Marta Abba e Luigi Pirandello: l’ambiguo gioco delle parti.

di Ivana BALDASSARRI


Quando si incontrarono per la prima volta, era il 1925, Marta non aveva ancora 25 anni e Pirandello doveva compierne 58.
Il Maestro l’aveva scritturata senza conoscerla, perché la giovane attrice, che si era distinta fra gli allievi dell’Accademia dei Filodrammatici, era stata lodata da Marco Praga, il più esigente dei critici di allora.
«Io arrivai a Roma accompagnata da mia madre. Era il primo viaggio verso la compagnia con la quale avrei poi dovuto fare la tournee. Sul palcoscenico semibuio intravidi alcune persone; una, era un signore coi capelli d’argento e il pizzetto bianco, piuttosto curvo. Entrai in palcoscenico e qualcuno disse ad alta voce: “È Marta Abba”.
«Pirandello allora scattò dalla poltrona e mi venne incontro con quella sua stupenda vitalità: non pareva vecchio!
«Mi strinse ripetutamente la mano e mi disse: “Benvenuta signorina, siamo contenti che sia arrivata!”».
Così descrive Marta Abba il suo primo incontro con Luigi Pirandello; fra loro c’era stata solo una lettera formale di poche righe che sarà la prima di 560 lettere che Pirandello le scrisse fino il 1936, anno della sua morte.
Marta gli rispose solo 238 volte.
L’epistolario di Pirandello e Marta Abba è un corposo carteggio che l’Abba donò all’Università di Princeton nel New Jersey che verrà pubblicato integralmente solo nel 1994 da Mursia col titolo di “Caro Maestro, lettere a Luigi Pirandello 1926-1936”: mentre “Le lettere di Luigi Pirandello a Marta Abba” fu pubblicato del 1995 da Mondadori e contiene solo le lettere scritte dal drammaturgo all’attrice.
La pubblicazione dei due epistolari avvenne così tardi perché per decenni l’attrice aveva meditato sull’opportunità di mettere a disposizione degli studiosi quei documenti e continuava a rimandare ogni decisione, combattuta fra il desiderio di rivelare al mondo un Pirandello intimo e ancora sconosciuto e il pudore d’infrangere il velo del riserbo sul loro rapporto.
Nel 1985 all’età di 85 anni finalmente l’attrice si mise in contatto con l’Università di Princeton che fu ben disposta ad accettare la donazione garantendone la conservazione e la pubblicazione da parte della stessa Università.
Non si pensi che l’epistolario di Pirandello sia il classico epistolario tenero e amoroso come quello di Kafka o di Majakovskij: le sue lettere non sono che poveri sfoghi di un grandissimo letterato, di un autentico gentiluomo siciliano, di un uomo correttissimo e all’antica che aveva un profondo pudore a esternare i sentimenti che pur gli esplodevano dentro: Pirandello aveva la consapevolezza esasperata della propria età e dei limiti che una personalità come la sua gli ponevano; era anche conscio che la fama internazionale di cui godeva, attirava su di lui l’attenzione del mondo; non possedeva armi di spregiudicatezza o di arroganza o di scetticismo che lo aiutassero a dominare situazioni anomale, era inoltre ossessionato dall’incombere della vecchiaia. Scriveva: «Muoio perché non so più che farmene della vita» oppure «In questa feroce solitudine non ha più senso vivere» oppure «non trovo più requie e sento che mi manca il respiro!».
Sono i fantasmi sessuali che per la prima volta rivendicano e senza infingimenti, il loro diritto a manifestarsi e quando lo scrittore immagina Marta a letto o quando la rimprovera solo perché si toglie una scarpa in pubblico, o quando la vede ridere gettando all’indietro il capo, confessa che vorrebbe essere un musicista per esprimere il tumulto del suo cuore, rivelando il suo desiderio deviato, la sua passione stravolta e l’incapacità di dominare una situazione di quel genere.
Marta Abba da quel primo incontro in palcoscenico del 7 febbraio 1925, diventa subito per Pirandello l’amore ossessione, l’amore ispiratore di ogni suo dramma teatrale, anche se non diventerà mai la sua amante.
L’attrice, nell’animo delirante di Pirandello, assume il ruolo di “Santa guida”, di “consigliera infallibile”, “di assoluta e unica ispiratrice”, diventa cioè colei che con la sola sua presenza sia fisica che spirituale, o solo attraverso una lettera o un telegramma lo può salvare dalla depressione ridonandogli la vita.
Uno sguardo o una sola parola di lei diventa un alito di vita indispensabile, e quando questo alito di vita non gli arriverà più perché Marta rimarrà in America, troppo lontana per un qualsiasi rapporto diretto, Pirandello non avrà più la forza di lottare contro la depressione e l’angoscioso senso di solitudine che lo attanaglia già da molti anni.
Quando Luigi Pirandello conosce la bella attrice milanese, la sua esistenza era già passata attraverso vicende difficili e dolorose assieme all’alternarsi di grandissime soddisfazioni nella carriera di romanziere e di autore teatrale: aveva vissuto già tutto il bello e il brutto che una vita intensa e ricca, riserva.
Da giovane aveva sposato Maria Antonietta Portolano, agrigentina come lui; era stato un matrimonio un po’ combinato e un po’ d’amore: Maria Antonietta era, rispetto a lui, una donna semplice cresciuta in Sicilia in un ambiente chiuso e sessuofobico di orizzonti assai limitati.
 Quando si trasferiranno a Roma, Antonietta non riesce ad integrarsi, si chiude sempre più in se stessa rifiutando anche quei normali rapporti sociali indispensabili alla vita di lui: avranno tre figli e Antonietta amerà profondamente e visceralmente Luigi tanto che fu proprio l’esclusività quasi irragionevole di questo amore a perderla per sempre: sentiva ogni momento di più che quel marito così appassionatamente amato non le apparteneva: cominciò ad essere ossessivamente gelosa fino ad accusarlo di incesto con la loro figlia Lietta. Nel 1919 Antonietta verrà ricoverata in una casa di cura romana per malattie mentali.
Quando Pirandello incontra e si innamora di Marta Abba è un uomo profondamente segnato da queste terribili esperienze e anche dalla celebrità che ha fatto di lui una figura di grande spicco nel mondo delle lettere e del teatro.
L’apparizione di questa splendida attrice venticinquenne dai capelli rossi fiamma, gli rimescola tutte le carte facendogli intravedere la possibilità di un rapporto-dialogo pieno e profondo, che gli era assolutamente mancato con sua moglie: Marta è un’artista intelligente e curiosa e quindi capace di sostenerlo e di farsi sostenere.
La storia del teatro ricorderà Marta Abba come la più grande interprete dei personaggi pirandelliani : intraprese la carriera d’attrice con passione sincera rivelata dalle sue stesse parole scritte e dette.
  “Il poeta – diceva l’Abba – ha per materia le parole, lo scultore il marmo, il pittore i colori, il musicista suoni e strumenti; la materia dell’attrice è solo se stessa. Per realizzare un’immagine, un ritratto, un sentimento l’attrice opera solo su se stessa. E’ lo strumento della sua musica interiore: si scolpisce, si modella da se stessa.  Questo terribile e angoscioso lavoro è la sua gloria e la sua pena maggiore.
Sarà questo il mio modo di essere attrice, vivere nel teatro tutto ciò che la vita mi vieta, tutte le passioni che la realtà non mi concede, tutte le grandezze eroiche,le colpe fatali, le gioie sublimi, i sogni, le chimere, le speranze e le certezze che a me, donna, debbono forse per sempre essere negate!”
Anche Marta Abba, forse sulla scia dello strano e contraddittorio astrattismo riflesso da Pirandello sui suoi personaggi, cerca di costruirsi un suo particolare universo scenico: diceva ancora :
“ Io vivo solo di teatro e per il teatro. Il resto non mi interessa se non quando può darmi un mezzo in più per esprimere un lato della verità che chiarifichi e depuri la mia sensibilità di donna; anzi cerco in tutti i modi di esserlo nel più infinito,ampio e molteplice dei modi, una donna completa nel teatro anche se poi avverrà che nella vita monca ed imperfetta, sarà la mia sensitiva anima femminile ad avere l’ultima parola!
Se non posso essere per legge di natura, tutte le donne, voglio almeno rappresentare tutte le donne perché solo così potrò essere una vera attrice e non una commediante!”
Pirandellismi psicoanalitici o istintiva e sincera ricerca di se stessa?
Per Pirandello fu consequenziale concepire per lei il delirio di un amore specialissimo, quasi un sodalizio intellettuale e passionale che gli stravolse la vita con accentuate sfumature di vero e proprio perdimento; fu in verità uno straniamento, una passione allucinata, un amore incompleto e mai ricambiato.
Forse Pirandello incontrò Marta troppo tardi e in circostanze morali e giuridiche tali da non permettere una realizzazione alla luce del sole.
Nonostante tutto Pirandello si innamora follemente di questa attrice giovane, fascinosa, intelligente, ambiziosa e bellissima.
Le sue 560 disperate, noiosissime, ossessive lettere a lei indirizzate sono i fantasmi del suo attorcigliato modo di elucubrare su ogni cosa, sono i lamenti di un povero vecchio genio che non sa affrontare la propria realtà.
Lui stesso rispondendo ad un’intervista scriveva: «Voi desiderate da me una nota biografica e io mi trovo assai imbarazzato a fornirvela per la semplice ragione che ho dimenticato di vivere, l’ho dimenticato al punto da non saper dire niente della mia vita! Potrei forse dirvi che non la vivo la vita io, io la vita la scrivo!»
Antitesi tra vita e forma, tra essere e divenire, tra sostanza e apparenza: è la vera tematica pirandelliana che può essere interpretata come rappresentazione del dissolvimento della persona, già un anticipo di “Uno, nessuno e centomila” l’ultimo dei suoi romanzi, tra il vivere e il vedersi vivere nell’emblematica e struggente ricerca di sé.
