14 aprile 2014 Iconografia della Crocifissione dalle Catacombe alla Cappella degli Scrovegni

di Gilberto Calcagnini

Quo vadis?  È il titolo di un romanzo storico scritto nel 1896 dal polacco Henryk Sienkiewicz - vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1905 – che ha per argomento la vicenda di un soldato romano Marco Vinicio che si innamora di Licia una ragazza cristiana al tempo dell’imperatore Nerone.

È una trama che si dipana sullo  sfondo di una serie di avvenimenti storici che sono culminati nel Grande incendio di Roma del 64 d.C. e alla successiva persecuzione dei cristiani presunti responsabili dell’incendio.

Sienkiewicz scelse di dare questo titolo al suo romanzo ispirandosi ad un episodio narrato nel libro apocrifo degli Atti di Pietro, secondo il quale, durante la persecuzione, san Pietro sta fuggendo da Roma per evitare il martirio, quando sulla via Appia gli appare Gesù che cammina nella direzione opposta, verso la città.

«Quo vadis, Domine? (Signore, dove vai?)» chiede l'Apostolo; «Eo Romam, iterum crucifigi (Vado a Roma, per essere crocifisso nuovamente)», gli risponde Gesù.

L'apostolo comprende allora che Gesù, con questo segno, gli chiede di ritornare a Roma e accettare il martirio, e obbedisce.

Secondo la tradizione, Pietro sarà crocifisso a testa in giù, su sua richiesta, non sentendosi degno di morire nello stesso modo del suo Maestro.

La popolarità del romanzo di Sienkiewicz fu tale da essere usato per le sceneggiature di diverse versioni cinematografiche, che non sto ad elencare.

Mi limiterò a citare, perché l’ho vista, quella girata nel 1951dalla Metro Goldwin-Mayer a Cinecittà sotto la direzione di Merwin LeRoy che si avvaleva di un cast di attori di fama internazionale come Robert Taylor, Deborah Kerr, Leo Genn e Peter Ustinov.

Di quel kolossal oggi vorrei ricordarvi la scena in cui Marco Vinicio, durante una visita in casa di conoscenti, è colpito dalla grazia di Licia, una giovane timida, candida e sensibile, che incontra nel giardino mentre, come si vede in questo fotogramma del film di Mervyn LeRoy, è intenta a tracciare in terra con un ramoscello la sagoma di un pesce.

Il gesto della ragazza passa inosservato a Marco Vinicio che solo in seguito apprenderà il significato di quel disegno.

Non si deve, infatti, dimenticare di essere nel periodo che precede la persecuzione di Nerone, quando i primi cristiani erano costretti a vivere in clandestinità celebrando i loro riti nelle catacombe e a nascondere, dietro a simboli misteriosi e incomprensibili, l'appartenenza alla loro religione.

Fra questi il disegno di un pesce che, secondo l’ipotesi degli esegeti, sarebbe il simbolo di Cristo dove  la parola greca Ichthýs (pesce) è un acronimo formato dalle lettere iniziali della seguente frase: Iesoùs Christòs Theoù Yiòs Sotèr (cioè: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore) che era verosimilmente usato come segno di riconoscimento.

Infatti quando un cristiano incontrava uno sconosciuto di cui voleva sapere se anch’egli lo fosse, disegnava su una superficie uno degli archi che compongono il simbolo del pesce (Ichthýs).

Se l’altro completava il disegno, i due si riconoscevano come seguaci di Cristo e sapevano di potersi fidare l’un l’altro.  

Non è, però, mia intenzione di proseguire con la storia d’amore di Marco Vinicio e di Licia che mi è servita solo per introdurre il discorso sull’uso che le prime comunità cristiane facevano, oltre al pesce, di altri simboli: come l’ancora (che per la sua forma caratteristica, divenne ben presto un modo alternativo per rappresentare la croce cristiana),
o il monogramma formato dalla sovrapposizione delle prime due lettere, X e P, del nome Χριστός (Christόs = Cristo),
o il Buon Pastore, come in questo affresco delle catacombe di San Callisto, l’unica immagine allegorica di Gesù autorizzata fino all’inizio del IV secolo.

Per mezzo di questi simboli - e di altri che sarebbe troppo lungo qui ricordare - i cristiani riuscivano a diffondere il messaggio della redenzione senza incorrere nel disprezzo dei pagani di fronte allo “scandalo” di un Dio condannato alla crocifissione, supplizio tra i più infamanti secondo la cultura diffusa nel mondo antico.

