Sono
emozionata, spaventata, dubbiosa eppure totalmente sedotta da questa donna
lontana e speciale di nome Hildegard, che tradotto significa “colei che vigila
nella battaglia”: non so neppure se riuscirò a capire il suo tempo e il suo
cuore e di conseguenza non so se sarò capace di raccontarli poi a voi come lei
merita.
Mille anni
ci dividono, insieme a tutti gli innumerevoli fatali cambiamenti che trasformano,
rinnovano e rigenerano la vita dell’umanità: noi e lei siamo diversi in tutto,
mille anni di pensieri e di parole in mutazione, rendono le nostre e le sue
realtà così diverse da non poterle neppure più paragonare.
Poi,
guardando le illustrazioni miniate dalle sue consorelle, corredo ineffabile
della sua opera mistico-profetica, miniature policrome dove l’eleganza grafica
diventa mistero, nucleo spirituale di un racconto sacro e teatrale insieme, mi
viene in mente che quei disegni colorati, precisi, sintetici e fantasiosi
potrebbero essere frutto di un’elaborazione al computer: immediatamente il
tempo si annulla e ricomincio a pensare a Hildegard von Bingen come ad una
stupefacente, ardimentosa, estrosissima, impegnativa contemporanea.
I mille
anni si assestano alti nei cieli stellati, fra le galassie, fra i numeri
incalcolabili, fra gli oblii fatali e quelli indotti, fra le distanze
insormontabili e le insipienze, e mi avvicino a lei umanamente, con tenerezza,
passione e curiosità come sorella pur speciale e straordinaria, come se il suo
tempo richiudendosi circolarmente, a corona sul mio, acquistasse una possibile
contemporaneità.
Hildegard
Von Bingen monaca benedettina, mistica visionaria, scrittrice, poetessa,
musicista, medico, teologa, studiosa enciclopedica, erborista, cosmologa, è
un’autodidatta tedesca fantasiosa e vorace, ma è anche figura pubblica di primo
piano nei conventi teutonici: polemizza con i potenti, scrive lettere, risponde
vigorosamente ai nemici, aumentando di autorità e di celebrità giorno per
giorno: avrà richieste di protezioni, di consigli, di esorcismi e la sua vita
sarà rovente di passione, per la giustizia, per la Fede , per la libertà, ma
soprattutto per la creatività individuale. Nata nel 1098 nei pressi di Alzey
nell’Assia Renana della contea di Sponheim nella diocesi di Magonza da
Hidelbert di Bermersheim, uomo della baronia teutonica, di nobile aspetto,
silenzioso, bellissimo e triste e da Matilde che era molto più giovane del
marito pur apparendo più anziana e meno vitale, forse per i dieci figli
partoriti in poco tempo.
Nella sua
biografia Hildegard parlando di loro dice: “Forse i miei genitori dopo aver
concepito, partorito, cresciuto questi figli con fatica e affanni e avendo
esaurito tutte le linfe e le forze fresche della loro giovinezza, troppo
stanchi di generare allorché mi ebbero – ero la loro decima figlia – a mala
pena si accorsero di me. Erano ormai nell’autunno della vita. Ecco, io ero
dunque il segno che non potevano più decifrare!”
Hildegard
ha subito la consapevolezza certa della sua stessa eccezionalità perché domina
con intuito lucido e impavido la verità delle cose: a tre anni ha la sua prima
visione mistica: “Fui invasa da uno spargimento di Luce così straordinario –
scriverà – che la mia anima ne fu scossa e quasi rivoltata, ma a causa della
mia età non riuscii a dire niente a nessuno”. La sua intelligenza si rivelò fin
da subito straordinaria, assieme ad un corpo che, pur bellissimo, si rivelò
vulnerabile, scosso da debolezze e da misteriosissimi dolori. La sua vita di
bambina fu serena nelle severe consuetudini del castello nativo: tutta la sua gioiosa
estroversione e tutte le curiosità di bambina speciale, sono seguite con
amorevole partecipazione dalla sua balia, una contadina semplice e tenerissima che
la avvolgerà di affetto e attenzioni fino all’ingresso di Hildegard – che ha
otto anni – nel monastero benedettino di San Disibod. Quando suo padre le
annunciò la decisione del suo allontanamento da casa, la bimba capì con
chiarezza che stava perdendo la guancia dolce della balia, le sere vissute tutti
insieme attorno al fuoco, il muso dei cani, i racconti buffi delle serve, i
capelli di sua madre biondi e teneri come le piume degli uccelli al passo.
