus lividus, il cui consumo è apparso di recente anche nell'Italia centrale, con conseguente arricchimento della varietà di erbe raccolte. Forse è anche merito dei tanti libri divulgativi, che segnalando il consumo di specie erbacee oggi non più di moda, hanno invogliato alla raccolta, come è avvenuto con l'ortica, mai usata dai ceti rurali per la loro alimentazione ma solo per quella animale, ai quali assicurava benessere fisico e resistenza alle malattie. Fatto è che conoscenze e risorse si muovono oggi molto più rapidamente che nel passato. I semi di qualsivoglia pianta possono arrivare nascosti nel fango di una ruota di un camion o mescolati con altri semi che circolano liberamente sul mercato, o nelle pieghe della suola di uno scarpone e via dicendo; lo abbiamo appurato nello svolgimento dei lavori, quando abbiamo trovato varietà di erbe la dove, stando alle guide botaniche di casa nostra, non dovrebbero esserci. Un fenomeno nuovo sulla migrazione delle conoscenze è in corso sotto i nostri occhi: spunti interessanti ci vengono dalle donne dell'est Europa, che molto più di quanto non si creda si dedicano alla raccolta delle erbe spontanee e considerano commestibili le erbe che morfologicamente assomigliano a quelle raccolte nella terra di origine.
Hanno dato un contributo non da poco, alla delocalizzazione delle tradizioni anche le nostre donne di origine contadina che si sono inurbate, specie quelle di una certa età, insegnando alle cittadine l'arte di raccogliere e consumare le erbe selvatiche. Al mezzo più rapido di divulgazione, la televisione, riconosciamo il merito di aver suscitato un notevole interesse e amore nei confronti della natura e del mondo contadino in genere. Oggi non ci si stupisce più se lungo i sentieri di campagna vediamo sempre più spesso donne di città curve nell’atto della raccolta; ma per imparare a riconoscere una pianta selvatica da una cattiva occorre un apprendistato "sul campo" che non può essere sostituito in nessun altro modo.

Speranze di saluteGermogli, erbe, fiori, radici e bacche selvatiche godono oggi di un ampio consenso gastronomico impensabile qualche decennio fa, con ricadute positive per quanti sanno riproporre vecchie ricette in modo nuovo. La natura della materia trattata è tale che fantasia e creatività della nuova generazione di chef vengono prepotentemente stimolate con risultati quantomeno sorprendenti. Dai consumatori, complice la pubblicità, tutto ciò che cresce "spontaneamente" viene percepito come dispensatrice di salute, che ci riconcilia con la natura. L'arte medica, come la conosciamo oggi, stando allo studio della storia della medicina, inizia la sua evoluzione proprio dalle pratiche erboristiche, agli albori in mano alle donne e passata, successivamente e in modo non del tutto indolore, agli uomini. Grazie a queste conoscenze sappiamo che piante ed erbe selvatiche contengono sostanze farmacologicamente attive, copiate dalla chimica, ma i cui effetti sulla salute sono però meno efficaci e più tossici di quelli della pianta originale. Da questa constatazione il rinnovato interesse di molti medici verso il mondo vegetale, convinti che le piante, comprese quelle mangerecce, possono ancora avere un ruolo importante nella cura delle più svariate patologie. Molte scoperte del passato hanno resistito alla prova del tempo: un esempio classico è fornito dalla scoperta della digitalina, principio attivo della digitale, impiegata nelle affezioni cardiache, ad opera degli etnobotanici del Settecento, quando osservarono l'usanza dei contadini inglesi di bere una tisana di fiorellini purpurei per superare le crisi cardiache. Si stima che più del 90% delle molecole, farmacologicamente attive oggi conosciute, derivi dalle piante da fiore. Due secoli fa, quando il naturalista svedese Carlo Linneo, inventariava la flora, l'introspezione chimica del mondo vegetale era appena agli inizi. Da allora molta strada è stata fatta, ma pare che il più resti ancora da fare, e non a caso oggi l'attenzione dei farmacognosti è rivolta all'individuazione dei principi attivi contenuti nelle piante selvatiche mangerecce, tradizionalmente consumate dai ceti popolari e contadini. Obiettivo di queste ricerche la messa a punto di integratori alimentari, fonte di sicuri profitti, vista la predilezione del moderno consumatore per tutto ciò che sa evocare scenari di vita bucolica immersi nella natura. Pare che estrarre da una pianta, che contiene un 'infinità di sostanze extranutrizionali, ciò che cura una determinata patologia sia più facile a dirsi che a farsi. Comunque tra le piante più ricche di questi principi, amici della nostra salute, la Reichardia picroides, la Silene vulgaris e la Condrilla giuncata, le più gettonate tra le selvatiche mangerecce. Ma per godere di questi vantaggi meglio continuare a consumarle come abbiamo sempre fatto, perche pare che il singolo principio attivo isolato, sia meno efficace della pianta intera. Un solo grande rammarico: dagli ultimi protagonisti della straordinaria Civiltà Contadina, prossimi al capolinea, ci arrivano ancora indicazioni sull'uso delle erbe selvatiche non solo per uso alimentare, ma anche curativo, puntualmente ignorate ieri come oggi. Chi l'ha detto che la testimonianza relativa all'uso di una piante selvatica, di anziani che vivono in uno sperduto paesino degli Appennini o dell’arco Alpino o del delta Padano, o del Cilento valga meno o non sia altrettanto ricca di possibilità di quella di un indigeno della foresta tropicale brasiana o di qualsiasi altra parte del mondo, dove oggi le case farmaceutiche si affannano a cercare molecole esotiche per futuri affari? Chi l'ha detto che le erbe di casa nostra, una volta studiate bene, partendo proprio dalla memoria degli anziani, non possano rivelarsi altrettanto preziose di quelle esotiche sia per l’economia che per la nostra salute? Come dire che le erbe oggi fanno ancora mangiare e. ..questa volta non solo gli affamati.


Graziella Picchi è Sociologo Rurale presso l’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale.
Diploma di Perito Agrario presso l'Istituto Tecnico Agrario di Fabriano (An)
Diploma di Laurea in Sociologia presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Urbino (PU) - marzo del 1986 - con votazione 110/110 e dichiarazione di lode, con una tesi di economia politica sul mercato della soia.
Attestato di partecipazione al corso d'Analisi Sensoriali organizzato dalla Sezione di Scienze e Tecnologie Alimentari dell’Università della Basilicata.
Cultrice della materia presso l'Università di Urbino.


Alla fine degli anni 1970 ha favorito una collaborazione tra la Comunità Montana di Fabriano, il Distretto Scolastico e la Coop Italia, con la quale collaborava come volontaria sulle tematiche dell’Educazione Alimentare, una vasta ricerca sulle abitudini alimentari dell’Alta Valle dell’Esino, che ha coinvolto gli studenti delle elementari e delle medie di tutto il territorio montano. Un esempio di alimentazione marginale in un territorio agricolo marginale. Da questo lavoro è stato tratto un libro dal titolo Antologia della cucina popolare (vedi elenco opere pubblicate), premiato a Lisbona nella giornata mondiale dell’alimentazione.


Ha organizzato numerosi eventi fieristici e di promozione dei prodotti tipici (nicchie produttive di manufatti alimentari di pregio) nel corso degli anni 1990 di cui segnaliamo i più significativi: Fiera di Cremona. Esposizione e degustazione di formaggi DOC; Vicenza: in forma DOC, reparto delle piccole realtà produttive; Roma Villa Miami: degustazione di oltre 200 tipologie casearie in presenza di numerosi addetti ai lavori, Ministro dell’Agricoltura compreso (Giovanni Goria); Roma Casina Valadier, in occasione della presentazione Atlante delle Conserve degustazione delle stesse; Firenze: per il Gruppo dei Verdi della regione Toscana ha organizzato, in più di sei anni di collaborazione, numerosi convegni di divulgazione scientifica sui temi delle tecnologie appropriate, sulla produzione e trasformazione del cibo, sull’uso razionale delle risorse. E’ in fase di organizzazione il primo premio nazionale (INSOR- Fiera di Cremona 12/15 novembre 2010) per il miglior salame d’Italia riservato ai maestri artigiani di norcineria.



Ha fornito collaborazioni e consulenze sottoforma di contratto a progetto, conferenza, ricerche, monografie, indagini statistiche sulla qualità degli alimenti, i sistemi produttivi, i sistemi agricoli tradizionali, le varietà vegetali di interesse agrario. Su incarico della Provincia di Ancona ha condotto per il terzo anno, insieme al geologo Mauro Coltorti, escursioni lungo il fiume Esino alla identificazione della flora fluviale.



Partecipa (e organizza) numerose iniziative, in qualità di docente, gestite da diverse associazioni di animazione turistica e ambientale, in varie regioni italiane, con escursioni alla ricerca e identificazione delle erbe spontanee commestibili,
corsi di educazione alimentare, lezioni sulla identificazione, trasformazione e consumo delle erbe spontanee.


Si occupa inoltre di Musica e Canti Popolari. Narrativa Popolare e favolistica. Scrittura: è autrice di numerosi racconti, editi e inediti sul declino della Civiltà Contadina, con particolare attenzione allo spessore antropologico della gente di campagna prima del boom economico.


Attività didattica e di ricerca




1976/1986: ha svolto attività didattica, nelle scuole di ogni ordine e grado, sui temi dell’educazione alimentare, per l'organizzazione di Consumatori Coop Italia, coordinando iniziative didattiche con: Distretti Scolastici, Comuni, Circoscrizioni, Comunità Montane, Usl, Associazioni di Consumatori.

1981/1982: ha condotto un'indagine sulle abitudini alimentari delle popolazioni rurali dell'Alta Valle dell'Esino, raccolta nel volume "Antologia della cucina popolare". Il lavoro, condotto con criteri originali, è servito come modello per altre indagini simili.

1986/2007 collabora con l'Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, svolgendo attività di ricerca, su tutto il territorio nazionale, di carattere socio economico, tacnologico ed antropologico sulle minifiliere agroalimentari: suinicola, casearia, ittica, conserviera, cerealicola, ortofrutticola, i cui risultati sono pubblicati negli Atlanti (vedi elenco opere pubblicate) editi da Franco Angeli e riediti da Agra Rai Eri, dal 2008 da Mondadori

1993/1994: ha collaborato con l'Istituto Nazionale d'Economia Agraria con ricerche di carattere economico e sociologico, sui sistemi caseari meridionali (Vedi elenco opere pubblicate)

2006/2007: docente al Master Le rotte del gusto presso il Dipartimento Letterature Moderne, Scienza dei Linguaggi, Università di Siena, distaccamento di Arezzo.


Collaborazioni e consulenze


Le C.I.D.I.L. (Centre Interprofessionnel de Documentation et D'Information Laitières) Paris.
C.N.A.C. ( Conseil National des Arts Culinaires)
C.N.R. ( Consiglio Nazionale delle Ricerche )
Università di Portici ( Gruppo socio-economico).
INEA (Istituto Nazionale d'Economia Agraria).
Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza.
Rai Radiotelevisione Italiana.
Rai International.
INSOR (Istituto Nazionale di Sociologia Rurale)
Tecnagro, Roma.
Astrolabio, Roma
Ager, Roma
Regione Toscana, Gruppo Verdi.
Provincia d'Ancona, Assessorato Agricoltura.
Provincia di Macerata, Assessorato Agricoltura.
Senato della Repubblica, Gruppo Verdi.
Coldiretti Roma.
C.I.A. Ancona
AMAB Marche.
Coop. Agric. “Cornale” Magliano Alfieri (CN).
Conservatorio della Cucina Mediterranea, Provincia di Genova.
Accademia della Cucina di Vibo Valentia




Le pubblicazioni elencate sono relative a testi realizzati in qualità di autrice e coautrice.


1986: AA.VV, Antologia della cucina popolare, edito dalla Comunità Montana di Fabriano.
1989: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: i salumi, Franco Angeli Mi.
1990: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: i formaggi, Franco Angeli Mi.
1990: Insor, L'allevamento del suino lucano fra tradizione e mercato, Regione Basilicata.
1991: Agriturist, I magnifici 100 sconosciuti, Franco Angeli Mi.
1991: Insor/Terranostra, I prodotti tipici della Campania, Regione Campania.
1991: Insor/Terranostra, Per una doc al torrone di Benevento, a cura di Terranostra
Napoli.
1992: M.A.F., L'Italia dei formaggi DOC, Franco Angeli Mi.
1992: Insor: Itinerari agrituristici del Sannio a cura della Camera di Commercio di Benevento.
1993: Insor, L'Atlante dei prodotti tipici: le conserve, Franco Angeli Mi.
1994: G. Picchi, R.Rubino, Guida ai formaggi ovicaprini, a cura dell'Uiaproc.
1995: Insor, L'Atlantedei prodotti tipici: il pane, Franco Angeli Mi.
1996: INEA, G. Picchi, C. Tripaldi, R. Ciappelloni, Guida ai sistemi caseari tradizionali, in Collana Quaderni di Zootecnia.
1995: AAVV, I prodotti agroalimentari tipici della Campania, Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Economia Agraria, Portici.
1996: Insor, Capitale umano e comparti produttivi in agricoltura, Franco Angeli, MI.
1998: G. Picchi, “Le erbe nei prodotti tipici italiani” da Erbi boni, erbi degli streghi, a cura di Andrea Pieroni, Experiences Verlag Koln.
1999: G. Picchi, "Erbe ed animali nelle società agricole tradizionali" da Erbe, uomini e bestie a cura di Andrea Pieroni, Experiences Verlag Koln.
2001: redazione schede per il testo: Viaggio intorno ai prodotti agricoli e alimentari di qualità italiani, cura dell'Ager, Edizioni Tellus, Roma.
2001: Graziella Picchi, La mappa del gusto. Il Montefeltro: la gente, i luoghi, il cibo, Agenzia Turistica Montefeltro, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Sant'Angelo in Vado.
2001: Graziella Picchi, I cereali nella cucina del Montefeltro, a cura della Cia d'Ancona, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Bottega Grafica Torrette di Ancona.
2001: Graziella Picchi, Itinerari rurali del vastese, le contrade dei formaggi, a cura del Gal Vastese Inn e Anfosc, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Ars Grafica, Villa d'Agri (PZ).
2001: Graziella Picchi, Itinerari rurali del vastese, le contrade dei salumi, a cura del Gal Vastese Inn e Anfosc, nell'ambito dell'Iniziativa Comunitaria Leader II, Ars Grafica, Villa d'Agri (PZ).
2002: Graziella Picchi, Terre e cibo dalla Marca d'Ancona, a cura dell'Assessorato Agricoltura Provincia di Ancona.
2002: Graziella Picchi, Alimentazione e cultura del territorio, saggio introduttivo della Guida 2003 Verde e naturale, a cura di Ulysse. Net srl, Milano settembre 2002.
2003: Graziella Picchi, Risorse e cibo dalla terra delle armonie, Provincia di Macerata Assessorato all'Agricoltura, Macerata novembre 2003. 2005: Graziella Picchi, Andrea Pieroni, Atlante dei prodotti tipici, Le erbe, Agra Rai Eri, Roma.


