LE MONACHE BENEDETTINE
Le origini del monachesimo femminile
benedettino sono piuttosto oscure; va infatti ricordato che Benedetto da Norcia
(nato attorno al 480 e morto dopo il 546) non fondò un ordine nel senso
canonico del termine, ma redasse una Regola
per le comunità monastiche.
La Regola benedettina non fa cenno a monache ed è ignoto se fosse intenzione
del fondatore estenderne l’osservanza alle religiose.
Qualche indizio sulla prima storia delle
monache benedettine è deducibile dalla vita di San Benedetto contenuta nei Dialoghi di San Gregorio Magno (540 –
604) il quale accenna a donne consacrate
assistite spiritualmente dai monaci di Benedetto e di sua sorella gemella
Scolastica a cui si fa tradizionalmente risalire la fondazione delle benedettine.
Viene anche detto che S. Scolastica (Norcia
480 – Cassino 547) era consacrata al Signore fin dall’infanzia; condusse vita
monastica a Subiaco e a Piumarola (Cassino) dove fu anche badessa. È invocata
contro le tempeste e i fulmini. La festa è l’ 11 febbraio[1].
Probabilmente per i primi secoli le monache
benedettine affiancarono alla loro regola altre regole, soprattutto quelle di
Cesario di Arles (in Provenza) arcivescovo di quella città (470 – 542). Notizie
più precise si hanno nell’ VIII secolo, al tempo dell’evangelizzazione della Germania: le religiose Liopa e Valpurga
collaboravano con i monaci nelle missioni e vennero proclamate sante.
Sotto l’impero di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno e di Ildegarda, Benedetto di Aniene della Francia meridionale (750- 821) ebbe l’incarico di visitare e riformare le Abbazie dell’Impero e di restaurare la disciplina introducendo la regola benedettina in tutti i monasteri benedettini. Per questo venne considerato il secondo fondatore dell’ordine benedettino.
In Italia si conoscono vari conventi
femminili (S. Aureliano a Pavia, S. Salvatore e S.Giulia a Brescia), così come
in Francia e specialmente in Germania, ove tra il secolo X e il XIII alcuni di
questi monasteri furono grandi centri di cultura e di mistica.
La storia della diffusione dell’ordine
delle benedettine è inseparabile da quella della sua opera civilizzatrice:
oltre alla celebrazione dell’Ufficio Divino, l’ordine si rivolge infatti in
genere ad attività specializzate e in particolare quali l’educazione, il lavoro
agricolo, il restauro, la conservazione dei libri antichi, ecc.
Le benedettine comunque sono religiose
claustrali ed osservano quindi la Regola di S. Benedetto. I monasteri,
raggruppati in federazione, sono retti da una Badessa eletta; sono autonomi e ciascuna casa conserva caratteri
propri. Vestono di nero con cuffia bianca e piccola mantella nera.
Al 31 dicembre 2005 le benedettine
dell’osservanza ordinaria contavano 242 case presenti nei 5 continenti e 4.661
membri (monache e novizie). Esistono inoltre numerose congregazioni riformate
(olivetane, vallombrosiane, camaldolesi, celestine…)
Monasteri
delle monache benedettine in Cagli
Monastero e
chiesa di San Pietro fuori le Mura
Storia
Prima della rifondazione di Cagli con il nome di Sant’Angelo Papale (1289) nel piano del Mercatale, esisteva – fuori dell’area suddetta – il Convento delle Santucciane o “Servite di S. Maria Maddalena” sit
o in “Curte Flavia” e la chiesa di
S. Pietro in Vincoli (anche questa delle Servite) posta sempre nella Valle
Flavia[2].
La Corte Flavia corrisponde alla località
oggi denominata S. Pietro di Fuori (extra
muros).
Il Monastero benedettino femminile che vi
sorgeva fu dunque fondato o rifondato dalla Beata Santuccia Terrabotti della
vicina Gubbio, la quale fu certamente anche a Cagli.
Nel 1305 si tenne a Roma il primo Capitolo
generale della Congregazione Santucciana dopo la morte della Beata (nel 1302) e
a questo vi partecipò anche Donna Francesca, abbadessa di S. Maria Maddalena di
Cagli.
La Beata Santuccia aveva applicato la
riforma che San Sperandeo aveva operato nel ramo maschile dell’Ordine
benedettino ad alcuni monasteri femminili, che poi Bonifacio VIII obbligò alla
clausura.
Ben presto però il titolo della chiesa (San
Pietro) prese il sopravvento su quello del Monastero, cosicché in diversi
contratti in “enfiteusi” del secolo XIV, si parla semplicemente del monastero
di San Pietro in Vincoli, soggetto direttamente al Vescovo.
La dedicazione della chiesa a S. Pietro in
Vincoli
Molte chiese vennero dedicate a S. Pietro
apostolo nel periodo romano che lo ricordano nel momento in cui egli era incarcerato e con le catene
(in vinculis).
La dedicazione delle chiese non è quindi
casuale; questa avviene infatti nel primo passaggio cristiano: è l’insediamento
di un culto cristiano su di un probabile culto pagano.
Le prime dedicazioni delle chiese al culto
cristiano sono alla Madonna, a S. Pietro e agli Apostoli e avvengono per la
maggior parte dalla fine del IV secolo d.C e dall’inizio del V secolo; in
seguito saranno dedicate ai Santi inerenti l’insediamento nel territorio[3].
Inoltre è da notare che E. Paleani,
studioso e ricercatore locale, ci riporta che la dedicazione a questa
tipologica passione di S. Pietro in Vincoli è molto rara e solo in luogo dove
vi erano stati casi di martirio poteva essere dedicato questo culto cristiano;
la sua ipotesi è che il corpo di S. Geronzio, protettore di Cagli e vescovo
decapitato nel 504, sia stato trasportato nella chiesa consacrata più vicina
(S. Pietro), di certo nel luogo ove vi era stato un centro abitativo come nella
zona di Valle di Flavio[4].
La prima notizia documentaria relativa alla
chiesa cagliese di S. Pietro fuori le
Mura dove risiedevano le monache benedettine, si ha dalla disposizione testamentaria
di Bencivenne Paganucci del 1301 e da
altri contratti come quello del nobile Mons. Guido Luzi che nel 1342 aveva dato
in enfiteusi all’abbadessa Cecilia del Monastero di S. Pietro alcuni terreni
posti entro le mura della città di Cagli in località Pian del Vescovo e su cui
le monache stesse fecero costruire un oratorio ed alcune abitazioni come loro
rifugio.
Nel 1387 il vescovo fra’ Agostino da Cagli,
rinnovò l’investitura di appartenenza del terreno con un canone annuo da parte
dell Monastero, consistente “in dodici fiorini e una candela dell’altezza o
statura dell’Abbadessa pro-tempore, da pagare nel giorno di S. Stefano”.
Una descrizione dell’antico monastero delle
benedettine posto in Valle Flavia, detta da alcuni storici e in alcuni documenti
anche Valle di Fiane o Fiave e nel
quale poi si insediarono i Canonici Lateranensi, la si ricava dall'atto del
1388 che lo storico Gucci ai primi del XVII secolo ci riporta dicendo che il
monastero di S. Pietro nel luogo dei Santi comprendeva la Chiesa, il
Dormitorio, il Chiostro, la Canonica (ossia Cellario) ed altri edifici uniti e
contigui al monastero stesso.
Ingresso del
monastero benedettino in città nel 1388 ed insediamento dei Canonici
Lateranensi nel vecchio monastero benedettino.
Sempre lo stesso vescovo fra’ Agostino nel
1388 fece ampliare le abitazioni ed il piccolo oratorio che le benedettine di
S. Pietro avevano entro la cerchia urbana nel Pian del Vescovo e consacrò
l’altare della nuova chiesa presso la quale si trasferì la Comunità che lasciò
definitivamente l’antica residenza fuori Città.
Il vecchio monastero benedettino passò
quindi ai Canonici Regolari di S. Salvatore, detti anche Canonici Lateranensi[5],
che eressero quel luogo ad Abbazia con a capo un abbate ed incamerarono i beni
del convento degli Agostiniani di Città, già estinto.
L’anno in cui è avvenuto questo passaggio
non si può esattamente precisare, certamente prima del 1472 quando si ha
notizia di una donazione fatta per ampliamento e riparazione dell’abitato e di un podere donato ai Canonici Lateranensi.
La casa religiosa qui durò circa 200 anni,
poi nel 1652 i beni furono annessi dal papa Innocenzo X al Seminario da
erigersi nella città di Cagli sui resti
del Convento di S. Agostino, anch’esso soppresso.
Nel 1670 il vescovo Tamantini, invaghitosi
della località di questo Monastero, riscattò il complesso dal Seminario con una
permuta riacquistando la Chiesa ed i beni. Un altro vescovo, A. Bertozzi, fece
riattare la chiesa dopo il terremoto del 1781. Ma già la stessa era in rovina,
causa dei danni procurati dalla umidità e dalla friabilità del terreno, quando
il vescovo Cantagalli nel 1879 la visitò. Sei anni dopo nel 1885 il vescovo
Scotti ordinava la rimozione della pietra sacra e la sconsacrazione. Anche il
predio e il Complesso Monastico, in seguito all’Unità d’Italia (1861) e le
leggi eversive che ne derivarono, furono venduti e ridotti ad abitazione
privata, prima della nobile famiglia Castracane (alla fine del Ottocento), poi
di coloni ed oggi, dietro ad una felice ristrutturazione di privati, risulta un
bel centro abitativo[6].
Come si presenta oggi e che cosa rimane del vecchio Monastero e della Chiesa di S. Pietro fuori le Mura?
Gran parte di quello che rimane del vecchio
complesso monastico, oggi appartiene a Stefano Ferreti e a Michele Pieri ed
Elena Ferretti, che lo hanno acquistato nel 1999 e che hanno saputo conservare
nella ristrutturazione i segni antichi ed importanti della chiesa e del
monastero. Il ricupero, molto ben riuscito, è stato lodevolmente guidato ed in
parte eseguito personalmente dall’architetto Michele Pieri comproprietario
dell’immobile; alleghiamo qui la planimetria del vecchio complesso da lui
realizzata nel 2000 circa.
La visita a questi luoghi è stata da me
eseguita per gentile concessione dei proprietari.
Pertanto, esternamente ed internamente, è
stato possibile leggere o interpretare quello che rimane dell’antica chiesa e
del complesso monastico di S. Pietro in Vincoli, alias S. Pietro fuori le Mura.
Abbiamo iniziato dal robusto ed imponente paramento murario esterno, costruito
in conci di pietra calcarea, in parte ancora intatto ed in parte (nella facciata
principale della chiesa) rinvenuto sotto l’intonaco.
Questo muro, anche se di rifacimento
quattrocentesco, ci riporta al lontano insediamento delle Benedettine
Santucciane con un impatto curioso ed interessante allo stesso tempo perché la
strada, ancora esistente ed adiacente alla chiesa, faceva parte dell’antico diverticolo romano della via Flaminia di
cui parleremo in seguito.
Nella facciata principale dell’edificio
religioso fa bella mostra l’elegante portale gotico in pietra con sopra il rosone in arenaria; questo è forse di
epoca quattrocentesca, al tempo dei Padri
Regolari; essi infatti ristrutturarono profondamente chiesa e convento nel
1480 circa.
Entrando nel grande locale attraverso il
portale gotico che risulta a pianterreno, si ha subito l’idea chiara dello
spazio che occupava l’antica chiesa di S. Pietro a navata unica, fin dalla sua
antica origine.
Ora questo ambiente, in attesa di
ristrutturazione e di recupero, è adibito in parte a magazzino laboratorio ed
in parte, accedendovi da sopra, a stanza abitativa.