Cadde svenuta. “Cicale martellanti mi affaticavano come se il mio capo fosse la
loro voliera!”. Rimase ammalata per giorni, poi capì che era già tutto deciso e
il suo cuore si arrese alla volontà di Dio, esercitandosi a poco a poco a
scivolarvi dentro come quando uno si arrende al sonno.
La sua fu,
da subito, un’intelligenza comunicativa: quando non riusciva a trovare le
parole per chiarire i suoi pensieri e i suoi concetti, le inventava: una è
“viridità”, che segnerà come un marchio intellettuale tutto il cammino
filosofico, teologico, mistico e dottrinale espresso dalle sue opere.
“Viridità” ha la stessa radice etimologica di
vir, di virgo e di viridis e per Hildegard rappresenta l’energia universale che
muove cielo e terra: è forza virile, è amore materno di Dio, ma è anche la
primavera nel suo rinnovarsi e nel suo splendido rifiorire.
La sua vita
fu subito segnata inequivocabilmente da un rapporto diretto e quasi carnale con
la Fede in Dio,
considerata da Hildegard come “vento potentissimo e maestoso che soffia al di
sopra di tutti gli altri venti”.
Entrata
nel 1106, a
soli otto anni, nel convento benedettino di San Disibod - che comprendeva due
comunità monastiche in “condominio”, quella maschile e quella femminile divise
da una piccola chiesa in comune - per decisione familiare e per compiere gli
studi di rito, Hildegard sceglie di prendere i voti a sedici in maniera del
tutto autonoma, motivando con chiarezza i propositi fermissimi della sua
decisione. Esce volentieri e senza lacrime dalla casa paterna e entra per
sempre, felicissima, nel convento di Disibodenberg che considererà per tutta la
vita “ il luogo più vicino al Paradiso”, che odora come il Paradiso di cose
buone, di effluvi di cucina, di verdure cotte, di polpa di frutta, di gigli e
di rose, di erbe medicamentose, di cera sgocciolante, di incenso e di tele di
lino fresche e pulite!
Sarà
affidata a Jutta Von Sponheim una giovane monaca di 22 anni, appartenente ad
una delle più nobili e colte famiglie della Contea.
Impara
velocemente e voracemente a leggere e a scrivere tanto che in convento la
chiameranno “Colei a cui le parole non bastano mai”! Hildegard attraverso le
parole scopre con entusiasmo e gioia i collegamenti fra le cose e le parole,
fra i sentimenti e i pensieri, fra i misteri divini e le manifestazioni della
Natura; collega con entusiasmo le parole al suono, il suono alla musica e al
canto e a tutto quel misterioso universo di silenzi e di armonie, di echi e di
rimandi che proprio il silenzio dominante sapeva rivelare e valorizzare
appieno. Tutto ciò che legge e che
studia le sembra tonico ed emozionante, come se tutte quelle storie fossero
correnti subacquee che affiorando con improvvisi rabbrividimenti, fossero
capaci di scambi di umori vitali fra sé e il mondo in una splendida e virtuale
immersione.
Nella vita claustrale di Hildegard, quasi a
confortare l’orfanezza che gli usi famigliari e sociali del tempo imponeva con
assoluta indifferenza, sboccia una doppia circolarità di nuovo amore materno:
Jutta diventa la mamma di Hildegard, come Hildegard sarà la mamma di Richardis
e di Adelheidis e di tutte le suore che sceglieranno la comunità benedettina
per vivere la loro verginità a Dio dedicata.
La carica
d’amore materno che la verginità ha loro impedito di esprimere con la
procreazione, si riconfigura sincera e vitale a dimostrazione che la donna sa
essere madre anche al di fuori del parto. Hildegarda, oltre la balia della sua
primissima infanzia, ebbe due madri, Jutta e Berthe. La prima, “bella, sguardo
azzurro diamante, è morbida in ogni cosa, come una rosa senza spini, – racconta
Hildegard – durante le ore di scuola anche i suoi gesti sono meravigliosi: apre
ogni pagina come se sollevasse una tenda!”
