di Tersicore Paioncini
INTRODUZIONE
Prospetto
ovest della chiesa negli anni ‘50
|
Il Convento dei Frati
Cappuccini è situato nella collina sovrastante Cagli.
Secondo lo storico
G.Buroni e fissando anche la tradizione degli antenati, in questo luogo
chiamato Monte Calleo, (da Cale, nome primitivo della nostra Cagli), sarebbe
esistito un tempietto pagano dedicato al dio Marte, dio della guerra, ma anche
dell’agricoltura e della natura in genere, come risulta dalle famose “tavole
Eugubine” scoperte nel XVIII secolo tra
le rovine del tempio di “Giove Appennino” nelle vicinanze di Scheggia.
Il tempio pagano
avrebbe dominato la vetta della collina e probabilmente questo aveva un pronao
sostenuto da grosse colonne di granito, una delle quali sembra essere
conservata, assieme ad un capitello altomedievale, attorno all’attuale Convento[1].
Sullo stesso Monte
Calleo, s’insediò fin dal VII sec. Il
Monastero benedettino di San Geronzio e questo sembra a sua volta costruito in
parte sul soprannominato tempietto pagano.
Nascita dei monasteri
La costituzione dei
monasteri nel VI e VII secolo contribuì al passaggio dalla Romanità al
Medioevo, sconvolgendo o superando il precedente ordinamento amministrativo
romano nella giurisdizione del territorio[2].
Con lucidità politica
i pontefici, come Gregorio Magno (573-604), organizzarono il territorio con
principi nuovi preparando giorni migliori per la Chiesa temporale romana.
Nascono così i
monasteri e le abbazie benedettine con il compito di riorganizzare le attività
civili e giurisdizionali di un territorio che, dopo la scomparsa dell’apparato
burocratico romano e con l’avvento dei barbari, non aveva più una guida.
La politica del regno
longobardo di Pavia, in quel momento solidale a Roma con la conversione di
massa dall’arianesimo al cattolicesimo, portò quindi nei nostri territori
appenninici e lungo le vie di comunicazione (vedi la via Flaminia con i suoi
diverticoli), alla formazione di monasteri benedettini, nonché al culto di San
Michele Arcangelo e di San Martino.
I monaci, missionari
per la fede, ma anche per la cultura e l’agricoltura, s’insediarono per
diretta volontà di papa Gregorio Magno e
dei suoi successori, sostituendosi nelle funzioni amministrative degli antichi
“municipi” ormai da tempo scomparsi.
Alcuni abbati diventarono
potenti feudatari terrieri ed ebbero subito una particolare autonomia rispetto
ai vescovi, non solo per l’esenzione delle tasse, ma anche per mancanza del
clero cattolico in una zona, come la nostra, che a seguito delle conquiste
longobarde era stata sede di un clero ariano.
Questo testimonia che
la presenza longobarda nel territorio era tutt’altro che assente, lo
riconfermano i numerosi toponimi, alcune parole di origine longobarda ed alcuni
resti archeologici.
I pellegrini nei nuovi
centri benedettini trovarono rifugio durante gli spostamenti e le abbazie erano
punti di riferimento (vedi San Vincenzo al Furlo). Annessi ai monasteri spesso
sorsero gli “ospitali” che garantivano gratuitamente un alloggio ed il vitto ai
viaggiatori.
IL CENOBIO BENEDETTINO DI S.GERONZIO
La data della
fondazione del Cenobio benedettino di San Geronzio, tra il 616-680, viene letta
dall’annalista Bricchi (alla fine del 1500) in un antichissimo documento
custodito a quel tempo nell’Archivio della chiesa di San Francesco, andato
perduto in seguito ad un incendio[3].
In quel periodo
storico, il monastero di San Geronzio, ora non più esistente, venne costruito
con pompa e maestà; doveva essere fortificato, come risulta da un documento
dell’Archivio Apostolico Vaticano: Monte
Castri Sancti Geronzii, riportato dal Buroni nella sua opera “La diocesi di
Cagli”.
Secondo l’Ughelli,
abate storico del XVI sec., risalirebbe all’anno 700; il Mangaroni Brancuti,
nel XIX sec., afferma che il primo documento (pergamena) che lo segnala è del
1094.
