Quo vadis? È il titolo di un romanzo
storico scritto nel 1896 dal polacco Henryk Sienkiewicz
- vincitore del premio
Nobel per la letteratura nel 1905 – che ha per argomento la vicenda di un soldato romano
Marco Vinicio che si innamora di Licia una ragazza cristiana al tempo dell’imperatore
Nerone.
È una trama che si dipana sullo sfondo di una serie di avvenimenti storici che
sono culminati nel Grande
incendio di Roma del 64 d.C. e alla
successiva persecuzione dei cristiani presunti responsabili dell’incendio.
Sienkiewicz scelse di
dare questo titolo al suo romanzo ispirandosi ad un episodio narrato nel libro
apocrifo degli Atti di Pietro, secondo il quale,
durante la persecuzione, san Pietro
sta fuggendo da Roma per evitare il martirio, quando sulla
via Appia gli appare Gesù che cammina
nella direzione opposta, verso la città.
«Quo vadis, Domine? (Signore, dove vai?)» chiede l'Apostolo; «Eo
Romam, iterum crucifigi (Vado a Roma, per essere crocifisso
nuovamente)», gli risponde Gesù.
L'apostolo
comprende allora che Gesù, con questo segno, gli chiede di ritornare a Roma e
accettare il martirio, e obbedisce.
Secondo
la tradizione, Pietro sarà crocifisso a testa in giù, su sua richiesta,
non sentendosi degno di morire nello stesso modo del suo Maestro.
La popolarità del romanzo di Sienkiewicz fu
tale da essere usato per le sceneggiature di diverse versioni cinematografiche,
che non sto ad elencare.
Mi limiterò a citare, perché l’ho vista,
quella girata nel 1951dalla Metro Goldwin-Mayer a Cinecittà sotto la direzione
di Merwin LeRoy che si avvaleva di un cast di attori di fama internazionale
come Robert Taylor, Deborah Kerr, Leo Genn e Peter Ustinov.
Di quel kolossal oggi vorrei ricordarvi la
scena in cui Marco Vinicio, durante una visita in casa di conoscenti, è colpito
dalla grazia di Licia, una giovane timida, candida e sensibile, che incontra
nel giardino mentre, come si vede in questo fotogramma del film di Mervyn LeRoy, è intenta a tracciare in terra con un
ramoscello la sagoma di un pesce.
Il gesto della ragazza passa inosservato a
Marco Vinicio che solo in seguito apprenderà il significato di quel disegno.
Non si deve, infatti, dimenticare di essere nel
periodo che precede la persecuzione di Nerone, quando i primi cristiani erano
costretti a vivere in clandestinità celebrando i loro riti nelle catacombe e a
nascondere, dietro a simboli misteriosi e incomprensibili, l'appartenenza alla
loro religione.
Fra questi il disegno di un pesce che,
secondo l’ipotesi degli esegeti, sarebbe il simbolo di Cristo dove la parola greca Ichthýs (pesce) è un acronimo formato dalle lettere iniziali della
seguente frase: Iesoùs Christòs
Theoù Yiòs Sotèr (cioè: Gesù Cristo Figlio di Dio
Salvatore) che era verosimilmente usato come segno di riconoscimento.
Infatti quando un cristiano incontrava uno
sconosciuto di cui voleva sapere se anch’egli lo fosse, disegnava su una
superficie uno degli archi che compongono il simbolo del pesce (Ichthýs).
Se l’altro completava il disegno, i due si
riconoscevano come seguaci di Cristo e sapevano di potersi fidare l’un l’altro.
Non è, però, mia intenzione di proseguire con
la storia d’amore di Marco Vinicio e di Licia che mi è servita solo per
introdurre il discorso sull’uso che le prime comunità cristiane facevano, oltre
al pesce, di altri simboli: come l’ancora (che per
la sua forma caratteristica, divenne ben presto un modo alternativo per
rappresentare la croce cristiana),
o il monogramma formato dalla sovrapposizione delle prime due
lettere, X e P, del nome Χριστός (Christόs = Cristo),
o il Buon Pastore, come in questo affresco
delle catacombe di San Callisto, l’unica immagine allegorica di Gesù autorizzata fino
all’inizio del IV secolo.
Per mezzo di questi simboli - e di altri che
sarebbe troppo lungo qui ricordare - i cristiani riuscivano a diffondere il
messaggio della redenzione senza incorrere nel disprezzo dei pagani di fronte
allo “scandalo” di un Dio condannato alla crocifissione, supplizio tra i più
infamanti secondo la cultura diffusa nel mondo antico.