Sono evidenti i resti dei due arconi principali
che dividevano la navata in tre campate
e sono individuabili i pilastri di sostegno conglobati alle pareti laterali[7].
Muro
trasversale di sostegno con le due aperture laterali
di accesso
dopo il terremoto del 1781.
Dopo il terremoto del 1781 si eseguono
sostanziali lavori ad opera del vescovo Bertozzi: vengono tamponati i due arconi con un muro trasversale di
sostegno in pietra ancora presente e avente due aperture laterali di accesso,
ad arco.
La terza campata della chiesa (quella che
ora costituisce un’abitazione) doveva avere l’altare maggiore posizionato ad
est e dedicato a S. Pietro in Vincoli; lateralmente, forse nella seconda
campata, erano gli altri due altari dedicati a S. Maria della Neve e al SS.
Salvatore.
In una stanza abitativa del secondo piano
si nota una graziosa e antica monofora tamponata
esternamente, ma internamente rifinita in conci di pietra e con una profonda
svasatura.
Antica
monofora tamponata esternamente.
È molto chiara la posizione di tutto il
complesso monastico: è ancora individuabile quello che era l’antico chiostro con il grande pozzo profondo
nove metri e con la vera
quadrangolare, mentre internamente si nota la forma circolare rifinita in pietra calcarea facciavista.
L’esistenza dei due porticati laterali del
chiostro sono individuabili dalle tracce degli archi.
Al di sopra di questi è conservata la
muratura originale che riporta le tracce di piccole finestre arcuate che
probabilmente appartenevano alle celle delle benedettine.
Attraverso una scaletta interna ed in
pietra corniola si può accedere a due locali.
Questi potrebbero identificarsi in due
sagrestie o in due cappelle comunicanti tra loro perché adiacenti al
locale-chiesa, i cui soffitti – mattonati - sono con la volta a crociera formante quattro grandi vele.
Nel primo ambiente si può notare un
interessante lacerto di affresco in
cattive condizioni, forse di epoca cinquecentesca; è individuabile un Cristo Salvatore del Mondo che con una
mano sorregge il globo terrestre sormontato da una piccola croce. (Iconografia
identificata dalla ex sopraintendente e storica dell’arte Benedetta
Montevecchi); da una parte è
riconoscibile un Santo Vescovo, forse S. Geronzio e dell’altra un santo che
potrebbe essere S. Pietro. Nello sfondo del dipinto s’intravede un panorama
molto simile a quello delle nostre colline e alle montagne del Furlo.
Affresco con Cristo Salvatore del Mondo e Santo Vescovo (forse San Geronzio). Sec. XVI
Particolare con l’immagine di Cagli
L’entrata dell’abitazione odierna dei Sigri.
Pieri-Ferretti risale ad una ristrutturazione del 1907 - con riadattamento di
“casino di caccia” - ad opera di Enrico Castracane, allora proprietario. È
caratterizzata da un ampio scalone in pietra rosa illuminato da grandi finestre
(a veranda) che prendono luce dal sottostante cortile o chiostro. Lo scalone è
preceduto a sua volta da un bel portale con la parte lignea in legno di olmo[8]
e, dopo le varie ridipinture avute nel passato anche con colori vivaci, ora
mostra la sua naturale origine con delle belle venature.
La manifattura di questa porta, come quella
di altre interne all’edificio,è opera dell’artigiano-artista cagliese Ezio
Paioncini della prima metà del ‘900 che tanto operò quale ebanista intagliatore
in tutta la nostra zona, accumulando notevole prestigio e riconoscimenti in
Provincia[9].
Posizione
importante del Complesso monastico nell’antichità. Il diverticolo.
La chiesa di S. Pietro fuori le Mura è
costeggiata a fianco, come accennato, da una strada che è parte dell’antico diverticolo romano della via Flaminia
(220 aC) e pertanto è ancora appartenente al Comune di Cagli e quindi pubblica[10].
Antico
diverticolo romano della via Flaminia, adiacente la chiesa.
L’antico diverticolo andava da Ponte Taverna a Sentino (Sassoferrato).
Questo tratto del percorso viene ricordato in un documento del 1291 relativo ad
un atto di quietanza e di rinuncia di confine in cui viene menzionata la via
che viene dalla Città di Sant’Angelo
Papale (Cagli) che, attraverso “Corgnatum”, va a Serra S. Abbondio (E. Baldetti, 1994)[11].
Villa di
Ponte Taverna.
Poco distante da quello che rimane del
vecchio Monastero, esiste ancora la Villa
di Ponte Taverna. Ora è proprietà di Mauro Paradisi ed ha chiari confronti
per forme e materiali ad una struttura romana di epoca augustea: le Terme Taurine di Civitavecchia.
La villa, come è stato rilevato dai sondaggi esterni effettuati nel 1978 dal Geom. Gianfranco Ceccarelli e dai resti in loco, riportava un muro interrato che probabilmente la collegava attraverso un cunicolo scannafosso al sovrastante monastero benedettino. Già lo storico don G. Buroni aveva ipotizzato nel 1953 che il muro potesse costituire un controllo di confine della Curtis Flaviae.
Identificazione
dei luoghi su mappa.
Monastero
benedettino di S. Cecilia
Distinto dal monastero benedettino di S.
Pietro in città era il monastero benedettino di S. Cecilia.
Questo è menzionato per la prima volta nel
1363 e più tardi in un testamento assieme ad altri monasteri. All’origine era
situato, come dice lo storico Mons. G. Palazzini, al di là del fiume Burano e
sempre nelle vicinanze dell’altro monastero benedettino di S. Margherita (di
cui parlaremo più avanti), in prossimità di Campo Ventoso e alla periferia di
Cagli. In questo luogo già esisteva una celletta
ricordante il martirio di S. Geronzio, lì avvenuto nel 504.
L’antico monastero di S. Cecilia però
andava sempre più deperendo, tanto che nell’anno 1405 l’abbadessa Suor Antonia
aveva alle sue dipendenze solo quattro monache e nel 1430, essendosi per
contagio di malattia rimasta una sola monaca, il vescovo Genesio di Cagli unì
il convento di S. Cecilia a quello di S. Pietro già trasferito in città che
incominciò a chiamarsi con il nuovo appellativo “Monastero di S. Pietro e S.
Cecilia”.
Continua la
vita del Monastero di San Pietro in città.
Nella nuova sede urbana e con questa nuova
unione al monastero di Santa Cecilia, il monastero di San Pietro di città
continuerà a prosperare e nel corso del Cinquecento verrà ampliato di nuove
costruzioni.
Nel 1564 il vescovo Card. Cristoforo del
Monte, volle applicare le disposizioni rigorose di clausura volute dal Concilio
Tridentino a tutti i monasteri della diocesi, proibendo in maniera assoluta
di accedere ai monasteri delle monache. Dietro a queste disposizione la
Comunità di Cagli chiese ed ottenne da Roma la licenza di accesso per i padri,
le madri, i fratelli e i parenti.
Il vescovo Paolo Mario della Rovere nel
1571 diede poi speciali costituzioni a tutte le comunità monastiche della
diocesi ed il Comune concesse sussidi per il cappellano, per il confessore e
per lo stesso monastero.
Quando nel 1574 mons. G. Ragazzoni, vescovo
di Famagosta, visitò il Monastero, constatava che le monache erano trentacinque
e che la vita monastica procedeva ottimamente.[12]
Nel 1700 le monache risultano proprietarie
di vari terreni verso Acquaviva, Paravento, Santa Barbara, Buffano, ed in altri
luoghi.
Con il passar del tempo e secondo il gusto
corrente (dello stile Barocco), la chiesa di San Pietro venne ornata di stucchi
e di pregevoli pitture, come vedremo più avanti.
Nel 1771 il monastero ebbe la visita di S. Benedetto Giuseppe Labre in viaggio
per Loreto ed ivi fu ospitato e rifocillato dalle monache come ricorda una
lapide murata nel parlatorio stesso; dopo la sua canonizzazione, il santo fu
eletto patrono del monastero.
Il 2 maggio 1757 fu eletta la nobile
abbadessa Donna Luisa Maddalena Rigi che fece iniziare nel suo triennio di
governo il primo Necrologio (registro
dei morti) del monastero da cui si può rilevare nella comunità un vero fervore
religioso.
Quando fu deposta l’abbadessa Rigi (29
ottobre 1803) ormai vecchia ed ammalata, fu eletta l’energica Donna Maria
Pellegrini Alessandra di Colbordolo che intraprese una radicale riforma
generale.
Durante l’invasione francese del 1799 il
nostro monastero fu saccheggiato e spogliato di tutti i suoi beni (ricuperati
solo in parte nel 1815 dopo la caduta di Napoleone, al tempo del vescovo Mons.
Cingari).
In quel periodo, precisamente nel 1811,
venne sottratta alla chiesa una pala della scuola del Barocci per essere
inviata a Brera; rappresentava un Crocifisso
con S. Maria Maddalena, la Vergine, San Giovanni e San Pietro. L’opera in
questione fu concessa nel 1815 per deposito alla basilica di S. Stefano di
Milano, ove ancora oggi si trova.
Dal libro manoscritto delle Memorie del Monastero si rivela inoltre
che nell’agosto 1855 per questioni di spazio, le reverende monache fecero
costruire una nuova scala e un nuovo dormitorio dalla parte di levante per uso
delle Educande e lo storico Maestrini
ricorda come nel 1860 l’architetto cagliese Michelangelo Boni, allievo del
Valadier, ebbe a soprintendere ai lavori del Nuovo Educatorio delle fanciulle, quando fu colto da morte.
Inoltre il monastero era dotato di un
orto-giardino che le stesse monache, più numerose, generosamente accudivano e
coltivavano
Le pesanti spogliazioni operate dal Regno
dopo la Unità d’Italia impoverirono
gravemente il monastero allorché si volle applicare il decreto del commissario
delle Marche Lorenzo Valerio (1861). Tutti i beni furono incamerati dal demanio dello Stato e quindi dagli Enti pubblici e le
monache temettero di essere cacciate.
Il 21 marzo del 1888 alla madre abbadessa
Maria Filomena Benincasa finalmente si faceva presente la possibilità di poter
riacquistare per le benedettine cagliesi il monastero, compresa la casa fattoria e l’orto, per la somma
di lire 18.000.
Il monastero, schivato il rischio della
soppressione, nel 1900 era fiorente ed annoverava trenta
educande delle famiglie romane,
bolognesi e cagliesi, tra cui ricordiamo la mamma dello scienziato Prof. Enrico
Medi e la contessa Clorinda Rigi Luperti
di Cagli.
Nel 1929 nella successione delle abbadesse,
fu scelta Donna Maria Lutgarde Menchetti,
che vide la comunità rifiorire con
alcune vocazioni[13].
A Donna
Lutgarde, carica di meriti e di anni e che mori nel 1964, seguì Donna Placida Mura.
Dal vecchio dormitorio che era di metri
27x7 e alto 12 metri, sono state ricavate 10 celle con acqua corrente e
riscaldamento, servizi igienici e bagni, guardaroba e biblioteca. In questi
ultimi anni l’abbadessa Suor Geltrude Chiavetti, coadiuvata dalla
priora Suor Cecilia Tarsi, ha fatto
eseguire importanti lavori di straordinaria manutenzione. Nel 1989 si riapre
così al pubblico, con una solenne consacrazione presieduta dal vescovo Cecchini
e con grande concorso di popolo, la chiesa di San Pietro in Pian del Vescovo.