E’ per
Hildegard una splendida avventura la scoperta di tutte le cose che Jutta le
propone sollevando graziosamente quella piccola tenda! Grammatica e retorica
latina, un po’ di astronomia, la scienza dei numeri, la musica, tutto quel
meraviglioso edificio nel quale Dio aveva posto la dimora degli uomini!
Hildegard si interessa appassionatamente di tutto e questa stessa tendenza,
violentemente sollecitata da un temperamento fiero e dirompente, instaura un
circuito intricato e acceso di interdipendenze fisiche e spirituali.
Con Berthe
invece Hildegard impara la quotidianità della vita pratica, rendendosi conto
che la successione della stessa vita umana, animale e vegetale è un lusso
sovrabbondante, “come uno strascico per un abito già meraviglioso”. Impara a
valutare che esiste in Natura un discrimine fra cura e veleno e diventa
bravissima a trarre preziosi consigli dalle corolle aperte, dalle gemme ancora
chiuse, dagli stecchi e dalle foglie odorose, dai funghi, dall’ortica cotta che
sana le vene, dalle prugnole bollite nel vino che riducono i crampi, dal
liquore di salvia che cura l’alito cattivo, dalla zuppa di mentastro che fa
digerire e dal fieno greco che, ben bollito, vince l’inappetenza.
La terra
in ogni stagione diventa dottrina rivelata, gioia di sapienza, parola di speranza,
diventa vera “viriditas”: Berthe di notte esce col suo falcetto d’argento e
raccoglie agrimonia, corteccia d’acero e salice, felce dolce e tutti i rimedi
per la febbre: impasta farina, mirra e olio di papavero per lenire proprio quei
misteriosi e improvvisi attacchi di paralisi che lasciano Hildegard senza sensi
per ore e a volte per giorni, “inerte come una lisca” e che noi oggi
chiameremmo forse “turbe psicosomatiche”.
Jutta e
Berthe hanno la consapevolezza certa della eccezionale sensibilità di quella
creatura che il destino ha loro affidato e seguono nel silenzio e nella
preghiera anche il prodigio delle sue visioni straordinarie, confidate solo al
padre spirituale, favorendo con discrezione e generosità la tensione di
Hildegarda ad adattarsi all’obbedienza e al silenzio, aiutata e sorretta
soprattutto dalla possibilità di studiare, di cantare, di scrivere e di correre
nei freddi campi e nelle fitte foreste di Disibod, scegliendo crisopazi, berillio,
dittamo, rose e nasturzi.
La
traduzione e l’interpretazione dei testi sacri rinforzano la fede e la dottrina
di Hildegard e le permettono un linguaggio scritto e parlato colto e pieno,
favorendo la libera espressione alla sua profetica visionarietà.
Spirito
fervente e immaginoso, aveva la capacità, anche nell’estasi, di raccontarla con
elegante proprietà di linguaggio, che offre un esempio di scrittura
modernissima per la sintassi rapida e l’alternarsi di frasi acute e sintetiche,
di periodi corti, resi più incisivi da chiusure improvvise.
Di fronte
alle sue considerazioni vertiginose e concentriche – come certi sontuosi
disegni espressi dalle anonime suorine del suo staff – rimaniamo perplessi,
stupiti e sedotti che le donne anche nel lontanissimo Medio Evo, sapessero
offrire, più degli uomini, non tanto le spiegazioni e le rivelazioni dell’immaginario
mistico e surreale, ma riuscissero a concedere un ulteriore tocco immaginifico
alla rivelazione stessa.
Fra gli
anni 1112 e 1115, quando la vecchia badessa muore, Jutta diventa il nuovo capo
di Disibodemberg. Sono per Hildegard anni intensissimi di formazione culturale
e ricchi di pratiche sanitarie-curative attraverso le erbe, fino alla
entusiasmante consapevolezza che ogni singola disciplina ha il compito di
condurre, nell’unità e nelle completezza del sapere, a Dio e alla sua celeste
enciclopedia.
“In quei
giorni – scriverà Hildegard – rinascevo a me stessa senza dolore”, più
drammatiche e combattute sono invece le sue Visioni:
“Come urlo
nella notte, la Luce
chiedeva subito silenzio attorno e si faceva carne! Veniva nella mia voce col
suo tremendo dono di parole!”