Disprezzo che rischiava di tramutarsi in ostilità
per vari motivi: quali la preoccupazione delle autorità politiche per la forza
persuasiva delle comunità cristiane che, con la loro organizzazione gerarchica,
apparivano come uno “Stato nello Stato”; il rifiuto dei cristiani di
riconoscere la divinità dell'imperatore o di offrire sacrifici agli dei della
religione romana ufficiale; l'inquietudine dell'opinione pubblica che vedeva
nella crisi dell'Impero una vendetta degli dei.
Tutti motivi che tra la
seconda metà del Primo secolo e gli inizi del Quarto, cagionarono persecuzioni contro gli
aderenti alla nuova religione, fra le quali le agiografie cristiane ricordano,
con particolare evidenza, quelle avvenute sotto gli imperatori Nerone,
Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino Trace, Decio,
Valeriano, Aureliano e Diocleziano.
La prima persecuzione,
quella già ricordata di Nerone, testimoniata anche da Tacito, scoppiò nell’anno
‘64 quando i cristiani furono accusati di avere appiccato il Grande Incendio
che distrusse gran parte della città di Roma.
Tuttavia l'intensità e i
modi della repressione della fede cristiana variarono nel tempo, cosicché alle
dieci "grandi persecuzioni" sopra ricordate si alternarono periodi di
tranquillità in cui i cristiani erano tacitamente tollerati.
Le cose cambiarono
radicalmente con l’editto pubblicato a Nicomedia, allora capitale dell’Impero
Romano d’Oriente, il 30 aprile 311, con il quale l’imperatore Galerio
metteva fine alla persecuzione di Diocleziano.
L’editto di Nicomedia era
confermato, ma sarebbe piú esatto dire rescritto
cioè giuridicamente interpretato, da Costantino con l’editto di Milano del 313,
dove il Cristianesimo era messo alla pari delle altre religioni, parità che si
sarebbe in breve tempo trasformata in predominio del Cristianesimo anche per
l’influenza esercitata dalla madre di Costantino, Claudia Giulia Elena, che qui
vediamo in
una statua conservata al Museo Capitolino di Roma.
Di origine
plebea - era figlia di un taverniere - Elena doveva essere molto bella per fare
innamorare il tribuno militare Costanzo Cloro che la sposava nel 270 (qualche
storico afferma che divenne solo sua concubina), per ripudiarla poi nel 293 quando
l’imperatore Diocleziano lo nominò cesare
(titolo che equivaleva a vice-imperatore) dell’Impero Romano d’Occidente.
Quando il
figlio Costantino, nato dal suo matrimonio con Costanzo Cloro, sconfiggendo il
rivale Massenzio - battaglia di Ponte Milvio, 28 ottobre 312 - divenne padrone
assoluto dell’Impero Romano d’Occidente, Elena assurse al rango di imperatrice
madre con il titolo di “Augusta”.
Narrano i
suoi agiografi, tra cui Sant’Ambrogio, che Elena, nel frattempo convertitasi
alla religione cristiana, non abusò mai della sua posizione privilegiata, ma
visse nella preghiera e diede prova di grande pietà e carità, moltiplicando le
donazioni per l’edificazione delle chiese e la vita delle comunità cristiane.
Ma, l’aspetto
piú interessante, ai fini dell’iconografia
della crocifissione, è il suo pellegrinaggio in Terra Santa, fatto nel 326,
all’età di 78 anni, con il quale incomincia quella parte della sua vita che si
fonde con la leggenda e riguarda, non tanto il suo interessamento per la
costruzione delle basiliche della Natività a Betlemme e dell’Ascensione sul
Monte degli Ulivi, o i vari ritrovamenti negli scavi da lei ordinati, ma il frutto
più importante di questi: la scoperta, la cosiddetta invenzione, della Croce
della Passione di Cristo.
Su questo
ritrovamento s'innesterà poi, soprattutto nel periodo medievale, una tradizione
leggendaria sul legno e i
chiodi della Crocifissione, uno dei più fascinosi e misteriosi miti cristiani.
Basti
pensare che la storia della scoperta della Croce, narrata nella Legenda aurea
- una raccolta di vite di santi scritta in latino nella seconda metà del XIII secolo da
Jacopo da
Varazze (Jacopo da Varagine), vescovo di Genova e frate
domenicano – riporta che Elena, per i suoi scavi si valse della
collaborazione di un ebreo di nome Giuda.
Come se non
bastasse, la Legenda Aurea afferma che con il ferro dei chiodi della
croce Elena faceva forgiare un morso per il cavallo di Costantino e un diadema,
che oggi si vuole sia la Corona Ferrea, mentre, per quanto concerne il legno
della Croce, la stessa Elena ne avrebbe presa una parte per portarla al figlio,
collocandola poi nella Basilica di
Santa Croce in Gerusalemme,
fatta da lei innalzare a Roma, mentre il resto, racchiuso in una teca preziosa,
fu lasciato a Gerusalemme.