Disprezzo che rischiava di tramutarsi in ostilità per vari motivi: quali la preoccupazione delle autorità politiche per la forza persuasiva delle comunità cristiane che, con la loro organizzazione gerarchica, apparivano come uno “Stato nello Stato”; il rifiuto dei cristiani di riconoscere la divinità dell'imperatore o di offrire sacrifici agli dei della religione romana ufficiale; l'inquietudine dell'opinione pubblica che vedeva nella crisi dell'Impero una vendetta degli dei.

Tutti motivi che tra la seconda metà del Primo secolo e gli inizi del Quarto, cagionarono persecuzioni contro gli aderenti alla nuova religione, fra le quali le agiografie cristiane ricordano, con particolare evidenza, quelle avvenute sotto gli imperatori Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino Trace, Decio, Valeriano, Aureliano e Diocleziano.

La prima persecuzione, quella già ricordata di Nerone, testimoniata anche da Tacito, scoppiò nell’anno ‘64 quando i cristiani furono accusati di avere appiccato il Grande Incendio che distrusse gran parte della città di Roma.

Secondo la tradizione, in questa persecuzione furono uccisi gli apostoli Pietro e Paolo.

Tuttavia l'intensità e i modi della repressione della fede cristiana variarono nel tempo, cosicché alle dieci "grandi persecuzioni" sopra ricordate si alternarono periodi di tranquillità in cui i cristiani erano tacitamente tollerati.

Le cose cambiarono radicalmente con l’editto pubblicato a Nicomedia, allora capitale dell’Impero Romano  d’Oriente, il 30 aprile  311, con il quale l’imperatore Galerio metteva fine alla persecuzione di Diocleziano.

L’editto di Nicomedia era confermato, ma sarebbe piú esatto dire rescritto cioè giuridicamente interpretato, da Costantino con l’editto di Milano del 313, dove il Cristianesimo era messo alla pari delle altre religioni, parità che si sarebbe in breve tempo trasformata in predominio del Cristianesimo anche per l’influenza esercitata dalla madre di Costantino, Claudia Giulia Elena, che qui vediamo in una statua conservata al Museo Capitolino di Roma.

Di origine plebea - era figlia di un taverniere - Elena doveva essere molto bella per fare innamorare il tribuno militare Costanzo Cloro che la sposava nel 270 (qualche storico afferma che divenne solo sua concubina), per ripudiarla poi nel 293 quando l’imperatore Diocleziano lo nominò cesare (titolo che equivaleva a vice-imperatore) dell’Impero Romano d’Occidente.

Quando il figlio Costantino, nato dal suo matrimonio con Costanzo Cloro, sconfiggendo il rivale Massenzio - battaglia di Ponte Milvio, 28 ottobre 312 - divenne padrone assoluto dell’Impero Romano d’Occidente, Elena assurse al rango di imperatrice madre con il titolo di “Augusta”.

Narrano i suoi agiografi, tra cui Sant’Ambrogio, che Elena, nel frattempo convertitasi alla religione cristiana, non abusò mai della sua posizione privilegiata, ma visse nella preghiera e diede prova di grande pietà e carità, moltiplicando le donazioni per l’edificazione delle chiese e la vita delle comunità cristiane.

Ma, l’aspetto piú interessante, ai fini dell’iconografia della crocifissione, è il suo pellegrinaggio in Terra Santa, fatto nel 326, all’età di 78 anni, con il quale incomincia quella parte della sua vita che si fonde con la leggenda e riguarda, non tanto il suo interessamento per la costruzione delle basiliche della Natività a Betlemme e dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi, o i vari ritrovamenti negli scavi da lei ordinati, ma il frutto più importante di questi: la scoperta, la cosiddetta invenzione, della Croce della Passione di Cristo.

Su questo ritrovamento s'innesterà poi, soprattutto nel periodo medievale, una tradizione leggendaria sul legno e i chiodi della Crocifissione, uno dei più fascinosi e misteriosi miti cristiani.

Basti pensare che la storia della scoperta della Croce, narrata nella Legenda aurea - una raccolta di vite di santi scritta in latino nella seconda metà del XIII secolo da Jacopo da Varazze (Jacopo da Varagine), vescovo di Genova e frate domenicano – riporta che Elena, per i suoi scavi si valse della collaborazione di un ebreo di nome Giuda.

Come se non bastasse, la Legenda Aurea afferma che con il ferro dei chiodi della croce Elena faceva forgiare un morso per il cavallo di Costantino e un diadema, che oggi si vuole sia la Corona Ferrea, mentre, per quanto concerne il legno della Croce, la stessa Elena ne avrebbe presa una parte per portarla al figlio, collocandola poi nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, fatta da lei innalzare a Roma, mentre il resto, racchiuso in una teca preziosa, fu lasciato a Gerusalemme.