Venne costruito quindi
sul Monte Calleo e vicino alle mura della città antica. Prese il nome dal
martire Geronzio, vescovo di Cervia , che nel 502, tornando dal Concilio tenuto
a Roma indetto dal papa Simmaco contro l’antipapa Lorenzo, giunto che fu a
Campo Ventoso, presso le Foci di Cagli, venne dagli scismatici aggredito e
barbaramente decollato.
Altri cronisti,
compreso il letterato cagliese Leonardo Iacopini, contemporaneo del Bricchi,
affermano che la collina venne poi chiamata di San Geronzio in onore del
Martire. Nella chiesa del monastero venne conservata così la preziosa reliquia
del Martire.
Il Cenobio aveva,
secondo i nostri storici, a occidente del tempio le sue cellette per i monaci;
aveva un chiostro, le sale ampie, i giardini e l’orto. In breve tempo fu
arricchito con possedimenti e favorito da importanti donazioni territoriali da
parte della Santa Sede e dalle molte oblazioni dei fedeli.
I monaci non
riuscivano più da loro stessi a coltivare i terreni e quindi li davano in
“enfiteusi”[4].
Fu un monastero
splendido e potente anche per la sua economia che era considerevole, e così si
protrasse nei secoli successivi. Fu di tal pregio che meritò infatti,
immediatamente, di essere soggetto alla Sede Apostolica e con la protezione dei
papi godette di notevoli privilegi e benefici ecclesiastici. Non aveva
dipendenza dal Vescovo locale, era libero da ogni giurisdizione e usufruiva di
molte esenzioni, come le "decime” e i “censi” da versare alla stessa Mensa
Vescovile[5].
Nel 728 il Cenobio era
annoverato tra i “ monasteri nobili “ con possedimenti vari sul vasto
territorio cagliese e su quello circostante, quindi pare fosse il primo tra i
grandi proprietari terrieri. Riceveva i benefici ecclesiastici di molte chiese:
San Leo, San Sebastiano, San Nicolò del Bosso, San Vitale, San Lorenzo dei
Mastini, San Lazzaro, Sant’Angelo, San Giorgio, San Geronzio del Tarugo…
Esercitava il dominio
feudale su alcuni terreni di Molleone, sul castello di “Taruco” e su vaste
terre di Fano, Fossombrone e Urbino; intorno a Cagli possedeva diverse “tavole”
di terreno.
Questa forza, sorta
dai privilegi che da sempre caratterizzavano la figura giuridica dei Monasteri
benedettini, creò non pochi attriti con il vescovado della nuova diocesi di
Cagli[6]
Nonostante ciò, il prestigio
del Monastero crebbe ancor più quando l’Abbate benedettino faceva parte del
Consiglio Speciale del Comune, assieme al Console, al Vescovo e al Priore della
Canonica.
Le alleanze con le
città vicine e le sottomissioni dei feudatari (vedi anche il Castello di Naro)
avvenivano in Palatio Abbatis San
Geronzii.
Purtroppo però nella
seconda metà del secolo XIII rapida ne fu la sua decadenza, fulminea la sua
scomparsa.
Infatti, allorquando i
Signori abbandonarono i loro castelli e quando questi vennero distrutti, nuova
popolazione venne ad abitare in città; la cinta delle mura fu allargata (1220)
come fa fede il rudero sulla vecchia strada dei Cappuccini e il Monastero fu
compreso nella parte cosìddetta la “Città Nuova”.
Con il sorgere delle
Corporazioni d’Arte e con l’inurbarsi dei nobili, ambedue desiderosi di
sottrarsi ad ogni giurisdizione ecclesiastica, il nostro Monastero perdette
ogni influenza sugli ordinamenti amministrativi, giuridici e militari; di
conseguenza dovette giurare sottomissione al Comune (1250); le riunioni del
Consiglio Generale non si tennero più nel Palazzo del Monastero di San
Geronzio, ma nel Palazzo Comunale.
Il Comune aveva già
assoggettato alla sua giurisdizione le abbazie di Massa e di Montelabbate
(Naro).