Anche con Marta fu un amore più scritto che vissuto e proprio questo costituì la sua vera anomalia.
«Se tu mi togli il bene della mia Marta, mia, mia, io muoio! Perché il bene della mia Marta è tutta la mia vita per te, perché tutta la mia vita sei tu!»
Prigioniera, imperatrice e despota nella mente di Pirandello Marta Abba, la fascinosa attrice detta “la Garbo del teatro”, permise a Pirandello di scrivere per lei e secondo lei, ma non divenne mai la sua amante.
 Nessun dottrinario del sesso saprebbe dimostrare che se Marta lo avesse amato davvero, Pirandello non avrebbe scritto “I Giganti della montagna” e tante altre preziose opere che le dedicò incondizionatamente e che poi le lasciò in eredità. Marta divenne l’arcigna e avidissima custode di tutto quel ben dell’intelletto, opponendosi ad ogni rappresentazione teatrale che non fosse ben pagata, frequentando i tribunali fino alla sua morte avvenuta il 24 giugno 1988 alla vigilia del suo 88esimo compleanno, 52 anni dopo la morte del Maestro.
Donna pratica e concreta, figlia di un commerciante lombardo, Marta non fu mai la diva moderna e carnale tendente al femminismo esasperato e dimostrativo, anzi più il Maestro si accartocciava spasmodicamente in quel suo petrarchismo, più egli subiva ed esibiva i turbamenti del suo cuore frustrato, più si arrovellava sull’insubordinazione del lancinante desiderio di lei, e meno Marta gli dava retta.
Più la passione di lui diventava delirante e teatrale più lei diventava indifferente e lontana come se avesse capito che dietro tutte quelle dimostrazioni esasperate ed esasperanti Pirandello non sapeva amare nessuno e cercava quasi in maniera maniacale un rapporto tutto di testa con se stesso e mai con una donna vera.
Nel loro lungo epistolario, infatti, Marta non risponde mai alle deliranti invocazioni di lui né ai suoi insistiti languori; Marta si sottrae con superiore indifferenza alla cronaca ribadita della sua disperazione, al canto tragico e masochistico della sua magniloquenza.
 Marta dandogli sempre gentilmente del Lei e chiamandolo sempre Maestro gli risponde elencando mille questioni pratiche, soldi, attori, teatri, compagnie, date, raffreddori e viaggi, permettendosi perfino di commentare i suoi lavori teatrali. E’ come se volesse spingerlo a rinunciare al suo esasperante e contorto desiderio, dimostrandogli una vera indifferenza amorosa.
Marta non lusinga, non eccita, non gioca al gatto e al topo, ignora semplicemente l’erotismo, la gelosia, la passione di quell’innamorato celeberrimo, infelice e premuroso. Ma intravedendone i tesori pratici ed economici, diventa la padrona assoluta del teatro e della vita di lui.
Per 10 anni Marta Abba domina totalmente Pirandello col suo rispettoso e razionale “non amore”, col suo charme attoriale, con quella sua crudele “lontananza” anche se erano spesso insieme nei viaggi, nelle tournee e negli alberghi.  
Vennero anche a Pesaro insieme nell’ottobre del 1926 per inaugurare il bellissimo “Cinema Teatro Duse” di via Petrucci con la rappresentazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. Fu un vero evento per la città.
La celebrità dello scrittore e la bellezza dell’attrice costituivano già un accoppiamento pruriginoso e interessante. Lei elegantissima con cappottino corto e attillato e una “cloche” di panno che le nascondeva tutti i capelli; lui con completo grigio e borsalino a larghe falde; girarono per la città per una intera settimana ospiti di autorità e aristocratici e mia zia Isora, che si doveva sposare l’anno dopo, ordinò alla Bolognese un completo da viaggio proprio come quello di Marta Abba.
Eppure una piccola frase di una lettera scritta da Pirandello a Marta nell’agosto del 1926, fa balenare una verità che costituisce la possibilità misteriosa di un rifiuto del corpo in nome di “avance” respinte proprio in una camera d’albergo di Como.
La frase è questa:
«Non domando più altro tempo oltre a quello che mi bisogna per finire i lavori che ancora mi restano da scrivere: senza questo dove sarei a quest’ora fin da un’atroce notte passata a Como?».
Su questo unico accenno alla “atroce notte” sono stati scritti chilometri di sapienti e incuriositi gossip, fino all’idea che allora sarebbe stata lei a provarci e lui a respingerla, lui puritano al punto di negare il saluto alle donne adultere, lui puritano al punto di essere a disagio in una pubblica spiaggia con gente in costume, lui tanto puritano da voler essere fedele alla moglie che lo accusava ingiustamente di infedeltà.
È veramente un magmatico intrigo pirandelliano!
Pirandello fedele ad una moglie che lo vede così infedele da impazzirne!
Molti letterati del tempo hanno cavillato su questo strano e ambiguo comportamento compreso il misogino Leonardo Sciascia e il romano Ettore Petrolini che recitava un calembour comico contorto e dissacratore dell’uomo e dell’artista.
Di quel rifiuto comasco forse Pirandello se ne dorrà per tutta la vita anche perché della Abba non si conosce nessuna storia sentimentale negli anni in cui fu vicina a Pirandello.
Nell’opera che il drammaturgo intitolerà “Quando si è qualcuno” del 1932 Pirandello presenta un anziano poeta al quale la giovane protagonista Veroccia rinfaccia il tempo in cui lei gli si era offerta tutta e lui non l’aveva voluta:
«e tu non mi hai voluta, vile, non hai avuto il coraggio di prenderti la mia vita, quella che io volevo dare a te che soffrivi di non averne nessuna».
Il dramma teatrale riflette la situazione che forse avvenne effettivamente, certo complicata dalla psiche contorta di lui e dalla voglia di lei di far carriera attraverso lui.
 Fu quindi proprio Pirandello a non aver voluto e potuto realizzare quel grande amore destinato ad ardere senza più spegnersi: un amore insoddisfatto, irraggiungibile, quasi una condanna.
Luigi Pirandello riconosce nella elaborazione scenica la sua lancinante colpa, la sua tragica sorte; non sappiamo se Marta abbia capito fino in fondo quel suo patologico ritegno, quel pudore sdegnoso d’esser vecchio, quella sua strana vergogna, considerata quasi un’oscenità, di doversi proporre con quell’aspetto di vecchio ma con il cuore ancora giovane e caldo!
Pirandello si sentiva impossibilitato ad esprimere, come lui stesso desiderava, un così grande amore destinato ad ardere in un limbo penoso e oscuro che non era degno di lei!
Intanto Marta, forse per difendersi o forse per proporsi come attrice, cerca la realtà della sua esistenza in quella dei personaggi che Pirandello le dedica: sulla porta del suo camerino non c’è mai il nome di Marta Abba, ma quello del personaggio che lei interpreta di volta in volta.
Non esistendo, a quei tempi, la possibilità di una qualsiasi convenienza sociale che renda attuabile una soluzione matrimoniale, il loro fu un amore impossibile che Marta accetta con assoluta disinvoltura, cercando di rendere il suo rapporto con Pirandello esclusivamente professionale; il siciliano invece si strugge in una follia d’amore che ha sempre e solo lei come destinataria, lei come musa, lei come attrice, lei come tutto.
Nel gran palcoscenico della vita Marta Abba e Luigi Pirandello sono i protagonista assoluti di un dramma vero che nessuno ha scritto per loro.
Lei solida lombarda, rossa di capelli ricciuti pettinati alla greca, con bellissime labbra spesso scontrose ma che non appena rideva esprimevano una grazia luminosa che ravvivava ogni cosa; lui, l’anziano genio siciliano, curvo, minuto e nervoso, scontroso e infelice aveva capelli d’argento e un pizzetto luciferino che valorizzava uno sguardo attento e penetrante; nel gioco fatale degli incontri, nei riflessi misteriosi delle loro stelle, negli scontri feroci dei loro destini, essi sono chiamati ad impersonare uno strano e contraddittorio amore non soddisfatto, anche loro “segnati”, come tanti, dal passaggio dell’angelo nero della infelicità.
«Marta mia, mia, mia, sono una mosca senza capo; scrivo di te e per te ma non andrei avanti di una sola parola se la tua divina immagine ispiratrice mi abbandonasse per un solo istante. Aiutami, aiutami per carità, Marta mia, non mi lasciare, non m’abbandonare; ho tanto bisogno di te, di sentirti uguale e vicina: scrivimi, fatti viva, ho tutta la mia vita in te. La mia arte sei tu, senza il tuo respiro, muore!».
Lei risponde solo a volte e mai sui sentimenti:
«Ho un gran raffreddore: la recita è andata benissimo ma il finale del primo atto necessita di qualche lieve modifica: il terzo atto mi pare giusto!».
Libera nella sua prorompente bellezza e nella sua crudele indifferenza, Marta si permette perfino di giudicare i testi e i personaggi del suo genio: lui nel suo innamoramento totalizzante accetta tutto come espiazione di una colpa non voluta commettere.
Quando nel 1934 lui torna da Stoccolma con il Nobel, lei non c’è alla stazione ad accoglierlo fra i tanti amici e parenti, lui la cerca a lungo, ma inutilmente.
 Marta non c’è neppure quando lui torna dal Sud America carico di gloria; lei è alle Terme di Salsomaggiore e lui non vedendola si sente così male che i figli devono intervenire per soccorrerlo.
 Ma quando Marta nel 1936 parte per l’America, Luigi, sempre più infelice della propria infelicità, è sulla banchina a salutarla per l’ultima volta: sa che Marta non tornerà e sente anche che non la rivedrà mai più.
Dopo tre mesi Pirandello muore e Marta Abba in America sposa un ricco petroliere dal quale divorzierà dopo 14 anni di matrimonio vissuti quasi tutti a Cleveland.