Spaventata
e sedotta Hildegard restava, nel corso di queste visioni, sveglia, cosciente,
pronta a ricordare: quella Luce, molto più luminosa di una nuvola che avvolge
il sole, penetrava con segrete mani ogni linfa del suo essere. Hildegard
volava, percorreva cieli e vallate, saliva sempre più in alto fin dove non
esiste più né spazio, né forma, né tempo, ma solo la finissima polvere d’oro di
remote costellazioni.
La
lucidità della consapevolezza diventa tormento nell’incapacità fisica e
psichica di dominare a pieno l’evento.
“Signore
prendimi – grida Hildegard – abbi pietà della mia pochezza!”
Il
rapporto della monaca di Disibod con Dio è un vero, esaltante, visionario,
sincerissimo rapporto d’amore! E’ come se Hildegard offrisse a Dio la propria
verginità, la propria vita e tutte le sue forze fisiche e mentali, chiedendogli
in cambio un protagonismo intellettuale che la facesse diventare una creatura
assolutamente degna di Lui!
Uno
sfrontato avvicinamento, una conquista, certo un delirante e forse presuntuoso
possesso!
Il
rapporto d’amore di Hildegard con il suo Dio non è mai né sereno, né
consolatorio: è sempre affrontato con tono della reciproca ed ineluttabile
conquista.
“Le invasioni
di un totale spargimento di Luce”, come lei chiamava le visioni, assumono,
proprio perché tenute segrete, i toni di una rovente angoscia, come se quello
che le stava accadendo fosse veramente troppo per lei.
“ Ero
spaventata – ricorda Hildegard – delle stesse parole che avevo in me!”
Fra crisi,
febbri, silenzi prolungati, studi letterari e musicali, preghiere ed
sperimentazioni erbarie in un laboratorio annesso al convento, si fa largo nel
cuore di Hildegard la sensazione che la sua vita sia una lunga vigilia d’amore,
e che il tormento “di passare attraverso le tenebre del tempo”, avrebbe dovuto
cedere il posto alla gioiosa attesa.
“La conquista della mia serenità non doveva
essere come la corsa di un bimbo che insegue farfalle, ma come lo squarcio
d’azzurro e l’arcobaleno che seguono la tempesta, dopo che il mondo si era
rovesciato su di me!”
Intanto
Jutta , come le visioni di Hildegard avevano già annunciato, si ammala
gravemente: un cancro, frutto tossico di umori malefici senza rimedio, se la
porta via in pochissimo tempo.
“Piansi a
lungo – scrive Hildegard – come non avevo fatto per la mia madre naturale!”
A 38 anni,
Hildegard, senza avere più tempo né per sbigottirsi, né per accampare timori,
diventa Badessa di San Disibod.
“Era
l’equinozio di primavera, la costellazione dell’Ariete batteva la testa maschia
contro gli alberi risvegliando la potenza delle foglie” quando Hildegarda,
sotto l’auspicio di quelle stelle, si presenta pronta di cuore, alle sue
sorelle nella consapevolezza delle difficoltà esistenti per la convivenza monastica
con Kuno, l’abate misogino, aristocratico, altezzoso e sordo di cuore di San
Disibod, che non considerava paritarie le necessità dei monaci maschi a quelle
delle monache femmine.
Hildegarda, che come dice il suo nome, è
“colei che vigila nella battaglia”, comincia a chiedere insistentemente velli
di carta di pecora, calami e inchiostri, strumenti per musica, stili e
pennelli, libri e stoffe affinché la vita delle sue monache, fosse dignitosa,
colta e felice.
Un vero
scandalo! Irrisione e muta contrarietà da parte di Kuno, fino a che qualche imperioso
avvertimento delle famiglie nobili delle monache, convincerà l’abate Kuno a
demordere e soddisfare le richieste di Hildegard.
E’ di
questi tempi, siamo circa intorno al 1136, l’arrivo provvidenziale e non
previsto del colto e mistico Monaco Volmar e della novizia Richardis
appartenente alla potente e nobile famiglia dei Von Stad.