Ricordo che
per rendere universale il simbolo della croce furono messe in circolazione, per
essere venerate come reliquie, schegge di legno purtroppo non tutte provenienti
dalla croce di Gerusalemme.
Elena, morta
presumibilmente nel 329, fu subito venerata santa,e, fra i testimoni delle sue
virtù troviamo i nomi di Sant’Ambrogio, Eusebio e San Paolino.
Dimenticavo di ricordare che alla madre di
Costantino, oltre al legno e ai chiodi della Santa Croce, è attribuito il
ritrovamento degli strumenti della Passione, quali il cartiglio originario con
la scritta INRI infisso sopra la
Croce, la croce di uno dei due ladroni, la spugna imbevuta d’aceto e parte
della corona di spine.
Concludiamo questa parentesi storica,
ricordando che, dopo il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo, e qualche
decennio di diatribe teologiche, con in primo piano il movimento ereticale
promosso dal prete alessandrino Ario[1],
la chiesa cristiana diventò la chiesa con la "C" maiuscola, cioè la
sola istituzione che garantisse il diritto, per i popoli e per i cittadini.
Un altro passo avanti verso il riconoscimento
della Chiesa si verificava con i cosiddetti
Decreti Teodosiani con i quali negli anni 391-392, l’imperatore Teodosio I
il Grande stabiliva che tutte le opinioni che discordavano con la visione
cristiana del mondo erano dichiarate illegali con il risultato che agli ultimi
strascichi delle persecuzioni contro i cristiani si sovrapponevano le prime
lotte contro gli eretici, e, dopo pochi decenni, sarebbero iniziate le persecuzioni dei pagani.
È a questo punto che nella prima metà secolo
successivo (400) facevano la loro comparsa le prime raffigurazioni di Gesù Crocifisso;
ricordo, fra quelle pervenuteci, il pannello del portale ligneo della basilica
di S. Sabina in Roma, e il cofanetto d’avorio con il ciclo della Passione
conservato nel British Museum di Londra.
Il pannello del portale, risalente agli anni
422-432, è la prima rappresentazione di Cristo fra i due ladroni.
Come si può vedere Cristo, che indossa solo un perizoma, è
rappresentato a braccia distese nella posizione dell’orante e con gli occhi aperti.
Si tratta dunque di un Christus triumphans (cioè vittorioso della morte) e, a significare la sua superiorità
morale, ha dimensioni maggiori rispetto ai due ladroni.
Non c'è nessuna ricerca prospettica, le figure poggiano su una
parete che simula dei mattoni, e le croci si intuiscono solo dietro la testa e
le mani dei ladroni.
Nel volto di Cristo nessun segno di sofferenza:
dobbiamo, infatti, ricordare che nei primi tempi del Cristianesimo c'era il
divieto di rappresentarne il supplizio, essendo, fra l'altro, ancora vivo il
ricordo della morte in croce quale pena infamante riservata agli schiavi.
Ciò non toglie che già nel II secolo siano
state dipinte delle croci, ma senza il corpo di Gesù crocifisso.
Nel cofanetto d’avorio conservato nel British
Museum di Londra, il ciclo della Passione è suddiviso presumibilmente su almeno
quattro delle sei facciate che costituiscono il parallelepipedo.
Dico presumibilmente, perché i testi di
solito riportano solo l’immagine che vi mostro in cui è possibile individuare il Gesù crocifisso
a braccia aperte, con sopra la scritta “REX IUD” (Re dei Giudei), a sinistra ai
piedi della croce San Giovanni e la Madonna, a destra la figura di un uomo in
atteggiamento minaccioso mentre, all’estrema sinistra, e raffigurato il corpo
di Giuda impiccato ad un albero.
Un'altra scena della crocifissione la
troviamo in una delle miniature che impreziosiscono il Tetravangelo di Rabbula, manoscritto contenente il testo in lingua siriaca dei Vangeli che si conserva
a Firenze,
nella Biblioteca Medicea Laurenziana.
È così chiamato dal nome
del monaco Rabbula
che - nelle annotazioni relative alla produzione del suo manoscritto - informa il
lettore di aver completato la scrittura del codice nell'anno 586, nel convento di S. Giovanni di Beth Zagba, località che
si ritiene dovesse trovarsi in una zona della Siria settentrionale tra
Antiochia e Apamea.
Come si può vedere la miniatura
documenta la fede cristiana nella croce come segno di gloria, di vittoria sulla
morte.
Nel dipinto Gesù ha il
volto circondato dal nimbo (aureola),
gli occhi aperti, la barba ed è vestito di una tunica lunga senza maniche, il colobium, cioè la veste sacerdotale.