Su “You-tube” ho trovato un’intervista fatta a Marta Abba nel 1979.
L’attrice ha 78 anni ed è ancora bellissima e fascinosa, appena sfiorata da quell’ombra un po’ “fané” che il tempo, quando è generoso, stende sui gesti e sui modi dei più fortunati. Mantiene tutte le seduzioni che l’avvinghiarono a Pirandello; il suo fascino e il suo glamour hanno qualcosa si prodigioso per la sua età.
Quando 10 anni dopo quella intervista, si sentirà ancora una volta a parlare di Marta Abba, l’attrice sarà irrimediabilmente vecchia e provata, ma avrà ancora la forza e l’ardimento di organizzare una lettura pubblica di alcune missive inedite di Pirandello.
Marta, ancora una volta adopera le parole “del suo celeberrimo genio” dimostrando così che, nonostante la sua bellezza e la sua intelligenza la vera Marta Abba era esistita solo come proiezione esasperata dell’amore malato di Luigi Pirandello.
Tutto sarebbe andato diversamente se il copione fosse stato scritto da una mano più leggera e spregiudicata.
 Se Marta fosse stata una platinata attricetta hollywoodiana tutta curve che voleva fare solo carriera avrebbe, come in una pubblicità del “Campari” tanto di moda negli anni ’30, preso il suo complessato e nervoso vecchietto e “in quella atroce notte di Como” gli avrebbe tolto cravatta, camicia e gilet facendogli vedere tutte le stelle del paradiso!
E tutto sarebbe finito lì.