“Ci
sentimmo subito come la figura di un triangolo - scrive ancora Hildegard - una
combinazione perfetta che per sua natura concentra ogni forza: è base e
altezza!”
Insieme
leggono e commentano le sacre scritture, scrivono versi, fanno musica dato che
Volmar suona l’arpa, la ribeca e il liuto, Richardis canta con la sua voce
limpidissima capace di salire e scendere modulando: spesso Volmar, durante le
lunghe sere invernali, medita o intaglia il legno col suo coltello, Richardis
ricama oppure minia immagini e Hildegard erborizza con cura piante colte di recente.
“Comunicammo
lieti e silenti, ognuno assorto nella propria meraviglia” ricorda la Badessa felice. Sono anni
vissuti come in mistica surplace, fino a che nel 1138, nel corso di una visione
più imperiosa e travolgente delle altre, la Luce ordina ad Hildegard di mettere per iscritto
tutto quanto le viene rivelato.
La badessa
si confida con Volmar - che subito si era dimostrato amico colmo di
comprensione, di rispetto e spirituale amicizia - che l’incoraggia a rendere
note le sue esperienze mistico-profetiche.
Comincia così anche per il convento un lungo periodo di fervido lavoro:
sarà la redazione, la stesura e l’illustrazione di un’opera monumentale, la
prima di una lunga serie di opere hildegardiane.
Richardis
traccia i primi disegni che rivelano quanto Hildegard dice durante le visioni
alle quali ora assistono anche Richardis e Volmar: sarà proprio Volmar a
diciamo “stenografare” le parole dette da Hildegard. Un gruppo di suore
disegnatrici poi completa e amplia e colora i primi schizzi di Richardis: un
team di vergini medioevali intente ad un lavoro collettivo di moderna
concezione comunicativa, l’edizione di un prodotto visionario originalissimo,
al di sopra e al di fuori di ogni loro consuetudine.
Nasce così
“Scivias – Conosci le vie”: Hildegard lo vuol sottoporre anche al giudizio di
Bernardo di Chiaravalle, mistico francescano e dottore della Chiesa, che la
esorta a continuare a documentare le visioni, confidando nell’alto disegno
profetico che le riconosce. Sono questi gli anni durante i quali Hildegard,
quasi per aggiungere completezza alla sua opera, inizia una ricca produzione
musicale. Esiste una lettera di Oddone di Sassonia che esprime profonda
ammirazione per le musiche originali di lei.
La
celebrità della “Sibilla del Reno” come la gente comincia a chiamarla, si
spande velocemente in Germania, in Europa fino a Roma, alla sede papale di
Eugenio III, che in occasione del Sinodo di Treviri leggerà in pubblico alcuni
passi proprio dello “Scivias” di Hildegard.
Poi la
voce delle visioni ordina ad Hildegard di fondare un altro monastero e di
gestirlo in maniera personale e autonoma. Dopo un difficile periodo
caratterizzato dall’ostracismo dell’Abate Kuno e da conseguenti crisi della
salute di Hildegard, avviene il distacco di 18 suore con Hildegard, Volmer e
Richardis, 2 monaci carpentieri e 2 operai da San Disibod: il luogo prescelto è
la roccia di San Rupert, dove il fiume Nahe confluisce nel Reno.
Difficoltà
logistiche, restrizioni e vera iniziale indigenza coinvolgono la nuova comunità,
ma la prova più dolorosa sarà l’opposizione dura, furente, stizzosa di Kuno,
suo diretto superiore, al nuovo progetto.
“Taci, -
le disse Kuno durante i preparativi – e torna a stare chiusa nel tuo vecchio
convento!” Gelosia, invidia e tutta la dominante mascolinità ferita, non
scoraggiarono però la Badessa
del nuovo convento di San Rupert!|
Conosco un
solo ritratto di Hildegard: contro lo sfondo di un apparato liturgico, forse un
altare, forse un tabernacolo, si staglia la parte alta della figura di lei. Un
viso bellissimo, lo sguardo assorto, lontanante, di grandi occhi verde liquido,
ovale perfetto, labbra ben disegnate, naso proporzionato e aristocratico,
incorniciato dalla fitta trama di veli candidi e vaporosi sui quali il velo
nero benedettino riporta l’idea claustrale, anche se stravolto da uno splendido
gioiello, quasi una corona, appuntato sulla parte alta del velo nero che scende
avvolgendo le spalle forse esili.