Ricordo che per rendere universale il simbolo della croce furono messe in circolazione, per essere venerate come reliquie, schegge di legno purtroppo non tutte provenienti dalla croce di Gerusalemme.

Elena, morta presumibilmente nel 329, fu subito venerata santa,e, fra i testimoni delle sue virtù troviamo i nomi di Sant’Ambrogio, Eusebio e San Paolino.

Dimenticavo di ricordare che alla madre di Costantino, oltre al legno e ai chiodi della Santa Croce, è attribuito il ritrovamento degli strumenti della Passione, quali il cartiglio originario con la scritta INRI infisso sopra la Croce, la croce di uno dei due ladroni, la spugna imbevuta d’aceto e parte della corona di spine.

Concludiamo questa parentesi storica, ricordando che, dopo il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo, e qualche decennio di diatribe teologiche, con in primo piano il movimento ereticale promosso dal prete alessandrino Ario[1], la chiesa cristiana diventò la chiesa con la "C" maiuscola, cioè la sola istituzione che garantisse il diritto, per i popoli e per i cittadini.

Un altro passo avanti verso il riconoscimento della Chiesa si verificava con i cosiddetti Decreti Teodosiani con i quali negli anni 391-392, l’imperatore Teodosio I il Grande stabiliva che tutte le opinioni che discordavano con la visione cristiana del mondo erano dichiarate illegali con il risultato che agli ultimi strascichi delle persecuzioni contro i cristiani si sovrapponevano le prime lotte contro gli eretici, e, dopo pochi decenni, sarebbero iniziate le persecuzioni dei pagani.

È a questo punto che nella prima metà secolo successivo (400) facevano la loro comparsa le prime raffigurazioni di Gesù Crocifisso; ricordo, fra quelle pervenuteci, il pannello del portale ligneo della basilica di S. Sabina in Roma, e il cofanetto d’avorio con il ciclo della Passione conservato nel British Museum di Londra.

Il pannello del portale, risalente agli anni 422-432, è la prima rappresentazione di Cristo fra i due ladroni.

Come si può vedere  Cristo, che indossa solo un perizoma, è rappresentato a braccia distese nella posizione dell’orante e con gli occhi aperti.

Si tratta dunque di un Christus triumphans (cioè vittorioso della morte) e, a significare la sua superiorità morale, ha dimensioni maggiori rispetto ai due ladroni.

Non c'è nessuna ricerca prospettica, le figure poggiano su una parete che simula dei mattoni, e le croci si intuiscono solo dietro la testa e le mani dei ladroni.

Nel volto di Cristo nessun segno di sofferenza: dobbiamo, infatti, ricordare che nei primi tempi del Cristianesimo c'era il divieto di rappresentarne il supplizio, essendo, fra l'altro, ancora vivo il ricordo della morte in croce quale pena infamante riservata agli schiavi.

Ciò non toglie che già nel II secolo siano state dipinte delle croci, ma senza il corpo di Gesù crocifisso.

Nel cofanetto d’avorio conservato nel British Museum di Londra, il ciclo della Passione è suddiviso presumibilmente su almeno quattro delle sei facciate che costituiscono il parallelepipedo.

Dico presumibilmente, perché i testi di solito riportano solo l’immagine che vi mostro in cui è possibile individuare il Gesù crocifisso a braccia aperte, con sopra la scritta “REX IUD” (Re dei Giudei), a sinistra ai piedi della croce San Giovanni e la Madonna, a destra la figura di un uomo in atteggiamento minaccioso mentre, all’estrema sinistra, e raffigurato il corpo di Giuda impiccato ad un albero.

Un'altra scena della crocifissione la troviamo in una delle miniature che impreziosiscono il Tetravangelo di Rabbula, manoscritto contenente il testo in lingua siriaca dei Vangeli che si conserva a Firenze, nella Biblioteca Medicea Laurenziana.

È così chiamato dal nome del monaco Rabbula che - nelle annotazioni relative alla produzione del suo manoscritto - informa il lettore di aver completato la scrittura del codice nell'anno 586, nel convento di S. Giovanni di Beth Zagba, località che si ritiene dovesse trovarsi in una zona della Siria settentrionale tra Antiochia e Apamea.

Come si può vedere la miniatura documenta la fede cristiana nella croce come segno di gloria, di vittoria sulla morte.

