Quando si incontrarono per la prima volta, era
il 1925, Marta non aveva ancora 25 anni e Pirandello doveva compierne 58.
Il Maestro l’aveva scritturata senza
conoscerla, perché la giovane attrice, che si era distinta fra gli allievi
dell’Accademia dei Filodrammatici, era stata lodata da Marco Praga, il più esigente
dei critici di allora.
«Io arrivai a Roma accompagnata da mia madre.
Era il primo viaggio verso la compagnia con la quale avrei poi dovuto fare la
tournee. Sul palcoscenico semibuio intravidi alcune persone; una, era un
signore coi capelli d’argento e il pizzetto bianco, piuttosto curvo. Entrai in
palcoscenico e qualcuno disse ad alta voce: “È Marta Abba”.
«Pirandello allora scattò dalla poltrona e mi
venne incontro con quella sua stupenda vitalità: non pareva vecchio!
«Mi strinse ripetutamente la mano e mi disse:
“Benvenuta signorina, siamo contenti che sia arrivata!”».
Così descrive Marta Abba il suo primo
incontro con Luigi Pirandello; fra loro c’era stata solo una lettera formale di
poche righe che sarà la prima di 560 lettere che Pirandello le scrisse fino il
1936, anno della sua morte.
Marta gli rispose solo 238 volte.
L’epistolario di Pirandello e Marta Abba è un
corposo carteggio che l’Abba donò all’Università di Princeton nel New Jersey
che verrà pubblicato integralmente solo nel 1994 da Mursia col titolo di “Caro
Maestro, lettere a Luigi Pirandello 1926-1936”: mentre “Le lettere di Luigi
Pirandello a Marta Abba” fu pubblicato del 1995 da Mondadori e contiene solo le
lettere scritte dal drammaturgo all’attrice.
La pubblicazione dei due epistolari avvenne
così tardi perché per decenni l’attrice aveva meditato sull’opportunità di
mettere a disposizione degli studiosi quei documenti e continuava a rimandare
ogni decisione, combattuta fra il desiderio di rivelare al mondo un Pirandello
intimo e ancora sconosciuto e il pudore d’infrangere il velo del riserbo sul
loro rapporto.
Nel 1985 all’età di 85 anni finalmente
l’attrice si mise in contatto con l’Università di Princeton che fu ben disposta
ad accettare la donazione garantendone la conservazione e la pubblicazione da
parte della stessa Università.
Non si pensi che l’epistolario di Pirandello
sia il classico epistolario tenero e amoroso come quello di Kafka o di Majakovskij:
le sue lettere non sono che poveri sfoghi di un grandissimo letterato, di un
autentico gentiluomo siciliano, di un uomo correttissimo e all’antica che aveva
un profondo pudore a esternare i sentimenti che pur gli esplodevano dentro:
Pirandello aveva la consapevolezza esasperata della propria età e dei limiti
che una personalità come la sua gli ponevano; era anche conscio che la fama
internazionale di cui godeva, attirava su di lui l’attenzione del mondo; non
possedeva armi di spregiudicatezza o di arroganza o di scetticismo che lo
aiutassero a dominare situazioni anomale, era inoltre ossessionato
dall’incombere della vecchiaia. Scriveva: «Muoio perché non so più che farmene
della vita» oppure «In questa feroce solitudine non ha più senso vivere» oppure
«non trovo più requie e sento che mi manca il respiro!».
Sono i fantasmi sessuali che per la prima
volta rivendicano e senza infingimenti, il loro diritto a manifestarsi e quando
lo scrittore immagina Marta a letto o quando la rimprovera solo perché si
toglie una scarpa in pubblico, o quando la vede ridere gettando all’indietro il
capo, confessa che vorrebbe essere un musicista per esprimere il tumulto del
suo cuore, rivelando il suo desiderio deviato, la sua passione stravolta e
l’incapacità di dominare una situazione di quel genere.
Marta Abba da quel primo incontro in
palcoscenico del 7 febbraio 1925, diventa subito per Pirandello l’amore
ossessione, l’amore ispiratore di ogni suo dramma teatrale, anche se non diventerà
mai la sua amante.
L’attrice, nell’animo delirante di Pirandello,
assume il ruolo di “Santa guida”, di “consigliera infallibile”, “di assoluta e
unica ispiratrice”, diventa cioè colei che con la sola sua presenza sia fisica
che spirituale, o solo attraverso una lettera o un telegramma lo può salvare
dalla depressione ridonandogli la vita.