Non si può
che essere sedotti, nonostante la diversità dei gusti e delle mode, dallo
sguardo misterioso, silente e affascinante di questa strana benedettina più
assomigliante ad una regina che ad una monaca: fermiamoci un attimo a pensarla
mentre si prepara per presentarsi così, con la cura e la tensione di
rappresentare al meglio il suo importante personaggio.
Prima
avvolge i veli bianchi sulla testa ricca di capelli biondi – lei e le sue
monache erano dispensate, per suo volere dal taglio dei capelli - ; passano e
ripassano le piccole dita di Hildegard sui veli morbidi e increspati per dar
loro la foggia desiderata e per accentuare quelle due pieghe aperte sulle
tempie che sembrano offrire un allungamento al suo stesso sguardo: poi
Hildegarda indossa il velo nero, segno irrinunciabile del riconoscimento
benedettino, assieme al gioiello posto nella parte più alta e visibile del
velo: è proprio quel gioiello che deve comunicare il suo prestigio, la sua
nativa aristocrazia e tutta quella tensione per meritare e da Dio e dagli
uomini amore, rispetto e considerazione, gli stessi sentimenti che lei con
passione e generosità ha sempre donato a tutti.
Con
viridità!
Fece
scandalo nella chiesa teutonica medioevale, l’abitudine di Hildegard e di tutte
le sue monache ad ornarsi con manti colorati e gioielli e fiori nel corso delle
grandi feste religiose o delle visite al convento di autorità imperiali ed
ecclesiastiche, ma tutta la sua esistenza, Hildegard ebbe un talento guida
assoluto, la felicità.
Per questo
odiava il nero, i cilici, le macerazioni, considerandoli miopi e inutili vanità
dell’orgoglio: preferì che le tuniche fossero bianche o verdi smeraldo, non
recise mai i capelli alle sue monache, volle che si adornassero di perle e di
rose per proclamare la gratitudine a Dio per la loro giovinezza, volle che
fossero creature consapevoli e istruite, perché diceva, la scuola della felicità,
insegna cento volte meglio di quella del dolore!
Per la sua
accresciuta celebrità, i pellegrini affluiscono sempre più numerosi a San
Rupert: sono malati, curiosi, nobili, plebei, infelici, atei, cristiani,
guerrieri e indemoniati che cercano pace e salvezza: Hildegard accoglie tutti
con amore e instancabile disponibilità: intanto intrattiene rapporti epistolari
con i grandi del suo tempo, col il Papa, con l’imperatore e i Vescovi: spesso
non misura le parole quando si tratta di stigmatizzare condotte e comportamenti
non degni del loro alto ruolo.
Cosa del
tutto insolita per quel tempo, intraprende quattro viaggi di predicazione che
la porteranno in Franconia, in Lorena, in Svevia e lungo il Reno fino a Werden.
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interporsi, in occasione degli scismi verificatisi nel 1160 e nel 1177 ad opera
di Federico Barbarossa, fra Roma e l’imperatore che aveva nominato ben 4
antipapi. Con Federico, l’Imperatore dai capelli e dalla barba rossi come una
vendemmia e dagli occhi color acqua marina che non mentivano mai e che mira
alla restaurazione del Sacr4o Romano Impero, Hildegard, che ha 26 anni più di
lui, avrà un rapporto di conoscenza e di frequentazione intenso e combattivo,
fra considerazione e rispetto, fra riverenza e disapprovazione, documentata da
un ricco e interessante carteggio.
Hildegard
fu scrittrice e compositrice feconda, ma tre sono le opere che compongono il
suo trittico profetico visionario: “Scivias o Conosci le vie”, scritto fra il
1141 il 1158, “Liber vitae meritorum – Libro dei meriti della vita” composto
fra il 1158 e il 1163 e il “Liber divinorum operum – Libro delle opere divine”
la cui stesura iniziata nel 1163 è stata completata nel 1173. Queste tre opere
abbracciano tutta la storia sacra dalla creazione fino alla fine del mondo: ciò
che distingue Hildegard dai teologi della sua epoca è il dinamismo ed il
carattere concreto delle sue visioni che sono di un’incredibile ricchezza. Esse
ispirando tutte le miniature presenti nelle opere stesse, hanno offerto anche
un tipo nuovo di immagini documentarie nell’iconografia medioevale: una specie
di “Gerusalemme celeste” che ingloba tutta l’umanità chiamata al raggiungimento
di una innocenza originaria celebrata nel canto corale degli uomini, degli
angeli e dei santi.