Nel dipinto Gesù ha il volto circondato dal nimbo (aureola), gli occhi aperti, la barba ed è vestito di una tunica lunga senza maniche, il colobium, cioè la veste sacerdotale.

Il Cristo è confitto alla croce con quattro chiodi (soltanto più tardi si preferirà la soluzione più drammatica dell’unico chiodo per entrambi i piedi), mostra una sofferenza composta: è in posizione eretta con le braccia allargate in atteggiamento orante e accanto a lui appaiono i ladroni.

In basso a sinistra la Vergine e san Giovanni, poi Longino, quel soldato, raffigurato a sinistra, che colpisce con la lancia il fianco di Gesù morto e, come si legge nel vangelo di S. Giovanni (19,34), “… subito ne uscí sangue e acqua... “.

Secondo una pia tradizione, che va ad intrecciarsi con la legenda del Graal e il Parsifal, Longino avrebbe raccolto il sangue sgorgato dal costato di Cristo in un calice che poi egli stesso, convertitosi al cristianesimo, avrebbe portato a Mantova, dove la reliquia è ancora conservata nella magnifica Basilica di Sant'Andrea Apostolo, e ivi venerata.

Proseguendo l’esame della miniatura, notiamo sotto la croce i tre soldati che tirano a sorte la veste di Gesù, poi, sulla parte destra Stephaton, che è identificato come il soldato che offrì a Gesù la spugna imbevuta nell'aceto; infine, all’estremità destra, il gruppo delle pie donne.

Nella parte inferiore sono rappresentati gli avvenimenti successivi alla Resurrezione: a sinistra un angelo (cosí si legge nei Vangeli di Matteo e Marco, mentre Luca e Giovanni ne citano due) che annuncia alle pie donne che Gesù è risorto, e, a destra, Gesù che appare a due donne nell’orto.

Tutto questo sta a significare che, nell’intenzione dell’autore, il momento della crocifissione non può essere affatto disgiunto dalla Resurrezione, perché Gesù Cristo, unico sacerdote-mediatore presso Dio, può essere rappresentato nella sua divinità solo attraverso la vittoria sulla morte.  

Prima di proseguire nell'evoluzione dell’iconografia della crocifissione, consentitemi una parentesi sulle procedure piú usate per l’esecuzione del supplizio della crocifissione che Cicerone definiva «il piú crudele e il piú tetro».

Una fra le piú antiche di queste procedure prevedeva che il condannato fosse appeso ad un’impalcatura di legno formata, come è illustrato in questo schizzo, da una trave trasversale (patibulum, donde il nostro patibolo) che appoggiava le sue estremità su due pali di legno piantati a terra che, per la loro terminazione a forcella, erano chiamati crux.

Questo tipo di impalcature era usata per crocifiggere (da cruce, ablativo di crux + figgere = fissare alla croce) donde il termine crocifissione che avveniva legando le braccia del condannato al patibulum in modo che appoggiasse appena i piedi per terra.

Questa la procedura della morte attraverso la crocifissione, originaria dell’oriente semitico, che i romani avevano imparato dai cartaginesi all’epoca delle guerre puniche (III e II secolo a.C.), e fu dagli stessi romani semplificata durante la rivolta di Spartaco (71 a.C.) nel corso della quale furono crocefissi 7mila schiavi ribelli e quindi, per ovvie esigenze pratiche si decise di affiggere ogni condannato a un singolo palo, con o senza forcella, detto crux simplex.

Altre volte la crocifissione si eseguiva legando o inchiodando i polsi del condannato, a braccia estese, a una traversa di legno (patibulum), che veniva poi fissata a circa 3 metri di altezza ad un palo verticale (stipes) già saldamente piantato per terra, mentre al condannato si legavano o si inchiodavano i piedi allo stesso palo verticale o in un’apposita pedana di appoggio.

Ricordo che fu questa traversa di legno (patibulum), e non la tradizionale croce latina, ad essere caricata sopra la schiena, e legata agli omeri e alle braccia di Gesù, per essere portata lungo la "Via Dolorosa" o "Via Crucis”, come si vede in questo fotogramma, tratto dallo sceneggiato televisivo Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli trasmesso da Rai Uno nella primavera del 1977.

Era questa la croce a T, o croce di S. Antonio o crux commissa, che per i primi cristiani s’identificava con la croce su cui è morto Gesù, come sta fra l’altro a testimoniare il fatto che nelle catacombe era frequente l'uso della crux dissimulata, che consisteva nell’interporre appunto la lettera tau maiuscola al centro del nome del defunto scritto sulla tomba.