Distrutta la città dalle
ire dei Guelfi e Ghibellini con una lotta fratricida nel 1287, il Papa Nicolò
IV con bolla del 20 marzo 1290, soppresse il Monastero e l’univa in perpetuo
con i suoi beni e le sue pertinenze alla “Mensa Episcopale e alla Canonica di
Cagli”.
L’ultimo abbate,
Giovanni, venne trasferito a San Lorenzo in Campo.
Gli stessi vescovi
cagliesi, allora, erano intenti ad estendere la loro giurisdizione a discapito
dei monaci, ad accrescere il decoro e il servizio della Cattedrale e a reggere
le parrocchie. Pertanto furono nominati dei “cappellani” in sostituzione degli
abbati; all’Abbate subentrò il Vescovo ed il Priore della canonica.
Poche sono le tracce
visive che testimoniano il vecchio Cenobio, ma molti sono i documenti che ne
parlano e raccontano della sua vita.
Se ne sono interessati
molti storici e molti studiosi per ricordare la sua importanza e la sua
potenza. Giovanni Mangaroni Brancuti (cronista dell’800) ci racconta che varia
e complessa fu l’influenza benefica che esercitò il Cenobio nel territorio di
Cagli a favore del progresso.
Suoi meriti infatti
non furono soltanto quelli di portare la parola alta di pace tra le discordie
dei feudatari e i tumulti della fazioni, ma diffondere l’istruzione tra il
popolo, dare vigoroso impulso all’agricoltura (tanto da ridurre a campi fertili
le terre incolte e cedere le terre in enfiteusi con il patto di migliorarle) e
favorire la pubblica beneficenza con l’erezione di ospedali come Santa Croce e
San Lazzaro per lebbrosi.
Altro grande merito fu
quello di promuovere l’industria e il commercio con i molini e con le fabbriche
di panni di lana per le quali dovevano in seguito (nel Rinascimento) acquistare
rinomanza speciale i Cagliesi. Si ricorda il famoso “pannino” e la concia delle
pelli da parte dei caligari per finimenti e altri lavori artigianali,
commissionati a quei tempi soprattutto dai Duchi di Urbino.
Il Monastero dopo
diversi anni di abbandono e di crolli, nel 1450 fu distrutto completamente e
mutato in una Rocca fortissima che Federico II da Montefeltro commissionò
all’architetto senese Francesco di Giorgio Martini.
I lavori iniziarono
nel 1480 circa, la fortificazione comprendeva la Rocca in alto e il Torrione in
basso, uniti da un camminamento segreto (“soccorso coverto”).
Di questi se ne
parlerà a parte ed in altre occasioni, giacché proprio in questi mesi si sta
concludendo il cantiere che metterà in luce nuovi resti e si produrranno nuovi
studi sulla Rocca stessa.
La Rocca in alto fu
smantellata dallo stesso Guidobaldo da Montefeltro, affinché, ceduta come da
trattato all’invasore Cesare Borgia detto il Valentino, non rimanesse intatta
in mano sua.
Rocca e Torrione di Cagli dal Codice Magliabichiano di Francesco di Giorgio Martini. (Rielaborazione di Leandro Picchi) |
IL CONVENTO E LA CHIESA DEI FRATI
CAPPUCCINI.
I Conventi degli
Ordini dei Mendicanti nacquero a protesta contro la ricchezza dei Monasteri
Benedettini.Il superiore non si chiama più Abbate
ma Padre Guardiano. Sopra a questo
sta un Padre Provinciale (per tutta
la regione) e sopra un Superiore Generale.
Le fondazioni francescane a Cagli
La prima regola
dell’Ordine dei Frati Conventuali francescani è del 1223, quando era ancora in
vita San Francesco. Le fondazioni francescane a Cagli furono tre:
1.
La
Chiesa Conventuale francescana di Cagli (San Francesco) venne costruita a
partire dal 1234, otto anni dopo la morte di San Francesco (1226). I
Francescani vi si stabilirono intorno al 1240.
2.
Il
Convento dei Padri Cappuccini (dal caratteristico cappuccio quadrato ed
aguzzo), che era stato fondato giuridicamente nel 1528 con la bolla Religionis zelus. Questi s’insediarono a
Cagli nel 1568 costruendo, come vedremo, la Chiesa dedicata a San Geronzio e il
Convento sui resti dell’antica Rocca federiciana di F. di G. Martini.