Il Cristo è confitto alla croce con quattro chiodi
(soltanto più tardi si preferirà la soluzione più drammatica dell’unico chiodo
per entrambi i piedi), mostra una sofferenza composta: è in posizione eretta
con le braccia allargate in atteggiamento orante e accanto a lui appaiono i
ladroni.
In basso a sinistra la Vergine e san
Giovanni, poi Longino, quel soldato, raffigurato a sinistra, che colpisce con
la lancia il fianco di Gesù morto e, come si legge nel vangelo di S. Giovanni
(19,34), “… subito ne uscí sangue e acqua... “.
Secondo una pia tradizione, che va ad intrecciarsi
con la legenda del Graal e il Parsifal, Longino avrebbe raccolto il sangue
sgorgato dal costato di Cristo in un calice che poi egli stesso, convertitosi
al cristianesimo, avrebbe portato a Mantova, dove la reliquia è ancora
conservata nella magnifica Basilica di Sant'Andrea Apostolo, e ivi venerata.
Proseguendo l’esame della miniatura, notiamo
sotto la croce i tre soldati che tirano a sorte la veste di Gesù, poi, sulla
parte destra Stephaton, che è identificato come il soldato che offrì a Gesù la
spugna imbevuta nell'aceto; infine, all’estremità destra, il gruppo delle pie
donne.
Nella parte inferiore sono rappresentati gli
avvenimenti successivi alla Resurrezione: a sinistra un angelo (cosí si legge
nei Vangeli di Matteo e Marco, mentre Luca e Giovanni ne citano due) che
annuncia alle pie donne che Gesù è risorto, e, a destra, Gesù che appare a due
donne nell’orto.
Tutto questo sta a significare che,
nell’intenzione dell’autore, il momento della crocifissione non può essere
affatto disgiunto dalla Resurrezione, perché Gesù Cristo, unico
sacerdote-mediatore presso Dio, può essere rappresentato nella sua divinità
solo attraverso la vittoria sulla morte.
Prima di proseguire nell'evoluzione dell’iconografia
della crocifissione, consentitemi una parentesi sulle procedure piú usate per
l’esecuzione del supplizio della crocifissione che Cicerone definiva «il piú
crudele e il piú tetro».
Una fra le piú antiche di queste procedure prevedeva
che il condannato fosse appeso ad un’impalcatura di legno formata, come è
illustrato in questo schizzo, da una trave trasversale (patibulum,
donde il nostro patibolo) che
appoggiava le sue estremità su due pali di legno piantati a terra che, per la
loro terminazione a forcella, erano chiamati crux.
Questo tipo di impalcature era usata per crocifiggere
(da cruce, ablativo di crux + figgere = fissare alla croce)
donde il termine crocifissione che
avveniva legando le braccia del condannato al patibulum in modo che appoggiasse appena i piedi per terra.
Questa la procedura della morte attraverso la
crocifissione, originaria dell’oriente semitico, che i romani avevano imparato
dai cartaginesi all’epoca delle guerre puniche (III e II secolo a.C.), e fu
dagli stessi romani semplificata durante la rivolta di Spartaco (71 a.C.) nel
corso della quale furono crocefissi 7mila schiavi ribelli e quindi, per ovvie
esigenze pratiche si decise di affiggere ogni condannato a un singolo palo, con o senza forcella,
detto crux simplex.
Altre volte la crocifissione si eseguiva
legando o inchiodando i polsi del condannato, a braccia estese, a una traversa
di legno (patibulum), che veniva poi fissata a circa 3 metri di altezza
ad un palo verticale (stipes) già
saldamente piantato per terra, mentre al condannato si legavano o si inchiodavano
i piedi allo stesso palo verticale o in un’apposita pedana di appoggio.
Ricordo che fu questa traversa di legno (patibulum),
e non la tradizionale croce latina, ad
essere caricata sopra la schiena, e legata agli omeri e alle braccia di Gesù,
per essere portata lungo la "Via Dolorosa" o "Via Crucis”, come
si vede in questo fotogramma, tratto dallo sceneggiato televisivo Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli trasmesso da Rai Uno nella
primavera del 1977.
Era questa la croce a T, o croce di S. Antonio o crux
commissa, che per i primi cristiani s’identificava con la croce su cui è
morto Gesù, come sta fra l’altro a testimoniare il fatto che nelle catacombe
era frequente l'uso della crux
dissimulata, che consisteva nell’interporre appunto la lettera tau maiuscola al centro del nome del defunto scritto sulla
tomba.