Tuttavia, crux semitica, o crux simplex, o crux commissa, lo scopo era sempre lo stesso: provocare la morte, dopo una lenta agonia, che interveniva per soffocamento determinato dalla compressione del costato (a tale scopo spesso le gambe del condannato erano spezzate con una mazza o un martello), oppure a causa di un collasso cardiocircolatorio.

Chiusa la parentesi, seguitiamo l’evolversi dell’iconografia della crocifissione.

Come abbiamo già visto, nei primi tre secoli l'arte cristiana si basava unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo.

Con l'avvento di Costantino avviene il trionfo della croce.

È tradizione che Costantino aveva usato iscrivere, nel vessillo della sua vittoria su Massenzio  il monogramma della croce stessa.




Sui contenuti della visione (in hoc signo vinces) avuta in sogno da Costantino la notte prima della battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 313) si è molto discusso, nei secoli: illusione, suggestione, realtà o abile strategia?

Recentemente due ricercatori, Fabrizio Falconi e Bruno Carboniero, hanno fatto una scoperta (accolta con interesse in ambito scientifico e accademico) che legherebbe la visione a un preciso ed eloquente fenomeno astronomico visibile, proprio in quella notte, la Costellazione del Cigno.  

Risale a questi anni la comparsa nel monogramma della croce delle lettere l'alfa e l'omega, formando un nuovo monogramma che continuerà ad essere usato anche molto tempo dopo l'epoca costantiniana.

Intorno all’anno 330 si colloca, come già sappiamo, anche la leggenda del ritrovamento della vera croce attribuito alla madre di Costantino, sant'Elena.

Quindi la croce comincia il suo cammino trionfale, ma non un cammino iconografico perché, prescindendo da alcuni casi che abbiamo già esaminato, la croce, e in particolare modo la crocifissione col corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell'iconografia, per il solito problema che la crocifissione era un supplizio disonorevole.

A questo punto bisogna sconfinare, nei limiti del possibile, nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle eresie ad esso connesse.

Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del V secolo è quella del patriarca di Costantinopoli Eutiche, detta monofisismo, (dal greco monè = unico, e physis = natura) che negava la natura umana di Cristo, conservando unicamente quella divina.

In tal senso tutto quello che potesse costituire una rappresentazione corporea di Gesù, era proibito.

Si metteva ordine in questo problema piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si teneva un Concilio detto "in Trullo" - dal nome della sala del palazzo imperiale in cui si è svolto - nel quale un comma, l'undicesimo, esprimeva chiaramente la soluzione con queste parole: «È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla memoria di Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo».

Finalmente si poteva lasciare assolutamente spazio alla figurazione anche di Cristo in croce; ma alla condizione che fosse rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte.

In questa linea si colloca lo straordinario affresco di Santa Maria Antiqua a Roma, che rappresenta un Cristo vivo, inespressivo, non venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti e incantati, trionfante per la sua solenne calma oltre la morte.

L'affresco di Santa Maria Antiqua, che probabilmente è opera di un anonimo maestro costantinopolitano, viene di solito datato verso la fine dell'ottavo secolo, perché a Roma, in quegli anni, potevano confluire maestri di area orientale, per una ragione storicamente individuabile nella dottrina iconoclasta, movimento ereticale che sfociava in una vera e propria guerra di religione contro l’uso delle immagini sacre.

La base dottrinale dell’iconoclastia, proclamata nel 736 dall’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico e destinata a durare fino all’anno 843, era il convincimento che la venerazione delle immagini sacre, icone, si risolvesse spesso in una forma di idolatria.

Un giudizio morale che immediatamente si convertiva in un giudizio culturale di portata inaudita e finiva col diventare una rivoluzione con relative distruzioni e eccidi.

Alle origini del movimento iconoclasta si collocava anche l'influenza dell’arte islamica che è aniconica, cioè pura decorazione e, come tale, rifiutata dalla gente del popolo che non accettava raffigurazioni astratte.

Fu cosí che gli ambienti monastici dell'Oriente cristiano, si dedicarono segretamente alla conservazione e custodia di una iconografia sacra realistica.

Arriviamo cosí intorno al 1020, quando in una delle miniature di un codice conservato nel monastero di Stoudios a Costantinopoli, viene raffigurato per la prima volta il Cristo in croce morto, e, più o meno nello stesso periodo, nello stupefacente mosaico absidale del monastero di Dafnì, situato a pochi chilometri da Atene, il Cristo ha perso la fermezza, il tipo di ieraticità, di fissità (come invece era fino a quel momento), e viene raffigurato con il capo reclinato sulla spalla e il corpo leggermente arcuato.