2006: Graziella Picchi, I frutti ritrovati della Marca d’Ancona, a cura dell'Assessorato Agricoltura Provincia di Ancona, Ancona maggio 2006
2007: Graziella Picchi, Risorse naturali dell’Appennino: la lumaca, a cura del Montefeltro Leader +, Urbania 2007.
2007: Graziella Picchi: I formaggi dell’Appennino Pesarese, a cura del Montefeltro Leader- Flaminia Cesano, Urbania Fossombrone, settembre 2007.
2008: Graziella Picchi, I frutti ritrovati nel Montefeltro, a cura della Comunità Montana Alto Medio Metauro, Urbania.
Sta lavorando alla redazione dell’Atlante Nazionale dell’olio.
E’ autrice di studi monografici per il recupero produttivo di risorse naturali quali il Cynara cardunculus e la Carlina acaulis, cagli vegetali usati nel Montefeltro (PU) e nei monti Sibillini; la fava di Fratterosa (PU); la lumaca dell’Appennino (PU). E’ in fase di studio il recupero del Bunias erucago, e della Mela rosa dei Sibillini zona Monte San Martino (MC).

Ø Inoltre ha pubblicato, su Cucina e vini, Buon gusto, Previdenza sociale e pubblica a sua firma, articoli su: Mediterraneo, Caseus.

Ø E' relatrice in numerosi convegni nazionali sulle tematiche dei Prodotti locali, Sistema qualità alimentare, Storia delle tradizioni alimentari e contadine.

22 novembre 2010 ALESSANDRO RIGI LUPERTI

Storia dell'unità d’Italia


Quando il caro professor Ambrosini mi ha proposto di tenere una piccola conferenza a voi dell' UNILIT, debbo dire che sono stato contento perché mi è sempre piaciuto aver a che fare con chi sa rimettersi in gioco, forse per il fatto che io stesso più e più volte nella mia vita ho sentito il bisogno di chiudere un capitolo per riaprirne un altro, per necessità di procedere, per cercare nuove sensazioni o anche solo per la voglia di andare avanti verso orizzonti che mi facessero sentire più libero dalle pastoie di una quotidianità che, pur se soddisfacente, può limitare la fantasia.
E' come una scommessa con se stessi, un rilancio al gioco della vita, in grado di darti quella iniezione di adrenalina che è capace di fornire un flash di luce su di un futuro che per ora è solo buio .
Chiesi ad Ambrosini quale fosse il fil rouge che doveva unire i discorsi dei vari oratori e lui mi disse: l'unità d' Italia , ma che ognuno avrebbe potuto scegliere il risvolto in cui si sentisse più a suo agio.
Pensai allora di tirare fuori un argomento di quelli a me più congeniali: arte, letteratura, piccola storia, magari un po' minimalista ma che fosse capace di attirare l'attenzione dell'ascoltatore. Chiesi allora se potevo vedere le scelte fatte dagli altri, tanto per darmi una regolata e con stupore notai che nessuno aveva affrontato come soggetto l'unità d'Italia ed in quel momento mi misi in gioco: avrei parlato io dell'unità d'Italia. Una decisione à l'impromptu, di botto, di cui mi pentii immediatamente. Ma non ebbi il coraggio di recedere. Forse era qualcosa che avevo dentro e che era esplosa; come un raptus, o un lapsus freudiano, qualcosa che mi girava nello stomaco da quando si era cominciato a parlare del centocinquantesimo, qualcosa che nel tempo della mia vita avevo accumulato senza voler acquisire, senza coordinare ne sottoporre a ragionamento: avvenimenti, nomi, flash, intuizioni, esaltazioni e disgusti, il tutto buttato là senza ordine ne connotazione. Più che un bagaglio un fardello di notizie, di scene, quasi filmati, di commenti e ragionamenti: brani tirati fuori da libri, e racconti di vecchi i quali ancora ricordavano i discorsi dei nonni, articoli di famosi storici moderni e versi di antichi poeti. Un enorme puzzle pronto per esser montato e compresi allora come da sempre mi sarebbe piaciuto fare questa operazione e quella decisione presa avventatamente non era altro che il risultato della digestione di quella montagna di cognizioni in proposito che avevo accumulato nella mia vita.
Si avrei parlato io della storia, badate bene dico storia e forse potrei dire, cronaca dell'unità d'Italia. In fondo potevo avere anche le mie buone motivazioni personali: il padre di mia nonna paterna era stato uno dei mille e prima ancora il nonno di mio nonno materno era stato condannato a morte come carbonaro.
Si fa presto a dire, ora vi racconto la storia dell'unità d'Italia. Innanzi tutto bisogna fare una premessa: comunque siano andate le cose il risultato è stato ed è un evento meraviglioso, anzi ho sbagliato a classificarlo evento poiché un evento può anche essere un avvenimento fine a se stesso, in questo caso è più appropriato parlare di un fatto che invece è un qualcosa che rimane per sempre.
Allora, dicevo, l'unità d'Italia è un fatto meraviglioso. Un fatto necessario, insovvertibile, che non può esser variato di nulla. Un fatto miracoloso e perfetto ed immacolato poiché reso tale dal sacrificio di uomini che credevano in un loro ideale, anche se sentito con sfumature diverse e inquadrato da differenti angolazioni. Uomini, anzi martiri, di valore uguale fra di loro a qualsiasi versante appartenessero. Il loro sangue è stato il doloroso, tragico, sublime collante di fatti e mondi diversi, di mentalità ed usi differenti, di rabbie ed estasi di uguale intensità. Da tutto questo è nata una patria, la nostra patria.
Ma la storia ha bisogno di ordine, soprattutto quando la si guarda a distanza di tempo. Visto che sono andato a caricarmi di questa mansione e volendo essere sommamente imparziale e soprattutto ben conoscendo che ci sono sempre due punti di vista nell'osservare gli avvenimenti, alla fine ho deciso di riportare due versioni cercando di trarne una terza e lascio a voi, e vi prego di farlo, la conclusione di questo mio esporvi, conclusione che rispetti le sensibilità vostre e di ognuno.


La prima versione che esporrò è quella ufficiale. Quella dei libri di testo e che potete andare a leggere sulla Treccani.
La seconda è la storia vista da studiosi ed osservatori estranei al fatto e quindi storici di altri paesi, anche di altri continenti. Storici contemporanei al Risorgimento o studiosi di epoca posteriore, addirittura dei nostri tempi.
Poi voglio farvi partecipi di come io, dopo centocinquanta anni, veda il Risorgimento italiano.
Non allarmatevi cercherò di essere breve, anche se la concisione non è uno dei miei pregi principali.


“Dagli atri muscosi, dai fori cadenti, dai boschi, dall'arse fucine stridenti, dai solchi bagnati di servo sudor, un volgo disperso repente si desta; intende l'orecchio, solleva la testa percosso da novo crescente rumor”.


In questo brano tratto dall'Adelchi vediamo come il Manzoni interpreti il clima risorgimentale, cosi' come lo hanno interpretato gli storici italiani ottocenteschi, quelli ammessi a scrivere la storia da divulgare nel nuovo regno attraverso i libri di testo. Quale era questa storia? In parole povere era così.
L'Italia divisa dopo l'impero romano in tanti piccoli stati, persa la sua unità territoriale e preda di invasori di vario genere, sempre più era andata perdendo dignità e prestigio fino a finire popolo schiavo di potenze straniere che avevano sradicato il sentimento di unità patria per favorire un separatismo che giovasse ai soli dominatori, rendendo tutti gli altri massa bruta da usare e sfruttare per il solo interesse di chi comandava. Ma pur nei secoli era rimasta nel popolo l'ansia di poter riconquistare quella unità perduta che un tempo lo aveva reso grande. Negli anni qualche mente illuminata aveva fatto sentire la sua voce a scuotere le coscienze ma era stata come vox clamantis in deserto, vedi Machiavelli, Guicciardini, Cola di Rienzo, Murat ed altri.
Il popolo soffriva di questa soggezione che lo teneva diviso e ad un certo momento cominciò a riunirsi in piccole società segrete dette dei carbonari. Fra di essi militava una mente lucida e lungimirante il genovese Giuseppe Mazzini che diventò l'ideologo e l'organizzatore di questo popolo sommerso. Esule dalla sua patria aveva fondato a Marsiglia la Giovane Italia, un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la costituzione di uno stato unitario, la condivisione del programma mazziniano portò l'italiano Giuseppe Garibaldi, nato a Nizza, allora sotto il dominio dei Savoia, a partecipare ai moti rivoluzionari in Piemonte il cui fallimento lo costrinse a fuggire in sud America dove partecipò ai moti rivoluzionari in Brasile ed Uruguay. Il fallimento dei moti mazziniani fu dovuto alla disorganizzazione dei congiurati.
Nel 48 nasce un movimento neoguelfo in concomitanza con l'elezione a Papa di Pio IX considerato un liberale. Contemporaneamente sorgono vari movimenti rivoluzionari sorretti dalla decisione da parte del regno di Sardegna di farsi promotore dell'unità italiana. Primo passo in tal senso fu la prima guerra di indipendenza antiaustriaca scoppiata in occasione della rivolta delle cinque giornate di Milano, persa dai piemontesi di Carlo Alberto. Nei dieci anni successivi, fallito il movimento neoguelfo, riprese vigore il movimento mazziniano che promosse una serie di insurrezioni purtroppo fallite. Vedi l'episodio dei martiri di Belfiore nel 52, la rivolta milanese del 53, la spedizione di Carlo Pisacane a Sapri nel 67. Nel biennio 69.80 ci fu una nuova fase decisiva per l'unificazione d'Italia: Vittorio Emanuele II, seguendo la politica lungimirante di Camillo Cavour, si allea con la Francia di Napoleone III e si firmano i patti di Plombieres. Nel 59 Vittorio Emanuele procede a grossi riarmamenti che insospettiscono Vienna la quale essendo all'oscuro dei trattati di Plombieres, dichiara guerra al Piemonte che, attaccato dagli austroungarici, li respinge e grazie all’appoggio decisivo delle forze francesi, invade la Lombardia con pochi soldati lasciando l'operazione ai francesi di Mac Mahon cosi' che Napoleone III entra trionfatore a Milano e passa la Lombardia al Piemonte, prendendosi, come dagli accordi, Nizza e la Savoia.
Tale alleanza fu decisiva per la vittoria anche nella seconda guerra di Indipendenza, portata dal Piemonte contro l'Austria Ungheria. Con questa vittoria il Piemonte si annette Toscana, Emilia e Romagna. Intanto Garibaldi ritornato in Italia, organizza la spedizione dei mille partendo da Quarto e sbarcando a Marsala da dove procedendo verso Napoli, cominciando da Calatafimi, con i suoi mille giovani cui via via si andavano unendo i patrioti del sud Italia, conquista le terre borboniche. Mentre Garibaldi avanza da sud le truppe sarde invadono lo Stato della Chiesa e a Castelfidardo nelle Marche sconfiggono le truppe papali, il che porterà all'annessione al regno sabaudo delle Marche e dell'Umbria. A seguito della intelligente politica del Cavour, Garibaldi a Teano in un incontro con Vittorio Emanuele Il, consegna il Regno delle Due Sicilie al sovrano.
L'unione d'Italia fu formalizzata mediante il referendum del 80. Il nuovo regno, sotto la guida dei Savoia fu proclamato il 17 marzo del 81. Il regno d'ltalia manterrà lo Statuto Albertino, la costituzione concessa da Carlo Alberto nel 48, che rimarrà ininterrottamente in vigore fino al 1948.
Il nuovo regno si trovò subito di fronte a molti problemi: fra i più imbarazzanti quello del Brigantaggio e quello del Papa che, chiuso nel Vaticano, si riteneva prigioniero e defraudato tanto da scomunicare il nuovo governo e da proibire ai cattolici di parteciparvi.
L'unificazione fece un ulteriore passo avanti con la terza guerra d'Indipendenza contro l'Austria Ungheria scoppiata in seguito alla partecipazione dell'Italia alla guerra franco prussiana del 88. La terza guerra d'Indipendenza portò all'annessione del Veneto e del Friuli.
Seppure alla proclamazione del regno d'Italia fosse stata indicata Roma come capitale morale del nuovo stato, la città rimaneva ancora la sede dello Stato Pontificio ridotto solo al Lazio ed era ben protetta dalle truppe francesi che la difesero contro Garibaldi all'Aspromonte e a Mentana e solo dopo la sconfitta di Napoleone terzo le truppe italiane entrarono dalla breccia di Porta Pia. Il Trentino Alto Adige, la Venezia Giulia, l'lstria, Zara e Fiume entreranno a far parte del regno d'Italia con la vittoria nella prima guerra mondiale che gli irredentisti sentirono come la quarta guerra d'indipendenza.