Tuttavia, crux
semitica, o crux simplex, o crux commissa, lo scopo era sempre lo
stesso: provocare la morte, dopo una lenta agonia, che interveniva per
soffocamento determinato dalla compressione del costato (a tale scopo spesso le
gambe del condannato erano spezzate con una mazza o un martello), oppure a
causa di un collasso cardiocircolatorio.
Chiusa la parentesi, seguitiamo l’evolversi
dell’iconografia della crocifissione.
Come abbiamo già visto, nei primi tre secoli
l'arte cristiana si basava unicamente su simbologie, e la croce poteva
rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo.
Con l'avvento di Costantino avviene il
trionfo della croce.
È tradizione che Costantino aveva usato iscrivere,
nel vessillo della sua vittoria su Massenzio il monogramma della croce stessa.
Sui
contenuti della visione (in hoc signo vinces) avuta in sogno da Costantino la
notte prima della battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 313) si è molto
discusso, nei secoli: illusione, suggestione, realtà o abile strategia?
Recentemente
due ricercatori, Fabrizio Falconi e Bruno Carboniero, hanno fatto una scoperta
(accolta con interesse in ambito scientifico e accademico) che legherebbe la
visione a un preciso ed eloquente fenomeno astronomico visibile, proprio in
quella notte, la Costellazione del Cigno.
Risale a questi anni la comparsa nel
monogramma della croce delle lettere l'alfa e l'omega, formando un nuovo
monogramma che continuerà ad essere usato anche molto tempo dopo l'epoca
costantiniana.
Intorno all’anno 330 si colloca, come già
sappiamo, anche la leggenda del ritrovamento della vera croce attribuito alla
madre di Costantino, sant'Elena.
Quindi la croce comincia il suo cammino
trionfale, ma non un cammino iconografico perché, prescindendo da alcuni casi
che abbiamo già esaminato, la croce, e in particolare modo la crocifissione col
corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell'iconografia, per il solito
problema che la crocifissione era un supplizio disonorevole.
A questo punto bisogna sconfinare, nei limiti
del possibile, nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle
eresie ad esso connesse.
Una delle eresie più dure, che risale ai
primi decenni del V secolo è quella del patriarca di Costantinopoli Eutiche,
detta monofisismo, (dal greco monè = unico, e physis =
natura) che negava la natura umana di Cristo, conservando unicamente quella divina.
In tal senso tutto quello che potesse costituire
una rappresentazione corporea di Gesù, era proibito.
Si metteva ordine in questo problema
piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si teneva un Concilio detto
"in Trullo" - dal nome della sala del palazzo imperiale in cui si è
svolto - nel quale un comma, l'undicesimo, esprimeva chiaramente la soluzione
con queste parole: «È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla
memoria di Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e
conquista con la passione la redenzione del mondo».
Finalmente si poteva lasciare assolutamente spazio
alla figurazione anche di Cristo in croce; ma alla condizione che fosse
rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte.
In questa linea si colloca lo straordinario
affresco di
Santa Maria Antiqua a Roma, che rappresenta un Cristo vivo, inespressivo, non
venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti e incantati,
trionfante per la sua solenne calma oltre la morte.
L'affresco di Santa Maria Antiqua, che
probabilmente è opera di un anonimo maestro costantinopolitano, viene di solito
datato verso la fine dell'ottavo secolo, perché a Roma, in quegli anni,
potevano confluire maestri di area orientale, per una ragione storicamente
individuabile nella dottrina iconoclasta,
movimento ereticale che sfociava in una vera e propria guerra di religione
contro l’uso delle immagini sacre.
La
base dottrinale dell’iconoclastia,
proclamata nel 736 dall’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico e destinata a
durare fino all’anno 843, era il convincimento che la venerazione delle immagini sacre, icone, si risolvesse spesso in una
forma di idolatria.
Un giudizio morale che immediatamente si
convertiva in un giudizio culturale di portata inaudita e finiva col diventare una
rivoluzione con relative distruzioni e eccidi.
Alle origini del movimento iconoclasta si collocava
anche l'influenza dell’arte islamica che è aniconica,
cioè pura
decorazione e, come tale, rifiutata dalla gente del popolo che non accettava raffigurazioni
astratte.
Fu cosí che gli ambienti monastici dell'Oriente
cristiano, si dedicarono segretamente alla conservazione e custodia di una
iconografia sacra realistica.
Arriviamo cosí intorno al 1020, quando in una
delle miniature di un codice conservato nel monastero di Stoudios a
Costantinopoli, viene raffigurato per la prima volta il Cristo in croce morto,
e, più o meno nello stesso periodo, nello stupefacente mosaico absidale del
monastero di Dafnì, situato a pochi chilometri da Atene, il Cristo ha perso la fermezza, il tipo di
ieraticità, di fissità (come invece era fino a quel momento), e viene
raffigurato con il capo reclinato sulla spalla e il corpo leggermente arcuato.