Cristo è morto, benché non sia una morte totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno: è una morte quasi disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena che una morte.

Segno che nel frattempo qualcosa di nuovo era accaduto.

Fra le miriadi d’ipotesi che si sono susseguite negli studi moderni, e contemporanei, ce n'è una che è considerata la più attendibile.

Proprio nel monastero di Stoudios, verso la fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di mettere ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi.

Come giustificare che Dio potesse morire in croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la sua divinità pur da morto?

Probabilmente la soluzione la trovò nella risposta al monofisismo eutichiano promulgata durante il Concilio di Calcedonia (anno 451), nella quale si affermava che nell'unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la natura umana, che portò Nichetas Sthetatos a formulare questa soluzione teologica: il corpo di Gesù morì in croce, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, cosicché, pur morto, egli viveva nello Spirito.

Si toglieva cosí ogni ostacolo alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a confidare nell’immortalità del Figlio di Dio.

Ma, affinché il fedele potesse essere ancora più certo che la vita ancora proseguisse nel corpo morto di Cristo, ecco che nel mosaico di Dafni fu raffigurato il fiotto di sangue misto ad acqua che sgorga dal suo costato e lo stillicidio di sangue dalle ferite provocate dai chiodi infissi nelle mani e nei piedi.

Da notare inoltre, alla base della croce, la presenza di un teschio sul quale sgocciola il sangue che esce dalle ferite dei piedi.

Questa nuova variante iconografica è ispirata ad un’antica tradizione di cui troviamo testimonianze nella basilica del Santo Sepolcro della città santa di Gerusalemme.

Infatti, chiunque ha avuto il privilegio di visitare quella basilica, si sarà anche fermato nelle cappelle della Crocifissione e del Calvario, e, sotto a quest’ultima, in quella dedicata ad Adamo che un’antica tradizione vuole fosse stato ivi sepolto.

Nell’abside di questa cappella si riscontra una fenditura nella roccia causata, secondo una prima tradizione cristiana, dal terremoto avvenuto al momento della morte di Gesù.

Questa fenditura avrebbe permesso al sangue sgorgato dalle ferite di Gesù crocifisso di bagnare le ossa di Adamo, con il risultato di redimere dalla colpa del peccato originale lui e, conseguentemente, tutto il genere umano.

Per i primi cristiani questa era anche l’origine del nome Golgota: luogo del cranio.

Dunque, in Oriente, l'iconografia del Christus patiens, (Cristo morente), prendeva il posto di quella del Christus triumphans (trionfante sulla morte), quest’ultima introdotta in Occidente da monaci serbi, che sarebbe tuttavia perdurata per altri due secoli, fino al 1200.

Un esemplare di questo tipo di crocifissione è la Croce di San Francesco cosí detta perché è il crocifisso davanti al quale, nell’anno 1206, Francesco d'Assisi stava pregando nella Chiesa di San Damiano, posta fuori delle mura della sua città, quando l’immagine si animava e gli ripeteva tre volte la frase: "Va, o Francesco. Ripara la mia casa che cade in rovina".

Il crocifissodipinto presumibilmente nel 1100 da un artista umbro rimasto sconosciuto, è considerato una icona perché contiene immagini di persone che contribuiscono al significato della croce stessa.

Gesù è rappresentato con i segni delle ferite ma non è morto: sta dritto in atteggiamento risoluto. Siamo dinanzi all'iconografia del Christus triumphans e la sua aureola include già l'immagine della croce glorificata.

Il colore luminoso del suo corpo contrasta col rosso scuro e il nero attorno e accentua l'importanza di Gesù e, mentre egli è rappresentato nella sua piena statura, tutte le altre figure sono rimpicciolite.

Le figure di media grandezza che vediamo in questo particolare del lato destro della croce  sono, Maria, madre di Gesù e san Giovanni,
mentre sull'altro (inserire immagine 23) vediamo Maria Maddalena, Maria di Cleofa e il centurione che, nel Vangelo di Marco, proclama: «Questo è veramente il Figlio di Dio».

All'estremità superiore della croce  racchiusa in un semicerchio aperto all'infinito verso l'alto appare la mano benedicente del Padre. Dieci angeli sono in cima alla croce e fanno corona all'Ascensione muovendosi con gioiosa agitazione

Sei angeli sono situati, tre per parte, a entrambe le estremità del braccio orizzontale della croce, e l’atteggiamento delle loro mani indica che stanno discutendo di questo evento straordinario e invitano l'osservatore a meravigliarsi con loro.