Nell’ aprile 1990 viene posizionato a
ridosso del presbiterio, il coro in
legno di iroko (legno proveniente delle foreste dell’Africa equatoriale),
realizzato da Giovanni e Stefano Etiopi di Smirra su disegno dell’architetto Stefano Baldini da Fano.
Si susseguono altri lavori nel 1992 e nel
1996, che finirono con i lavori per il Giubileo
del 2000.
Ora il monastero conta cinque monache e due
inferme, più una monaca probanda che
presto prenderà i voti; gran parte della struttura rimane disabitata.
Andando io in sopraluogo per la lezione
guida all’UNILIT da sostenere fra pochi giorni, ho potuto constatare che la
struttura monastica è molto bella e vasta: internamente il giardino, l’orto, il
pergolato, occupano molto spazio. Ci sono diversi alberi in fiore e piantine e
fiori a dimora in crescita. Anche l’orto, con l’aiuto di un operaio, è in via
di sistemazione in uno spazio ben disposto ed assolato.
Orto giardino
del monastero di San Pietro.
Da questa parte si può ammirare il bel
porticato dove fa bella mostra una grande ruota di un vecchio telaio e tutta la
bianca struttura ad intonaco del monastero che appare come una visione. Invece
la struttura muraria esterna, composta di conci in pietra calcarea (pietra
corniola) e confinante con le vie adiacenti, appare altissima, poderosa ed
imponente. Le stanze interne del complesso monastico sono state rimaneggiate e
rimodernate, come già detto, nel tempo; alcune hanno ancora il soffitto a
volta, altre sono sostenute da robuste ed appropriate travature in legno. La
grande sagrestia a pianterreno con soffitto a botte e con le vele, è
arricchita da stucchi in stile barocco; ci sono dei mobili cassettonati in
legno di noce ed armadi rifiniti in stile veneziano di fine Settecento.
Nella piccola cappella adiacente vi sono
dei quadri seicenteschi di modico valore. Uno rappresenta la Madonna
Immacolata, un altro l’Arcangelo Michele che uccide il demonio e l’Arcangelo
Raffaele nelle vesti dell’Angelo Custode che a
ccompagna un bambino. Nella
parete di fronte c’è un quadro molto interessante, dovrebbe essere una stampa
acquerellata di qualche secolo fa.
Particolare
della stampa acquerellata riproducente
la grande Famiglia benedettina.
Sono rappresentati numerosissimi personaggi: prelati, vescovi, arcivescovi, cardinali, re e regine coronate che vorrebbero significare la grande Famiglia benedettina perché sono attorno a San Benedetto che siede in un trono al centro.
Questo quadro pare sia una copia (ridotta)
di una pittura molto più grande che si può ammirare nell’Abbazia benedettina di
San Pietro a Perugia. Così mi ha riferito la gentile priora Suor Cecilia che,
nonostante la sua età, è l’anima viva del monastero e collaboratrice attiva
dell’Abbadessa.
Itinerario
visita alla chiesa di S. Pietro
Descrizione esterna
La chiesa di S. Pietro situata in città nel rione Pian del Vescovo su di un lato della piccola piazzetta, ha la slanciata facciata principale con un portale in arenaria nel cui timpano sono scolpite a bassorilievo le chiavi di Pietro legate da un nastro; stanno a simboleggiare che uno solo può essere il potere di sciogliere e di legare, di assolvere e di condannare.
Portale della
chiesa di San Pietro
Descrizione interna
L’interno, ad unica navata, è decorato in semplice stile barocco, ha la volta a botte che è articolata da archi di volta e dal possente arco trionfale, la cui cartella reca la scritta: Tibi dabo claves regni coelorum.
Negli stilobati
dell’altare maggiore sono poste a rilievo in pietra le figure a mezzo busto
dei Santi Pietro e Paolo[14].
L’altare maggiore
L’ornato marmoreo dell’altare maggiore e
del tabernacolo con i suoi gradini veniva commissionato nel 1855 al
lapicida Nicola Annibali da
Sant’Ippolito; il disegno della mensa
dell’altare e del ciborio in marmi
policromi va ricondotto alla mano dell’ architetto cagliese già nominato
Michelangelo Boni. Questo disegno è conservato nella Biblioteca Comunale di Cagli. Il tabernacolo
marmoreo verrà poi interamente dorato nel 1989 dalla ditta F. Braggio di Vicenza.
Pala
sovrastante l’altare maggiore rappresentanta la Vergine col Bambino e i Santi
Pietro, Paolo e Scolastica. G.Lapis, 1741 circa.
La pala sovrastante l’altare maggiore è
costituita da un dipinto ad olio del pittore Gaetano Lapis, nostro concittadino
(Cagli 1706-Roma 1773) e secondo lo storico cagliese Arseni, risale forse al
1741. Rappresenta La Vergine col Bambino
e i Santi Pietro, Paolo e Scolastica; a destra, in fondo, porta il timbro
della confisca napoleonica[15].
Chi era
Gaetano Lapis?
(1706 – 1773)
Gaetano Lapis fu un esimio pittore: una
delle figure più rappresentative ed interessanti del Settecento romano. Nacque
a Cagli nel 1706 da un’agiata famiglia di commercianti di lana provenienti da
Cantiano e che si era sistemata nella
nostra città nel Seicento. Abitò nel palazzo gentilizio sito in via Lapis (via
che poi sarà a lui dedicata) già appartenente ai nobili Benamati provenienti
anch’essi da Cantiano fin dal 1565[16].
Il Lapis trascorse l’adolescenza nella
città natale dedicandosi allo studio delle lettere e del disegno, ma poi visse
in gran parte a Roma.
Infatti è la sua decisa inclinazione a
condurlo a Roma dove, dopo un breve apprendistato presso un modesto pittore,
entrò nella bottega dei Conca: prima presso Sebastiano e poi presso il cugino
di questi, Giovanni. Apprese molto da loro, come la vivacità dei colori che
seppe moderare a tempo. Lavorò anche come collaboratore nella chiesa romana di
S. Cecilia, esprimendo tuttavia una personalità autonoma e manifestando un totale interesse verso il
Classicismo.
Sono preziose le scarse notizie
tramandateci da Giambattista Vici, primo e quasi contemporaneo biografo del
Lapis che scrive pochi anni dopo la morte del pittore. Da lui sappiamo che
Sebastiano Conca si affezionò grandemente al nuovo scolaro ed incominciò a
dirigerlo con amore.
Il giovane artista aveva saputo
conquistarsi anche la stima dei molti condiscepoli come lui attivi presso la
bottega dei Conca, da loro gli era stato imposto il soprannome di “Carraccetto” per i riferimenti
stilistici ai grandi del secolo.
Poco più che ventenne G. Lapis doveva
essere un pittore ormai autonomo[17].
A Roma egli portò l’influsso della pittura
marchigiana (Raffaello, Sassoferrato e Maratta) e completò la sua formazione.
A quel tempo Roma era venuta polo di
attrazione per i pittori marchigiani, durante il pontificato del papa urbinate
Albani con il nome di Clemente XI.
Il Lapis ben presto fu nominato tra i Virtuosi del Pantheon e nel 1741 divenne
membro dell’Accademia di S. Luca e
questo segnò la definitiva affermazione dell’artista. In Roma ebbe altri
incarichi importanti come Direttore della
Scuola del Nudo in Campidoglio.
Il Lapis lavorò molto intensamente a Roma
dietro a commissioni di notevole prestigio, anche se non entrò nel giro delle
grandi committenze per l’eccessiva modestia, al limite della scarsa fiducia in
se stesso; ne è l’esempio la rinuncia al lavoro offerto dai Padri Gesuiti.
Nonostante il suo riserbo e la sua vita
appartata, le commissioni si susseguirono nelle Marche, a Roma, in Umbria, in
Toscana.
La presenza di un nucleo rilevante di opere
(circa 30) nella città natale, ha permesso di promuovere nel 1994 un Convegno di Studi a Cagli sulla figura e
sulla pittura del Lapis con un itinerario ai dipinti locali.
Questo ha consentito di vedere le opere
restaurate ed illuminate nella cornice architettonica ambientale per la quale
furono pensate e dipinte.
Il Convegno di Studi è stato di ampio
interesse, visti i qualificati relatori ed il gruppo di studiosi di chiara fama
internazionale che si sono trovati in piena unità d’intenti con la
Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici delle Marche.
I vari critici e le varie personalità di
studio italiani ed internazionali, sono stati tutti concordi nel dare al
pittore cagliese una più giusta e più alta rivalutazione,
chiarendo meglio la situazione dell‘artistita e la sua personalità; hanno
ricollocato quindi il suo operato con un giudizio unanime e più confacente di quello che il pittore ha avuto
nel passato.
Stile del dipinto
L’olio su tela dell’altare maggiore
raffigurante La Vergine col Bambino e
Santi Pietro, Paolo e Scolastica presenta un impianto compositivo ed una
resa pittorica molto simile alla Madonna
della Neve che il Lapis dipinse nella chiesa di S. Francesco in Cagli
(1730) e quindi potrebbe essere dello stesso periodo della presente, benché
qualche storico abbia ipotizzato essere del 1741.
Il disporsi dei personaggi ha uno schema
piramidale di ascendenza cinquecentesca, rielaborata da un chiaro stampo
marattesco (classicismo romano), mentre lo sfondo, chiuso a sinistra da un
colonnato avvolto da tendaggi, sostituisce all’apertura paesistica una quinta
architettonica.
Come in altri dipinti, il Lapis sa
“coniugare” armoniosamente le reminiscenze della tradizione barocca con una
compostezza ed una serenità di linguaggio mai esagerato, senza mai eccedere. Ne
sono un esempio le mani che sono dipinte in un pacato ed aggraziato movimento;
moderato e composto è anche l’estatico colloquio dei Santi protesi (dice la
Montevecchi) “in mistica contemplazione”.
Infatti il Lapis, pur rappresentando uno
schema compositivo di vari elementi con una grazia decorativa su misura ed
equilibrata, supera il capriccioso decorativismo rococò settecentesco e si
riallaccia ai modi classici dei grandi maestri emiliani del Seicento (Carracci,
Guido Reni e Domenichino) rielaborando il tutto al classicismo romano della 2°
metà dei Seicento, d’impronta marattesca[18].
In questa tela notiamo che la pittura del
Lapis, pur connotata da uno spiccato accademismo (cioè rispettosa dei modelli
tradizionali e codificati), mantiene sempre un elevatissimo livello
qualitativo, grazie:
-
al tratto
preciso (perfetto)
-
all’acutezza
(raffinatezza) del disegno e della composizione
-
all’estrema
eleganza formale sia del disegno e sia dei personaggi con il panneggio
ricercato delle vesti
-
all’espressione
compassata della Vergine
-
al magistrale
accordo delle gamme cromatiche.
Tutte caratteristiche che lo hanno reso
così perfetto tanto che i contemporanei e poi
gli storici ne lodavano la pittura[19].
È da
tenere in considerazione quello che disse il prof. Claudio Strinati, Soprintendente per i Beni Artistici e Storici di
Roma e del Lazio, in una conferenza del Convegno di Cagli: “La pittura del
Lapis è l’emblema dell’impeccabilità perché c’è nitidezza nei suoi lavori, la
sua è una pittura senza errori (come avrebbe potuto dire G. Vasari), sempre
perfezionata, come l’avevano concepita altri artisti che prima di lui avevano
fatto lo stesso percorso della via Flaminia:
Raffaello e il Sassoferato”. Strinati aggiunge poi che la pittura del
Lapis ci comunica, attraverso il senso della perfezione, un’emozione e per questo ci educa. È vera arte quello che
ci emoziona e quindi arte ed educazione coincidono.