Uno sguardo o una sola parola di lei diventa
un alito di vita indispensabile, e quando questo alito di vita non gli arriverà
più perché Marta rimarrà in America, troppo lontana per un qualsiasi rapporto
diretto, Pirandello non avrà più la forza di lottare contro la depressione e
l’angoscioso senso di solitudine che lo attanaglia già da molti anni.
Quando Luigi Pirandello conosce la bella
attrice milanese, la sua esistenza era già passata attraverso vicende difficili
e dolorose assieme all’alternarsi di grandissime soddisfazioni nella carriera
di romanziere e di autore teatrale: aveva vissuto già tutto il bello e il
brutto che una vita intensa e ricca, riserva.
Da giovane aveva sposato Maria Antonietta
Portolano, agrigentina come lui; era stato un matrimonio un po’ combinato e un
po’ d’amore: Maria Antonietta era, rispetto a lui, una donna semplice cresciuta
in Sicilia in un ambiente chiuso e sessuofobico di orizzonti assai limitati.
Quando
si trasferiranno a Roma, Antonietta non riesce ad integrarsi, si chiude sempre
più in se stessa rifiutando anche quei normali rapporti sociali indispensabili
alla vita di lui: avranno tre figli e Antonietta amerà profondamente e
visceralmente Luigi tanto che fu proprio l’esclusività quasi irragionevole di
questo amore a perderla per sempre: sentiva ogni momento di più che quel marito
così appassionatamente amato non le apparteneva: cominciò ad essere
ossessivamente gelosa fino ad accusarlo di incesto con la loro figlia Lietta.
Nel 1919 Antonietta verrà ricoverata in una casa di cura romana per malattie mentali.
Quando Pirandello incontra e si innamora di
Marta Abba è un uomo profondamente segnato da queste terribili esperienze e
anche dalla celebrità che ha fatto di lui una figura di grande spicco nel mondo
delle lettere e del teatro.
L’apparizione di questa splendida attrice
venticinquenne dai capelli rossi fiamma, gli rimescola tutte le carte
facendogli intravedere la possibilità di un rapporto-dialogo pieno e profondo, che
gli era assolutamente mancato con sua moglie: Marta è un’artista intelligente e
curiosa e quindi capace di sostenerlo e di farsi sostenere.
La storia del teatro ricorderà Marta Abba come
la più grande interprete dei personaggi pirandelliani : intraprese la carriera
d’attrice con passione sincera rivelata dalle sue stesse parole scritte e
dette.
“Il poeta –
diceva l’Abba – ha per materia le parole, lo scultore il marmo, il pittore i
colori, il musicista suoni e strumenti; la materia dell’attrice è solo se
stessa. Per realizzare un’immagine, un ritratto, un sentimento l’attrice opera
solo su se stessa. E’ lo strumento della sua musica interiore: si scolpisce, si
modella da se stessa. Questo terribile e
angoscioso lavoro è la sua gloria e la sua pena maggiore.
Sarà questo il mio modo di essere attrice, vivere nel
teatro tutto ciò che la vita mi vieta, tutte le passioni che la realtà non mi
concede, tutte le grandezze eroiche,le colpe fatali, le gioie sublimi, i sogni,
le chimere, le speranze e le certezze che a me, donna, debbono forse per sempre
essere negate!”
Anche Marta Abba, forse sulla scia dello strano e
contraddittorio astrattismo riflesso da Pirandello sui suoi personaggi, cerca
di costruirsi un suo particolare universo scenico: diceva ancora :
“ Io vivo solo di teatro e per il teatro. Il resto non mi
interessa se non quando può darmi un mezzo in più per esprimere un lato della
verità che chiarifichi e depuri la mia sensibilità di donna; anzi cerco in
tutti i modi di esserlo nel più infinito,ampio e molteplice dei modi, una donna
completa nel teatro anche se poi avverrà che nella vita monca ed imperfetta,
sarà la mia sensitiva anima femminile ad avere l’ultima parola!
Se non posso essere per legge di natura, tutte le donne,
voglio almeno rappresentare tutte le donne perché solo così potrò essere una
vera attrice e non una commediante!”
Pirandellismi psicoanalitici o istintiva e sincera
ricerca di se stessa?
Per Pirandello fu consequenziale concepire
per lei il delirio di un amore specialissimo, quasi un sodalizio intellettuale
e passionale che gli stravolse la vita con accentuate sfumature di vero e
proprio perdimento; fu in verità uno straniamento, una passione allucinata, un
amore incompleto e mai ricambiato.