Nella versione che ho esposta tutto è giusto, preciso e necessario, ogni cosa, ogni fatto avviene di fronte a tutti, col consenso di tutti e la partecipazione di ognuno, il re è quel Galantuomo che non è stato insensibile al grido di dolore che si alzava da ogni parte d'Italia, Garibaldi è il biondo eroe dei due mondi che con la sua sciabola immacolata libera gli oppressi, Cavour un integerrimo funzionario piemontese il quale ha votato la sua vita a riunire fratelli amorosi caduti nelle mani straniere, Mazzini un profeta illuminato, un asceta che guida questa schiera di eletti lungo un cammino di puri ideali, il Popolo è il motore del tutto ed i Poeti e gli Intellettuali i vati di questa saga nazionale.

E ora passiamo alla seconda versione. Mi piace aprirla con dei versi cosi' come ho fatto per la prima; certo più rozzi, ma sicuramente non meno significativi tanto da avere il medesimo impatto.

“Ca amm'a fa de Garebbalde ca iè mbame e traddetore. Nu velime u rè Berbone ca respètte la religgione. Senghe na vosce abbasce, Frangische se ne va. Règne de Nabbule statte secure ca dope n'anne av'a ternà. Garebbalde traditore”.


I protagonisti di questa seconda storia sono naturalmente sempre gli stessi, anche se connotazioni differenti son state date loro dagli storici, sia contemporanei al Risorgimento che posteriori, storici stranieri ed italiani non certo condiscendenti al buonismo della storia scritta dai vincitori.
Diamo un'occhiata a come era divisa l'Italia prima delle guerre d'Indipendenza.
Al nord il giovane Regno Sabaudo, nato nel 1720 con l'annessione al ducato dei Savoia del regno di Sardegna, scarso di mezzi e con grande voglie di allargarsi.
Accanto il regno Lombardo-Veneto, dipendente dall'Impero Austroungarico, in abbastanza floride condizioni. Più in basso, i due piccoli Ducati di Parma e di Modena e la Toscana retta dai Medici Lorena, stato di avanzata cultura e ottima situazione finanziaria, poi gran parte della ricca Emilia e la fiorente Romagna con le Marche e l'Umbria dalla florida agricoltura, assieme al Lazio, territori della Chiesa governati dal Papa.
Tutto il resto formava il regno delle Due Sicilie i cui re erano Borboni di Spagna, regno questo assai ricco con un patrimonio di 443 milioni di lire oro, mentre il regno di Sardegna ne aveva solo 27 milioni. Lo stato borbonico vantava anche diversi primati tra cui la costruzione della prima ferrovia, della prima illuminazione a gas e del primo telegrafo elettrico, inoltre era uno stato altamente industrializzato con fabbriche rinomate in tutta Europa e un ricco patrimonio di miniere, specie zolfo. Nel 1869 la Sicilia aveva un bilancio commerciale attivo di 36 milioni mentre il Piemonte poco più di 8. Napoli, con palazzi alla pari di Versailles, era per importanza economica, culturale e mondana, la seconda città d'Europa dopo Parigi, ricca di artisti, letterati e filosofi; cosi' illuminata da procedere agli scavi di Pompei ed Ercolano.
Veniamo ora ai protagonisti del Risorgimento: Mazzini, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele Il. Possiamo a questi aggiungere una ristretta cerchia di Idealisti e la grande massa del Popolo, perlopiù contadino.
Cominciamo da quest'ultimo. Il Popolo nella realtà, fu il grande assente del Risorgimento, la mobilitazione patriottica ha investito frazioni dell'aristocrazia illuminata, consistenti fasce di ceto medio, in particolare intellettuali, gruppi di artigiani. Il popolo contadino, nonostante quanto sbandierato dalla stampa ufficiale, non ha mai provato sentimenti di liberazione e si è sempre mostrato indifferente ai moti unitari: i contadini dello stato lombardo veneto erano molto ben trattati dall'Impero Austroungarico con buona amministrazione, sgravi fiscali ed il progetto di una riforma agraria a loro vantaggio; dall'altra parte la politica di classe adottata dal Governo Provvisorio Milanese non era certo invitante per i lavoratori delle campagne tanto che al tempo delle cinque giornate di Milano, chi viveva fuori città gridava: abbasso i signori, abbasso i cittadini, viva Radetzky! Le masse dei contadini meridionali, seppure all'inizio avessero veduto di buon occhio Garibaldi per le promesse di riforme agrarie che li rendesse padroni delle terre su cui vivevano, ben presto compresero dai comportamenti del generale, che c'era da fidarsi ben poco e si ritirarono dai troppo immediati entusiasmi. Il popolo assente dalla storia vissuta era ben presente invece nella storia che si scriveva: paradossalmente è nato in tipografia; giornali, quotidiani, manifesti, volantini non fanno che appellarsi al popolo. Non solo gli scrittori, ma l'avvocato, il professore, lo studente, chiamano il popolo ad attivarsi a condividere gli ideali nazionalistici, ma il popolo è analfabeta e deve farsi leggere ciò che viene stampato, la circolazione poi delle idee è difficile nell'Italia dell'ottocento priva di strutture di comunicazione e con polizie molto accorte ed informate. Ultimo, grande ostacolo tra intellettuali e popolo è poi la non coincidenza del messaggio: libertà, indipendenza!
reclamano gli insorti; pane, polenta! ribattono i contadini.
Benedetto Croce afferma che l'unità d'Italia si era raggiunta con una conquista regia risultato di un compromesso tra una monarchia sabauda troppo debole per unificare tutto il paese ed un movimento democratico altrettanto debole per poter fare una rivoluzione popolare. E Gramsci scriveva: le guerre di Indipendenza possono considerarsi un allargamento dello Stato Piemontese ed un arricchimento del patrimonio dinastico, non un movimento nazionale dal basso, ma pensato e gestito da una elite liberai massone.
La Massoneria fu la vera ispiratrice ed animatrice del Risorgimento. Cavour, Garibaldi, d'Azeglio, Mazzini, Crispi, Nigra erano massoni e la Massoneria voleva uno stato anticlericale che sancisse la fine del Papato. Il Piemonte voleva solo la Padania, la Massoneria invece, una grande nazione a far da cuneo e cuscinetto fra gli Imperi dell'est e la Francia e soprattutto l'Inghilterra. Alla fine fu trovato un accordo che potesse soddisfare gli impegni e le spese. Gli idealisti pagarono caro il loro apporto al Risorgimento: chi lo mise in pratica come Carlo Pisacane, ci lasciò la vita, i teorici come Tommaseo e Cattaneo ebbero da fare atti di dura contrizione. Abbiamo parlato del popolo e degli idealisti, passiamo ora agli altri.
Vittorio Emanuele II. Mettiamo da parte il dibattuto enigma sulla sua identità: molti sostengono che non sia figlio di Carlo Alberto, -il cui neonato sarebbe morto in un incendio a Firenze- ma di un macellaio. Sicuramente i tratti somatici non hanno nulla in comune con i Savoia ed il matrimonio di suo figlio Umberto con la oscura cugina Margherita, sarebbe stato un espediente per far rientrare in famiglia i geni Savoiardi. Ben altro il futuro re d'Italia avrebbe potuto pretendere, come minimo sposare la figlia di un importante ed influente monarca. Dal punto di vista culturale Vittorio Emanuele II era uomo decisamente rozzo ignorante, non sapeva parlare ne scrivere correttamente l'italiano, dedito a piaceri molto immediati e poco spirituali, dotato di grande ambizione e manie espansionistiche, concepiva l'unità d'Italia come l'annessione al Piemonte della Padania, cioè del regno Lombardo Veneto, governato da Vienna, in modo da avere uno stato di un certo peso da poter mettersi in lizza con gli altri stati europei. Poco interessato alla politica, seguiva gli indirizzi del Cavour che molto più lungimirante sapeva andar dietro alle situazioni del momento per trarne, seppur con pochi scrupoli, il massimo dei vantaggi per i Savoia. Uno degli scopi principali di Vittorio Emanuele era quello di distruggere il partito democratico piemontese che aveva costretto suo padre Carlo Alberto, allo Statuto. I democratici non erano altro che avvocatacci, canaglie e sovversivi soleva dire ed infatti dopo il giuramento di fedeltà, sciolse il Parlamento, indisse nuove elezioni e siccome non erano andate secondo i suoi intendimenti, le fece rifare fino a mettere a terra i democratici. Nel frattempo Genova era insorta contro la monarchia e la guarnigione fu costretta ad abbandonare la città. Il re mandò il giovane Alfonso La Marmora che bombardò pesantemente la povera Genova radendo al suolo anche l'Ospedale Pammattone con 200 degenti all'interno. Le truppe entrarono poi in città saccheggiando e dando sfogo alle più basse violenze, al ritorno a Torino Vittorio Emanuele lo coprì di medaglie. E qui comincia la lunga serie di generali assai poco competenti di cui i re Sabaudi si sono compiaciuti fino alla fine del loro regno.
Come nuovo re d'Italia si mostrò assai poco affabile. Disinteressato ai problemi degli stati conquistati e soprattutto annessi, riteneva il Piemonte il centro di tutte le attenzioni e a differenza di come aveva agito la Germania, che nella sua unione aveva rispettato le tradizioni, gli usi e le leggi dei paesi riuniti, egli fece tabula rasa di tutto e non volle neanche farsi chiamare Vittorio Emanuele I quasi la nuova nazione non fosse una libera unità tra stati italiani ma una, annessione al Piemonte.
Camillo Benso conte di Cavour. Lasciando da parte le storie sulla sua paternità, fu un massone monarchico della vecchia guardia, politico astuto e diplomatico senza troppi scrupoli, capace di rovesciare i propri intendimenti a seconda dell'interesse del momento, di allearsi con le più improbabili forze purché gli recassero vantaggio e di prendere e lasciare alleati e nemici con abili giri politici, allorché gli portassero un tornaconto; aperto ad avanzare i confini del Piemonte fin dove fosse potuto giungere senza troppi pericoli presenti o futuri, è stato l'uomo che ha amministrato la politica del Risorgimento, nei momenti limpidi di fulgore ed in quelli oscuri ed equivoci da stipare in un buio dimenticatoio. Cosi privo di humor da meravigliarsi che solo venti soldati di tutto l'esercito borbonico fossero passati nel nuovo esercito italiano.
Giuseppe Garibaldi, Massone repubblicano di tendenze socialiste, guerrafondaio senza paura, arrestato, condannato a morte e fuggito dal Piemonte dopo i primi falliti moti sotto Carlo Alberto, rifugiato in sud America dove combatte in Brasile e Uruguay, richiamato in Europa dalla Massoneria inglese, promotore della spedizione dei Mille, simbolo pubblico ed acclamato dell'ardore nazionale ed innalzato a protagonista ufficiale dell'unione d'Italia. Icona carismatica della fede risorgimentale, tanto è vero che come nell'antica Roma si diceva: non si può dubitare della moglie di Cesare, da noi esiste l'affermazione: non si può dir male di Garibaldi .
Giuseppe Mazzini. Massone molto ascoltato da tutti i Grandi Orienti europei, non certo socialista, mai presente sui campi di battaglia, repubblicano con possibilità di accettare anche una monarchia, teorico di un Risorgimento moderato e razionale e più attento alle sue elucubrazioni che alla realtà dei fatti. Ne fa prova una serie di insurrezioni tutte fallite, come quella dei martiri di Belfiore, l'altra a Sapri di Carlo Pisacane. Tragica fu anche la rivolta di Milano del 6 febbraio del 53 condotta con metodo mazziniano, fidando cioè in una spontanea partecipazione popolare e addirittura nell'ammutinamento dei soldati ungheresi dell'esercito austriaco, rivolta fallita miseramente nel sangue e furono proprio i mazziniani, notoriamente in contrasto ideologico con Marx, a contribuire al fallimento non facendo pervenire ai rivoltosi le armi promesse e mantenendosi passivi ai momento dell'insorgere della rivolta. Cosi un pugno di uomini armati di pugnali e coltelli furono mandati incontro al disastro, in nome dei loro ideali patriottici e socialisti. Ed ancora un altro fallimento fu la caduta delle repubbliche mazziniane di Firenze e di Roma nel 49.
Questi i protagonisti, coloro che hanno retto i fili del Risorgimento Italiano.
Veniamo ora ad un fatto molto importante, quello che ha aggiunto alla nuova nazione quasi metà del suo territorio: la spedizione dei Mille, che fu la grande occasione per trasformare il Risorgimento da un movimento d'elite ad un movimento popolare, occasione non raggiunta.
Se le battaglie del Piemonte furono pagate e condotte dalla Francia che voleva uno stato cuscinetto fra se ed i grandi Imperi dell'est, la conquista del regno delle due Sicilie fu sovvenzionata e voluta dall'Inghilterra e dalla Massoneria internazionale.