Ma la vita degli uomini veri è molto più complicata!

Influssi ed echi letterari nella musica romantica.


Lontana da me l’intenzione di volermi spacciare per cattedratico, incomincerò, tuttavia, l’odierna conversazione sul tema “Influssi ed echi letterari nella musica romantica”, col richiamare alla vostra attenzione alcuni concetti che è bene tenere presenti quando si parla di quel complesso movimento spirituale e culturale, causa di profondi mutamenti nelle lettere, nelle arti, nel pensiero, nella politica e nel costume europeo dell’epoca a cavallo fra Settecento e Ottocento, che va sotto il nome di Romanticismo.
Sorto sul finire del Settecento in Inghilterra e, con più matura consapevolezza, in Germania, dove si legò alla filosofia dell’Idealismo, il Romanticismo si estese progressivamente in tutta Europa.
Il nome del movimento deriva dall’aggettivo romantic, che appare per la prima volta in Inghilterra sul finire del Seicento, e in connessione con la parola romance, che originariamente equivaleva a francese antico e, in seguito, a narrazione poetica in versi, assumerà via via il significato di «cosa fantastica, irreale, simile a quelle che avvengono nei romanzi» e, quindi, servì a definire sia una disposizione d’animo fantasioso e sentimentale, sia i paesaggi solitari e pittoreschi che la stimolavano.
Il Romanticismo fu preparato da quel mutamento progressivo della sensibilità e del gusto, verificatosi nell’ambito stesso dell’Illuminismo e del Sensismo, che prese il nome di Preromanticismo.
A questa corrente appartengono, con minore o maggiore evidenza, il francese Jean-Jacques Rousseau, il movimento germanico dello Sturm und Drang (tempesta e impeto - espressione di un individualismo esasperato e fremente), lo scozzese James Macpherson e il nostro Vittorio Alfieri.
 Contemporaneo e lettore di due fra i piú importanti rappresentanti dello Sturm und Drang, Friedrich Schiller e Wolfgang Goethe, fu Ludwig van Beethoven[1], un musicista che incarna la nuova figura del compositore moderno 