I due ovati laterali
Nei due ovati che affiancano l’altare
maggiore, entro eleganti cornici di legno intagliato a fogliami e dorato, sono l’Annunciata e l’Arcangelo Gabriele
raffigurati a mezzo busto.
La debole immagine di Maria è dipinta con
fare lezioso, ma lontano dalla consueta eleganza e raffinatezza del Lapis; pare
sia attribuita al lavoro di un aiuto.
Si contrappone l’immediata e vivace figura
dell’Arcangelo, di un nitido colore impregnato di luce e raffigurato con
un’estrema diligenza calligrafica, così simile a quella di S. Scolastica nella
pala dell’altare maggiore di fianco.
Nella grazia e nell’eleganza formale del
gesto (del dito e della persona un po’ curva e comunicativa), nella preziosità
degli accordi cromatici dai capelli rossicci e fluenti come il leggero velo
rosso, è ben visibile la mano del pittore cagliese e la sua volontà di proporre
figure di astratta e idealizzata bellezza: la stessa che noteremo nella pittura
delle Allegorie dei fasti di San Nicola da Bari nella chiesa di S.
Nicolò, sempre in Cagli.
Le due tele sono contrassegnate con i
timbri della confisca napoleonica
(1811).
Medaglioni
Nei sei medaglioni con cornici a stucco che
adornano le pareti laterali della chiesa, sono raffigurati vari Santi
benedettini[20].
Altari laterali
I due altari laterali, da poco privi delle
rispettive mense, presentano ornati lignei in stile barocco, elegantemente
intagliati.
Nell’altare di destra, all’interno di una
poco profonda nicchia è la cinquecentesca statua lignea della Madonna di Loreto, recentemente restaurata
dalla pessima ridipintura del 1995; sono ritornati vivi gli ampi panneggi delle
vesti aventi decorazioni dorate con le due corone metalliche bagnate in oro. È
un’opera fatta eseguire probabilmente dal Conte Luzi di Cagli.
Plastico della Santa Casa della Madonna di
Loreto. Sec. XVI circa.
Proprio in onore alla Madonna di Loreto lo
stesso Conte Luzi fece eseguire, sempre nel Cinquecento, il plastico della Santa Casa che,
abbondantemente ricoperto di ex voto, si porta processionalmente ancora oggi in
Duomo il 10 dicembre e sul cui tetto sono poste le statue della Madonna di
Loreto e del Bambino, vestite con ampi abiti bianchi recanti ricami in oro filato
e in sete policrome.
Il Conte Rigi, antenato di Clorinda Rigi
Luperti nel 1700 darà il via all’esborso
annuo di due zecchini d’oro per la processione.
Nell’altare sinistro è la pala
settecentesca della Madonna e i Santi Benedetto e Cecilia ove compare il timbro (in basso a destra) in
ceralacca testimoniante la confisca operata nel periodo napoleonico insieme
alla pala dell’altare maggiore e ai due ovali.[21]
Il restauro di questa pala ha evidenziato la buona qualità pittorica e
c’è, secondo alcuni critici che hanno aperto il dibattito, un vago riferimento
a Francesco Mancini di San’Angelo in Vado, uno dei più degni allievi di Carlo
Cignani (scuola di G. Reni e dei Carracci) nella bottega di Forli.
L’attribuzione, in genere, in mancanza di documenti, viene fatta su base
stilistica; recentemente la storica dell’arte Bonita Cleri ha concretizzato la
vita e lo stile pittorico di Francesco Mancini in una monografia sulle sue attività in Romagna e nelle Marche nel libro Francesco Mancini pittore. Nella pittura
cagliese sopracitata, la storica dell’arte non ha evidenziato motivi per la
suddetta attribuzione, anche se in questa vi trova un certo accademismo.
Il Crocifisso
Sotto la cantoria lignea riccamente
intagliata, nella quale compare il monogramma di Cristo e le cui decorazioni
superiori culminano in una grande conchiglia, a destra è una piccola nicchia
ospitante un Crocifisso ligneo.
Questo Crocifisso ha la struttura simile a
quella che si trova nella chiesa di S. Chiara sempre in Cagli. Fu realizzato
dopo il 1562. È una data “post quem”, anno in cui – secondo quanto si legge in
un manoscritto di proprietà privata, la cui copia è conservata nelle Archivio
della Curia Vescovile di Cagli e che costituisce il Libro dei Consigli della Confraternita della Misercordia – le
“Monache de Sancto Pietro adimandano qualche elemosina per far fare un
Crocifisso a rilievo nella loro chiesa”. La risposta del Consiglio fu dunque
positiva e unanime.
Il Crocifisso, di proporzioni leggermente
inferiori al naturale (cm 150x133), ha il perizoma in tela gessata, panneggiato
solo nella parte frontale, i capelli in canapa e le vene in spago.
A questa volontà di resa naturalistica si
aggiunge l’accentuazione patetica data dall’abbondante sangue che sgorga dalle
ferite e intride anche barba e capelli.
Lo stato di conservazione dell’opera e le
abbondanti ridipinture che lo caratterizzano impediscono tuttavia una corretta
lettura delle immagini. Giudicato erroneamente della fine del Quattrocento, fu
valutato duemila lire da coloro che stilarono i verbali di confisca dopo
l’Unità d’Italia.
Il Crocifisso si trovava originariamente
nel coro inferiore del monastero, ma essendo il Convento demaniato fin dal 1861
(decreto Valerio), si decise di esporlo in chiesa su indicazione del nobile
Durante Duranti, allora Sindaco del Comune di Cagli.
Secondo quanto si legge nel Libro con ricordi e date utile e precise
conservato presso l’Archivio del Monastero, il Crocifisso viene collocato in
chiesa il 10 aprile del 1870, per evitare che “fosse portato via da Forestieri
che desideravano averlo per farci valore di denaro”.
Il monastero
benedettino di S. Margherita
Storia
Un monastero femminile benedettino
intitolato a S. Margherita esisteva già nell’anno 1301 nell’atto testamentario
di Bencivenne Paganucci di Cagli.
Era situato sulla via Flaminia, quasi sulla
ripa del fiume Burano, nelle vicinanze della odierna chiesa di San Geronzio e
quindi a pochi passi da Campo Ventoso, presso le Foci di Cagli.
Il Monasterium
Sancte Margarite è pure ricordato in un atto di vendita del 1322 (arch.
Materozzi), in un contratto di affitto del 1327, nei testamenti di una certa
Donna Chiara e di un altro (Nicoluccio di Sante) che fanno lasciti al suddetto
monastero; infine figura nel Liber
Appassatus della città e contado di Cagli nell’anno di 1339 [22].
In città, presso Porta Massara, le
Benedettine possedevano abitazioni di loro proprietà ed un oratorio dedicato a
S. Nicolò, per cui nei documenti vengono dette monache di S. Nicolò e talvolta
di S. Margherita (o tutti e due i nomi).
Nell’anno 1388 il Vescovo di Cagli Fra
Agostino ordinò alle monache di S. Margherita di trasferirsi entro le mura
della città nelle suddette abitazioni di Porta Massara di loro pertinenza,
attigue alla chiesuola di S. Nicolò seu S. Margarite.
Il monastero originale però continuò a
vivere seppure con poche monache, perché è menzionato nell’anno 1406 e nel 1436
come testimonia il pagamento del canone al Capitolo per i beni posseduti in
Panaiolo; rimase infatti sul luogo un oratorio di S.Margherita, ma nel 1440 il
monastero venne quasi a finire a causa di epidemia.
Nel 1451 il papa Nicolò V ordinò con una bolla alle poche suore benedettine
rimaste di trasferirsi definitivamente in città. Di conseguenza, in quella
data, per conservare i propri beni e per protezione, i monasteri di S.
Margherita e S.Nicolò si unirono all’abbazia benedettina di S. Pietro di Massa,
poi andarono in Commenda al Cardinale Prospero Colonna e infine alla Mensa
Vescovile nel 1514[23].
Unito al monastero di S. Margherita perché
fondato nei suoi beni, era anche l’oratorio di S. Geronzio a Campo Ventoso.
Difatti il Vescovo di Cagli con l’unione dell’abbazia di S. Pietro di Massa
alla Mensa Vescovile ebbe il titolo di abbate ed ebbe unito il monastero di S.
Margherita; prese possesso di conseguenza anche dell’oratorio di S. Geronzio
nel 1516 e del Molino del Sasso sul Burano, originariamente di pertinenza del
monastero di Santa Margherita.
Nel 1861 detto Monastero sulla via Flaminia
fu demanializzato per le leggi
eversive dello Stato italiano e in seguito, alla fine dell’Ottocento, come ci riferiscono
gli storici Buroni e Palazzini, fu venduto.
Rimase solo l’oratorio, ma il vescovo
Cantagalli, visitandolo nel 1879 e trovandolo in cattive condizioni, lo
dissacrò e fu aggiunto all’abitazione del colono che lo convertì in fienile.
Nel 1896, come risulta da un atto notarile
dell’archivio Mochi di Cagli, il fondo di Santa Margherita è in possesso,
assieme a quello di San Pietro in Vincoli ed altri terreni, ai Conti Castracane
di Cagli.
Nel 1963 i
Castracane-Troilo vendono
l’abitazione in vocabolo S. Margherita al Signor Mattia Vivani[24];
presentemente ne è proprietaria la figlia sua erede Maria Pia Vivani
Palazzetti.
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Molino del Sasso
Il monastero di S. Margherita possedeva,
fin dalle sue origini, un molino situato nelle vicinanze: Il Molino del Sasso che le
benedettine davano anche in affitto. Il molino, cambiando proprietari, lavorò
molto fino a circa metà del secolo
scorso e le acque vennero poi sfruttate per un Lanificio, che risulta da tempo
dismesso; durante la seconda Guerra Mondiale infatti venne bombardato e mai più
ricostruito.
Il Molino del Sasso era molto funzionante,
anche quando le Monache entrarono in città presso Porta Massara e quando il
monastero si unì, per protezione e in perpetuo, alla Abbazia benedettina di S.
Pietro di Massa; di conseguenza seguì le
diverse vicissitudini storiche di appartenenza, prima alla Commenda di nomina
papale e poi alla Mensa Episcopale nel 1515.
Marcello Mensà nella sua pubblicazione: I molini di S. Croce presso il ponte di
Staffolino, accenna al Molino del Sasso sul fiume Burano nei pressi di S.
Geronzio.
Inoltre egli nelle sue ricerche storiche
presso l’Archivio Comunale è venuto a conoscenza di certe notizie di cronaca ed
ha potuto constatare da più querele del
1612 che Il Molino del Sasso in quel
periodo apparteneva al Duca di Urbino (allora era Francesco Maria II della
Rovere). La denuncia è presentata alla Corte
del Comune di Cagli da parte di un certo Mario Druda, fattore ducale, motivata dalla installazione abusiva di una cava di pietra nel territorio
appartenente al Duca stesso, probabilmente avuto in enfiteusi[25].
Prosegue Marcello Mensà dicendo che il
Molino nell’Ottocento risulta di proprietà della famiglia del Cardinale Albani
e poi ne ritroviamo affittuarie le vedove Maria Rapa e Francesca Ragni che nel
1832 richiedevano al fattore degli Albani una diminuzione di affitto perché non
erano in grado di sostenere le spese.
Resti del
muro che costituiva l’antica chiusa
del Molino
del Sasso
Il complesso del vecchio Molino ora è in
parte abbandonato e in parte è ristrutturato ad abitazione; appartiene ora al
Signor Pietro Buroni .