Hildegard
alterna ai suoi impegni teologici, dottrinali, sociali e umanitari che la
pongono nei più alti gradini della storia ecclesiastica medioevale, con due
passioni profondissime di stampo artistico creativo: la composizione della
musica e lo studio delle erbe.
Abbinate, forse
dipendenti l’una dall’altra nell’ispirazione, sono, nella considerazione della
Badessa, libere e dall’ortodossia dogmatica e dalla tradizione della Sacre
scritture: musica e erboristeria sono il doppio binario sul quale scorre la sua
personale creatività, coinvolgendo quell’idea di totale donazione di sé nei
confronti di un’umanità dolente e povera.
Un sua
opera musicale intitolata “Sinfonia dell’armonia delle rivelazioni celesti”,
considerata dalla stessa Hildegard come tappa di avvicinamento alla condizione
paradisiaca, fu composta su un piccolo salterio a 10 corde di legno di ebano,
che la Badessa
aveva sempre nelle tasche del suo abito; è una raccolta di 77 composizioni
liturgiche ripartite fra antifone, inni, responsori e sequenze molte delle
quali dedicate alla Vergine Madre di Dio.
“La
vergine – scrive Hildegard – è la donna che resta fedele a se stessa e si
lascia attraversare dall’altro da sé, preservando la sua anima, chiusa nel
corpo come nel talamo regale”
Femminista ante litteram, la monaca benedettina
dice che le sue figlie indossando la veste bianca dell’ordine, si donano a Dio
perché sono le immagini della celeste viriditas e portano perle e oro gemmato
per inghirlandare le parti del corpo attraverso le quali si manifesta la loro
virtù: le orecchie con le quali ascoltano, il cuore che ama e accoglie, le dita
e le mani che curano e pregano.
Anche nella
esaltata e varia produzione musicale hildegardiana, che lei stessa diceva
vorticasse leggera nell’aria della sua stessa voce, come una raffinata
calligrafia sonora, esiste la fulgida indissolubilità del legame testo poetico
– musica che interagisce nella valorizzazione del messaggio divino.
Hildegard
considerava la capacità di fare musica come un attributo divino e individuava
proprio nella musica e nel canto lo strumento privilegiato per conoscere e per
percorrere le vie che conducono a Dio. Per Hildegard la musica aumenta la
santità della parola, risveglia vibrazioni simpatetiche, riattiva l’unione
dell’individuo con il Cosmo. Pur collocabile nell’ambito della tradizione
alto-medioevale, lo stile musicale di Hildegard rivela una notevole originalità
caratterizzata da improvvisi melismi, da disegni melodici di notevole
estensione, flessuosi, eppure ritmicamente irregolari e discontinui, in cui una
certa ripetitività tematica crea il senso di un ininterrotto flusso musicale, quasi
a spirale, che girando su se stessa crea un effetto altamente ipnotico, una
spinta verso l’alto, una progressiva ascensione e smaterializzazione della
materia sonora.
Vorrei
accennarvi anche qualche parola su “Ordo Virtutum” che è il primo dramma
musicale medioevale destinato alla scena, rappresentato e composto da Hildegard
per un cast esclusivamente femminile: racconta le tappe del faticoso cammino di
Anima, la protagonista, verso la beatitudine. Anima ce la farà perché Virtù, altro
personaggio, le mette a disposizione tutti i medicamenti e i soccorsi di una
Natura provvida e generosa.
Tornano
così le erbe, i fiori, le sementi, il nardo prezioso, la felce dolce,
l’incenso, la ruta, il finocchio e la citronella ad aiutare l’uomo nel
difficile cammino della vita: torna la viriditas dei campi e degli alberi, il
miele e il vino, le tisane di achillea e di tanaceto, il fumo esalato dalla
cannuccia di aloe e di mirra, tornano le conchiglie di fiume, per curare i
corpi degli uomini da quelle malattie alle quali Hildegard si rivolgeva con
gentilezza, come se fossero anch’esse entità da conquistare e da vincere.