Forse Pirandello incontrò Marta troppo tardi
e in circostanze morali e giuridiche tali da non permettere una realizzazione
alla luce del sole.
Nonostante tutto Pirandello si innamora
follemente di questa attrice giovane, fascinosa, intelligente, ambiziosa e
bellissima.
Le sue 560 disperate, noiosissime, ossessive
lettere a lei indirizzate sono i fantasmi del suo attorcigliato modo di
elucubrare su ogni cosa, sono i lamenti di un povero vecchio genio che non sa affrontare
la propria realtà.
Lui stesso rispondendo ad un’intervista
scriveva: «Voi desiderate da me una nota biografica e io mi trovo assai
imbarazzato a fornirvela per la semplice ragione che ho dimenticato di vivere,
l’ho dimenticato al punto da non saper dire niente della mia vita! Potrei forse
dirvi che non la vivo la vita io, io la vita la scrivo!»
Antitesi tra vita e forma, tra essere e
divenire, tra sostanza e apparenza: è la vera tematica pirandelliana che può
essere interpretata come rappresentazione del dissolvimento della persona, già
un anticipo di “Uno, nessuno e centomila” l’ultimo dei suoi romanzi, tra il
vivere e il vedersi vivere nell’emblematica e struggente ricerca di sé.
Anche con Marta fu un amore più scritto che
vissuto e proprio questo costituì la sua vera anomalia.
«Se tu mi togli il bene della mia Marta, mia,
mia, io muoio! Perché il bene della mia Marta è tutta la mia vita per te,
perché tutta la mia vita sei tu!»
Prigioniera, imperatrice e despota nella
mente di Pirandello Marta Abba, la fascinosa attrice detta “la Garbo del
teatro”, permise a Pirandello di scrivere per lei e secondo lei, ma non divenne
mai la sua amante.
Nessun
dottrinario del sesso saprebbe dimostrare che se Marta lo avesse amato davvero,
Pirandello non avrebbe scritto “I Giganti della montagna” e tante altre
preziose opere che le dedicò incondizionatamente e che poi le lasciò in
eredità. Marta divenne l’arcigna e avidissima custode di tutto quel ben
dell’intelletto, opponendosi ad ogni rappresentazione teatrale che non fosse
ben pagata, frequentando i tribunali fino alla sua morte avvenuta il 24 giugno
1988 alla vigilia del suo 88esimo compleanno, 52 anni dopo la morte del Maestro.
Donna pratica e concreta, figlia di un
commerciante lombardo, Marta non fu mai la diva moderna e carnale tendente al
femminismo esasperato e dimostrativo, anzi più il Maestro si accartocciava
spasmodicamente in quel suo petrarchismo, più egli subiva ed esibiva i
turbamenti del suo cuore frustrato, più si arrovellava sull’insubordinazione
del lancinante desiderio di lei, e meno Marta gli dava retta.
Più la passione di lui diventava delirante e
teatrale più lei diventava indifferente e lontana come se avesse capito che
dietro tutte quelle dimostrazioni esasperate ed esasperanti Pirandello non sapeva
amare nessuno e cercava quasi in maniera maniacale un rapporto tutto di testa
con se stesso e mai con una donna vera.
Nel loro lungo epistolario, infatti, Marta
non risponde mai alle deliranti invocazioni di lui né ai suoi insistiti
languori; Marta si sottrae con superiore indifferenza alla cronaca ribadita
della sua disperazione, al canto tragico e masochistico della sua magniloquenza.
Marta
dandogli sempre gentilmente del Lei e chiamandolo sempre Maestro gli risponde elencando
mille questioni pratiche, soldi, attori, teatri, compagnie, date, raffreddori e
viaggi, permettendosi perfino di commentare i suoi lavori teatrali. E’ come se
volesse spingerlo a rinunciare al suo esasperante e contorto desiderio,
dimostrandogli una vera indifferenza amorosa.
Marta non lusinga, non eccita, non gioca al
gatto e al topo, ignora semplicemente l’erotismo, la gelosia, la passione di
quell’innamorato celeberrimo, infelice e premuroso. Ma intravedendone i tesori
pratici ed economici, diventa la padrona assoluta del teatro e della vita di
lui.