3.
La
comunità dei Frati Minori dell’Osservanza detti anche Zoccolanti che venne
ospitata a Cagli nel 1617 nella chiesa allora denominata di Sant’Andrea in via
Atanagi nel luogo in cui in seguito sorgerà la chiesa di San Filippo Neri (sec
XVIII). Gli Zoccolanti, cresciuti di numero, si trasferirono pochi anni dopo fuori
le mura della città, costruendo la chiesa con il nome di “Sant’Andrea fuori le
mura” e il loro convento dal 1620 al 1630 circa[7].
Notizie storiche sulla nascita del Convento
Nel luogo dove sorgeva
la Rocca Martiniana, nel luglio del 1566 si cominciò a fabbricare il Convento
dei Cappuccini (così dicono il Luzi e il Mangaroni Brancuti) con le stesse
pietre ricavate dalla rovina di quella, sotto la direzione di Frate Bernardino
da Forlì e per iniziativa di Fra Ubaldo da Cagli che fu anche il vicario della
Marca. Egli scelse il luogo e tenne i contatti con la Comunità per i lavori da
farsi.
Il Comune di Cagli si
era rivolto al Capitolo Provinciale dei Cappuccini nella metà del maggio 1565,
per chiedere un convento nel proprio territorio[8].
La scelta del luogo
non poteva non cadere sul colle a dominio della Città sul quale erano ancora
gli avanzi cospicui della Rocca. Non
essendo sufficiente lo spazio che doveva attorniare il Convento,si decise di
venire a patti con il capitano Bernardino Benedetti che nel frattempo era divenuto proprietario
di una parte della Rocca. Per compenso gli venne dato un altro luogo.
I Cappuccini per
questa fabbrica chiedevano nella
riunione del 1565 al General Consiglio del Comune di Cagli un aiuto per la
“prestazione gratuita d’opra manuale, tragitti e vetture”
Nel 1566 si diede inizio
ai lavori di preparazione per l’erezione del Convento e a “opre e careggi”. Si
fece un sondaggio e poi una lista di coloro che possedevano bestie da tiro o da soma, tanto nella città
quanto nel contado per l’aiuto alla fabbrica, scegliendo i più abbienti tra la
popolazione. Ci fu quindi una corale partecipazione delle autorità cittadine,
degli istituti ecclesiastici ed un vivo desiderio da parte dei cagliesi.
Il 30 agosto 1568
Paolo Mario della Rovere, vescovo di Cagli, gettò la 1° pietra della chiesa che
dedicò a San Geronzio, già titolare della precedente benedettina.
Nello stesso anno
furono introdotti i religiosi Cappuccini.
Titolari del diritto
di proprietà degli edifici non erano i Cappuccini, come d’altronde imponeva la
rigorosa applicazione del concetto di povertà, bensì gli appaltanti.
Essendo anche a Cagli
il Comune il committente, a questo i frati rivolgevano le loro richieste di
necessità e a carico della Comunità erano le spese di mantenimento.
Le reliquie di S. Geronzio
Con la storia immediatamente
successiva alla fondazione del Convento, si intrecciano le vicende delle
reliquie di S. Geronzio ed il loro smarrimento.
Sia il Bricchi che
Leonardo Iacopini, storici contemporanei cagliesi tra la fine del XVI e del
XVII sec., parlano di una “celletta” nella montagnola che conteneva alcune
arche di pietra contenenti ossa sicuramente di qualche “santo beato”.
Su consenso del
vescovo Paolo Mario della Rovere questa venne demolita per salvaguardare
l’intimità dei frati, perché causa di disturbo alla quiete spirituale.
Il Mangaroni Brancuti
riferisce che nell’ottobre 1883 il sacerdote mons. Raffaele Celli, nell’intento
di rintracciare il sito della cappelletta, tentò sulla montagnola un’operazione
archeologica.
Si rinvennero alla sommità
del colle, verso oriente, i resti di un pavimento e di una piccola finestra
corrispondente alla descrizione della celletta fatta dagli antichi cronisti,
senza il rinvenimento però di alcuna tomba.
Purtroppo più tardi
qualche frate asportò quelle pietre per fabbricarvi nientemeno che un pollaio.