È situato proprio nel greto del fiume Burano in una posizione ambientale quasi bucolica ed interessante. Si distingue bene la sua struttura esterna in grossi blocchi di pietra calcarea locale, è posizionato in fondo ad una scarpata, tra gli scogli, i sassi ed una vegetazione che tenta di nasconderlo. È ben visibile il tracciato e lo scanso dell’antica ed adiacente conduttura che portava lentamente l’acqua del vallato alla ruota del molino.
Ora si percepisce il rumore dell’acqua del
fiume che scorre tra i sassi del suo letto, ma si può immaginare di sentire
ancora il suo fragore ricadere rumorosamente in cascata, poco innanzi.
Si ha proprio la sensazione di un
nostalgico tempo passato.
LE MONACHE
DOMENICANE
Le monache domenicane sono religiose di voti solenni e costituiscono il secondo ordine del Frati Predicatori fondato da S. Domenico di Guzman. La prima comunità di monache domenicane venne fondato a Notre-Dame de Pronille, presso Fanieaux in Provenza nell’inverno tra il 1206 e 1207.
Domenico di Guzman riunì un gruppo di donne
che aveva convertito al cattolicismo dalla eresia catara, le quali avevano
espresso il desidero di dedicare la propria vita alla preghiera e alla penitenza.
Su richiesta del papa Onorio III, S.
Domenico si occupò della riorganizzazione della vita monastica femminile a Roma
secondo i dettami del Concilio Lateranense IV. Fece quindi arrivare nella città
eterna da Pronille un gruppo di otto religiose che s’insediò in un monastero
presso la chiesa di S. Sisto, dove vennero poi stabilite le costituzioni da far
osservare in tutti i monasteri dell’ordine. Era il 1217 .
Le monache domenicane costituiscono un
ordine di clausura dedito principalmente alla preghiera contemplativa, allo studio e all’educazione delle
fanciulle. Hanno lo stesso abito (abito bianco con velo o mantello nero), la
stessa regola e la stessa liturgia dei frati domenicani; esse dipendono
direttamente per le istituzioni e le dispense dal Papa, mentre le benedettine
sono di ordine costituzionale ed oggi hanno una certa libertà di azione e
godono di dispense.
Per celebrare l’ottavo secolo di vita delle
monache domenicane è stato indetto un anno giubilare (dal 3 dicembre del 2006
all’Epifania del 2008).
Monastero
domenicano in Cagli
Cagli ha una ricca storia religiosa – una
religiosità ancor oggi palpitante – ed in questo quadro si inserisce la vita
claustrale del monastero di San Nicolò.
Il monastero domenicano di S. Nicolò in
Cagli, sito nella zona di Porta Massara, nasce come monastero benedettino
perché prima abitato da queste, quando nel 1388 lasciarono il monastero di
S.Margherita sulla via Flaminia per entrare in città.
Nel 1529, venute meno le monache che - come
dice lo storico Gucci - erano rimaste in tre, Cristoforo del Monte, già
cardinale di Marsiglia e Vescovo di Cagli,
vi introdusse, d’accordo con il generale dell’ordine, le monache domenicane.
Cosi ricorda una lapide posta a sinistra sotto la cantoria della chiesa di S.
Nicolò, mentre quella di destra (del 1749) testimonia la consacrazione della
chiesa da parte del vescovo Ludovico Paparelli.
Quindi le monache domenicane sin da questa
data sono presenti nel monastero dedicato a S. Nicolò di Bari. Tale
denominazione è rimasta perché le benedettine precedentemente avevano dato la
stessa intestazione che si è tenuta fedele fino ad oggi.
Il monastero è andato via via crescendo
anche per le agevolazioni ricevute, per i lasciti i e le “doti” delle monache
stesse che entravano a far parte della comunità sia come “novizie” che come
“educande”[26].
Detto monastero è posto su di una via
piuttosto stretta, ma che sfocia sulla medievale Porta Massara, adiacente
all’alto muro duecentesco della città, da dove inizia la periferia; è un
monastero “cittadino” e quindi all’interno di un quartiere popoloso circondato
da strade; nonostante ciò, esso richiama il contesto della clausura che le monache di Cagli custodiscono con predilezione.
Nella stessa via, e quindi poco distanti
l’uno dall’altro, sono i due portali in arenaria che ci introducono sia in
chiesa che al monastero.
Cortile di
entrata con vera di pozzo ottagonale
Le cronache del monastero riportano scarse
notizie, per cui tutta la vita monastica rimane come avvolta da un velo di
silenzio e di nascondimento.
E qui pare bene rammentare il critico
d’arte Vittorio Sgarbi, il quale dopo
una delle sue “visite” a Cagli, ricorda questo convento in maniera cosi emotiva
e particolare dove, dice lui, “tutto è mirabilmente conservato, dagli infissi
alle serrature, ai bauli, ai lini, non come si custodisce nei musei, ma come si
conserva nelle case… Una sensazione quindi di un luogo che vuole essere
protetto dagli sguardi troppo indiscreti dei turisti e serba le sue bellezze
integre e segrete diventate però preziose e considerate quindi inevitabili…”.
Nel 1610 le domenicane acquistarono il
palazzo attiguo dei Peligotti, un tempo degli Accorsoli, famiglia nobile
cagliese, e probabilmente in quel periodo viene costruita la chiesa e ampliato
il monastero vendendo alcune beni che erano in loro possesso[27].
Nel 1739 veniva introdotta nel monastero da
Mons. Gerolamo Allegri, vescovo di Cagli, la Vita in comune e le monache si spogliarono di ogni cosa personale per
la comunità e rinunciarono a quel poco
di libertà che sin ora avevano ricevuto dai Superiori.
Nell’archivio del monastero vi è una
vecchia e ricca biblioteca settecentesca dove si legge, tra l’altro, una
interessante vita di San Domenico di Guzman scritta dal Padre domenicano
Arcangelo Nanni (Cagli, 1593-1671) che il popolo – come ci riferisce lo storico
cagliese Tarducci nell’Ottocento – suol chiamarlo il Beato Nanni. Egli fu scrittore, teologo, predicatore per molti anni
in diverse parti d’Italia; fu Priore in Santa Sabina in Roma dove è ricordato
con una lapide. Morì a Cagli in concetto di santità e la sua tomba si trova
nella cripta di San Domenico in Cagli.
Inoltre nel Libro delle Memorie, sono registrati diversi lavori di
trasformazione del monastero e della chiesa come le quattordici singole celle
al posto dei dormitori comuni (1758) e il nuovo refettorio con la cucina, in
parte costruito sopra le mura antiche della città.
Refettorio
del monastero di San Nicolò
Lavabo in
pietra rosso ammonitico antistante il
refettorio.
Restauri ulteriori furono imposti dal
terremoto del 1781 e in quella occasione le monache furono obbligate a uscire
dal convento e alloggiare nei “casottini” sistemati nei loro orti; anche la
chiesa venne abbellita ed arricchita di decorazione e stucchi.
Durante il periodo napoleonico la chiesa e
il convento subirono notevole spogliazioni e depredazioni con le note
conseguenze di violenze antireligiose.
Le campane della chiesa vennero confiscate per essere utilizzate quale
materiale da fusione per i cannoni e il convento venne saccheggiato di vari
paramenti e utensili d’oro e d’argento assieme a diversi mobili che furono
venduti all’incanto per piccolissime somme, come ricorda lo storico Rossi.
Nel 1811
viene espropriato il dipinto della Madonna
del Rosario di Gaetano Lapis da parte dei già nominati Commissari regi
Boccolari e Santi e le monache vennero espulse; ritorneranno nel 1815 dopo la
caduta di Napoleone.
Una nuova spogliazione di beni, soprattutto
terrieri, si ebbe con la demaniazione attuata dal Governo italiano, tramite il
decreto Valerio del 1861; in tal caso si contribuì al finanziamento e
all’ammodernamento del Regno. Le monache domenicane ritornarono proprietarie del
convento dopo che le stesse rinunciarono al convento maschile (estinto) di S.
Domenico in via Lapis e che era in loro possesso; venne quindi fatta una
permuta.
Durante la seconda guerra mondiale la
comunità attraversò momenti di pericolo. Nel novembre del 1943, furono accolte
in questo monastero, con il permesso del vescovo Mons. Raffaele Campelli,
quattro ebree: la signora Gina con le
figlie. Questa famiglia fu denunciata dalla loro serva; il Tenente subito chiese
spiegazione al Vescovo e alla Superiora, suor Nicolina Baldoni, la quale con
grande coraggio disse che nel monastero non c’erano donne ebree. La Priora, con
quest’atto di grande coraggio salvò la vita alle stesse ed il monastero dalla
distruzione. In segno di riconoscenza le ebree beneficarono abbondantemente la
Comunità[28]
che riprese la vita religiosa e di lavoro.
Monache
domenicane al lavoro nel loro orto.
Descrizione
della chiesa
Esternamente la chiesa di S. Nicolò si presenta con un
bel portale in pietra arenaria dove nel tondo del timpano ad arco è scolpito a
bassorilievo un cane con una candela in bocca. È il simbolo dei Domenicani
detti Domini canes cioè custodi (cani
o guardiani) del Signore, quindi difensori della fede che illumina e per questo
essi infatti erano Frati Predicatori[29].
Portale della
chiesa di San Nicolò in pietra arenaria.
A destra dell’ingresso alla chiesa è
l’accesso del Convento di Clausura, rimarcato da un gradevole portale
settecentesco sempre con timpano curvilineo come il precedente, in pietra
arenaria.
In alto sono rappresentate in scultura a
bassorilievo i simboli domenicani. Da qui si entra nel parlatorio dove ci sono le finestre a grate, dietro le quali
compaiono le monache e di lato è ancora l’antica e famosa ruota girevole che accoglieva piccoli oggetti e cose varie.
Internamente la chiesa, ad unica navata, si presenta non
grande, ma subito si nota che è ben tenuta ed è proprio di bell’aspetto.
Risulta fresco il rifacimento grazie alla necessità di porre rimedio ai danni
del terremoto del 1997. La de
corazione originale della volta e delle pareti è
del 1758; compaiono in alto i simboli del santo titolare (San Nicola da Bari), quali la mitria ed il
pastorale con la doppia croce patriarcale (di un vescovo quindi orientale).
Lo stile della chiesa è il Barocco-Rococò[30]. E qui si presenta però nel modo più
raffinato: le decorazione e gli stucchi sono di quel filone ornamentale
squisitamente elaborato per delicatezza di colore e di abbinamento. Infatti si vede
bene che è superato il decorativismo capriccioso
e pesante del Barocco per dar luogo ad un gusto più raffinato.
Dopo la forte scossa di terremoto del 1997
la chiesa è dichiarata inagibile dall’ing. Italo Grilli e dall’arch. Rita
Cecchini. Nel 1999 sono iniziati i lavori di restauro con consolidamento
statico della volta e della facciata
eseguiti in modo scrupoloso e responsabile da parte della ditta Metalco REDIL
Srl del sig. Rossi Leo di Apecchio[31].
Come si vede i decori partono dalla volta
ed arricchiscono le lesene delle
pareti laterali, corrono tutt’intorno alla chiesa all’altezza della cornice in
stucco e ben s’innestano nel contesto.
Bella e raffinata è la combinazione del
celeste e dell’avorio con la fattura a “Oro
falso”. Forse gli artefici originali di queste decorazioni non erano
cagliesi, visto che le domenicane, come risulta dal Libro delle Memorie del Monastero, dovettero sostenere spese di
vitto ed alloggio “per 311 scudi e 75 baiocchi”. Senz’altro però si trattò di
valenti artigiani.
Nella chiesa c’è una profusione di grate
settecentesche, anche queste gradevolmente decorate: la grata della cantoria da
dove le monache seguono la liturgia è veramente bella, così le grate del
presbiterio e quelle laterali. C’è pure il comunichino.