Cristo è morto, benché non sia una morte
totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno: è una morte quasi
disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena che una morte.
Segno che nel frattempo qualcosa di nuovo era
accaduto.
Fra le miriadi d’ipotesi che si sono
susseguite negli studi moderni, e contemporanei, ce n'è una che è considerata
la più attendibile.
Proprio nel monastero di Stoudios, verso la
fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di
mettere ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi,
artistici ed espressivi.
Come giustificare che Dio potesse morire in
croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere
intatta la sua divinità pur da morto?
Probabilmente la soluzione la trovò nella
risposta al monofisismo eutichiano promulgata durante il Concilio di Calcedonia
(anno 451), nella quale si affermava che nell'unica persona di Cristo erano
compresenti la natura divina e la natura umana, che portò Nichetas Sthetatos a
formulare questa soluzione teologica: il corpo di Gesù morì in croce, ma lo Spirito
Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, cosicché, pur morto, egli viveva
nello Spirito.
Si toglieva cosí ogni ostacolo alla
rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a
confidare nell’immortalità del Figlio di Dio.
Ma, affinché il fedele potesse essere ancora
più certo che la vita ancora proseguisse nel corpo morto di Cristo, ecco che
nel mosaico di Dafni fu raffigurato il fiotto di sangue misto ad acqua che
sgorga dal suo costato e lo stillicidio di sangue dalle ferite provocate dai
chiodi infissi nelle mani e nei piedi.
Da notare inoltre, alla base della croce, la
presenza di un teschio sul quale sgocciola il sangue che esce dalle ferite dei
piedi.
Questa nuova variante iconografica è ispirata
ad un’antica tradizione di cui troviamo testimonianze nella basilica del Santo Sepolcro della
città santa di Gerusalemme.
Infatti, chiunque ha avuto il privilegio di visitare quella
basilica, si sarà anche fermato nelle cappelle della Crocifissione e del
Calvario, e, sotto a quest’ultima, in quella dedicata ad Adamo che un’antica
tradizione vuole fosse stato ivi sepolto.
Nell’abside di questa cappella si riscontra una
fenditura nella roccia causata, secondo una prima tradizione cristiana, dal terremoto
avvenuto al momento della morte di Gesù.
Questa fenditura avrebbe permesso al sangue sgorgato dalle ferite di
Gesù crocifisso di bagnare le ossa di Adamo, con il risultato di redimere dalla
colpa del peccato originale lui e, conseguentemente, tutto il genere umano.
Per i primi cristiani questa era anche l’origine del nome Golgota:
luogo del cranio.
Dunque, in Oriente, l'iconografia del Christus patiens, (Cristo morente),
prendeva il posto di quella del Christus
triumphans (trionfante sulla morte), quest’ultima introdotta in Occidente da
monaci serbi, che sarebbe tuttavia perdurata per
altri due secoli, fino al 1200.
Un esemplare di questo tipo di crocifissione
è la Croce di San Francesco cosí detta
perché è il crocifisso davanti al quale, nell’anno 1206, Francesco
d'Assisi stava pregando nella Chiesa di San Damiano, posta fuori
delle mura della sua città, quando l’immagine si animava e gli ripeteva tre
volte la frase: "Va, o Francesco. Ripara la
mia casa che cade in rovina".
Il crocifissodipinto presumibilmente nel 1100 da un
artista umbro rimasto sconosciuto, è considerato una icona perché contiene
immagini di persone che contribuiscono al significato della croce stessa.
Gesù è rappresentato con i segni delle ferite
ma non è morto: sta dritto in atteggiamento risoluto. Siamo dinanzi
all'iconografia del Christus triumphans
e la sua aureola include già l'immagine della croce
glorificata.
Il colore luminoso del suo corpo contrasta
col rosso scuro e il nero attorno e accentua l'importanza di Gesù e, mentre
egli è rappresentato nella sua piena statura, tutte le altre figure sono rimpicciolite.
Le figure di media grandezza che vediamo in
questo particolare del lato destro della croce sono, Maria,
madre di Gesù e san Giovanni,
mentre sull'altro (inserire immagine 23) vediamo Maria Maddalena, Maria di Cleofa e il centurione che, nel Vangelo
di Marco, proclama: «Questo è veramente il Figlio di Dio».
All'estremità superiore della croce racchiusa in un semicerchio
aperto all'infinito verso l'alto appare la mano benedicente del Padre. Dieci
angeli sono in cima alla croce e fanno corona all'Ascensione muovendosi con
gioiosa agitazione
Sei angeli sono situati, tre per parte, a entrambe le estremità del braccio
orizzontale della croce, e l’atteggiamento delle loro mani indica che stanno
discutendo di questo evento straordinario e invitano l'osservatore a meravigliarsi
con loro.