Arrivò a
Rupert un’indemoniata di Colonia di nome Sigewise.
“L’orgoglio
dell’antico serpente la teneva avvinta” scrive la Badessa nel drammatico
racconto del lungo e difficile esorcismo, “ e siccome il diavolo odia l’acqua,
le porte aperte dove entra il vento e il sole, odia la musica intonata, tenuta
alta dal respiro, odia le monache che cantano e pregano felici, odia il suono
dell’organo, le medicine buone e le focacce condivise, gli abbracci delle
sorelle e le laudi del mattino, allora io, piccola e infelice Sigewise, ti
curerò con tutto questo!”
E il
demonio si allontanò per sempre dalla piccola ragazza di Colonia!
Nel 1165
Hildegard fonda ad Elibingen, non lontano da Rupert, un terzo convento
destinato a fanciulle non aristocratiche: in questo nuovo convento si dovrà
trasferire tutta la comunità di Rupertsberg per la distruzione del Convento
avvenuta durante la guerra dei 30 anni e sarà proprio il nome di questa
località ad essere abbinato a quello della badessa che passerà alla storia col
nome di Hildegard Von Bingen.
Ma
l’esperienza più amara Hildegard la vivrà un anno prima della sua morte e sarà l’ultima
disobbedienza ai teutonici ordini dei suoi stessi superiori. Molti nobili che
sostenevano economicamente il suo convento, chiedevano di essere sepolti in
quel sacro recinto, protetti dalle preghiere e dai canti delle suore. Uno di
questi aristocratici, di cui non ci è pervenuto il nome, arriva morente nel
convento di Hildegard ricevendo sacramenti e sepoltura. Ma essendo stato in
precedenza uno scomunicato, non avrebbe potuto godere, per le leggi ecclesiastiche,
di questo privilegio. Il vescovo di Magonza impone di disseppellire dal recinto
conventuale l’infelice cavaliere. Al rifiuto netto della Badessa che non vuole
assolutamente violare la sepoltura, obbedendo così alla volontà della “Luce
vivente” delle sue visioni, il convento cade sotto l’interdetto ecclesiastico
con il divieto di celebrare i sacramenti e di cantare gli inni liturgici.
Esiste una lettera sapientissima e appassionata in cui Hildegard difende
coraggiosamente il suo misericordioso operato, rivendicando anche il senso alto
e religioso della musica, affermando che proprio la musica, a cui si dedicavano
quotidianamente le sue monache, esprime quel carattere simbolico che permette
di riunire corpo e anima realizzando appieno così l’armonia cosmica originaria.
L’interdizione
verrà revocata, riconoscendo a lei un comportamento giusto, pietoso e
disinteressato. In quella occasione Hildegard predice il giorno della sua
morte, sarà il 17 Settembre 1179, Hildegard Von Bingen ha 81 anni.
Segni
miracolosi accompagnarono la sua morte: nel cielo apparve un doppio arcobaleno
persistente e luminosissimo che si intersecò nei 4 punti cardinali ad una gran
croce attorno alla quale volavano mille e mille colombe bianchissime: nei prati
attorno al convento fiorirono nasturzi improvvisamente, mirti, ortica, achillea
e rose gloriose e tutta l’erba espresse il massimo della sua viridità.
Dal
convento intanto le monache innalzarono canti purissimi, gli stessi composti,
come essenza di beatitudine, da Hildegard Von Bingen, la badessa visionaria e
profetica dagli occhi verdi che parlava con Dio, che guariva le malattie del
corpo e dell’anima, che scrisse di teologia di musica e di erboristeria, che
parlò a papi e imperatori, una donna medioevale che rivendicò la dignità,
l’intelligenza e la cultura femminile, una monaca che nonostante fosse stata
beatificata nel 1324, per mille anni fu proditoriamente e volontariamente
dimenticata nel gran crogiuolo della Storia dominata dagli uomini.
Ma il 10
Maggio 2012, Papa Benedetto XVI l’ha proclamata “Santa” e il 7 Ottobre dello
stesso anno (2012) l’ha proclamata “Dottore della Chiesa”.
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