Per 10 anni Marta Abba domina totalmente
Pirandello col suo rispettoso e razionale “non amore”, col suo charme
attoriale, con quella sua crudele “lontananza” anche se erano spesso insieme
nei viaggi, nelle tournee e negli alberghi.
Vennero anche a Pesaro insieme nell’ottobre
del 1926 per inaugurare il bellissimo “Cinema Teatro Duse” di via Petrucci con
la rappresentazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. Fu un vero evento
per la città.
La celebrità dello scrittore e la bellezza
dell’attrice costituivano già un accoppiamento pruriginoso e interessante. Lei
elegantissima con cappottino corto e attillato e una “cloche” di panno che le
nascondeva tutti i capelli; lui con completo grigio e borsalino a larghe falde;
girarono per la città per una intera settimana ospiti di autorità e
aristocratici e mia zia Isora, che si doveva sposare l’anno dopo, ordinò alla
Bolognese un completo da viaggio proprio come quello di Marta Abba.
Eppure una piccola frase di una lettera
scritta da Pirandello a Marta nell’agosto del 1926, fa balenare una verità che
costituisce la possibilità misteriosa di un rifiuto del corpo in nome di
“avance” respinte proprio in una camera d’albergo di Como.
La frase è questa:
«Non domando più altro tempo oltre a quello
che mi bisogna per finire i lavori che ancora mi restano da scrivere: senza
questo dove sarei a quest’ora fin da un’atroce notte passata a Como?».
Su questo unico accenno alla “atroce notte”
sono stati scritti chilometri di sapienti e incuriositi gossip, fino all’idea
che allora sarebbe stata lei a provarci e lui a respingerla, lui puritano al
punto di negare il saluto alle donne adultere, lui puritano al punto di essere
a disagio in una pubblica spiaggia con gente in costume, lui tanto puritano da
voler essere fedele alla moglie che lo accusava ingiustamente di infedeltà.
È veramente un magmatico intrigo
pirandelliano!
Pirandello fedele ad una moglie che lo vede
così infedele da impazzirne!
Molti letterati del tempo hanno cavillato su
questo strano e ambiguo comportamento compreso il misogino Leonardo Sciascia e
il romano Ettore Petrolini che recitava un calembour
comico contorto e dissacratore dell’uomo e dell’artista.
Di quel rifiuto comasco forse Pirandello se
ne dorrà per tutta la vita anche perché della Abba non si conosce nessuna
storia sentimentale negli anni in cui fu vicina a Pirandello.
Nell’opera che il drammaturgo intitolerà
“Quando si è qualcuno” del 1932 Pirandello presenta un anziano poeta al quale
la giovane protagonista Veroccia rinfaccia il tempo in cui lei gli si era offerta
tutta e lui non l’aveva voluta:
«e tu non mi hai voluta, vile, non hai avuto
il coraggio di prenderti la mia vita, quella che io volevo dare a te che soffrivi
di non averne nessuna».
Il dramma teatrale riflette la situazione che
forse avvenne effettivamente, certo complicata dalla psiche contorta di lui e
dalla voglia di lei di far carriera attraverso lui.
Fu
quindi proprio Pirandello a non aver voluto e potuto realizzare quel grande
amore destinato ad ardere senza più spegnersi: un amore insoddisfatto,
irraggiungibile, quasi una condanna.
Luigi Pirandello riconosce nella elaborazione
scenica la sua lancinante colpa, la sua tragica sorte; non sappiamo se Marta
abbia capito fino in fondo quel suo patologico ritegno, quel pudore sdegnoso
d’esser vecchio, quella sua strana vergogna, considerata quasi un’oscenità, di
doversi proporre con quell’aspetto di vecchio ma con il cuore ancora giovane e
caldo!
Pirandello si sentiva impossibilitato ad
esprimere, come lui stesso desiderava, un così grande amore destinato ad ardere
in un limbo penoso e oscuro che non era degno di lei!
Intanto Marta, forse per difendersi o forse
per proporsi come attrice, cerca la realtà della sua esistenza in quella dei
personaggi che Pirandello le dedica: sulla porta del suo camerino non c’è mai
il nome di Marta Abba, ma quello del personaggio che lei interpreta di volta in
volta.
Non esistendo, a quei tempi, la possibilità
di una qualsiasi convenienza sociale che renda attuabile una soluzione
matrimoniale, il loro fu un amore impossibile che Marta accetta con assoluta
disinvoltura, cercando di rendere il suo rapporto con Pirandello esclusivamente
professionale; il siciliano invece si strugge in una follia d’amore che ha
sempre e solo lei come destinataria, lei come musa, lei come attrice, lei come
tutto.