Con lui l'espressione dell'interiorità dell'artista e delle sue dolorose vicende esistenziali viene in primo piano.
Inoltre, con il suo lavoro, la nuova coscienza storica e morale che aderisce ai grandi ideali di libertà e giustizia emersi dalla Rivoluzione francese, investe la creazione musicale.
L’inno alla gioia di Schiller nella Nona sinfonia in re minore op. 125, la Terza sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55 Eroica, l’opera Fidelio, l’ouverture Coriolano e le musiche di scena per il dramma storico Egmont di Goethe, sono alcuni esempi di questa sua coscienza storica e morale.
 Oggi vi parlerò di Egmont che Beethoven fu indotto a comporre, oltre che dalla sua sconfinata ammirazione per Goethe, dal soggetto del dramma che esalta l’eroismo per la libertà e il sacrificio per l’amor di patria e (siamo all’epoca della riforma protestante) per la libertà di religione.
In particolare si narra la vicenda della decapitazione di Lamoraal Egmont principe di Gheldria, avvenuta a Bruxelles il 5 giugno 1568, per ordine del plenipotenziario dell’imperatore Filippo II, il duca di Alba, soprannominato dai protestanti olandesi Duca di Ferro, e addirittura macellaio delle Fiandre, a causa della brutalità esercitata durante le operazioni militari condotte dagli occupanti spagnoli contro i protestanti fiamminghi.
Le gesta di Egmont divennero parte del folclore olandese e inglese, andando ad alimentare, sul suo conto, una sorta di leggenda.
Leggenda che Beethoven doveva conoscere per averla appresa dal nonno paterno, dal quale aveva preso il nome, Ludwig discendente da una famiglia fiamminga di contadini ed umili lavoratori, originaria del Brabante.
La particella «van» non ha dunque origini nobiliari ed il cognome «Beethoven» deriva con ogni probabilità dalla regione olandese della Batavia (Betuwe) situata nella Provincia di Gheldria.
L’Egmont eseguito per la prima volta il 15 giugno 1810, è un tipico esempio del sistema dualista di Beethoven, cioè due temi fondamentali in contrasto: quello dell’amore per la vita, per la patria e per la famiglia e quello del senso eroico che porta a superare ogni egoismo e non fa temere la morte.
Si dovrebbe ascoltare ora, nella interpretazione dei Berliner Philharmoniker diretti dal maestro Claudio Abbado, l’Ouverture in fa minore da Egmont op. 84 a partire dal momento in cui, dopo i temi iniziali, erompe un nuovo tema improvviso, veloce, agitato e carico di tensione, che sembra richiamare la fatidica atmosfera del primo movimento della Quinta Sinfonia in do minore op. 77 la cosiddetta Sinfonia del destino.
Si stabilisce quindi una sorta di contrapposizione fra i suoni pastorali e quelli guerreschi del trionfo in battaglia, che costituiscono il rivoluzionario omaggio di Beethoven al trionfo del bene.


Ed ora passiamo a Franz Schubert [2]un compositore che Robert Schumann ha definito «un primogenito di Beethoven», ipotesi non impossibile se si considera che fra i due correvano ventisette anni di differenza: Beethoven è nato nel 1770 e Schubert nel 1797.
Ma gli storici della musica ci assicurano che il rapporto fra i due è stato unilaterale, nel senso che Schubert ebbe notizie di Beethoven e non viceversa.
All’incirca dall’anno 1816 e fino al 1827, l’anno in cui muore Beethoven, e al 1828 in cui scompare Schubert, i due maestri sono anche due contemporanei, entrambi attivi, per di piú a pochi metri di distanza nella stessa città di Vienna.   
Dai classici, Mozart e Beethoven, Schubert prese la volontà costruttiva tesa a elaborare nei minimi particolari l'idea creativa dell'opera.
Romantica è invece la sostanza originaria delle sue idee musicali che sembrano provenire quasi tutte dal mondo cangiante e sconfinato dei suoni della natura.
Si direbbe che i suoi pensieri scaturiscano dalla fonte primitiva del suono e della melodia, ma in realtà sono il frutto della sua inesauribile ricchezza di sentimento e di fantasia, di tono e colore, della sua sublime arte nel realizzare magiche modulazioni che ci rivelano profondità dell'anima mai prima esplorate.
Oltre la Sinfonia n. 8, in si minore, D. 759 - comunemente nota come Incompiuta - canto di dolore dalle profondità imperscrutabili, appartengono alla produzione di questo grande compositore altre otto sinfonie e una copiosa produzione di musica strumentale e sacra.
La gloria peculiare di Franz Schubert è tuttavia il Lied, cioè quel particolare genere poetico musicale di origine popolare che, a partire dalla fine del Settecento, ha stretto un vincolo indissolubile con la musica romantica tedesca.
I Lieder di Schubert sono infinitamente vari: lunghi, brevi, lirici e drammatici, semplici e complessi, strofici e durkcomponiert: parola praticamente intraducibile: letteralmente “comporre sopra", cioè con la melodia che segue la poesia dal principio alla fine, in un'unica continuità drammatica o lirica.
L'essenza del Lied di Schubert è la stessa della poesia lirica: rendere al massimo l'espressione del sentimento in un breve spazio di tempo.
Sui quasi settecento Lieder composti da Schubert, circa settanta sono su testo di Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832).
Non poteva, infatti, un compositore “classico romantico” come Schubert ignorare la presenza di Goethe, figura predominante di tutta la letteratura tedesca, addirittura un simbolo di una civiltà letteraria, a cavallo fra Settecento e Ottocento, che avrebbe finito col dare una parabola emblematica del Romanticismo - specie germanico, al quale Goethe volle tuttavia dichiararsi estraneo - con la sua opera maestra, il Faust, la cui stesura lo impegnò per circa 58 anni, dal 1773 al 1831.
E le liriche di Goethe, con la loro profondità, originalità e sensualità, furono predilette da Schubert, a cominciare da Gretchen am Spinnrade (Margherita all’arcolaio), composta il 19 ottobre 1814, quando il compositore aveva poco più di diciassette anni.
Qui il giovane Schubert dà l’esemplare rappresentazione musicale di un'azione che è nello stesso tempo lo specchio rivelatore di processi intimi dell'anima.
Margherita, la protagonista femminile del cosiddetto Urfaust (in pratica, la prima parte del Faust), è una donna sconvolta dal peccato e, a momenti, dal ricordo della felicità goduta cedendo alla corte di Faust.
Nel girare dell'arcolaio, cui gli impulsi ritmici della parte pianistica imprimono slancio nel suo moto perpetuo e ronzante, la reminiscenza del fatale incontro con Faust prende corpo, si sofferma, dopo il crescere dell'ansia, sul suo bacio (“sein Kuss”) e poi ricade nel desolato sospiro dell'inizio“Meine Ruh ist hin” (La mia pace è perduta).
Il diciassettenne Schubert coglie il tratto tremendo dell'abbraccio goethiano, la natura animale del maschio che carpisce la verginità e nell'atto stesso annienta la preda.
L'unione fra poesia e musica si compie nella descrizione di questo sacrificio che dovremmo ascoltare dalla voce del mezzosoprano Angelika Kircschlager accompagnata dal pianista Melvyn Tan:

Questa che abbiamo appena ascoltato è l'opera che ha dischiuso a Schubert la strada maestra della composizione liederistica.
Da qui in avanti egli dispiegò la sua miracolosa inventiva e, come scrisse il drammaturgo austriaco Franz Grillparzer: «Ordinò alla Poesia di cantare e alla musica di parlare».
Lasciamo ora la Germania e trasferiamoci in Scozia per fare la conoscenza di un autore di canti popolari scozzesi, il romanziere Sir Walter Scott[3] che, nel 1802, dava alle stampe le sue Poesie del confine scozzese, anche se sarebbe poi diventato, piú giustamente, famoso come iniziatore del genere del romanzo storico in cui, secondo il gusto romantico, rievoca il mondo antico in racconti avvincenti nella trama e pieni di elementi pittoreschi e patetici.
I romanzi di Walter Scott ebbero vasta diffusione in Italia (influenzarono anche il Manzoni); ma pochi, forse, sanno che essi devono gran parte della loro iniziale popolarità ad un'opera di Gioachino Rossini[4]


La donna del lago (rappresentata a Napoli nel 1819) il cui libretto deriva, appunto, dall'omonimo poema narrativo di Walter Scott, pubblicato nove anni prima e giunto occasionalmente a Napoli in una traduzione francese.
Fatto sta che Rossini si innamorò del soggetto al punto da far suo quel clima di leggenda nordica e di poesia ossianica[5], dove l'amore del re Giacomo V (sotto le vesti di Uberto), di Malcom e Rodrigo per Elena (la donna del lago), come puro incanto dell'anima, ravvivato da vibrazioni di passioni romantiche e da conflitti con il dovere di patria, si sposa al sentimento epico (la lotta dei ribelli scozzesi del clan di Douglas, il padre di Elena, contro il re Giacomo V) nel nuovo fascino di baluginanti atmosfere preromantiche che conquistarono l'ammirazione di Giacomo Leopardi, il quale nel 1823 scriveva da Roma:
«Abbiamo in Argentina (il teatro) La donna del lago, la qual musica è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se il dono delle lacrime non mi fosse stato sospeso».
Da La donna del lago che dovremmo ascoltare ora la gentile, affettuosa, cullante barcarola di Elena "Oh mattutini albori" in cui, come scrive Riccardo Bacchelli, sorge «coll'estasi della luce sull'acque e fra i monti, l'affanno delicato di un amore contrastato, che sogna e si lamenta nel suo segreto».
Canta il soprano June Anderson con l’orchestra della Scala diretta da Riccardo Muti.

Il linguaggio della felicità, che ad un primo ascolto sembra voler parlarci la musica di Rossini, non consente che la vicenda de La donna del lago finisca, come logica vorrebbe, in modo drammatico.
La soluzione del lieto fine, propiziata dal tradizionale intervento del “deus ex machina”, sembra cogliere di sorpresa, piú che lo smaliziato spettatore, la protagonista, Elena, che nel rondò conclusivo esprimerà la propria gioia in un'ebbrezza di canto che è stordimento dell'anima, al limite della follia.
Quella follia che aveva appena alitato nelle romantiche aure de La donna del lago di Rossini, soffia, sospinta da uno sconvolgente vento di passioni, nei castelli scozzesi di Ravenswood e Wolferag, dove si svolge la patetica vicenda di Lucia di Lammermoor, la protagonista dell'omonima opera di Gaetano Donizetti[6] su libretto di Salvatore Cammarano tratto anch'esso da un lavoro di Walter Scott (The Bride of Lammermoor), rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835.


In quest'opera Donizetti offre al teatro melodrammatico l'esemplare idealizzazione romantica del fatale tòpos "amore e morte".
Qui le passioni si agitano e infuriano in commossa, equilibrata eloquenza drammatica e il sentimento d'amore sa elevarsi, per virtú poetica, in una zona di castità luminosa e sgomenta.
Nella cavatina "Regnava nel silenzio", che ora andrebbe ascoltata , la protagonista (il soprano Johan Sutherland), in attesa di incontrare l'amato Edgardo, racconta alla confidente, Alisa, di aver visto nella fontana lì accanto, nel giardino di Ravenswood, l'ombra di una castellana uccisa tempo addietro in una oscura vicenda d'amore e di sangue.
L'ombra sembrava chiamarla a sé, ma poi, come recitano i versi del librettista Cammarano, «ratta si dileguò e l'onda pria si limpida di sangue rosseggiò».
Il triste presagio non distoglie tuttavia Lucia dal fatale amore per il nemico della propria famiglia, Edgardo.
La forza di quel sentimento la colloca al di sopra di ogni logica umana, in una sfera ignara di ostacoli, simboleggiata musicalmente nella cabaletta "quando rapito in estasi" che conclude la scena.