Tra le figure più piccole in basso, gli esperti  identificano  Longino, il soldato romano che perforò il costato di Gesù con una lancia, e Stephaton, il soldato che offrì a Gesù la spugna imbevuta nell'aceto.

E ora, sul punto di affrontare il tema delle crocifissioni del Christus patiens in Occidente, devo prima parlarvi del crocifisso di Gero (in tedesco, Gero-Kreuz) la più antica crocifissione lignea monumentale esistente che si può ammirare in straordinarie condizioni di conservazione – peccato quella raggiera barocca aggiunta nel 1683 - nel Duomo di Colonia in Germania.

Scolpito in rovere, misura in altezza 187 cm. con un’apertura delle braccia di 165 cm., ed è in parte dipinto ed in parte dorato.

Altra rarità è lo stile, estremamente realistico ed espressivo, del tutto insolito e finora sconosciuto in Europa (siamo alla fine del X secolo), uno stile che si rifà a quello dei crocifissi orientali visti, in occasione di un viaggio a Bisanzio effettuato nel 971, dall’arcivescovo di Colonia Gero che ha commissionato l’opera ad uno sconosciuto artista del nord delle Alpi.

Ma la comparsa ufficiale in Italia dell’iconografia del Christus patiens è legata al cosiddetto Maestro bizantino del Crocifisso di Pisa, un anonimo artista operante a Pisa nella prima metà del XIII secolo, autore di un crocifisso dipinto a tempera su tavola lignea sagomata conservato nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa e risalente al primo decennio del XIII secolo.

È l’immagine del Cristo sofferente sulla croce o il Cristo morto che, con i suoi effetti patetici e commoventi secondo le indicazioni devozionali promosse dagli ordini dei mendicanti, sostituì ben presto la tipologia del Christus triumphans, rappresentato, come già detto, vivo sulla croce con gli occhi aperti e con una regalità aliena da dolorosa sofferenza.

Contemporaneo, e inoltre concittadino, dell’anonimo artista di Pisa, è Giunta Pisano di cui vediamo il crocifisso che si trova nella Basilica di San Domenico a Bologna (inserire immagine 29).

È l’immagine di un Cristo sofferente resa con accentuazioni anatomiche, come l’allungamento delle proporzioni, la curvatura marcata del busto, la resa grafica delle pieghe addominali e dei tratti fisionomici e il colorito cadaverico; tutti tratti che collocano l’arte di Giunta a metà strada tra la fissità iconica dell’arte bizantina e la strada naturalistica, che sarà poi aperta da Cimabue, verso veri soggetti, dotati di umanità ed emozioni, che saranno alla base della pittura italiana e occidentale.

Tra le opere giovanili di Cimabue[2] maggiormente conosciute, c'è sicuramente il bellissimo Crocifisso ligneo di Santa Croce a Firenze, realizzato intorno all’anno 1270 .

È un Crocifisso grandioso (390 cm. di altezza) con il corpo del Cristo ancora piú dolorosamente incurvato, rispetto a quello del Maestro bizantino del Crocifisso di Pisa, nella posa patetica del Christus patiens, ma è soprattutto la resa pittorica delicatamente sfumata a rappresentare una rivoluzione, con il naturalismo commovente della immagine del Cristo sofferente, sinuoso, dove la luce modella il volume con il chiaroscuro.