Così le reliquie di
San Geronzio furono disperse.
A questo proposito è
da considerare anche che nel Medioevo la brama delle reliquie sacre,
specialmente da parte di vescovi di Germania che non ebbero nella terra di
origine martiri di religione cattolica, nelle loro discese in Italia
desideravano raccogliere i resti dei corpi santi.
Ad ogni modo,
qualunque sia stata la ragione dello smarrimento delle ossa del martire
Geronzio, la tradizione popolare, religiosa e letteraria è concorde nel fatto
che siano state sepolte nel monte che da esso prese il nome e dove sorse il vecchio
Monastero benedettino.
La ricostruzione del Convento dei Cappuccini
Secondo le cronache il
Convento del 1566 era “poverissimamente fabbricato” e che solo dopo
quarant’anni “crollava da ogni parte”.
Fu così necessario
ricostruirlo nel 1605.
Benefattore insigne fu
il facoltoso, generoso e colto cagliese Ettore Berardi, il quale aveva fatto
voto di donare mille scudi ai Cappuccini, se Dio avesse concesso a Francesco
Maria II della Rovere duca di Urbino, “la bramatissima prole”.
La grazia giunse nel
1605 e il Berardi sollecitamente si adoperò per mantenere la promessa.
I lavori nel 1610
erano compiuti e chiesa e convento si presentavano all’incirca nell’aspetto
attuale, sul modello dei Cappuccini.
La chiesa fu
consacrata nel 1706 dal Vescovo di Cagli Benedetto Luperti e fu dedicata a San
Michele Arcangelo, San Geronzio e San Filippo Neri.
Il 3 giugno del 1781,
chiesa e Convento subirono i gravi danni del terremoto che devastò la città di
Cagli e furono pertanto eseguiti da parte del Comune lavori di rifacimento; fu
ricavato un pozzo nel cortile esterno e su una colonna ancora si legge la data
1789.
Le soppressioni
Sono note due
soppressioni nel secolo XIX che sconvolsero gli ordini soprattutto mendicanti.
La prima risale al
1810 ed è detta Napoleonica da colui che la decretò. Anche il Convento di Cagli
fu chiuso ed incamerato, ma non fu asportato nessun dipinto. I libri della
biblioteca convenutale, raccolti da Michelangelo Tocci da Cagli (il frate
colto), in parte finirono in Urbino.
I religiosi nel
febbraio del 1815 poterono rientrare in Convento e rivestire il saio cappuccino
per opera del Vescovo di Cagli Alfonso Cingari. I libri della biblioteca furono
riconsegnati a Fra Michelangelo Tocci ad eccezione di alcuni rari e pregevoli
che andarono smarriti [9].
Nel 1866 con la “soppressione
piemontese“ e l’applicazione della legge Valerio per le Marche voluta dal Regno
d’Italia, tutti i frati furono scacciati dal Convento che fu demaniato e si
ottenne che la chiesa restasse aperta al pubblico con la presenza di un custode
che fu padre Giuseppe da Scapezzano, assai benemerito anche per aver raccolto
le “memorie “ del Convento.
Nel 1881 due padri
cappuccini, sotto il nome civile, riuscirono a riscattare il Convento a prezzo
di lire 5800 e così la vita riprese regolarmente. Il Convento venne restaurato
e nel 1894, come indica una lapide, fu costruito un “professorio” per la
formazione dei giovani cappuccini, che durò poco.
Nel 1909 il Convento
corse nuovamente il pericolo di chiusura per decisione dei superiori maggiori
dell’Ordine, i quali giudicarono che i religiosi “non potessero viverci”, ma
con una pubblica sottoscrizione da inviare al Generale dell’Ordine e al Papa,
venne revocata la decisione di chiusura.
Il Convento fu
sottoposto ad ulteriori lavori di restauro nel 1950 e poco dopo si intervenne
nella chiesa rispettando l’antica struttura. Altri lavori eseguiti tra il 1975-76
hanno interessato nuovamente la chiesa e la biblioteca conventuale.
Ora è di nuovo
minacciata la soppressione del Convento per mancanza di frati.