Tra le figure più
piccole in basso,
gli esperti identificano Longino, il soldato
romano che perforò il costato di Gesù con una lancia, e Stephaton,
il soldato che offrì a Gesù la spugna imbevuta nell'aceto.
E ora, sul punto di
affrontare il tema delle crocifissioni del Christus
patiens in Occidente, devo prima parlarvi del crocifisso di Gero (in tedesco, Gero-Kreuz) la più antica crocifissione
lignea monumentale esistente che si può ammirare in straordinarie condizioni di
conservazione – peccato quella raggiera barocca aggiunta nel 1683 - nel Duomo
di Colonia in Germania.
Scolpito in rovere,
misura in altezza 187 cm. con un’apertura delle braccia di 165 cm., ed è in
parte dipinto ed in parte dorato.
Altra rarità è lo stile,
estremamente realistico ed espressivo, del tutto insolito e finora sconosciuto in
Europa (siamo alla fine del X secolo), uno stile che si rifà a quello dei crocifissi
orientali visti, in occasione di un viaggio a Bisanzio effettuato nel 971,
dall’arcivescovo di Colonia Gero che ha commissionato l’opera ad uno sconosciuto
artista del nord delle Alpi.
Ma la comparsa ufficiale
in Italia dell’iconografia del Christus patiens è legata al cosiddetto Maestro
bizantino del Crocifisso di Pisa, un anonimo artista operante a Pisa nella prima metà del XIII secolo, autore di un crocifisso
dipinto a tempera su tavola lignea sagomata conservato nel Museo
Nazionale di San Matteo di Pisa e risalente al primo decennio del XIII secolo.
È l’immagine del Cristo
sofferente sulla croce o il Cristo morto che, con i suoi effetti patetici e
commoventi secondo le indicazioni devozionali promosse dagli ordini dei mendicanti, sostituì ben presto
la tipologia del Christus
triumphans, rappresentato, come già detto, vivo sulla croce con
gli occhi aperti e con una regalità aliena da dolorosa sofferenza.
Contemporaneo, e inoltre
concittadino, dell’anonimo artista di Pisa, è Giunta Pisano di cui vediamo il crocifisso
che si trova nella Basilica di San Domenico a Bologna (inserire immagine 29).
È l’immagine di un
Cristo sofferente resa con accentuazioni anatomiche, come l’allungamento delle
proporzioni, la curvatura marcata del busto, la resa grafica delle pieghe
addominali e dei tratti fisionomici e il colorito cadaverico; tutti tratti che
collocano l’arte di Giunta a metà strada tra la fissità iconica dell’arte
bizantina e la strada naturalistica, che sarà poi aperta da Cimabue, verso veri
soggetti, dotati di umanità ed emozioni, che saranno alla base della pittura
italiana e occidentale.
Tra le opere giovanili
di Cimabue[2] maggiormente conosciute, c'è sicuramente il
bellissimo Crocifisso ligneo di
Santa Croce a Firenze,
realizzato intorno all’anno 1270 .
È un Crocifisso
grandioso (390 cm. di altezza) con il corpo del Cristo ancora piú dolorosamente
incurvato, rispetto a quello del Maestro bizantino del Crocifisso di Pisa,
nella posa patetica del Christus patiens, ma è soprattutto la resa pittorica delicatamente sfumata a
rappresentare una rivoluzione, con il naturalismo commovente della immagine del
Cristo sofferente, sinuoso, dove la luce modella il volume con il chiaroscuro.
Il pregiato dipinto fu distrutto quasi completamente dalla famosa alluvione del 1966, quando fu violentemente travolto dalle acque dell’Arno che rimossero irrimediabilmente gran parte della stesura pittorica.
Nel 1976 il Crocifisso
fu sottoposto a un radicale restauro,
teso unicamente a conservare, per quanto possibile,
i resti dello
strato pittorico e collocato all'interno dell'Opera
della Basilica di Santa Croce
in attesa di ritornare nel cuore della basilica stessa, sopra l’altare, a otto - nove metri da terra,
da dove si troverà al sicuro da altri e per nulla improbabili attacchi di chi
l’ha già danneggiato e sfigurato… il fiume Arno.
«Credette
Cimabue nella pittura / tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, / si
che la fama di colui è scura»[3]
Quando si
apprestava a dipingere la monumentale croce (578 x 406 cm.) per la Basilica
di Santa Maria Novella a Firenze, verosimilmente negli anni intorno al 1290, il ventitreenne[4] Giotto di Bondone era già un pittore
capace di creare una schiera d’imitatori in città, pur rappresentando
soltanto l'anticipatore di una corrente d'avanguardia che s’impose più tardi.