Il pregiato dipinto fu distrutto quasi completamente dalla famosa alluvione del 1966, quando fu violentemente travolto dalle acque dell’Arno che rimossero irrimediabilmente gran parte della stesura pittorica.
Nel 1976 il Crocifisso fu sottoposto a un radicale restauro, teso unicamente a conservare, per quanto possibile, i resti dello strato pittorico e collocato all'interno dell'Opera della Basilica di Santa Croce in attesa di ritornare nel cuore della basilica stessa, sopra l’altare, a otto - nove metri da terra, da dove si troverà al sicuro da altri e per nulla improbabili attacchi di chi l’ha già danneggiato e sfigurato… il fiume Arno.
«Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, / si che la fama di colui è scura»[3]
Quando si apprestava a dipingere la monumentale croce (578 x 406 cm.) per la Basilica di Santa Maria Novella a Firenze, verosimilmente negli anni intorno al 1290, il ventitreenne[4] Giotto di Bondone era già un pittore capace di creare una schiera d’imitatori in città, pur rappresentando soltanto l'anticipatore di una corrente d'avanguardia che s’impose più tardi.
Questa crocifissione, dipinta a tempera su tavola di legno sagomata, è il primo soggetto che Giotto affronta in maniera rivoluzionaria, in contrasto con l'iconografia, ormai canonizzata nelle opere di autori, da Giunta Pisano a Cimabue, nel Christus patiens sinuosamente inarcato verso sinistra.
Giotto invece dipinse il corpo morto in maniera verticale, con le gambe piegate che ne fanno intuire tutto il peso.
La forma non più nobilitata dai consueti stilemi diventò così assolutamente umana e popolare.
In queste novità è contenuto tutto il senso della sua arte e della nuova sensibilità religiosa che restituisce al Cristo la sua dimensione terrena e da questa trae il senso spirituale più profondo.
Solo l'aureola ricorda la sua natura divina, mentre il resto mostra le sembianze di un uomo umile realmente sofferente, con il quale l’osservatore potesse confrontare le sue pene.
Una quindicina di anni dopo, Giotto che si trovava già in quel di Padova, era incaricato dal ricchissimo banchiere padovano Enrico Scrovegni di affrescare la cappella di sua proprietà intitolata a Santa Maria della Carità.
Secondo la datazione piú condivisa dagli esperti, Giotto tra il 1304 e il 1306, dipingeva l'intera superficie interna della cappella secondo un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirato da un teologo agostiniano di raffinata competenza.
La scena della crocifissione che vedete - consistente in un pannello rettangolare di 200 x 185 cm. - diversamente dagli altri trentatre pannelli del ciclo, aventi per soggetto le Storie di Gioacchino e di Maria e le Storie di Cristo, è legata all'iconografia tradizionale.
In apparenza pacata, pur nel suo altissimo senso drammatico, questa scena della Crocifissione dà una misteriosa sensazione di pace che promana dalla figura di Gesù in croce e inonda ogni cuore disperato che vi si accosti.
A sinistra il gruppo dei dolenti, con al centro Maria circondata da Giovanni e dalle pie donne.
Il corpo di Maria sembra un masso, in cui il suo grido implode, senza riversarsi all'esterno, mentre il pianto sommesso di Maria di Magdala inginocchiata ai piedi di Gesù, sembra accompagnare il suo materno dolore.
A destra, in basso, la meravigliosa, regale veste rossa di Gesù, con le sue bordature dorate, tenuta in mano da due centurioni, sembra voler sottolineare la spogliazione del Cristo che, come scrive San Paolo nella Seconda lettera ai Filippesi (6-8), «...pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, facendosi simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce...».



A parlarci del pianto del Padre - che ha spogliato se stesso "dell'unico Figlio", come a suo tempo aveva chiesto, quale prova di fede, ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco, senza poi permettergli di portarlo a termine - resta solo il volo di angeli, che roteano intorno alla croce raccogliendo il sangue che sgorga dal costato del Crocifisso o strappandosi le vesti.
Ed ora un breve cenno ad un altro affresco sul tema delle Crocifissione (databile 1308-1310 circa) dipinto da Giotto e collaboratori nel transetto destro della basilica inferiore di Assisi, nel quale, come potete osservare, è evidente la somiglianza della figura di Cristo con quella della precedente Crocifissione degli Scrovegni (1304-1306).
Dopo di ché, termino la mia relazione con le parole dello storico dell’Arte Cesare Gnudi, là dove si legge: «In questa scena davvero, tutto è così contenuto, così lontano dalle gridate rappresentazioni di qualche anno addietro nell'Arte, forse perché Giotto tende a sottolineare «...quel miracoloso accordo fra la nuova verità umana ed una idealità trascendente che s'incontra e si identifica con questo sentimento classico del mito...».
 «Ne emerge, in conseguenza, il grande tema della umana realtà, non eroicizzata ma, sentita e rappresentata nella pienezza della vita morale, dei sentimenti portati tutti [...] alla più assoluta, oggettiva purezza e, […] sopra ogni altra presenza, la figura di Cristo, nella profondità del suo umano sentire, nella bellezza armoniosa della sua forza divina, del suo divino dolore».




[1] Che negava la divinità di Cristo e il dogma della consustanzialità delle tre personalità divine, condannato nel Primo Concilio Ecumenico Generale della Chiesa, convocato a Nicea dallo stesso Costantino nell’anno 325.
[2] Pseudonimo di Cenni di Pepo; Firenze 1240 circa – Pisa 1302.
[3] Vedi Dante Alighieri, Purgatorio, canto XI, versi 94-96.
[4] Nato, secondo la maggior parte degli esperti, nel 1267.



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