Il Comunichino
Sul lato sinistro dell’altare maggiore è un
ornato ligneo, il cosiddetto comunichino,
che è una copia - riprodotta tramite foto - dell’originale; quest’ultima era
un’opera scultorea di notevole pregio risalente alla prima metà del Settecento,
ma purtroppo è stata rubata il 6 novembre 2005.
Nel 2006 è stato commissionato un nuovo
comunichino all’intagliatore Luciano Orlandi di Cagli che lo ha riprodotto in
modo abbastanza fedele e con un ornato ben riuscito. La ditta Minelli di Gubbio
ne ha effettuato la doratura e la coloritura.
Il comunichino è composto da due angeli reggicero scolpiti a tuttotondo posti ai lati della
porticina; nella parte centrale ha il calice ed altri decori a rilievo, è
sormontato da un motivo a volute
intagliate.
Le monache di clausura ancora oggi ricevono
la Santa Comunione attraverso questa porticina[32].
Copia
sostitutiva del comunichino
settecentesco
rubato nel
novembre 2005.
Anche il tabernacolo ligneo dell’altare maggiore con raffinati intagli
sembra attribuirsi alla mano dell’esperto scultore settecentesco del
comunichino e probabilmente potrebbe risalire quindi allo stesso periodo.
Altare maggiore
L’elegante altare maggiore è realizzato in
marmi policromi; secondo il Boccolini (letterato e ricercatore cagliese della
seconda metà del 1900) venne commissionato nel 1746 a Francesco Fabbri,
scultore ed intagliatore da Sant’Ippolito, su disegno dell’architetto Biagio
Miniera di Ascoli Piceno, già attivo nella Cattedrale per il pulpito. Nel
timpano sono due belle statue che rappresentano la Fede (con croce e calice) a
sinistra e la Speranza (con l’ancora della salvezza) a destra; mentre nella
cartella centrale figura, assieme ai simboli di S. Domenico, la corona di spine
di S. Caterina da Siena. Le due sculture sono forse opera di uno statutario, in
questo caso legato al mondo degli scalpellini (molto abili) di Sant’Ippolito.
Sopra l’altare, al centro di una grande
raggera a testine angeliche, è la colomba dello Spirito Santo.
In questo altare centrale era stata sistemata
la tela Madonna del Rosario e S. Domenico,
opera del concittadino Gaetano Lapis
(Cagli 1706 Roma 1773) datata 1739[33].
Il pittore venne pagato (come è scritto nel Libro
delle Memorie del Monastero) 120 scudi romani. Nel 1811 il quadro venne
requisito dai commissari regi napoleonici Antonio Boccolari e Giuseppe Santi -
soprintendenti di Bologna - per essere trasferito nella Pinacoteca di Brera, dato che la medesima doveva
diventare, per volere del vicerè Eugenio di Beauharnais, una seconda Louvre.
Venne collocato, come deposito, presso la chiesa di Casorate Primo (Pavia)
dell’Arcidiocesi di Milano dove rimarrà per lungo tempo.
Dal settembre 2000 la tela, dopo un lungo e
sapiente restauro, è ritornata al luogo di origine ed è stata restituita come
prestito temporaneo con un itinerario quasi misterioso e direi miracoloso.
L’opera del Lapis, come una gemma
incastrata, è nuovamente l’elemento che fonde e risalta la cromia dei marmi e
delle decorazioni dell’intera chiesa.
Tutta la chiesa si può dire che sia un
omaggio a Lapis: i suoi dipinti sono sei.
La pala centrale rappresenta appunto la
Madonna del Rosario con il Bambino Gesù, che tiene in mano la corona e S.
Domenico inginocchiato che la riceve.
La chiarezza del colore, l’eleganza del
disegno e della pittura, corrispondono ad un attento contenuto didascalico che
fa connotare la figura di S. Domenico dai tipici attributi iconografici: il
giglio, il libro, il cane con la torcia fiammeggiante (i Padri domenicani erano
portatori di fede), mentre dall’alto una coppia di angioletti reca un cestino
di vimini colmo di rose: il fiore che emblematicamente allude alla corona del
Rosario.
La pala riprende la classica impostazione
piramidale di ascendenza cinquecentesca, rielaborata però attraverso il
Classicismo romano di Carlo Maratta della seconda metà del Seicento e
attraverso quel fondo inesauribile quale era la scuola bolognese dei Carracci,
Domenichino, Guido Reni. Il tutto è combinato con analoghe composizioni
barocche come quelle di Sebastiano Conca, suo maestro; quindi classicismo e
schema composito di vari elementi con una grazia decorativa caratteristica
dello stesso gusto barocco.
Ai lati dell’altare maggiore sono le due
statue in stucco racchiuse in piccole nicchie che raffigurano a sinistra S.
Caterina da Siena (1347-1380) [34]
con il giglio fiorito in mano (simbolo della purezza) e la corona di spine in
testa (come Gesù).
A destra è S. Rosa da Lima del Perù
(1586-1617)[35]
con le rose; ambedue le Sante erano terziarie domenicane, ma vestivano l’abito monacale.
Coro inferiore
Coro inferiore settecentesco del monastero
di San Nicolò.
Questo venne completamente rimaneggiato nel
1779 dai falegnami Sabatini da Cagli[36]
che adoperavano “legno di noce di fondo e vari altri legni d’impellicciatura”,
movimentando le alzate degli stalli con un pregevole intarsio a motivi
geometrici che potrebbero essere evidenziati dietro ad un attento restauro.
Altari
laterali
Nell’altare
di destra è il quadro
raffigurante Il Miracolo di S. Nicola
di Gaetano Lapis, pittura eseguita a Roma nel 1756 e pagato con 85 scudi
romani. Vi è rappresentato un episodio della vita di S. Nicola e cioè il
salvataggio del giovane Adeodato di Essoranda (Turchia) rapito dai pirati e
costretto a servire come schiavo alla mensa del Sultano turco. Erano infatti
frequenti i casi di sequestro di giovani cristiani dei migliori casati nobili
europei, specie al tempo di Solimano il Magnifico (1494-1566).
Il Santo Vescovo si vede che afferra al
volo il giovinetto per i capelli, tra lo stupore di commensali e servitori.
Poche notazioni ambientali sullo sfondo, con luminosità di tonalità
giallo-rosate interrotte dal brillante azzurro della veste del giovane.
Il recente restauro ha messo in luce tutta
l’originale preziosità cromatica di quest’opera e l’insolito gusto narrativo e
didascalico.
Il dipinto colpisce per la sua immediatezza
ed è contrassegnato dal bollo in ceralacca posto nel 1811 dai Commissari
Boccolari e Santi del Regno Italico, per la confisca napoleonica[37].
Le Allegorie
dei fasti di S. Nicola
I quattro ovali su tela vengono
commissionati dalle monache di S. Nicolò nel 1759, il cui costo fu 110 scudi, a
completamento della tela precedente; vennero dipinti a Roma dove il pittore
risiedeva.
I fasti sono le imprese gloriose o meglio
le benemerenze del Santo che qui appare in forma allegorica.
Sono quattro medaglioni con bellissime
figure alate: angeli adolescenti, figure di astratta ed idealizzata bellezza
che denotano l’eleganza e la raffinatezza della pittura del Lapis. Sono
contrassegnati da elementi simbolici che alludono appunto alle buone azioni del Santo secondo
quanto è espresso nei motti latini scritti su cartigli in stucco posti sotto
ogni medaglione. Tutti quattro i dipinti hanno il bollo in ceralacca rossa
della confisca napoleonica.
Nel 1°dipinto l’angelo, rivolto al cielo,
regge con grazia un vassoio su cui scopre alcune monete d'oro. Si allude alla
generosità con cui S. Nicola provvedeva segretamente al sostentamento di oneste
fanciulle con i denari, per conservare la loro purezza o pudicizia: Servata muneribus pudicitia.
Nel 2° dipinto l’angelo reca spighe di
grano e monete d’oro per ricordare l’aiuto materiale offerto da S. Nicola ai
poveri della città in occasione di carestie: levata civium annona.
Nel 3°dipinto l’angelo, in atto di
scagliare e di distruggere una testa di Diana, testimonia l’azione del Santo
contro i culti superstiziosi (pagani): Dianae
supestitione delecta.
Nel 4° dipinto l’angelo rovescia l’olio
infuocato con il quale il demonio avrebbe appiccato il fuoco alla cattedrale
del Santo salvando il tempio dall’incendio: Templo
ab incensione liberato.
La serie di dipinti, oltre a rappresentare
una novità per l’inconsueto contenuto iconografico, si distingue nella corrente
produzione lapisiana, per il gusto quasi profano
delle immagini.
Al di là del contenuto religioso, infatti,
le quattro figure angeliche colpiscono per l’arcadica dolcezza dei volti e per
la perfezione del disegno. Sono un’anticipazione pre-neoclassica con un fare
pittorico elegantissimo e levigato (raffinato). Sono ispirati all’espressione
arcadica piena di dolcezza e di mollezza descritta nel poema della Gerusalemme Liberata del Tasso.
Ricordiamo a questo proposito i cinque
dipinti del Lapis (1730) che s’ispirano a questo poema e quindi all’Arcadia[38].
Nell’altare di sinistra la pala raffigura Il Miracolo di Soriano. È di autore
ignoto. La Vergine, affiancata da S. Caterina d’Alessandria e dalla Maddalena,
dona ad un domenicano l’immagine di S. Domenico dipinta (racconta la leggenda)
per miracolo su di una tela; così allude il putto con tavolozza in mano posto
in fondo a destra. Il quadro, marcato con il timbro di confisca in ceralacca
del 1811, è visibilmente allungato nella parte superiore con putti di modesta
fattura, al fine evidente di adattarlo a questo altare. Si tratta di una
pittura seicentesca con uno stile un po’ incerto, sembra di tardo manierismo,
probabilmente dipinto da qualche allievo di Girolamo Cialdieri o di Francesco
Guerrieri di Fossombrone[39].
Al di sopra dell’ingresso principale è la decoratissima cantoria lignea dipinta e sorretta da mensoloni con testine angeliche scolpite nelle volute e recanti nella cartella in basso, tra le foglie di acanto, il monogramma di Ave Maria. Le elaborate grate richiamano le gelosie sapientemente intagliate e sono poste anche lungo il corpo della chiesa; furono eseguite intorno al 1751 da un valente artigiano forestiero per il quale si provvide all’alloggio e al vitto e si spesero 41 scudi e 16 baiocchi.
Nel mese di luglio viene esposta in chiesa
la statua lignea della Madonna del Carmine che sostituisce dal 1770 una più
antica.
La statua nella nicchia in fondo alla
chiesa è quella della “Nostra Signora del
Sacro Cuore di Gesù”.
Conclusione
Nel mio lavoro di ricerca per una
lezione–guida all’UNILIT di Cagli, quest’anno
mi è piaciuto posare l’attenzione sui due monasteri non troppo
conosciuti da noi Cagliesi perché un po’ lontani dal nostro sguardo e che
testimoniano l’esistenza di due ordini religiosi femminili di clausura quali il
Monastero delle monache benedettine di S. Pietro e il Monastero delle monache
domenicane di S. Nicolò.
Essi conservano, attraverso la storia di
diversi secoli, un’esistenza gloriosa del passato che è ancora viva nella sua
concretezza.
I due monasteri non ospitano infatti (per
motivi contingenti come la mancanza di vocazioni e l’anzianità) una comunità
numerosa e attiva come avevano avuto nel passato, ma sono di uguale importanza
perché ci danno l’esempio di un grande spirito religioso e di una osservanza
della “Regola” sempre equilibrata ed
accogliente.