Questa crocifissione, dipinta a tempera su tavola di legno
sagomata, è il primo soggetto che Giotto affronta in maniera rivoluzionaria,
in contrasto con l'iconografia, ormai canonizzata nelle opere di autori, da Giunta Pisano a Cimabue,
nel Christus patiens sinuosamente inarcato verso sinistra.
Giotto invece dipinse il corpo morto in
maniera verticale, con le gambe piegate che ne fanno intuire tutto il peso.
La forma non più nobilitata dai consueti
stilemi diventò così assolutamente umana e popolare.
In queste
novità è contenuto tutto il senso della sua arte e della nuova sensibilità
religiosa che restituisce al Cristo la sua dimensione terrena e da questa
trae il senso spirituale più profondo.
Solo l'aureola ricorda la sua
natura divina, mentre il resto mostra le sembianze di un uomo umile realmente
sofferente, con il quale l’osservatore potesse confrontare le sue pene.
Una
quindicina di anni dopo, Giotto che si trovava già in quel di Padova, era incaricato
dal ricchissimo banchiere
padovano Enrico Scrovegni
di affrescare la cappella di sua proprietà intitolata a Santa Maria della
Carità.
Secondo la datazione piú condivisa dagli esperti, Giotto tra
il 1304 e il 1306, dipingeva l'intera superficie interna della cappella
secondo un progetto iconografico e decorativo unitario, ispirato da un teologo agostiniano di raffinata
competenza.
La scena
della crocifissione che vedete - consistente in un pannello rettangolare di 200 x 185 cm. -
diversamente dagli altri trentatre pannelli del ciclo, aventi per soggetto le
Storie di Gioacchino e di Maria e
le Storie di Cristo, è legata all'iconografia
tradizionale.
In apparenza pacata, pur nel suo altissimo
senso drammatico, questa scena della Crocifissione dà una misteriosa
sensazione di pace che promana dalla figura di Gesù in croce e inonda ogni
cuore disperato che vi si accosti.
A sinistra il gruppo dei dolenti, con al
centro Maria circondata da Giovanni e dalle pie donne.
Il corpo di Maria sembra un masso, in cui
il suo grido implode, senza riversarsi all'esterno, mentre il pianto sommesso
di Maria di Magdala inginocchiata ai piedi di Gesù, sembra accompagnare il
suo materno dolore.
A destra, in basso, la meravigliosa, regale
veste rossa di Gesù, con le sue bordature dorate, tenuta in mano da due
centurioni, sembra voler sottolineare la spogliazione del Cristo che, come
scrive San Paolo nella Seconda lettera ai Filippesi (6-8), «...pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma
spogliò se stesso, facendosi simile agli uomini; apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce...».
A parlarci del pianto del Padre - che ha
spogliato se stesso "dell'unico Figlio", come a suo tempo aveva
chiesto, quale prova di fede, ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco,
senza poi permettergli di portarlo a termine - resta solo il volo di angeli, che roteano intorno alla croce raccogliendo il sangue che sgorga dal
costato del Crocifisso o strappandosi le vesti.
Ed ora un breve cenno ad un altro affresco
sul tema delle Crocifissione (databile 1308-1310 circa) dipinto da Giotto e collaboratori nel
transetto destro della basilica
inferiore di Assisi, nel quale, come potete
osservare, è evidente la somiglianza della figura di
Cristo con quella della precedente Crocifissione degli Scrovegni (1304-1306).
Dopo
di ché, termino la mia
relazione con le parole dello storico dell’Arte Cesare Gnudi, là dove si
legge: «In questa scena davvero, tutto è così contenuto, così lontano dalle
gridate rappresentazioni di qualche anno addietro nell'Arte, forse perché
Giotto tende a sottolineare «...quel miracoloso accordo fra la nuova verità
umana ed una idealità trascendente che s'incontra e si identifica con questo
sentimento classico del mito...».
«Ne
emerge, in conseguenza, il grande tema della umana realtà, non eroicizzata ma,
sentita e rappresentata nella pienezza della vita morale, dei sentimenti
portati tutti [...] alla più assoluta, oggettiva purezza e, […] sopra ogni
altra presenza, la figura di Cristo, nella profondità del suo umano sentire,
nella bellezza armoniosa della sua forza divina, del suo divino dolore».
|
[1] Che negava la divinità di Cristo e il
dogma della consustanzialità delle tre personalità divine, condannato nel Primo
Concilio Ecumenico Generale della Chiesa, convocato a Nicea dallo stesso
Costantino nell’anno 325.
[4] Nato, secondo la maggior parte degli
esperti, nel 1267.
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