Nel gran palcoscenico della vita Marta Abba e
Luigi Pirandello sono i protagonista assoluti di un dramma vero che nessuno ha
scritto per loro.
Lei solida lombarda, rossa di capelli
ricciuti pettinati alla greca, con bellissime labbra spesso scontrose ma che
non appena rideva esprimevano una grazia luminosa che ravvivava ogni cosa; lui,
l’anziano genio siciliano, curvo, minuto e nervoso, scontroso e infelice aveva
capelli d’argento e un pizzetto luciferino che valorizzava uno sguardo attento
e penetrante; nel gioco fatale degli incontri, nei riflessi misteriosi delle
loro stelle, negli scontri feroci dei loro destini, essi sono chiamati ad
impersonare uno strano e contraddittorio amore non soddisfatto, anche loro
“segnati”, come tanti, dal passaggio dell’angelo nero della infelicità.
«Marta mia, mia, mia, sono una mosca senza
capo; scrivo di te e per te ma non andrei avanti di una sola parola se la tua
divina immagine ispiratrice mi abbandonasse per un solo istante. Aiutami,
aiutami per carità, Marta mia, non mi lasciare, non m’abbandonare; ho tanto
bisogno di te, di sentirti uguale e vicina: scrivimi, fatti viva, ho tutta la
mia vita in te. La mia arte sei tu, senza il tuo respiro, muore!».
Lei risponde solo a volte e mai sui
sentimenti:
«Ho un gran raffreddore: la recita è andata
benissimo ma il finale del primo atto necessita di qualche lieve modifica: il
terzo atto mi pare giusto!».
Libera nella sua prorompente bellezza e nella
sua crudele indifferenza, Marta si permette perfino di giudicare i testi e i
personaggi del suo genio: lui nel suo innamoramento totalizzante accetta tutto
come espiazione di una colpa non voluta commettere.
Quando nel 1934 lui torna da Stoccolma con il
Nobel, lei non c’è alla stazione ad accoglierlo fra i tanti amici e parenti,
lui la cerca a lungo, ma inutilmente.
Marta
non c’è neppure quando lui torna dal Sud America carico di gloria; lei è alle
Terme di Salsomaggiore e lui non vedendola si sente così male che i figli
devono intervenire per soccorrerlo.
Ma
quando Marta nel 1936 parte per l’America, Luigi, sempre più infelice della
propria infelicità, è sulla banchina a salutarla per l’ultima volta: sa che
Marta non tornerà e sente anche che non la rivedrà mai più.
Dopo tre mesi Pirandello muore e Marta Abba
in America sposa un ricco petroliere dal quale divorzierà dopo 14 anni di matrimonio
vissuti quasi tutti a Cleveland.
Su “You-tube” ho trovato un’intervista fatta
a Marta Abba nel 1979.
L’attrice ha 78 anni ed è ancora bellissima e
fascinosa, appena sfiorata da quell’ombra un po’ “fané” che il tempo, quando è
generoso, stende sui gesti e sui modi dei più fortunati. Mantiene tutte le
seduzioni che l’avvinghiarono a Pirandello; il suo fascino e il suo glamour
hanno qualcosa si prodigioso per la sua età.
Quando 10 anni dopo quella intervista, si
sentirà ancora una volta a parlare di Marta Abba, l’attrice sarà
irrimediabilmente vecchia e provata, ma avrà ancora la forza e l’ardimento di
organizzare una lettura pubblica di alcune missive inedite di Pirandello.
Marta, ancora una volta adopera le parole “del
suo celeberrimo genio” dimostrando così che, nonostante la sua bellezza e la
sua intelligenza la vera Marta Abba era esistita solo come proiezione
esasperata dell’amore malato di Luigi Pirandello.
Tutto sarebbe andato diversamente se il copione
fosse stato scritto da una mano più leggera e spregiudicata.
Se
Marta fosse stata una platinata attricetta hollywoodiana tutta curve che voleva
fare solo carriera avrebbe, come in una pubblicità del “Campari” tanto di moda
negli anni ’30, preso il suo complessato e nervoso vecchietto e “in quella
atroce notte di Como” gli avrebbe tolto cravatta, camicia e gilet facendogli
vedere tutte le stelle del paradiso!
E tutto sarebbe finito lì.
Ma la vita degli uomini veri è molto più
complicata!
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