Dall'Inghilterra Garibaldi aveva avuto un finanziamento di tre milioni di franchi in piastre d'oro turche ed il monitoraggio costante dell'impresa. Il finanziamento proveniva da un fondo di presbiteriani scozzesi e gli fu erogato con l'impegno di non fermarsi a Napoli, ma di arrivare a Roma per eliminare lo Stato Pontificio e togliere al Papa il potere; il monitoraggio, garantito dal Palmerston, primo ministro del governo inglese che per questioni di mercato era in rotta con il regno delle Due Sicilie .Già da qualche anno infatti Cavour ed il conte Clarendon, ministro degli esteri britannico, avevano avuto contatti per sovvenzionare rivolte contro i Borboni e corrotto la stampa imponendo propagande antiborboniche onde spianare la strada a Garibaldi. Tanto interesse del Palmerston era dovuto al fatto che l'Inghilterra voleva riprendere a quattro soldi il monopolio delle miniere di zolfo, fonte di fortissimi guadagni. I Borboni lo avevano tolto agli inglesi per passarlo ad una ditta privata di Marsiglia, la Tax Aycard la quale aveva offerto più del doppio.
Forte della protezione della marina inglese, Garibaldi partì con due vapori da Quarto e 1086 giovani entusiasti che avevano lasciato i loro studi o i loro lavori per andare in questa lontana isola a ritrovare i ricordi del passato greco-romano, ma ben poco comprendevano, ne cercavano di capire, della realtà dei suoi abitanti, della situazione dei contadini, dei loro problemi. La Massoneria internazionale assicurò al biondo eroe l'appoggio e la pubblicità della stampa di tutto il mondo e mandò al suo seguito diversi corrispondenti famosi contribuendo a crearne il mito che fu rafforzato anche da Alexandre Dumas.
Sempre i fondi della massoneria inglese servirono a Garibaldi per acquistare a Genova i fucili di precisione, assai utili contro l'esercito Borbonico che non era certo l'esercito di Pulcinella, ma una armata ben organizzata. Garibaldi sbarcò a Marsala, feudo britannico, sotto la protezione di due navi da guerra di Sua Maestà britannica, promettendo di togliere la tassa sul macinato, il dazio sui cereali, l'abolizione degli affitti e dei canoni sui terreni demaniali e di procedere ad una riforma del latifondo, ma i siciliani erano diffidenti del nuovo arrivato e la vittoria a Calatafimi, dove avvenne il primo scontro, fu dovuta al fatto che il generale borbonico Landi, il quale se avesse voluto avrebbe potuto distruggere i garibaldini in un attimo, appena compreso che questi le stavano sonoramente buscando, diede ordine alle sue truppe di retrocedere a Partinico e successivamente a Palermo, grazie ai 14000 ducati accreditati a suo nome dai piemontesi, pronubo il conte di Cavour, nel banco di Roma. l contadini però a questo punto cominciano una guerra separata contro il potere borbonico interpretando a loro modo le promesse di Garibaldi. Invadono i demani comunali, i feudi dei latifondisti, bruciano gli archivi dove sono custoditi i titoli del loro servaggio. Questa insurrezione fu spietatamente repressa e venne creata la Guardia Nazionale anticontadina. Garibaldi si mette contro di loro chiamandoli invece a se per il suo esercito: tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio, braccio destro del Generale, nella regione del catanese. Quasi senza combattere, grazie alla rete sapientemente creata dalla Massoneria, Garibaldi arriva a Palermo e la città non fa opposizioni perché il generale Lanza, preposto alla sua difesa, ammansito dalle piastre d'oro elargite dai piemontesi che le avevano avute dall'Inghilterra, lascia entrare liberamente le truppe. Il re Francesco II, che non era quel bamboccio descritto dalla stampa dell'epoca e la giovane moglie, ridicolizzata con l'epiteto di Aquilotta Bavara essendo una Wittelsbach, si ritireranno nella fortezza di Gaeta dove con le truppe rimaste, opporranno una forte, onorevole e valorosa resistenza. Ma oramai il regno delle Due Sicilie è finito. Garibaldi è il vincitore ed ha il paese in mano.
Dopo molti tentennamenti e sotto la pressione di Cavour e l'imminente annessione di Marche ed Umbria alla monarchia sabauda, Garibaldi, pur di idee repubblicane accetta l'unione dell'ex Regno delle Due Sicilie al futuro stato italiano unificato sotto l'egida di Casa Savoia, unione che fu formalizzata mediante il referendum del 21 ottobre 1860.
Qui finisce l'avventura di Garibaldi per la conquista del meridione d'Italia, ma c'è un giallo a chiudere la vicenda: l'affondamento della nave di linea Ercole che partita da Palermo il 4 marzo del 1881 con settantotto passeggeri, mai raggiunse il porto di Napoli perché una violenta tempesta la inabissò fra Capri e Sorrento uccidendo passeggeri ed equipaggio la stazione semaforica di Ventotene posta a circa 30 miglia non segnala in quella data nessun temporale ed indica assenza assoluta di vento.
A bordo di quella nave vi era Ippolito Nievo, di ritorno dalla Sicilia, con documenti scottanti sulle spese e sulle appropriazioni operate da Garibaldi e dai suoi. Con Nievo c'erano anche funzionari militari piemontesi che avevano gestito l'anno prima le confuse finanze dei Mille e che portavano le casse con le piastre turche non spese ed i preziosi libri contabili richiesti con urgenza a Torino, dopo che l'ala conservatrice aveva sollevato una questione sulla dubbia amministrazione della spedizione: operazione classificata molto urgente. A Napoli nessuno si accorse del mancato arrivo dell'Ercole, solo i portuali ne dettero notizia dopo undici giorni. Nessuno si mosse, neppure il ministero della guerra ne la compagnia di navigazione, ne le autorità portuali. I giornali tacquero, le famiglie rimasero ignare. Nievo, le casse con le piastre ed i libri contabili tutto scomparso.
L'Italia era quasi fatta, ma una spina era rimasta nel cuore di tutti: Roma.
Seppure alla proclamazione del Regno d' Italia fosse stata indicata Roma come capitale morale del nuovo stato la città rimaneva sede dello Stato Pontificio.
Alcune terre Papali come la Romagna erano già state annesse con i plebisciti seguiti alla seconda guerra di indipendenza, altre come le Marche e l'Umbria erano state perse dal Papa con la sconfitta di Castelfidardo, lo Stato della Chiesa, oramai ridotto solo al Lazio, rimaneva sotto la protezione delle truppe francesi. Garibaldi fece due tentativi falliti: la battaglia dell'Aspromonte e quella di Mentana, con la connivenza del governo italiano di Urbano Rattazzi.
Solo dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan e la sua cattura, le truppe italiane entrarono in Roma il 20 settembre 1870 a liberare un popolo oppresso il quale non attendeva altro che la cacciata di quel noioso del Papa che fra i tanti difetti, aveva quello di far troppe prediche, dire troppe messe e di aver vietato l'importazione nelle sue terre dei preservativi.
Una volta unita l'Italia, il nuovo governo, al quale purtroppo non partecipavano i cattolici, ebbe parecchie situazioni difficili da risolvere. Prima di tutto la questione così detta del Brigantaggio. La storiografia risorgimentale riprese la definizione di Brigantaggio usata dallo stesso governo del Regno d'Italia, per mascherare agli occhi degli stati europei le gravi difficoltà della avvenuta unità. Una più attenta storiografia ha rivelato come in effetti più che di brigantaggio si trattasse di una vera e propria guerra civile nata nel sud d'Italia dopo l'annessione al nuovo regno, in seguito all'invio delle truppe dell' esercito, durata dal 1861 al 1865. Che non si trattasse di un fenomeno di semplice criminalità è dimostrato proprio dal fatto che si ritennero necessari l'intervento
dell'esercito regio e l'emanazione delle leggi speciali che applicavano la Legge Marziale nei territori del mezzogiorno italiano, legge Marziale che il Governo incitava ad applicare con il massimo della ferocia. Mi raccontava una mia vecchia amica il cui nonno era stato giovane capitano in questo conflitto, che gli ordini in definitiva erano che più gente si ammazzava e meglio si difendeva la patria. La ricerca storica più recente ha contribuito a mettere in luce gli aspetti politici che motivarono la resistenza delle popolazioni meridionali e le conseguenze della sua repressione, superando definitivamente il modello che ha tentato per decenni di liquidare l'insorgenza del sud Italia come fenomeno banditesco. I costi umani sociali e politici sono stati enormi. Ci sono state 685.000 persone uccise nel meridione, 500.000 arrestate, migliaia delle quali deportate nella località piemontese di Finestrelle a 2.000 metri di altezza dove la durata media della vita era di tre mesi ed i cadaveri venivano sciolti nella calce viva. Nel bilancio ci sono 62 paesi distrutti, processi sommari, impiccagioni, violenze di ogni genere contro la popolazione civile: una popolazione trasformata in pericolosi briganti da sterminare. Non c'è bisogno di scomodare Gramsci per capire che i Savoia, più che fare l'unità d'Italia, hanno annesso al Piemonte le altre regioni italiane. Questi Savoia, re appena arrivati e per caso, avendo ricevuto nel 1720 la corona di Sardegna con il trattato stipulato dopo la sconfitta degli spagnoli, hanno invaso stati che esistevano ben prima di loro e di loro più evoluti e quell'invasione se la sono pagata con una vera e propria rapina del Meridione: le banche letteralmente svaligiate, le terre confiscate, anche alla Chiesa, tesori preziosi sequestrati, impianti produttivi trasferiti al Nord, materie prime razziate e date in appalto agli amici degli amici.
Mi ricordo i racconti di una anziana signora, nipote di un eccellente finanziere piemontese, la quale mi disse che suo nonno fu mandato al sud per finir di vuotare il Banco di Napoli e per questo ebbe il titolo di Marchese e la dignità di Senatore.
Il nuovo governo inventò l'emigrazione e la deportazione. Il presidente del Consiglio Luigi Federico Menabrea si adopera per deportare i Briganti in Patagonia, fallito questo tentativo contatta il Console Generale a Tunisi, Luigi Pinna e gli chiede di studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana. Anche qui non riesce e quindi chiede agli inglesi di poter costruire un carcere per meridionali sull'isola di Socotra e all'Olanda un'autorizzazione identica per un'area del Borneo. Tutti questi tentativi andati a vuoto non impediscono comunque la spedizione forzata di migliaia di ex soldati borbonici non confluiti nell' esercito sabaudo, nell'America dilaniata dalla guerra di secessione. Il trombettiere del generale Custer era di Salerno ed in Louisiana i meridionali italiani formarono un reggimento. Ed i nuovi governi si troveranno a conoscere la mafia: quella rete di inteligence e di potere creata dalla Massoneria per agevolare Garibaldi e controllare territorio e popolazione, una volta finita la sua funzione istituzionale, aveva pensato bene di mettersi in proprio e di lavorare per i suoi interessi, che oggi sappiamo bene quali possono essere. Ultimo suo atto patriottico, nell'ultima guerra spianare la strada per lo sbarco americano in Sicilia.
Altro problema quello della gestione dei capitali bancari. Dopo aver vuotato le casse del Banco di Napoli e di Quello di Sicilia -e prima vi ho detto a quanto ammontassero- si cominciò temere le concorrenze. Da qui lo scandalo della Banca Romana, fondata per riunire i capitali della nobiltà papalina e dei benpensanti di fede cattolica, stroncata con subdole manipolazioni, sporchi colpi di mano e tragiche conseguenze. E le speculazioni edilizie, con il coinvolgimento dei politici, che oltre a distruggere i più bei parchi dell'antica capitale papale espropriati per pubblica utilità, si giovavano di aste truccate e concessioni particolari per gli amici e gli amici degli amici; e così per le forniture statali e le nuove imprese industriali; ed è anche per questo che oggi ci ritroviamo al centro di Roma un Vittoriano -controaltare laico a S. Pietro- bianco latte invece che travertino dorato come tutta la città: l'Altare dei Caduti fu eseguito in pietra bianca di Brescia. Guarda caso, il presidente Zanardelli era Bresciano! come dice Giustino Fortunato in una lettera a Pasquale Villari del 2 settembre 1899: è provato, contrariamente all'opinione di tutti, che lo stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali.

Tutto questo dovrebbe far ragionare su quanto fu mal condotta l'Unità d'Italia, questo miracolo che pure doveva verificarsi, perché oramai i tempi erano quelli giusti. Quanto avvenuto, a distanza di più di un secolo e mezzo, sarebbe bello che portasse a momenti di riflessione.

Passerò ora a dirvi come io vedo questo fatto così importante e necessario.