L’attivita’ dei Cappuccini
L’attività dei
Cappuccini, come in altri conventi delle Marche, fu quella apostolica e sociale. In primo
luogo essi si dedicarono alla predicazione e alla collaborazione con le
parrocchie, comprese alcune opere sociali e culturali. In qualche momento di
emergenza si dedicarono all’assistenza dei contagiosi, quando a Cagli scoppiò
un’epidemia di tifo nel 1817 e una di colera nel 1836.
Essi diedero a tutti
un forte esempio nel ricordo di San Francesco e furono dichiarati benemeriti
della città dalle autorità municipali.
Figure eminenti
Tra le figure
importanti da ricordare è Padre Ubaldo da Cagli che, secondo il Gucci, fu il
primo Padre guardiano del convento, quello che scelse il sito per l’ubicazione
dello stesso nel 1566.
Fra tutti spicca il
beato Benedetto Passionesi da Urbino per mirabile santità di vita, riconosciuta
ufficialmente dalla Chiesa[10].
Un altro personaggio
benemerito fu padre Francesco Bonafede da Jesi del XVII sec. Visse per molti
anni nel Convento di Cagli, ebbe una vita molto austera ed integerrima
osservando integralmente i precetti della regola[11].
Ricordiamo ancora
padre Masseo da Cagli, l’operatore sociale. E’ il frate che da ingegnere vestì
l’abito cappuccino. Nel 1650-52 si rese benemerito a Cagli restaurando le
condutture dell’acquedotto cittadino aumentandone la portata con la cattura di
nuove sorgenti, con una tecnica per quei tempi ammirevole. Era abilissimo
“nell’allacciare vene”. I Cagliesi, per riconoscenza e a memoria del fatto, gli
dedicarono una lapide sulla via che conduce al Convento, vicino all’antica
porta della città.
Padre Michelangelo
Tocci da Cagli, al secolo Donino. Il cappuccino colto godé molta stima fra i
fratelli per cultura, diede alla stampa diversi libri. Morì a Cagli 1809. Viene
ricordato in modo particolare per aver dato origine e per aver arricchito la
biblioteca del Convento di Cagli di buoni libri, in parte trafugati durante il
periodo napoleonico. E’ ricordato anche come predicatore, sensibile all’arte
che favorì con acquisti vari.
DESCRIZIONE E STILE
Le regole architettoniche
dei Conventuali Francescani, sono improntate ad un principio di semplicità e di
povertà, nascono a Narbonne in Francia nel 1260; quelle della Riforma dell’Ordine
dei Padri Cappuccini sono severamente fissate dalle Costituzioni albacinesi del
XVI secolo, sempre improntate con gli stessi severi principi francescani.
Punibili erano i trasgressori.
Esterno
Il
Convento di Cagli, afferma il Santarelli, dopo quello di Camerino, per
antichità e per stile genuinamente cappuccino, è forse il più insigne fra tutti
gli altri conventi dei Cappuccini delle Marche.
E’
infatti un esemplare raro e tipico dell’antica edilizia architettonica
cappuccina, nel segno di una spiccata povertà e di una elegante semplicità di
forme.
Per
comprendere la tipologia dei conventi cappuccini, infatti, occorre aver ben
chiara la forte aderenza dei Padri alla povertà predicata con tanta forza da S.
Francesco.
La
presenza, all’esterno, di un marcapiano realizzato in pietra rosa e che corre
lungo tutto il corpo del Convento prospiciente la città, non può essere
giustificato se non come un interessante avanzo della fortezza martiniana (il
cosiddetto “cordolo”). Pertanto, il
poderoso mastio (alto 35m) della Rocca progettata da Francesco di Giorgio
Martini, sembra doversi collocare all’incirca nel sito ove attualmente è posizionata la chiesa. Lo
spazio sottostante, comprendente parte del Convento e della chiesa, dovrebbe
conservare i resti di una porzione cospicua della Rocca.
Sono
in corso ulteriori ricerche archeologiche che ne completeranno il quadro.
La chiesa, con la copertura a capanna secondo il sistema conventuale che
come detto imponeva semplicità anche nelle architetture, è preceduta da un
basso portico a tre archi poggianti su pilastri quadrangolari in muratura e
soffitto con travi, ma all’origine con volta a crociera; inoltre la chiesa è
munita di un piccolo campanile a vela con apertura centinata.