Le monache sono proprietarie e custodi di
quei beni ricevuti dal passato e di cui conservano ancora oggi, gelosamente e
con orgoglio, l’integrità religiosa e di tradizione.
Nella mia ricerca sulla storia antica ed
attuale di questi monasteri cagliesi, mi sono valsa di numerosi testi e di
varie testimonianze per approfondire i tanti motivi di conoscenza della nostra
cultura locale che altrimenti andrebbero dimenticati.
Pertanto ho cercato di vivificare tali
motivi anche con modeste informazioni di cronaca e di curiosità ambientali e
famigliari.
Dedico questo scritto ai miei figli Marco e
Cinzia perché essi possano nel tempo meglio ricordare la nativa città di Cagli,
da me sempre tanto amata.
Cagli 12-05-2016
Tersicore
Paioncini
[1] In seguito alla devastazione della Cattedrale di Montecassino durante la 2° guerra mondiale, si è ritrovata nel 1950 sotto l’altare maggiore un’urna di alabastro contenente ossa di due persone e con un’iscrizione che le indica come reliquie di S. Scolastica e di S. Benedetto .
[2] Di quartiere in “Curia Flavii” si parla fin dal 1258 in una carta pergamena di Cagli
[3] L’insediamento umano- sociale e religioso nelle nostre zone poteva essere romano-bizantino o longobardo, come risulta dagli agiotoponimi cioè dal culto dei santi venerati localmente e dalle indagini toponomastiche che studiano i nomi dei luoghi sotto l’aspetto delle origine e del loro significato nel tempo. Ambedue i termini infatti possono essere utili per la ricostruzione della storia di un luogo o di una regione.
Per l’insediamento bizantino terremo presente quindi le chiese dedicate ai santi cristiani, greci e bizantini all’interno del cosiddetto “corridoio bizantino” come ad esempio la chiesa di S. Martino, di S. Stefano, di S. Vitale, di S. Apollinare con conseguente diffusione del culto in tutti i territori circostanti.
Per l’insediamento longobardo troveremo nei territori da loro conquistati chiese dedicati a S. Michele Arcangelo (numerose nella nostra zona), a S. Giovanni, a S. Salvatore ed ad altri santi.
Non essendoci documenti locali specifici che risalgono alla fonte del primo cristianesimo, di particolare utilità sono risultati gli elementi delle decime imposte alle chiese della Diocesi. Queste, oltre a testimoniare le chiese esistenti al tempo attraverso l’ammontare della tassa (pagata in libbre, in soldi o in denari), ci permettono di comprendere l’importanza di una chiesa rispetto ad un’altra.
Cosi ci riferiscono gli
studiosi locali G. e M. Presciutti, G. Dromedari nella loro recente
pubblicazione: “Il corridoio bizantino al confine tra Marche e Umbria”.
[4] S. Pietro in Vincoli è una terminologia antica, nata in occasione della 1^ Basilica romana di S. Pietro in Vincoli, edificata da Eudossia, figlia di Teodosio II e sposa di Valentiniano per custodire le catene che avvinsero S. Pietro e che sembra la madre di lei avesse ricevuto in dono nel suo pellegrinaggio in Palestina. Queste catene nel 442 furono poi deposte nella 1^ Basilica sopraddetta.
[5] I Canonici Lateranensi sono religiosi che vivono in comunità secondo la regola di S. Agostino adottata nel XII secolo. Le Congregazioni che oggi sussistono sono poche. Abbiamo notizie che la chiesa al tempo dei Canonici Regolari aveva tre altari: il maggiore dedicato a S. Pietro in Vincoli ed i laterali, come devozione, alla Madonna della Neve ed al SSmo Salvatore. La devozione a quest’ultimo potrebbe ricordare l’eremo benedettino di S. Salvatore delle Foci di Cagli risalente ai primi anni del Mille, la cui fondazione è attribuita a S. Romualdo; lo storico Bricchi nel 1279 lo dice soggetto al monastero benedettino di San Geronzio in Cagli.
[6] I Castracane di Cagli.
La Famiglia dei Conti Castracane (o
Castracani) è un ramo degli Antelminelli di Lucca, ma a renderla gloriosa basta
pensare al nome di Castruccio che con i suoi atti di valore venne nominato da
Dante Alighieri per la Battaglia di
Montaperti (1260) e poi divenne
signore di Lucca. I suoi successori, incalzati dalla calamità dei tempi,
esularono da Lucca e si stanziarono a Cagli nel 1520 dove Ottaviano sposò
Pantasilea degli Innocenti, nobile cagliese. Nel 1646 i conti Castracane degli
Antelminelli acquistarono il palazzo Tiranni in via Purgotti, poi nel 1858
acquistarono il palazzo già Tiranni-Carpegna-Ferretti che nel 1912 andrà ai Moscardi. Dopo l’Unità
d’Italia, i beni di S. Pietro fuori le Mura, quelli delle benedettina di S.
Margherita già sconsacrati (compresa la Caprareccia) vengono venduti nel 1896
ai conti Castracane. Nel 1907 Enrico Castracane compie una ristrutturazione
alla sua abitazione adattandola a “casino di caccia”. Da un atto notarile del
1938 si viene a sapere che Ottavia Castracane di Enrico di Antonio, deceduta il
26 novembre 1936, lascia alle due sorelle Bianca e Maria - usufruttuario il
padre Enrico – l’abitato di S. Pietro, di S. Margherita e della Caprareccia.
Maria vende la sua parte al colono Giuseppe Pazzaglia e da questo passerà nel
1969 alla famiglia Cancellieri, che ne ricaverà due abitazioni. Bianca,
maritata al professore Troilo Gianni, insegnante a Ravenna, eseguirà diversi
lavori di ristrutturazione e realizzerà un bel parco.
I figli di Bianca sono Pietro (Piero)
avvocato e Franca musicista e passano il periodo bellico e post bellico in
questa confortevole residenza cagliese.
Nel 1985 Bianca Castracane vende a Capoccia
Giuliana l’abitazione ed il predio circostante di S. Pietro che in seguito,
nell’anno 1999, verrà venduto ai signori Ferretti e Pieri, attuali proprietari
del luogo.
[7] La campata
è lo spazio compreso tra due elementi di sostegno adiacenti (che possono essere
pilastri o colonne)
[8] Si potrebbe dire che l’olmo oggi è un legno di pregio per la recente estinzione della pianta in diverse parti dell’Italia a causa di una malattia.
[9] Questo artista lavorò molto anche presso
diverse famiglie borghesi cagliesi e dei dintorni rievocando nei mobili stilemi cinquecenteschi. Egli proveniva
da una famiglia di ebanisti già nota a
Cagli alla metà dell’Ottocento; il padre Rinaldo infatti si era formato nella
scuola artigianale di Francesco Pucci, insigne ebanista intarsiatore cagliese.
Famosissimi sono i suoi tavoli intarsiati - a decorazioni floreali con legni
pregiati a diversi colori e con scheggette madreperlacee - per i quali egli ricevette
riconoscimenti a livello europeo come la medaglia d’oro a Vienna nel 1868.
Francesco Pucci e i suoi allievi sono stati quindi per quasi due secoli punto
di riferimento per l’artigianato di tutta la comunità cagliese e provinciale,
divenendo espressione concreta di una tradizione di cultura e di accurata
lavorazione artigianale propria di tutta la zona. Purtroppo i pochi discepoli
(ancora viventi) hanno interrotto questo prezioso lavoro per mancanza di
apprendisti e di richiesta.
[10] Il Diverticolo
è un termine per indicare le vie di
comunicazione laterali alla via principale pubblica e che oggi sono diventate
collegamenti interni e percorrono spesso
percorsi montani di età protostorica.
[11] Potrebbe trattarsi del diverticolo romano il
cui primo tragitto è stato fisicamente verificato e documentato attraverso il
bosco e vecchi sentieri dal già citato E. Paleani. Infatti il percorso da Cale mutatio (Ponte Taverna) proseguiva,
confinante con Panaiolo nella Valle Flavia e precisamente per questa strada
adiacente alla chiesa; poi seguitava per l’Andiata e Vicarello fino alla Pieve
di S. Stefano di Figarola presso Acquaviva. Da qui, attraverso il guado ancora praticabile (che da sotto
Molinaccio passa per Caberto), giungeva a Corgnaleto (Paravento) e poi a
Sorticoli, Collelungo, Buonconsiglio e a
Frontone. Probabilmente attraverso Serra S. Abbondio giungeva a Sentinum
(Sassoferrato).
[12] Dal memoriale della M.e Abbadessa di San Pietro si viene a sapere che nel 1698 si voleva “riammodernare la chiesa con i denari di una monaca assai ricca per i beni ereditati dalla sua casa già estinta”.
[13] Nel 1944 Cagli fu sconvolta dalle bombe di
una incursione aerea nemica. Solo nel 1956 furono intrapresi i primi veri
restauri dell’ormai cadente monastero di S. Pietro; fu rinnovata completamente
l’infermeria ed il noviziato, poi si passò alla foresteria.
[14] Il timpano
è la parte alta o la terminazione della cornice di un portale o di una
finestra; nel tempio classico può essere anche la superficie triangolare
compresa all‘interno del frontone tra gli spioventi del tetto.
Il Barocco è uno stile artistico diffusosi in Italia e in Europa
nel Seicento e nel primo Settecento (trasformato poi in Barocco Rococò); lo
ritroviamo in pittura, in scultura ed in architettura. E’ caratterizzato dal
movimento, dalla esuberanza formale, dai colori forti, dallo sfarzo delle
cornici dorate e da capricciose bizzarrie di ricercatezza o di grazia. Questo
stile si esprime secondo un sentimento più istintivo che logico e razionale,
quale era nel Rinascimento.
Gli Stilobati, superficie su cui poggiano le colonne o le lesene
di un tempio classico o di una costruzione; possono essere anche a gradini.
[15] Pietro è il capo degli Apostoli ed è la
figura più vicina a Gesù, pescatore in Galilea e fratello di Andrea; si recò a
Roma dove fondò la prima Comunità Cristiana e venne fatto crocifiggere da
Nerone nel 64 d.C.
Paolo non fu del gruppo originario dei dodici. Si dedicò soprattutto
alle conversioni. Nacque a Tarso in Asia Minore nel 10 d.C.; la sua conversione
avvenne mentre si dirigeva a Damasco per arrestare, come cavaliere romano, i
Cristiani. Secondo la tipologia del Seicento è alto, con i capelli lunghi e la
barba bianca; è rappresentato con la Vergine in trono e S. Pietro. I due
apostoli compaiono come i fondatori della Chiesa.
Scolastica era la sorella gemella di S. Benedetto del VI secolo,
condusse vita monastica anche se non prese mai i voti, ma è considerata (come
già detto in precedenza), la prima monaca benedettina.
[16] La testimonianza di questa appartenenza è
posta sul fianco sinistro del palazzo in una lastra di pietra dove c’è incisa
la data MDCXXXIIII (1634), riferibile ai consistenti lavori di ristrutturazione
dell’edificio. Nel Settecento il palazzo dei Benamati passava di proprietà ai
Lapis che avevano ormai raggiunto una indubbia agiatezza, senza però
raggiungere l’aggregazione al ceto nobiliare cagliese. Ora è di proprietà dei signori
Carnali e Mensà. Alcune sale del palazzo Benamati Lapis risultano dipinte nella
volta; una di queste sale ha cinque affreschi racchiusi entro cornici
mistilinee in stucco che sono riconducibili, come già segnalava lo storico
Rossi, al pittore baroccesco Girolamo Cialdieri, molto attivo in Cagli; portano
la data del 1635. È il caso di segnalare che tali affreschi recano scene tratte
dalla Gerusalemme Liberata del Tasso e si ritiene che abbiano ispirato lo
stesso Lapis nei suoi dipinti delle cinque grandi tele con le “Storie della
Gerusalemme Liberata”.