I contenuti, le occasioni letterarie che, attraverso la scoperta di strati finora inesplorati del sentimento, faceva sgorgare nei compositori romantici la naturale vena d'invenzione melodica il cui slancio lirico riassorbiva, in una superiore catarsi artistica, gli elementi piú scopertamente passionali della vicenda drammatica, rimangono invece al loro stato iniziale, cioè di dualismo fra contenuto e forma, nell'opera di Hector Berlioz[7]


Tale almeno è l'opinione della maggior parte dei musicologi moderni, che io personalmente accolgo perché offre una spiegazione logica del disagio, del senso d’insoddisfazione, del sottile malessere che si prova all'ascolto della musica del compositore francese, pur nell'ammirata commozione suscitata dallo smagliante timbro e dal sorprendente gioco dei volumi fonici che la caratterizzano.
Nella predetta impostazione critica il presunto Romanticismo di Berlioz sarebbe un luogo comune che, come scrive Fedele D'Amico, s’inserisce in «un'immagine del Romanticismo desunta da alcuni aspetti del romanticismo letterario, [cioè] l'amore per il macabro, per il grottesco, per il gesto magniloquente, per le pose byroniane e gli atteggiamenti esibizionistici».
In effetti, Berlioz fu soprattutto un maestro della strumentazione (eguagliato, ottant’anni dopo, da Richard Strauss) e del colore orchestrale, subordinando ogni altro mezzo musicale a questo effetto e lasciandosi interamente guidare ad esso dalla propria immaginazione, come nella Sinfonia fantastica op. 14, il cui programma (una specie di sinopia, scritta dallo stesso autore per la prima trionfale esecuzione del 5 dicembre 1830) narra la storia - chiaramente ispirata dai romanzi di François René de Chateaubriand[8] - di un giovane artista travolto dalla cosiddetta "vague des passions" (“onda delle passioni”), rivissuta in una serie di cinque visioni di un fumatore di oppio: ora appassionate, ora elegiache, ora grottesche.
Dalla Sinfonia fantastica op. 14, dovremmo ascoltare, dall’orchestra della RAI di Torino diretta da Sergio Celibidache, il frammento finale della quinta visione: “Sogno di una notte di Sabba”.


Di un altro sogno musicale, questa volta a sfondo fiabesco, è autore il compositore, direttore d'orchestra, pianista e organista tedesco, Felix Mendelssohn Bartholdy [9].
Nato da un'aristocratica famiglia di origine ebraica, Felix visse l'infanzia nell'ambiente intellettuale della metropoli berlinese.
Nei primi anni di vita Felix ricevette l'istruzione direttamente dai genitori: francese e aritmetica dal padre; tedesco, letteratura, belle arti e pianoforte dalla madre.
Ben presto rivelò la sua disposizione per la musica; all'età di nove anni prese parte al suo primo concerto, una esibizione di musica da camera, suonando in modo impeccabile il difficile Concerto militare di Jan Ladislav Dussek.
Si rivelò ben presto un compositore prolifico; all'età di tredici anni aveva già al suo attivo uno svariato numero di operette, musica da camera e pianistica e, a quattordici anni, le sue prime dodici sinfonie per archi.
Nel 1826, all’età di diciassette anni, compose l'Ouverture op. 21, ripresa nel 1843, su commissione del re di Prussia Federico Guglielmo IV, e completata nelle Musiche di scena op. 61 per il Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare.
L’ouverture termina con la celeberrima Marcia nuziale, diventata la colonna sonora preferita nei riti matrimoniali, che oggi vi farò vedere nella versione coreografica di George Balanchine, rappresentata per la prima volta dal New York City Ballet il 17 gennaio1962, qui ripresa dalla registrazione di un allestimento messo in scena (nel periodo maggio – giugno 2003) al Teatro Arcimboldi di Milano dai complessi scaligeri diretti da Nir Kabaretti.


Coetaneo di Felix Mendelssohn, il polacco Fryderyk Chopin[10].
Dalla natia Varsavia, approdò, nel 1830 a Parigi; la Parigi di Rossini, Berlioz, Paganini e Liszt, in cui si affermò come pianista e compositore.
Chopin è infatti l'unico compositore nella storia della musica la cui figura possa essere studiata per intero attraverso la sua produzione per pianoforte, tanto da giustificare chi afferma che la sua musica è la “voce del pianoforte”.
L'impressione fondamentale che si ricava dall'ascolto della sua musica è che Chopin usi la tastiera per creare nuove armonie, aggregazioni di suoni simili a macchie in cui le tradizionali regole della tonalità non siano però del tutto abolite, ma sospese.
Di qui l'innesco, nei confronti di questa musica, di un processo inverso a quello verificatosi per l'opera di altri compositori romantici: cioè la ricerca di ispirazioni letterarie che permettessero di spiegare - come afferma il maestro Piero Rattalino - in termini extra-musicali le sue strane combinazioni di suoni che uscivano dal contemporaneo concetto di musica.
E si costruirono cosí poemi di morte sulla Sonata in si bemolle minore op. 35 (quella della famosa “marcia funebre”), storie di streghe e coboldi (o gnomi) sullo Scherzo n. 3 in do diesis minore op. 39; fu tirata in ballo la caduta di Varsavia, assediata dai russi nel settembre 1831, per lo Studio n. 12 in do minore op. 10, oppure si invocò la tristezza d'amore per l'altro Studio n. 3 in mi maggiore (sempre dall’op.10)...
Si volle udire il suono di campane stonate in una landa polacca nel Notturno n. 2 in mi bemolle maggiore, o il rumore cadenzato di una goccia d'acqua sul tetto della Certosa di Valldemossa, nell'isola di Maiorca, nell'altro Notturno n. 15 in re bemolle maggiore...
E l'elenco potrebbe continuare a lungo; segno evidente della grande popolarità di questo compositore che per la maggior parte degli amatori è il rappresentante piú significativo del Romanticismo musicale, anche se in realtà, come tutti i grandi musicisti di ogni tempo, egli fu un classico per il sorvegliato e puntiglioso senso critico, il rigore della forma e della misura.
Dal Romanticismo egli prese lo slancio, la passione, l'ardore febbrile, la profonda introspezione, i legami con le tradizioni della sua gente.
Uno degli esempi piú evidenti dell'interesse di Chopin per l'arte popolare, i miti ancestrali, l'epopea nazionalistica del popolo polacco, lo troviamo nelle sue ballate.
Il termine ballata non era mai stato fino allora adoperato per una composizione strumentale, ma soltanto per composizioni per canto e pianoforte, e si vuole che Chopin l'abbia scelto in relazione a dei componimenti letterari del connazionale Adam Michiewicz che egli conosceva fin dalla sua giovinezza.
«Non vi è musica senza pensieri riposti», era solito dire Chopin, e questo ci fa capire come le ballate di Michiewicz, in riferimento alle sue, debbano intendersi nel senso di pensiero riposto, di clima emotivo che dà luogo all'atto creativo indipendente, senza alcuna precisa corrispondenza fra il racconto da una parte e, dall'altra, la musica.
Dovremmo ascoltare ora, dal pianista Arturo Benedetti Michelangeli, un frammento della piú popolare delle ballate di Chopin, quella in Sol minore n. 1 op. 23.