“Italia mia, benché il parlar sia indarno alle piaghe mortali che nel bel corpo tuo si' spesse veggio…”


Sono trascorsi cento cinquanta anni dall' unità d'Italia e tenendo presente che, come ho già detto, il tempo della storia è diverso da quello degli uomini, sembra che si stia nel bel mezzo della famosa crisi del settimo anno. Il Nord vuole l'indipendenza, la Sardegna pure, il Sud la teme e il Trentino la minaccia: un momento in cui io credo bisogni avere molta pazienza ed idee ben chiare.
Come ho detto più avanti, l'unità d'Italia è stato un miracolo. Un miracolo annunciato da secoli ed eventi, solo che, e qui mi ripeto, il tempo degli uomini scorre con velocità differenti da quello della storia. L'Italia non è nata, così come diceva il Barone di Metternich, per essere una espressione geografica, ma come un Paese. La sua stessa conformazione lo suggerisce e bene lo avevano capito i Romani che un'Italia erano riusciti a farla! Purtroppo, caduto l'impero romano, anche se gli Ostrogoti prima ed i Longobardi poi avevano cercato di mantenere una struttura unitaria, questa andava vieppiù deteriorandosi. I Franchi tentarono di ricostruire con Carlo Magno un nuovo
Impero che prese corpo definitivamente un secolo e mezzo più tardi con un sovrano germanico, Ottone I di Sassonia. Il Regno d'Italia era legato all'Impero da vincoli di vassallaggio. Arduino d'Ivrea, antesignano dei patrioti ottocenteschi, attorno all'anno 1000 condusse, sostenuto dalla nobiltà laica del nord, alcune campagne militari per liberare l'Italia dalla tutela germanica, ma a ben poco riuscì.
Con la formazione dei Comuni e delle Signorie l'Italia fu divisa in stati spesso in lotta fra di loro. Però io credo che tante cose continuassero a tener unita l'Italia almeno dal lato spirituale.
Prima di tutto la lingua: il volgare derivato dal latino, si parlava in tutta la penisola, tanto che, arrivando a conclusioni estreme, Dante poteva scrivere a Firenze “tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand'ella altrui saluta…” e Ciullo d'Alcamo in Sicilia “rosa fresca aulentissima c'appari in ver la state le donne ti disiano, pulzelle e maritate...” e quando due popoli, esprimendosi, si capiscono si instaura già fra di loro un rapporto di simpatia se non di fratellanza.
Secondo legame la religione. Tutta l'Italia era cattolica e moralmente dipendeva dal Papa. Le distinzioni poi fra Guelfi e Ghibellini erano sempre aleatorie, momentanee e dovute ad interessi più che altro patrimoniali. La Chiesa aveva disseminato l'Italia di grandi e piccole Abbazie, centri di raccolta, di cultura e di potere, sia territoriale che morale e spirituale. Tutte queste Abbazie, ragionavano ed insegnavano allo stesso modo; le Pievi costellavano le campagne, le chiese erano patrimonio anche dei piccoli villaggi ed in tutti questi posti si celebravano le medesime funzioni, si facevano le stesse prediche e si insegnavano le stesse cose: quindi c'era un filo comune il quale continuava ad unire tutta la popolazione italiana.
Terzo legame, e forse qui mi voglio troppo compiacere e scusatemi, l'ingegno e la prontezza mentale, la facilità di adattamento o di apprendere di cui il popolo italiano ha sempre goduto, alimentato, secondo il mio pensiero, se non addirittura destato, dalle continue orde di invasori che scorrazzavano nella penisola portando anche le loro conoscenze e le loro culture e suscitando nel popolo la necessità di sapersi barcamenare senza troppo rimetterci.
Certo il processo dell'unità è durato tanto tempo, ma come ho già detto il tempo degli uomini è diverso dal tempo della storia e poi bisogna che trovi i momenti e le congiunture giusti e i giusti fattori scatenanti.
Riguardo a ciò che ho raccontato della storia dell'unità d'Italia, dando come innegabili i valori spirituali del Risorgimento e rifacendo solo un percorso di tempi e di fatti, senza odio ne amore, senza rabbia ne compiacimento, riportando solo informazioni senza commenti ne elaborazioni, leggendo invece che parlando a braccio, che porta sempre ad una foga pronuba di inutili deviazioni e personali, nonché estemporanee puntualizzazioni non sempre appropriate, ho voluto significare che la vita nel compiere il suo tragitto, è capace di concretare un suo meraviglioso disegno utilizzando umori e situazioni, egoismi e spiritualità, tendenze buone e cattive, tutto ciò che fa parte della natura dell'uomo lo credo che certe volte il destino, Dio, la storia, il caso perfino, si servano per creare qualcosa di valido, non solo dei probi, dei giusti o addirittura dei santi, ma di tutti gli uomini a disposizione che possano portare un intervento necessario al raggiungimento finale. Tutti loro, noi oggi dobbiamo ringraziare, perché col loro operare, sia positivo che negativo, sono riusciti a darci l'Italia, questo risultato di un processo durato secoli, ma che fin da subito ha cominciato a cementarsi. Ricordiamoci che solo a pochi anni dalla presa di Roma, chiamati dalla nuova Patria, nelle trincee del Carso e nelle pianure del Piave si sono trovati a combattere gomito a gomito, uomini sconosciuti, antichi nemici, di estrazione, culture e sentimenti diversi. Una cosa sola li univa: tutti si sentivano italiani. Non sciupiamo questo loro raggiungimento, cerchiamo anzi di esaltarlo, magari ognuno riconoscendo le colpe degli avi, senza la protervia e l'insipienza di chi, venuto all'ultimo momento, cerca di giudicare col senno di poi, ciò che è avvenuto in tempi e condizioni diverse e quello che è stato potuto realizzare in contingenze differenti. Sempre dobbiamo pensare che anche il nostro oggi è già un passato del domani. Teniamo stretti i valori consegnatici da chi è vissuto prima di noi e cerchiamo anzi di renderli migliori per lasciarli ad un futuro che sicuramente vorrà giudicarci.
Spero e mi auguro che questo sia lo spirito con cui si festeggerà il centocinquantesimo anniversario della unità politica italiana.


Alessandro Rigi Luperti


Alessandro Rigi Luperti, nato nel 1934, Cavaliere di Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta. Colpito da poliomielite paraplegica nel 1956, non trovando all'epoca possibilità di lavoro, si è laureato in giurisprudenza, diplomato in Belle Arti e dopo aver conseguito diplomi di ogni genere nel campo dell'arte, della pittura e del restauro si è approfondito in queste materie lavorando nel campo artistico. Ha scritto anche parecchi volumi sia a soggetto di arte che di storia. Dal 1960 , facendo parte della Commissione Arte Sacra, ha collaborato con la Curia di Firenze e con la Curia di Fiesole in importanti opere, prima e dopo l'alluvione.
Trasferitosi a Roma nel 1968 ha eseguito parecchi lavori su edifici ecclesiastici. Notati ed ammirati da S.S. Giovanni Paolo II appena eletto Papa, è stato da Lui chiamato per affidargli nel tempo, la ristrutturazione del Pontificio Seminario Maggiore ( 384.000 metri cubi di fabbricato), di ben 84 Chiese, cinque Basiliche fra cui quella di S. Marco e di alcuni Conventi storici. Per sette anni ha provveduto al ripristino ed il restauro dell'Ordinariato Militare d'Italia, ex convento di S. Caterina alla Salita del Grillo, della annessa Chiesa di S. Caterina a piazza Magnanapoli compreso il Sacrario dei Caduti, del complesso della Chiesa Palatina del Sudario in via del Sudario e della costruzione nella Città Militare della Cecchignola in Roma, della Chiesa Cattedrale dell'Ordinariato Militare Italiano e del Seminario per i Preti Militari. Da otto anni ha l'incarico della ristrutturazione della Curia di Cagliari, dell'Episcopio, della Cattedrale, del Museo Diocesano ed altri importanti storici edifici. S.S. Benedetto XVI ( che conosce da 23 anni) ha inaugurato queste opere, compresa una sala a Lui dedicata, durante la sua visita a Cagliari nel settembre del 2008.
Fa parte della Commissione Arte Sacra ed ha ricevuto per merito da S.S. Giovanni Paolo II il prestigioso riconoscimento del titolo di Commendatore dell' Ordine Piano.
Tuttora continua nel suo lavoro a richiesta del Vicariato di Roma e del Vaticano e dei Vescovi e Parroci amici.
Ha creato al Castello Brancaleoni di Piobbico un museo con antichi abiti gioielli ed oggetti della sua famiglia che discende dal ramo dei Brancaleoni conti della Rocca Leonella e Montegrino.

18 novembre 2010 LAURA MUNCACIU E ALESSANDRO PETROLATI

(PAGINA IN ALLESTIMENTO)
Lezione Concerto
"L'UNITA' D'iTALIA NELL'OPERA VERDIANA"





15 novembre 2010 - IVANA BALDASSARRI

“L’astro barocco di Artemisia Gentileschi tra oblio e celebrità, vergogna e riscatto nel segno dell’arte”.
Artemisia Gentileschi è stata una grande pittrice del ‘600 (Roma 1597 - Napoli dopo il 1651): creatura indipendente e volitiva, sentimentale e riottosa, riservata e umorale, esibizionista e reticente, casta e passionale, fu artista straordinaria in un’epoca storica che negava alle donne sia l’anima sia il diritto all’autonomia.
Figlia d’arte, suo padre è il celeberrimo Orazio Gentileschi, conquista con sofferenza e fatica l’anomalia di un protagonismo sociale e artistico, dopo uno stupro costatole un lungo e doloroso processo.
Artemisia è donna bella, cupa e tesa, perseguitata dalla sua femminilità, dalla sua vocazione artistica e dalla consapevolezza segreta del suo stesso valore, che la contrappone e la incatena fatalmente al padre maestro e rivale
Roberto Longhi, incontrastato critico d’arte del ‘900, scrisse di lei: “Artemisia Gentileschi è l’unica donna in Italia che abbia saputo che cosa sia la pittura, il colore, un impasto materico e simili essenzialità e non la si deve confondere con la serie sbiadita delle più celebri pittrici italiane!”
Il conclamato e millenario protagonismo maschilista non può sopportare una donna così! Infatti subito dopo la sua morte, Artemisia viene totalmente cancellata; svapora la sua figura, scompaiono le sue opere, di lei non si sa più niente.
Dopo 270 anni, Roberto Longhi e sua moglie Anna Banti la “riscoprono”, riconsegnandola alla Storia con tutti i bagliori corruschi della sua travolgente personalità e della sua originale capacità artistica e creativa.




Artemisia Gentileschi


"Autoritratto come suonatrice di liuto"