[17] A Roma infatti, intorno al 1730 dipinge le
cinque grandi tele sopraccennate con le “Storie
della Gerusalemme Liberata” - ispirate al poema di Torquato Tasso - per i
signori Loreti di Cagli (allora proprietari del palazzo Preziosi Brancaleoni
situato in via del Corso) e firma la
pala della Madonna della neve per
l’altare di patronato dei Causidici nella chiesa di S. Francesco, sempre in
Cagli.
[18] Carlo Maratta, pittore di Camerano (Ancona)
1625–1713 fu allievo di Carlo Sacchi e si formò a Roma studiando
soprattutto le opere di Raffaello e dei Carracci. Fu il massimo rappresentante della 2° fase
classicheggiante del Barocco romano ed operò molto a Roma divenendo uno dei
maestri più importanti tra quelli attivi tra Seicento e Settecento, svolgendo
un ruolo preminente al di fuori della terra d’origine.
[19] A quel tempo però non a tutti era gradito
l’accostamento ardito dei colori rosso-verde-blu: ma nel Convegno di Studi sul
Lapis, svoltosi nel 1994 e già nominato, è
stato sottolineato come pregio questa particolare cromia con l’uso
brillantissimo del colore.
[20] Da sinistra in senso orario:
S. Matilde, santa tedesca (1241-1298), mistica, è
raffigurata in uno scambio di cuori con Gesù e da qui nasce la sua devozione
“al cuore di Gesù”. Festa il 14 marzo.
S. Giustina da Padova, martire sotto Nerone.
S. Benedetto, (Norcia 480-541) con Totila. Fondatore
delle monachesimo occidentale.
S. Placido, discepolo di S.Benedetto.
S. Geltrude, santa mistica tedesca del 1200, devota al
cuore di Gesù come S.Matilde. Fu badessa a 19 anni.
S. Lutgarde, altra santa tedesca.
[21] S. Benedetto
(480-547) è il fondatore del più antico ordine monastico occidentale. Nacque a
Norcia in Umbria. Fondò nella zona dodici monasteri tenendo presso di sé i prediletti Mauro e
Placido. Fondò anche la famosa abbazia di Monte Cassino donde promulgò la sua Regola che poi diverrà il modello della
vita monastica in occidente. È qui raffigurato come un vecchio con la barba
bianca e con il saio nero dell’antico ordine benedettino, altre volte è
raffigurato con l’abito bianco delle successive Istituzioni riformate. Un
angelo gli porge il pastorale in qualità di abate. La Madonna è in alto tra le
nuvole e tra gli angioletti.
S. Cecilia fu vergine e martire cristiana del III
secolo. Venne condannata a morire por soffocamento in un bagno di vapore. Dalla
fine del XV secolo fu patrona dei musicisti e l’organo con canne fu il suo attributo.
[22] In questo documento del 1339 è registrato
che il Priore della Cattedrale ricevette da Suor Agata, monaca di S. Margherita
nella festa dell’Assunta, il pagamento di alcuni beni che quel monastero
possedeva in Panaiolo ed alla Peperia, corte di Cagli. Simile
pagamento veniva ripetuto nel 1342 ed anche nel 1387, da donna Angelica,
abbadessa di S. Margherita.
[23] La Commenda era la facoltà di usufruire economicamente di un beneficio ecclesiastico senza averne il diritto della titolarietà.
Precedentemente, nel 1437, il Card. Prospero Colonna (cognato di Guidantonio da Montefeltro che aveva sposato
sua sorella Caterina Colonna, nipote del papa Martino V), venne a Cagli per incontrarlo
e per prendere possesso come abbate commendatario in perpetuo della Commenda di S. Pietro di Massa e quindi
del monastero di S. Margherita-S. Nicolò con tutti i suoi beni, terreni,
molino, chiese dipendenti.
[24] Si può immaginare ancora oggi la sagoma
della chiesa-oratorio incorporata ad altri ambienti, anche l’antico monastero
oggi è testimoniato all’interno dei fabbricati da vistosi archi a sesto ribassato in pietra bellavista e da muri di ragguardevole spessore. Nello scoperto del
giardino sono alcuni resti in pietra attestanti l’antico monastero e nella
scarpata, tra i rovi, è visibile una vecchia vasca in conci di pietra calcarea.
Pure la così detta Fontaccia nelle
vicinanze e al dilà della via Flaminia, veniva chiamata fonte di Santa Margherita o di Panaiolo.
[25] L’enfiteusi era una concessione con il diritto di
godere di un fondo agricolo altrui – compresi gli annessi beni immobili - per
il tempo stabilito e di goderne i frutti. L’enfiteusi
durava 20 anni, ma a volte alcune generazioni, in cambio di un modesto affitto
e senza pagamento di tasse.
[26] Dagli Atti consigliari riportati
nell’Archivio Comunale si viene a sapere che le monache nel 1570 hanno avuto la
possibilità, come riporta una lettera del Duca di Urbino al Podestà di Cagli,
di usufruire dell’acqua del Condotto Pubblico, prelevandola solo di notte,
affinché non venissero meno le necessità della città stessa.
[27] Sempre dagli stesse Atti Consigliari del
Comune di Cagli, messi in evidenza da Marcello Mensà, risulta che le monache
avevano diversi possedimenti terrieri intorno a Cagli come il Pian di Salsa
(etimologia derivante forse dalla zona terriera che è mista di sassi e di
terra), situato tra l’inizio della strada che conduce a San Fiorano e il
Cimitero in via Fontetta. È curioso il fatto riportato nel 1650 che riguarda
una certa persona querelata per uno “furto di zucche”, avvenuto nel campo
appartenente alle Monache di S. Nicolò.
Inoltre si sa che le stesse possedevano un terreno nella località
chiamata le Breccie, odierna
Fontetta, dove nel 1817 si costruirà il Cimitero Comunale.
[28] Nel corso dei secoli in questo chiostro
vissero numerose anime sante, ricordate dalle cronache e molte fanciulle
d’illustre casato, come suor Cecilia Zamperoli, suor Rosa Celeste, sorella
dello scienziato Angelo Celli, la cui famiglia abitava di fronte al nostro
monastero. Tra le altre suor Nicolina Baldoni, nipote di Pio IX.
[29] Domenico di Guzman fu il fondatore
del’Ordine dei Predicatore e delle Domenicane.
Egli nacque in Spagna nella vecchia Castiglia (1170-1221), studiò
filosofia e teologia; ordinato sacerdote senti l’esigenza di predicare il
Vangelo e di rievangelizzare.
Simboli: oltre il cane con il cero in bocca, ci sono anche il giglio
fiorito, la stella in fronte che illumina, il libro (il Vangelo).
I Domenicani furono predicatori e missionari e la loro dottrina fu molto
importante nel sec XIII e XIV perché oltre ad avere una funzione ecclesiastica
di culto, avevano una funzione di apostolato; essi ebbero inoltre una grande
importanza per la diffusione della cultura.
[30] Le notizie sullo stile Barocco si possono conoscere
alla nota 14, quando si è parlato dello stile della chiesa di San Pietro.
[31] Ditta impegnata in diverse opere di
ristrutturazione e di ricupero in varie città d’Italia come a Roma nella famosa
Cripta Balbi, nell’Arco di Costantino,
nei Sotterranei del Colosseo e in altri luoghi. Nel marzo 2000 la ditta
Arbia Davide di Fano ha eseguito i lavori di restauro interni alla chiesa,
riportando alla luce i colori originali delle decorazioni parietali in modo
perfetto.
[32] Il comunichino originale era stato scolpito da una mano
molto esperta: gli angeli reggicero
erano sul modello degli angeli reggicero di Leonardo Scaglia, noto scultore
francese della metà del Seicento che lavorò a Roma e nelle Marche creando
scuola ed allievi.
[33] Abbiamo già esposto lo stile e la
personalità del Lapis per il dipinto dell’altare maggiore della chiesa di S.
Pietro delle Benedettine v pag. 29.
[34] S. Caterina è compatrona d’Italia assieme a
S. Francesco; ha come attributo la corona di spine e le stimmate come Gesù che
aveva ricevuto non visuali, ma che le procuravano grande dolore sia alla testa
che alle ferite. Fu molto colta e compose molti scritti come vorrebbe significare
il libro in mano perché sentiva l’esigenza di un rinnovamento della Chiesa. Si
dedicò molto all’apostolato. Fu inviata dai Fiorentini ad Avignone allo scopo
di intercedere per gli scomunicati di Firenze e tanto fece che riportò il papa
Gregorio XI a Roma.
[35] S. Rosa da Lima con la corona di rosa in
testa è la patrona delle Americhe ed è la prima santa canonizzata in America.
Santa molto generosa, è anche la protettrice delle fioraie.
[36] Un Sabatini falegname si era fatto conoscere
nell’esecuzione dell’ampio coro di noce della Cattedrale cagliese nella seconda
metà del Seicento; poi i Sabatini ritorneranno per completare gli ultimi due
stalli dello stesso Coro nei primi anni del Settecento. Saranno ancora presenti
nel lavoro di falegnameria presso i Francescani Conventuali di Cagli nel 1796.
[37] S. Nicola, forse del IV secolo, detto di
Bari, era Vescovo orientale di Mira in Licia dell’Asia Minore (odierna
Turchia); si pensa che il suo corpo sia stato portato a Bari in Italia con
l’avvento dei Turchi (nell XI secolo).
Una leggenda dice che sia stato portato dai mercanti e che la nave
approdò da sola, dopo avere naufragato a Bari, dove fu eretta la Basilica. In
alcuni paesi d’Europa centro-settentrionale ed orientale, la sua figura
corrisponde a quella di Babbo Natale. Per la sua festa (6 dicembre) si
scambiano i doni (Santa Claus).
[38] L’Arcadia era un’accademia letteraria di carattere nazionale fondata a Roma nel 1690, dai poeti del circolo di Cristina di Svezia. Primo custode generale fu il letterato marchigiano G.M. Crescimbeni che nel 1704 venne a Cagli e fondò, assieme ad Anton Francesco Berardi architetto cagliese, l’Arcadia cagliese, colonia di quella romana. Lo scopo di questi letterati ed artisti era quello di far ritornare alla semplice natura e quindi alla poesia bucolica idilliaca; per questo gli aderenti erano detti pastori ed assumevano pseudonimi pastorali. Il nostro Lapis ha preso dall’Arcadia la tendenza ad attutire i valori plastici della pittura che erano stati “gonfiati” dal Barocco, fino ad ammorbidire gli atteggiamenti e gli eventi che non sono drammatici, ma tendono – come nelle sopra citate pitture quasi profane delle allegorie e in quelle dei dipinti della Gerusalemme liberata – alla grazia e alla dolcezza.
[39] S. Caterina d’Alessandria, martire del IV
secolo, è la protettrice dell’Ordine domenicano. Secondo la Legenda Aurea era di stirpe regale. È
stata torturata con la ruota dentata e poi decapitata e gli angeli la
trasportarono al Monastero del Monte Sinai. È protettrice anche della ragazze
da marito; le Caterinette erano le
donne in età avanzata e le sartine. La ruota è il simbolo del suo martirio e
delle volte la Santa è rappresentata con il dito indice vicino a quello di Gesù Bambino in braccio
alla Madonna in segno di sposalizio
mistico.
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