Un altro pianista-compositore, appartenente a quella che Piero Rattalino definisce «la legione straniera dei musicisti» che tra il 1820 e il 1830 calava su Parigi, è l'ungherese Franz Liszt[11].
Per la sua natura faustiana, sempre alla ricerca di novità, e per le sue conoscenze dovute a rapporti con vari ambienti culturali (ebbe contatti con Berlioz, Hugo, Lamartine, Heine, Delacroix) Liszt ha arricchito il linguaggio musicale del suo tempo e, per l'originalità dei suoi procedimenti, è da annoverarsi fra i maggiori innovatori dell’Ottocento in campo melodico e armonico.
Ha composto ogni genere di musica, ma soprattutto egli è stato compositore di musica per pianoforte.
Per cogliere nel suo complesso l'importanza della sua opera pianistica, bisogna ricordare che Liszt era dotato di un eccezionale virtuosismo.
In possesso di una tecnica prodigiosa, trascendente, al limite, e forse oltre, le possibilità esecutive degli strumenti dell'epoca, era capace di passare dalla dolcezza piú tenera alla forza piú magistrale, tale da far suonare il pianoforte come un'intera orchestra.
Questo suo virtuosismo condizionò in un certo senso lo stile delle sue composizioni con l'audacia dell'armonia e del ritmo, la rottura della metrica tradizionale attraverso la tecnica del rubato, il sentimentalismo carico di espressione.
Insomma una originalità di linguaggio e una libertà formale che danno l'impressione di improvvisazioni nate dal fuoco dell'ispirazione.
Da buon romantico Liszt ebbe l'ambizione di tradurre in musica successioni di stati d'animo o di dipingere con i suoni quadri di paesaggi e di fenomeni della natura e, perciò, sulla traccia della musica a programma, indicata da Berlioz con la sua Sinfonia fantastica, è stato il creatore del genere del poema sinfonico.
Ed è dal suo poema sinfonico Les Prèludes (d'après Lamartine), il cui titolo fa riferimento all'ode Nouvelles méditations poétiques del poeta romantico francese Alphonse de Lamartine[12]che ora dovremmo ascoltare, nella interpretazione dell’Orchestra Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Muti, l'episodio conclusivo, nei tempi: Allegro marziale, Andante maestoso.
È l'ultima, trionfale trasformazione a cui arriva la cellula tematica iniziale attraverso numerose variazioni e frammentazioni.
Vero poema di suoni in uno sviluppo di linee melodiche cangianti che si configura come una perifrasi della prefazione alla stampa della partitura che inizia con queste parole:
«Che altro è la nostra vita, se non una serie di preludi a quell'inno sconosciuto, la cui prima e solenne nota è intonata dalla morte?»:

Giunto al termine di questo mio disarticolato procedere fra temperie romantiche letterarie e musicali, mi accorgo di aver messo insieme una tale varietà di elementi intellettuali ed emotivi che sarebbe fatica inutile cercare di ricavarne una formula per una visione unitaria e schematica del Romanticismo.
Compito questo comunque impossibile, perché fu peculiare di quel movimento l'assorbire incessantemente materiale dalle piú diverse fonti e plasmare tutto in unità sempre nuove.
Ciononostante, credo che mi sia concesso sperare di essere riuscito, almeno per qualche istante, a destare sensazioni del genere di quelle felicemente riassunte dal protoromantico tedesco Wilhelm Heinrich Wackenroder, nella frase che mi accingo a leggervi:
«E cosí io chiudo gli occhi a tutte le lotte di questo mondo, e mi ritiro nel regno sereno della musica, come in un regno di fede, dove tutti i nostri dubbi e le nostre afflizioni si perdono in un mare echeggiante di note».



[1] Bonn 1770 – Vienna 1827            
[2] (Vienna 1797 - ivi 1828)
[3] Edimburgo 1771 - Abbotsdorf nel 1832.
[4] Pesaro 1792 – Parigi 1868
[5] Che si riferisce a Ossian, leggendario guerriero e bardo gaelico che si suppone vissuto in Scozia nel III secolo.
[6] Bergamo 1797 – ivi 1848.
[7] Isère 1803 - Parigi 1869. 
[8] Saint Malò 1768 – Parigi 1848.
[9] Amburgo 1809 – Lipsia 1847.

[10] Varsavia 1810 – Parigi 1849.
[11] Raiding 1811 - Bayreuth 1886.
[12] Mâcon 1790 – Parigi 1869.