Sono anni che, con accorata ostinazione, inseguo Artemisia Gentileschi. Il suo è un bellissimo nome, dolce e severo, quasi un'immagine, quasi un racconto; suona melodioso, aristocratico, alto: un nome di raso, in cui si incontrano l'arte e la gentilezza con quel finale in "chi" che ricorda blasoni nobiliari e castelli.
La verità biografica di Artemisia Gentileschi si è svolta tutta assolutamente al contrario di queste personali suggestioni: in una Roma barocca e controriformista, grondante ogni infamia e ogni gloria, in un ambiente volgare e corrotto, nella promiscuità e nella violenza, nella fatica e nei disagi, è fiorito il miracolo d'arte che ha nome Artemisia Gentileschi.
Merito di questi nostri ultimi tempi la "scoperta", la diffusione e l'approfondimento del personaggio Artemisia, sia come donna che come artista. Già nel 1916 Roberto Longhi, con il saggio "Gentileschi padre e figlia" aveva sollevato, con genialità e dottrina e qualche accademica sorpresa, il fitto oblio e la pesante noncuranza calati soprattutto su Artemisia, che pur in vita aveva avuto successo e celebrità. Dopo qualche anno, alla ricerca estetica di Longhi, sua moglie Anna Banti, scrittrice sensibilissima, intuitiva e colta, attenta a trasformare quel diritto all'uguaglianza fra i sessi, in quello più prezioso e naturale che è il diritto alla "differenza", scrive una biografia su Artemisia: ancora manoscritta andrà perduta nel bombardamento del 1944 della loro casa fiorentina, assieme a tutti gli appunti che l'avevano favorita. AI dolore e alla rabbia per la perdita di quel manoscritto, Anna Banti reagirà con la scrittura di un altro libro Intitolato appunto "Artemisia", quasi una seconda redazione dell'originale perduto, ma con altri intenti e altra formulazione ideologica.
"Artemisia" diventa un appassionato colloquio fra due donne speciali, che pur collocate in un tempo allontanato, si confidano e si confrontano, difendendo, con le loro opere, il diritto sacrosanto a svolgere un lavoro a loro congeniale.
Anna Banti fu sedotta da Artemisia: sconosciuta ai più la pittrice le apparve come una donna "nuova", che non ha subito le sovrapposizioni delle ipotesi e delle interpretazioni a posteriori, ne i maliziosi giudizi degli studiosi. Artemisia si propose alla sensibilità raffinata della scrittrice fiorentina direttamente dai documenti d'archivio: dai vasti serbatoi del verosimile, Anna la guardò e decise d'amarla, di farsela sorella e di raccontarla come se fosse una sua contemporanea, offrendole le prove più libere e più modulate del suo vigoroso temperamento.
Ma noi, oggi, siamo più fortunati di Anna Banti: gli studiosi hanno trovato su Artemisia molti più documenti di quanti non ne avessero, 60 anni fa, Longhi e la Banti.
Il motivo di questi studi approfonditi e rigorosi, trova la sua ragion d'essere in una strana contraddizione: la trascuratezza che colpisce sempre le donne nelle loro manifestazioni più alte, si trasforma in curiosità morbosa e acribia accademica, quando queste stesse donne vengono a trovarsi in situazioni scandalose. Artemisia deve gli ultimi approfonditi, doverosi studi al ritrovamento negli archivi Vaticani, degli atti del processo di stupro che Artemisia subì a 17 anni ad opera di Agostino Tassi, un pittore dello studio di suo padre Orazio Gentileschi.
Lo stupro è stata la pruriginosa scintilla che ha alimentato il fuoco poi rigoroso e meritorio, dello studio sul suo straordinario personaggio. Un sotterraneo sospetto rimane: se non ci fosse stata quella violenza carnale ci sarebbe stata la stessa cura nel ricercare?
Esiste anche il pericolo che la violenza subita, abbia incastonato Artemisia in un gossip storico-cultural-artistico, distogliendo da lei i veri meriti della sua celebrità.
Ci sono voluti comunque quasi 350 anni, considerando il 1653 come ipotetico anno della morte di Artemisia, e il 1999 anno del primo studio completo ed esauriente di Bissel sulla pittrice, perché Artemisia occupasse nella storia dell'arte il posto che merita che è quello "dell'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia la pittura, e i colori, e gli impasti e simili essenzialità, da non confondere adunque con la serie sbiadita delle celebri pittrici italiane" come disse di lei Roberto Longhi.
Artemisia Gentileschi nasce a Roma in Via Ripetta, accanto all'Ospedale di San Giacomo, 1'8 luglio 1593 (416 anni fa) da Orazio pittore nato a Pisa da famiglia orafa fiorentina e da Prudenzia Montoni romana, che morirà di parto a 30 anni al termine della sua settima gravidanza. Alla amatissima sposa Orazio Gentileschi aveva voluto offrire, a prova indelebile del suo sincero amore, un funerale lussuoso, una bara costosissima e una pietra tombaie in chiesa. Artemisia alla morte della sua mamma ha quasi 13 anni: le fu concesso di restare vicino alla salma fino all'ultimo assieme a suo padre distrutto, a Cosimo Quorli ambiguo amico di famiglia e ad un prete. Anche se disperata Artemisia non fa una lacrima: pare indurita, insensibile. È più alta, grande e formata delle ragazzine della sua età: ha corpo e viso ben modellati; l'ovale del viso, la sensualità delle labbra e la cupa intensità dello sguardo non le sarebbero più cambiati; ha occhi a mandorla così grandi che le palpebre sembrano protendersi fino alle tempie; il mento rotondo e armonioso si orna di una seducente fossetta.
Anche per Artemisia, come per suo padre, la morte di Prudenzia rappresenta la fine della felicità: in lei, marito e figli, avevano racchiuso tutta la tenerezza, tutto il calore e i sorrisi del mondo e la sua morte fatalmente, avrebbe allontanato Artemisia dalle attenzioni affettuose di suo padre diventato incapace d'amare.
Immerso nella sua cieca sofferenza Orazio non vede più nessuno, neppure i suoi figli, neppure Artemisia che pur è la sua preferita da sempre. Finita per Artemisia la fattiva complicità con suo padre: per anni la bimba prima e l'adolescente poi era stata la sua ombra: da lui aveva imparato a preparare tele e colori, a salire sulle impalcature dove lui lavorava e a seguire e capire tutti quei discorsi tecnici che Orazio scambiava con i pittori della sua bottega; attraverso i suoi giudizi aveva capito i segreti dei grandi pittori, gli equilibri delle strutture, le misure e le proporzioni. Per seguire suo padre non era mai andata a scuola, non sapeva ne leggere ne scrivere ma sapeva tutto sulla pittura. Gli occhi avidi ed eccitati della bambina andavano dai quadri dei Carracci e del Caravaggio al viso adorato di suo padre capendo che Orazio le stava trasmettendo tutti quei segreti di cui lui era maestro. A volte l'esile ed elegante figura di Orazio si ingigantiva quando si metteva la bambina sulle spalle: diventavano tutt'uno e a tutti due pareva che il sangue scorresse nelle loro due vite senza interruzione alcuna. Non era importante che la piccola capisse tutto, Orazio non faceva appello alla sua intelligenza, ma ai suoi sensi e Artemisia per tutta la vita ricorderà ogni momento di quella sua felicissima delirante infanzia. Non una parola, non un'immagine di quel tempo sarebbero andate perdute.
Il disegno, la luce, l'armonia delle proporzioni, la pennellata, l'accordo dei colori, «perché vedi - diceva Orazio ad Artemisia quando già grandicella è in grado di costruire immagini e modellare panneggi e creare atmosfere -tu ed io non apparterremo mai a nessuna scuola: perché dunque dovremmo porci dei limiti?» .Il duo si era già consolidato: quasi una complicità, una dipendenza, una sovrapposizione, forse una schiavitù.
Artemisia dopo la morte di Prudenzia diventa unica donna in una casa di uomini, unica figura materna per i tre fratellini, unica compagna del padre, unico garzone di sesso femminile in tutta la bottega Gentileschi. Si interrompe drammaticamente il rapporto privilegiato col padre: deve badare alla casa, ai fratelli, deve far da mangiare per tutti compresi i lavoranti di suo padre. L'arte, la pittura che avevano illuminato la sua vita di bambina precoce, avida ed emotivamente ricettiva, sembrano diventate quasi una colpa. Artemisia rientra fatalmente nel prototipo femminile seicentesco che considera due soli gli ambienti aperti e possibili per la vita di una donna: o la famiglia o il convento, senza che questi possano offrirle alcun diritto, venendo considerate sfere distinte e private. Alle donne, anche le più dotate, veniva negato l'accesso alla sfera del lavoro nella società. Anche Artemisia sa, quando si dedica alla pittura che irresistibilmente la chiama oltre quelle faccende domestiche subite come parodie di occupazioni, che questa sua attività ha una connotazione semiclandestina, priva di veste formale. Nella sua casa, nel suo quartiere, nell'ambiente artistico romano, il suo dipingere è considerato uno scandalo, un'anomalia, un'eccezione e non sarà questa sua vocazione, certa e ampiamente dimostrata, a proporla al mondo con le insolite credenziali di "protofemminista", ma il fatto di aver subito uno stupro a 17 anni e, somma ingiustizia, sarà proprio questa violenza a favorirne l'attenzione sia dei suoi contemporanei che di noi moderni. Tutta la storia di Artemisia sarà minacciata proprio dalla soverchiante documentazione della violenza subita che ha rischiato di farla diventare solo e per sempre, vittima di quell'evento.
Orazio dopo la morte della moglie si è incupito, pare estraneo a tutti gli affetti: la sua naturale introversione è diventata violenta scontrosità. Artemisia accetta e capisce le crisi d'ansia, i silenzi e le sgradevolezze di questo suo padre che trova pace solo nella pittura e pur con fatica continua a coniugare per lui tutti i ruoli: è la sua coscienza critica, il suo discepolo, la sua modella. Ma Orazio, dilaniato fra un'oscura gelosia e un'incontenibile fierezza di padre e di maestro, diventerà, nei confronti di Artemisia, ancora più possessivo, autoritario e contraddittorio: non capisce, Orazio Gentileschi, il ruolo alto e straordinario che Artemisia gli propone.
Artemisia intanto riempie e illumina tutta la casa con la sua vitalità e la sua bellezza: non si cura di tutti quegli uomini, giovani e anziani, che lavorano per Orazio: dipinge alloro fianco con alterigia fanciullesca e grande autonomia creativa: si difende dai loro discorsi, dalle avance, dalle proposte volgari, dato che suo padre non lo fa per lei.
Fra i pittori collaboratori c'è Agostino Tassi, un giovane vedovo, così almeno lui dice di essere, un pittore raffinato, maestro nell'illusionismo spazi aie che riesce ad offrire la cornice adeguata in cui Orazio può inserire i suoi personaggi. Lavorano insieme per il Cardinal Scipione Borghese al Quirinale.
Orazio e Agostino diventano amici tanto che Orazio pensa che il giovane possa insegnare ad Artemisia le regole e i segreti della prospettiva: sa che sua figlia, anche se nessuno ha ancora visto i suoi lavori, è una vera artista. Agostino diventa così di casa e proprio in quella casa che avrebbe dovuto proteggere Artemisia, si consuma la violenza a suo danno.
Occhi neri e belli, capelli ricciuti, minuto e aggraziato nel corpo, spregiudicato, bugiardo e puttaniere, Tassi fa gran sfoggio di belle camicie e di belle parole con calda voce di gola, ma è già noto alla giustizia per violenze, rapine, incesti e altre oscenità.
In casa Gentileschi, la presenza dirompente di Artemisia non può che suscitare in lui desideri altrettanto dirompenti. Non passa molto tempo dal suo inserimento fra i collaboratori di Orazio, che Agostino, trovando la ragazza sola in casa mentre dipinge, non l'aggredisca e non le faccia violenza. È il 9 Maggio 1611.
Violandola, prendendola, spogliandola non sa che urlarle: «Basta dipingere, basta dipingere!!!» come se quella anomala attività di lei gli sia più d'impaccio della reazione violenta di difesa, più di quel pugnale che Artemisia gli scaglia pur senza ferirlo. Non fu così le altre volte: perché le parole appassionate, le promesse suadenti, l'eccitazione erotica, il piacere e la speranza giocano a favore di Agostino. «Voglio serbare sulla bocca il sapore del tuo sangue -le diceva Agostino voluttuosamente –Mio topazio di fuoco, mio velluto nero, mia coppa d'oro, mio veleno! Voglio berti fino alla morte!»
Anche Orazio, naturalmente, ne viene a conoscenza e pensa che un matrimonio fra Tassi e sua figlia potrebbe certamente migliorare la condizione di tutti, consolidando commesse e ampliando la clientela. Sogna perfino di realizzare uno studio più grande, dove anche Artemisia possa lavorare con loro. Non gli passa neppure per la testa di verificare chi sia veramente quel bel pittore, o forse non gli importa, tanto le donne, si sa, sono fatte proprio per essere godute! Tutto procede subdolamente fra promesse di matrimonio, deliri d'amore e silenzi quando Artemisia sa con certezza che la moglie di Agostino è viva e vegeta e che il traditore ha, in più, una relazione semincestuosa con la sorella di sua moglie. Disperata e delusa Artemisia costringe suo padre Orazio a denunciare Agostino Tassi per stupro e falsa promessa di matrimonio, insistendo sul fatto che essendo stato lo stupro, perpetrato all'interno della loro casa, lo sfregio e l'offesa, alla luce di un complesso codice d'onore della famiglia, non era solo rivolto al corpo e alla dignità di lei, ma soprattutto all'onore di Orazio e di tutta la sua famiglia.
Dopo quasi un anno da quel 9 Maggio 1611 e precisamente nel Marzo 1612, Artemisia calma, apparentemente serena, sicura e decisa, fa la sua prima deposizione in Tribunale contro Agostino Tassi già in prigione. Grazie ai documenti di un pubblico processo per violenza carnale, Artemisia fa il suo ingresso ufficiale e incontrovertibile nella Storia.
Dagli atti del processo ne vien fuori una giovane donna energica, coraggiosa e intelligente che difende la propria onorabilità sociale piuttosto che una lacrimosa vittima assetata di vendetta. Insiste sulle promesse di matrimonio e sul fatto che non era mai venuta a conoscenza ne della condotta scandalosa di lui, ne dei disonorevoli comportamenti di suoi parenti. Per cercare di farle cambiare deposizione, le si imporrà anche la tortura della "Sibilla" (che è uno strumento che stringeva le dita fino a staccarle dalle mani), la visita ginecologica e l'irrisione del pubblico e della Corte. Ma Artemisia con le mani tumefatte e sanguinanti mantiene imperterrita la sua linea, senza una lacrima, senza un lamento, tutta tesa a condurre l'appassionata decifrazione dei suoi veri valori.
Dominando dolore e raccapriccio, pur scottata mille volte al bruciore dell'offesa, Artemisia sublima la violenza in eroismo e riscatto.
Con una sentenza ambigua, Artemisia verrà creduta, ma al Tassi non sarà inflitta nessuna detenzione: dovrà scegliere o 5 anni di lavori forzati, o il bando perpetuo da Roma. Agostino sceglie l'esilio, ma il 28 novembre 1612 il tribunale annulla la sentenza del bando da Roma. Anche se la sentenza si era dimostrata una burla, era comunque una condanna, che proclamava al mondo l'innocenza di Artemisia e restituiva l'onore all'intera famiglia.
Orazio può recuperare la sua cupa fierezza ve nata di disgusto e Artemisia la sua impetuosa dignità, ridotta da una effimera, scandalosa celebrità ad una solitudine riottosa ed Insidiata.
Durante tutto il processo, una persona aveva tramato, promosso, aggiustato le cose con i giudici: il notaio e faccendiere fiorentino Giovan Battista Stiattesi che abitava nella stessa casa dei Gentileschi. Questo avvocato aveva un fratello minore di nome Pierantonio, ragazzo dolce e strampalato, pieno di debiti e di sogni: è proprio lui che chiuderà il periodo tormentato e crudele di Tassi, dei tribunali e delle deposizioni.
1129 Novembre 1612 sposerà Artemisia e con la sua dote pagherà tutti i suoi debiti. Gli sposi se ne andranno ad abitare a Firenze: Artemisia e suo padre Orazio si dividono senza parole, con apparente indifferenza, interrompendo definitivamente quell'intesa assoluta e lacerante, altalenante fra dipendenza appassionata, voracità di apprendimento, reciproco riconoscimento di grandezza artistica, gelosia e abbandono.
Del periodo precedente al processo esiste un'opera straordinaria di Artemisia: è "Susanna e i vecchioni".

Non si può non pensare per questa opera magistrale un'implicazione accorata e sincera alla stessa situazione di lei; inoltre la pittrice conosceva sempre le storie che dipingeva, come conosceva, grazie a suo padre, le opere dei grandi che avevano già affrontato quegli stessi argomenti. La sua "Susanna" (ora nella collezione di Pommersfeld) rivela la mano di un artista molto attenta alle sfumature narrative: il disagio accorato di lei sorpresa in atteggiamento di nudità, la maliziosa complicità dei due uomini, uno giovane, bruno e bello, l'altro anziano, richiamano fatalmente la quotidianità di Artemisia. L'attribuzione del quadro fu contestata fino a che un restauro del 1939 rivela con assoluta certezza la firma e la data: Artemisia Gentileschi 1610. L'opera diventa il frontespizio della sua carriera.
Dello stesso anno 1610, una dolcissima e calda "Madonna con Bambino" che gli studiosi dicono essere la prima opera completa di Artemisia, argomento raro per lei, che preferirà, eroine aggressive, donne vittime e vendicatrici alle quali offrirà sempre la propria immagine, come per una delirante serie di autoritratti.
Il confusionario, ricchissimo, vorace, drammatico apprendistato di Artemisia è finito. Suo padre l'ha lasciata andar via sposa ad un uomo che non conosce, in una città, Firenze, raffinata e difficile. Ora lei dovrà badare a se stessa e scegliere da sola il suo vero destino.
Non sa ne leggere ne scrivere e le firme sui quadri le fa ricopiandole: ma non si perde d'animo, esistono pur sempre i segretari ai quali detta splendide lettere per i grandi della città: a Cosimo de Medici, a Galileo Galilei, a Buonarroti junior, nipote del grande Michelangelo.
Con Pierantonio sta bene, anzi lo ama perche lui è dolce, delicato, premuroso: non le rinfaccia mai nulla del suo passato, anzi cerca di riconciliarla con la sua stessa prorompente femminilità a cui lei imputa imprudenti abbandoni. Probabilmente Artemisia ha subito detto a suo marito che mai e poi mai e per nessuna ragione lei rinuncerà a dipingere. Ancora una volta per la pittrice si ripropone la "clandestinità" di una professione considerata solo maschile, che scatena forse la gelosia professionale di Stiattesi che ha qualche ambizione nel campo. Ma nelle lunghe, tenerissime confidenze notturne i due ragazzi, lei ha 19 anni e lui 21, cercano di organizzare, almeno così sembra, la loro vita. Nei primi 5 anni di matrimonio nascono 4 figli: solo la terza, Prudenzia, sopravvivrà.
Artemisia non rinuncia nonostante le gravidanze, i parti, le malattie e le morti dei piccoli a dipingere: si iscrive, fra scandali e proteste, alI' Accademia del Disegno, si propone, si promuove, si fa ricevere dalle autorità, dalle dame dell'aristocrazia, dagli intellettuali fiorentini, esibendo le tele delle sue donne eroiche: mostra la sua ultima "Giuditta" bella e sanguinaria, la "Maddalena" che sa riunire in un unico atteggiamento provocatorio contemplazione penitenziale e sofferto ravvedimento, il suo "Autoritratto Come suonatrice di liuto" e la dolcissima e scandalosa "Allegoria dell'inclinazione" seduta sulle nubi ".























Il tasso di aggressività non si smorza neppure in questi ultimi temi: Artemisia vuole affermarsi attraverso una spudorata denuncia della propria personalità: vestite con i suoi abiti, ornate Con i suoi gioielli, le sue donne brandiscono armi e pugnali che Sono il corredo rappresentativo delle storie scelte: mi piace pensare che Artemisia, fissato l'argomento, cerchi di entrare come un'attrice nel personaggio. Davanti al grande specchio dello studio si prepara, si atteggia, pensa ai gesti o alle espressioni di Giuditta, Maddalena o Cleopatra e poi si spoglia e si riveste Come loro e comincia a dipingere.
È questo il momento in cui tutte le metafore ritrovano un senso.
La pittrice in questi primi anni fiorentini non nuota nell'oro e non si può neppure permettere una modella: il dolce e vago Pierantonio è solo un timido sognatore: gli piacciono gli oggetti antichi, le stoffe preziose, i manufatti di pregio: cerca di fame un'attività commercia le ma è più quello che spende che quello che guadagna. A volte Artemisia lo rimprovera, lo sprona ad attività più redditizie: lui tace, non reagisce, fino a che un giorno se ne va di casa senza far mai più ritorno. Artemisia sinceramente addolorata, lo manda a chiamare, 10 cerca, dice di volergli bene. Ma lui non tornerà mai più: quella donna bellissima, quella femmina sontuosa che sa diventare Giuditta e Santa Cecilia, Maddalena e Cteopatra lo sovrasta a tal punto che lui si sente sempre più inadatto all'orgoglio del possesso amoroso: gli è subentrata la consapevolezza di non poterle tener testa, di non poterla dominare, ne possederla totalmente. Lei è solo posseduta dalla pittura. Pierantonio non sopporta più il talento prorompente di Artemisia a fronte della propria mediocrità, cui i peraltro non si rassegna.
Nel 1624 Artemisia è di nuovo a Roma con la sua adorata figlia Prudenzia; ha 28 anni: robustamente cresciuta in se stessa, energica di spirito e di cuore, si è ormai conquistata una vera posizione sociale, un'esistenza giuridica e un potere legale. La sua sigla contrassegnerà da ora in poi gli atti notarili: la sua firma, Artemisia ha imparato a leggere e scrivere, autenticherà i contratti d'affitto e i compromessi legali. Libera da ogni tutela, padrona del proprio destino, Artemisia non dipende che da se stessa. Nei registri di censimento figura ormai come "capofamiglia".
Il lungo periodo fiorentino l'ha raffinata, ha consolidato sicurezze e le ha fatto assaporare la celebrità, introducendola negli ambienti che contano: sia quelli della nobiltà che quelli della cultura e dell'arte consacrati dal potere. Torna a Roma con credenziali artistiche e mondane alte, meritate attraverso il suo lavoro e senza l'aiuto ne di suo padre, ne di suo marito: anzi questa autonomia le ha scatenato una cupa avversione per il passato. Una specie di collera retrospettiva, le favorisce rancore e risentimento verso tutti coloro che l'hanno abbandonata, padre compreso. È spesso ossessionata dalla paura che Orazio possa ricomparire nella sua vita, distruggendo tutto ciò che lei ha raggiunto da sola, annientando perfino la sua forza creatrice. Sa cosa voglia dire essere donna in un mondo dominato dai maschi.
Le è quasi naturale dipingere con furore i grandi personaggi femminili della storia e con loro l'ingiustizia, il tradimento e la vergogna. Sono le donne che insorgono contro la tirannia, l'ingiustizia e il sopruso: sono quelle donne che riscattano con le loro gesta eroiche il giogo millenario esercitato dai maschi a loro danno: sono proprio loro che tengono accesa la speranza di un possibile riscatto. Artemisia sente di essere doppiamente protagonista, come donna e come artista: sente di essere, per il suo tempo, una eccezione e proprio in questo senso si propone, insistendo sulla consustanzialità fra l'arte e la donna.
L'opera di Artemisia Gentileschi sarà ambiziosa pittura narrativa di drammatiche scene storiche, in cui si permette di incarnare ed esporre l'inimitabile presenza fisica della donna che l'ha realizzata. In Italia mai nessuna donna aveva avuto questo ardire, nessuna donna era riuscita a lavorare in un modo così plateale, da stabilire con l'osservatore un proprio silenzioso patto di visibilità e di identificazione.
Artemisia si propone come artista adoperando il proprio corpo firmato e datato: questo attira inevitabilmente sulla pittrice ignominia e accuse di esibizionismo licenzioso. Ma lei sa, che proprio tutto ciò avrebbe reso le sue opere celebri e richiestissime.
Artemisia è una donna bella, intelligente e audace, concentrata al massimo sulla sua professione di pittrice: non lascia nulla al caso. Ogni ritratto è una ricostruzione puntuale secondo letture bibliche e storiche abbastanza raffinate; con una regia attenta organizza la scena, gli abiti, gli oggetti, i gioielli, scherma le luci, tanto che la costruzione acquista un tocco di viva teatralità, dove la luce di forte concezione caravaggesca, evidenzia drammi e palpiti senza perdere mai il senso tatti le delle superfici, ne la delicatezza del modellato; spesso le sue eroine sono vestite di giallo, come la luce, come il sole, come l'oro lavorato con un rilievo spumoso e sontuoso; è una connotazione cromatica che sottolinea gloria e meraviglia. Mi piace pensare anche al lavoro psicologico che Artemisia fa su di se e a quell'attimo di guardinga immobilità prolungata che testimonia la sua concentrazione mentale: quasi una pausa in surplace, una tesa preparazione per diventare altro da se. Due volte Artemisia, due volte autoritratto: suoi gli abiti, sue le stoffe preferite, suo lo spogliarsi e il riguardarsi severo allo specchio per scegliere atteggiamenti ed espressioni. Nella sua opera pittorica vive il racconto particolareggiato della sua vita, della sua bellezza carnosa, delle sue emozioni, delle sue combustioni interne e delle sue stanchezze. Intanto la vita passa, segnata da molti amori che non lasciano segni, tranne quello intenso ed esaltante con Nicholas Lanier, un inglese raffinato (1588-1666), musicista, pittore, agente del Re d'Inghilterra venuto in Italia per arricchirne la collezione di opere d'arte.
Artemisia lo ha conosciuto nel 1625 a Roma quando la pittrice stava facendo il ritratto al Cardinale Maurizio di Savoia. Si interessano subito l'uno dell'altro, ma in un primo tempo sono cauti, addirittura diffidenti, come duellanti. Si seguono a distanza, intessendo febbrilmente per alcuni mesi, un eccitante legame platonico, attirandosi e ritraendosi, consapevoli e compiaciuti del loro potere di seduzione, divertendosi di quei giochi maliziosi che non si spingono mai oltre un cortese corteggiamento. Anche perché in quegli ultimi mesi del 1625 i legami amorosi e gli interessi di Artemisia, l'hanno trattenuta nelle braccia dell'ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede: una relazione molto ufficiale che stuzzica t'orgoglio di lei e le favorisce la carriera con commesse prestigiose. Ma questo inglese raffinato, intelligente che mantiene nello sguardo grigio un incanto dolce e segreto, suggerisce ad Artemisia quei desideri di vero amore sempre vivi nel suo cuore solitario. Le piace di Lanier l'alternanza capricciosa fra tenerezza e umorismo e, quando il loro rapporto si consoliderà, le tornerà la fantasia e la gaiezza dei sensi e dello spirito che aveva conosciuto solo con Pierantonio a Firenze, nei primissimi anni del loro matrimonio.
Nicholas Lanier ama la musica, i quadri d'autore e le belle donne, privilegiando le avventure squisite e leggere di una sera. Nessuna donna, neppure la paziente e saggia moglie inglese, l'ha mai segnato, fino a quella vertigine misteriosa e inspiegabile davanti alla bellezza, alla potenza e all'erotismo di Artemisia Gentileschi, pittrice.
Nelle cose d'amore la loro intesa è totale: l'esperienza li ha resi entrambi, conoscitori delle cose del mondo: pur non appartenendo allo stesso universo, sono della stessa razza e della stessa tempra. Sembra che un amore così possa durare per sempre, ma un giorno Artemisia trova Nicholas che sta scegliendo dalla sua cartella alcuni disegni per portarli al
suo Re. Lanier pensava forse ad un gesto di amorevole considerazione nei confronti della sua donna, Artemisia che non era stata interpellata va su tutte le furie.
«Nessuno -gli dice severa -ha il diritto di disporre delle mie opere senza il mio consenso!». Da quel giorno qualcosa si incrina: nell'Aprile del 1628 Lanier considera conclusa la lunga "stagione acquisti" per la corte d'lnghilterra e deve tornare a Londra.
Artemisia disperata come donna, ma sollevata come artista, scrive: «Ho barattato la mia opera con un'altra passione. Non mi lamento dello scambio, ma ora non c'è altra soluzione che l'addio. Scappo dall'amore per non perdermi, perche la pittura ed io formiamo una sola e unica entità. »
Artemisia accompagna Lanier al porto di Venezia e lo guarda partire. Passeranno 10 anni prima che si possano rincontrare.
Il Duca di Alcalà, mecenate ed ex amante della pittrice viene nominato nel febbraio del 1629 vicere di Napoli: per questa ragione il Duca invita la "sua" pittrice a raggiungerlo a Napoli: pochi mesi dopo la Gentileschi e sua figlia Prudenzia partono per la difficilissima trasferta partenopea.
Dopo l'amore di Lanier, Artemisia non sopporta neppure per convenienza le algide attenzioni del Vicere e pur rimanendo a Napoli, decide di lavorare anche senza la sua protezione. Dipinge forsennatamente, ritratti di duchesse per le gallerie dei castelli di famiglia, nature morte per le sale da pranzo, allegorie mitologiche e licenziose per i gabinetti dei prelati: la sua celebrità, le sue origini, i suoi viaggi e le sue amicizie le aprono le porte dei banchieri fiorentini, dei mercanti veneziani, degli aristocratici napoletani e dei prelati romani.
La concorrenza è fortissima: Guido Reni è fuggito scoraggiato da Napoli, il Domenichino scrive "che ha le mani legate col filo di ferro" perche un tris di pittori guidati da Jusepe de Ribeira, detto lo Spagnoletto, detta legge in fatto di commissioni adottando metodi violenti e pericolosi. A peggiorare la situazione di Artemisia, il Duca di Alcalà, per screzi con la nobiltà partenopea, viene richiamato a Madrid; nelle stive delle sue navi ci sono 76 tele, fra le quali parecchie di Artemisia, che tuttavia non si perde d'animo. Il suo studio è diventato tappa obbligatoria per viaggiatori e stranieri e anche se il veleno maschilista circola pericolosamente, Artemisia, nel gran teatro delle awenture partenopee, affronta con i suoi colleghi un confronto diretto che si trasformerà, grazie al suo fascino, in fattiva complicità. La pittrice avrà commissioni importanti nei palazzi dei nobili, nelle chiese e nelle cattedrali di Napoli, ma la fama di Artemisia si consolida sul versante delle opere a lei più congegnali.
Sono le sue eroine femminili che aumentano la sua celebrità, sono quelle "dramatis figurae" che si impongono prepotentemente trasmettendo, in un ambiguo gioco di rispecchiamenti, la complicata vita privata dell'autrice espressa darle sue opere.
La bottega di Artemisia produce decine di dipinti al mese: ormai anche se obbedisce più alle esigenze della committenza che alla propria creatività, la pittrice non scade mai in qualità. Domina tutte le tecniche, la sua pittura può farsi cupa e drammatica alla napoletana, fastosa e sgargiante alla maniera fiorentina o caravaggesca, alla romana: padrona di se stessa, ha alle proprie dipendenze stuoli di apprendisti che la lodano e la promuovono in ogni ambiente.
In questo periodo la sua Prudenzia va sposa; è un matrimonio aristocratico, Artemisia ha voluto inserire la sua amatissima figlia nell'alta società. La pittrice, proprio in questo periodo, comincia a concepire un'altra grande avventura, maturata nel silenzio e nel rancoroso amore sempre nutrito per suo padre Orazio. l suoi tre fratelli, pendolari perpetui, fra 1'Italia e I'lnghilterra, da tempo dicevano ad Artemisia che il loro padre si era molto invecchiato e aveva bisogno di lei. Erano 25 anni che padre e figlia non si vedevano! Lei che si era sentita abbandonata e tradita da lui, aveva fatto del tutto per rimuovere totalmente e da ogni suo pensiero la figura di colui che come nessuno aveva inciso nella sua vita e nella sua arte.
E anche questo era stato per lei un tormento costante. Di quell'amore paterno sbagliato e crudele le era rimasto un sapore acido di ingiustizia, di rifiuto e di abbandono. Forse suo padre era ancora fiero di lei, ma il fatto che non gliela avesse mai pfù detto era come tener viva una cellula di strazio dalla quale lei non riusciva a liberarsi. Ormai Orazio si era invecchiato lontano da lei, i suoi fratelli Francesco, Giulio e Marco le ripetevano che non stava bene e che lavorava con fatica. I loro discorsi erano la sdegnosa e orgogliosa richiesta d'aiuto del vecchio che non aveva mai ne commentato, ne gioito, ne partecipato al successo di lei, neppure con una parola ne scritta ne detta: l'aveva seguita di lontano, aveva parlato perfino con Nicholas Lanier al suo ritorno dall'ltalia e dopo l'amore con Artemisia.
Come due innamorati abbandonati concordarono che Artemisia aveva preferito l'arte su tutto. Non potevano capire che lei fuggiva da tutti i grandi amori per non sacrificare l'autonomia che l'arte le aveva offerto. Artemisia rimane a Napoli fino il 1638, il pensiero di Orazio ormai invecchiato e solo a Londra la tormenta e non le dà pace. Le si riaffacciano alla mente, in un involontario bilancio di vita, tutti i suoi quadri, le sue eroine, i suoi colori: le sue Maddalene...




















...e le sue Ester vestite d'oro,

















le Giuditte sanguinarie ...








e le Susanne violate da sguardi lascivi e cupidi, le Cleopatre voluttuose,




















e Santa Cecilia, che stabiliva con la musica rapporti divini,


e Clio statuaria e declamatoria




















e Lucrezia virtuosa moglie di Collatino suicida per dignità

e l'Aurora più travolgente di ogni forza di Natura




























e quella "Allegoria all'inclinazione" commissionatale dal nipote di Michelangelo.

Sorridendo Artemisia ricorda la sua incredibile audacia nell'essersi raffigurata completamente nuda.
Era stato quello un momento battagliero della sua vita, si era sentita oggetto del desiderio maschile e soggetto forte dei suoi dipinti rivendicando così simultaneamente la bellezza del suo corpo e la genialità del suo pennello. Non sapeva ancora Artemisia che il pudibondo erede Buonarroti avrebbe, di lì a poco, fatto ricoprire di veli la splendida figura della Gentileschi perché troppo tentatrice e voluttuosa.

Le torna in mente "Giuditta e la sua ancella" , acquistata da Cosimo Il de Medici





















e la statuaria "Venere dormente" , venduta ai Barberini

e quell'autoritratto nella "Allegoria della pittura" del 1630: per ritrarsi di tre quarti aveva dovuto assumere una posizione acrobatica aiutata da tre grandi specchi messi a squadra.
Sa di aver operato una rivoluzione nella storia dell'autoritratto, perche non si è mai voluta ritrarre seduta, davanti la tela, tutta bella vestita e agghindata, ma spesso, e come in questo caso, con le maniche rimboccate e i capelli in disordine come le sue fantasie.
Con le opere riaffiorano i ricordi dei suoi committenti; dal generoso e gentile Galileo Galilei a Michelangelo Buonarroti Junior, tutto teso a organizzare una galleria di dipinti per celebrare la gloria dello zio celeberrimo, a Cosimo Il granduca di Toscana e Maria Maddalena d' Asburgo e, a Roma, il Cardinal Maurizio di Savoia e i Barberini imparentati col Papa Urbano VIII egli Orsini e Maria De Medici vedova di Enrico IV Re di Francia, gli ambasciatori di Bologna, di Ferrara e di Malta. A Napoli i Vicere erano stati addirittura suoi intimi e questo naturalmente le era stato di grande aiuto.
Come non ricordare gli uomini della sua vita dal fosco Agostino Tassi che per primo le aveva fatto provare un erotismo insaziabile e incontrollato, al dolce, svagato sognante Pierantonio che l'aveva riscattata e le aveva insegnato la voluttà di un amore sussurrato, e l'assorta adorazione di lunghi baci sulle palme delle mani mentre lei fingeva di dormire, all'irresistibile Nicholas Lanier, il musico, l'intellettuale il mercante d'arte che si era dovuta strappare dal cuore per poter continuare ad essere se stessa. Di tutti gli altri ricordava poco o nulla se non il sapore di un fuggevole desiderio, o la malinconia aspra di una solitudine prolungata o l'orgoglio di un complimento autorevole o il cimento rabbioso per un ricatto accettato.
Ma ora Artemisia, la pittrice celeberrima in ogni Corte italiana e non, sente forte e insistente il richiamo muto di suo padre e decide, con spasimato coraggio, che si sarebbe fatta carico di un viaggio pericoloso e avventuroso fino a Londra, alla Corte di Carlo I Stuart Re d'Inghilterra per aiutare Orazio in difficoltà per quel "Trionfo della Pace e delle Arti", un complesso di 144 mq. di soffitto diviso in nove grandi tele previsto a Greenwich, per il vestibolo della Casa delle Delizie di Enrichetta Maria di Francia Regina d'lnghilterra.
T empeste, contrattempi e corsari non riusciranno ad interrompere quel viaggio durato 4 mesi. Artemisia stanca ed emozionatissima aspetta Orazio a Harwich, nell'Essex dove è approdata, ma lui non c'è. Si organizza a fatica, raduna da sola bagagli, tele e casse e per qualche giorno ancora non riesce ad incontrarlo. Fino a che, agghindata come una gran signora con pellicce e gioielli, si fa accompagnare a Greenwich lungo il Tamigi.
In quel novembre inglese de11638, tutto è grigio, come gli occhi di Lanier, sembra che il sole sia stato inghiottito dalla triste lucidità dell'acqua e della campagna tutt'intorno. Arrivata a Greenwich entra da sola nella grande e regale costruzione che sembra deserta. Nel gran salone si sente l'aprirsi di una porta: nella galleria superiore appare Orazio. Come sempre elegante, vestito di nero: minuto, asciutto, incanutito. Sul viso del vecchio non dilaga nessuna espressione. Artemisia col cuore che le scoppia sta per chiamarlo, ma il vecchio, con un repentino dietro front, scompare. Artemisia si infuria, non si vedono da 25 anni e lui ancora si nega. Comincia allora ad aprir porte, ad attraversare sale, a guardare in ogni stanza fino a che non arriva in un grande studio dove sono accatastate grandissime tele.
Come una furia le sposta, le mette in luce, le guarda. Sono tele di suo padre, ma di pessima qualità che screditano il lavoro, l'arte, il genio di Orazio Gentileschi. Artemisia finalmente capisce: ha toccato con mano la disperazione di suo padre e accetta con gioia il patto muto, implorato da lui. Completerà la sua opera: raccoglierà la fiaccola e il loro nome continuerà a vivere.
Quando la figura di Orazio appare nel grande vano della porta, Artemisia lo guarderà con un lungo tenerissimo sguardo; affrancata dall'ossequio, dai rancori, e dalle pretese di perdono, sente solo il grande, vecchio, tenacissimo amore.
Lavorano insieme con voracità sapendo sempre cosa è meglio fare pur senza mai comunicarselo: passano le notti davanti ai loro cavalletti assillati entrambi dal tempo e dal pensiero della morte, condividendo lo stesso sogno e la stessa visione. Orazio sa bene che non c'è più ne maestro ne allieva: l'energia di Artemisia sfinisce Orazio, ma in due soli mesi la pittrice ha già completato quattro dipinti, quelli più grandi. Artemisia non si concede tregua: rifiuta di mangiare, di dormire e di riposarsi; vorace e disperatamente felice si nutre di Orazio, del suo insegnamento, del suo disegno, della sua luce, del suo colore e della sua materia. Ha perso perfino la sua ambizione personale, accettando che Orazio firmi ogni tela da lei completata.
Il ritmo di esecuzione si accelera: una frenesia!
Ma le Muse assomigliano sempre meno a quelle che dipingerebbe Orazio: sono violente, drammatiche, pesano nello spazio, si impongono, si muovono, gridano! Impotente, compiaciuto e disperato Orazio assiste alla trasformazione dell'opera sua. Ma ormai questo non ha più importanza: il vecchio spesso si addormenta, è stanco. Un giorno finalmente trova l'abbandono per attirare a se sua figlia: «Voglio vederti bene -le dice -avvicinati. Sei ancora tanto bella!» Si abbracciano.
Quello che dovrebbe essere un gesto usuale e quotidiano, diventa un evento.
«Dio- sussurra Orazio -rifiuta di scegliere fra noi» lo sguardo si annebbia pervaso da un sentimento di pace. Orazio Gentileschi muore fra le braccia della figlia ritrovata.
Lei piange e non sa se per tenerezza o per sgomento.
È il 7 Febbraio 1639: Orazio ha 76 anni, Artemisia 46. l funerali di Orazio si svolgono a Londra con grande pompa partecipata dalla corte e dagli artisti di corte.
Artemisia rimane a Londra per vedere il "Trionfo della pace e dell'arte'. montato nel soffitto della Casa delle Delizie, che consegnerà alla Storia un'unica visione condivisa, quella dei Gentileschi, padre e figlia.
Addolcita e pacificata Artemisia torna in Italia: non ritroverà più l'ardore degli anni di conquista, quando dipingeva solo per confrontarsi con quel suo grande rivale, padre e maestro, che lontano, silenzioso, riottoso e crudele aveva mantenuto nel suo cuore intatto e devastante un amore orgoglioso e sbagliato per quella sua figlia speciale.
Da questo momento Artemisia svapora: non si conosce né la data della sua morte, né il luogo della sua sepoltura.
Artemisia scompare assieme alle sue opere: una specie di "damnatio memoriae" perpetrata per più di 350 anni, fino a che Roberto Longhi e Anna Banti non la fanno riaffiorare da un oblio velenoso e colpevole. Le loro autorevoli ricerche riportano Artemisia fra i grandi pittori del periodo caravaggesco.
Insieme al padre, ma finalmente divisa da lui.
IVANA BALDASSARRI


Ivana Baldassarri
Quando uno scrive in un quotidiano da quarant’anni, non dovrebbe rilasciare né presentazioni, né curricula: ormai ha detto tutto di sé e i lettori, volenti o nolenti, sanno tutto di lui.
O di lei.
Quando poi una “lei” come Ivana Baldassarri che ha scritto sulle colonne de “Il Resto dl Carlino” un po’ di tutto fra arte, cultura, poesia, storia cittadina, personaggi “coccodrilli” compresi, costume e teatro, dovesse ribadire tutti i piccoli passi fatti in quotidiane presenze, sarebbe o presuntuoso o ridicolo.

Una sola cosa va precisata: quando scrive, Ivana Baldassarri lo fa con una cordiale, sincerissima e disponibile “passione”, assieme alla ribadita inclinazione a coinvolgere i suoi lettori ad interessarsi a cose che lei pensa siano molto importanti.
Non sa scrivere né di calcio, né di politica.
“Trent’anni d’affetti
” (*)
è il titolo del suo nuovo libro dedicato alle sue collaborazioni giornalistiche sulle pagine del Resto del Carlino in 30 edizioni del Rossini Opera Festival.



(*) Con “Trent’anni d’affetti” (Franco Andreatini Editore) Ivana Baldassarri si candida al titolo di cantrice del Rossini Opera Festival. Ci vuole un neologismo per definire al femminile questa poliedrica amante della pesaresità: un neologismo peraltro già creato per Doris Lessing, Premio Nobel 2007 per la letteratura, che la motivazione (presumibilmente tradotta dallo svedese) indicava come “cantrice dell’esperienza femminile”. Il libro raccoglie, insieme a una ricca documentazione fotografica (musicisti, scenografie delle opere e protagonisti mondani), una selezione di 120 articoli di critica e di costume, fra i 361 pubblicati sul Resto del Carlino in trent’anni di ROF: il festival di cui l’autrice non ha mancato neppure una rappresentazione. L’antologia, come un ideale racconto globale, senza interruzioni, inizia con la recensione de “L’inganno felice” (edizione del 1980) e si conclude con “Le comte Ory” (agosto 2009). In mezzo ci sono – appunto – trent’anni di ricordi. E di affetto.
(da “Lo Specchio della città” – Pesaro, settembre 2010)