Interno
L’interno della chiesa, ad aula unica, presenta ornati lignei di alta
ebanisteria che la caratterizzano nel tipico stile cappuccino: semplicità ed
eleganza che creano un clima di devoto raccoglimento.
Il soffitto, restaurato nel 1975 e riportato alla primitiva fisionomia
architettonica, presenta quattro capriate a vista; vi è un solo altare e il
coro retrostante.
Alle pareti della chiesa, subito dopo l’entrata, sono due tele ad olio
raffiguranti da una parte S. Michele Arcangelo e S. Giovanni Battista,
dall’altra parte S. Geronzio e S. Filippo Neri.
Sec. XVII. Autore ignoto
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Autore ignoto.
Forse del 1610.
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Risalgono al XVII secolo e sono di autore ignoto; potrebbero essere della
bottega del Piazza, autore della tela
che si trova nel coro, dietro all’altare maggiore[12].
Nella parte destra della chiesa sono tre piccole cappelle
intercomunicanti (forse non esistenti all’origine), con volta a botte e chiuse
da alte balaustre lignee.
Nell’altare della prima cappella è un quadro raffigurante
“S. Serafino da Montegranaro guarisce una bambina inferma “. L’autore è
ignoto ed è databile tra il XVIII e il XIX secolo. Raffigura il Santo che tocca
con un crocifisso la testa di una bambina. L’episodio dovrebbe rappresentare un
miracolo del Santo a Iesi, allorché restituì la parola ad una fanciulla muta.
Lo stile di rinnovato gusto classico, potrebbe riferirsi a Sebastiano Ceccarini
di Fano che fu in ambiente locale un maestro noto. (A Cagli nella sagrestia
della Chiesa di S. Filippo c’è un dipinto di una Madonna settecentesca del
nominato autore.)
A questo altare un tempo le donne del territorio cagliese recavano i loro
bambini infermi invocando la protezione di S. Serafino.
Nell’altare della seconda cappella è oggi la statua di S. Francesco
scolpita da Daniele Buselli del 1977; bella è l’architettura lignea, che fa da
sfondo alla statua, risalente al XVIII secolo[13].
Nel terzo altare è collocata la tela ad olio di autore ignoto del XVIII –
XIX sec. rappresentante “S. Lorenzo da Brindisi comunicato da Gesù” beatificato nel 1783. L’autore potrebbe
essere un pittore pesarese dell’epoca come Pietro Tedeschi o Gaetano Bessi.
Quest’ ultimo è già presente nel convento di Cagli con il dipinto “Auxilium
Christianorum”, ora è a Potenza Picena.
ALTARE MAGGIORE
Ciborio
Nell’altare
maggiore spicca per raffinata esecuzione il ciborio in stile barocco,
realizzato in legni policromi a motivi ornamentali geometrici e tarsie in osso
e madreperla, con le colonnine tortili, le balaustre e le volute che sorreggono
il cupolino a cipolla.
Per
lo stile e per alcuni elementi che lo avvicinano molto a quello della Chiesa
dei Cappuccini di Cingoli firmato da Giuseppe da Patrignone, questo tabernacolo
può risalire alla fine del 1600 e può essere uscito proprio dalla bottega del
cappuccino patrignonese, autore di altri consimili lavori di ebanisteria a
Fossombrone (1685) e a Fermo.
Nell’abside,
in alto a sinistra, si trova una piccola apertura che permetteva agli anziani
frati ammalati di poter seguire le funzioni liturgiche.
Pala del Cristo morto
La
pala dell’altare maggiore raffigura “Cristo morto sorretto da un angelo fra i
Santi Caterina di Alessandria e Geronzio”. Un tempo era ritenuta un lavoro di
Fra Bernardo Catalani di Urbino, nello stile della scuola di Raffaello. Intorno
al 1992 il dipinto, restaurato, è stato attribuito con buona ragione da Lorenza
Mochi-Onori, soprintendente dei Beni Artistici e ambientali in Ancona, a
Gerolamo Cialdieri (1593-1680), discepolo del pittore Claudio Ridolfi; è stato
datato quindi intorno al 1630.
Sullo
sfondo si scorgono vari angeli che reggono in braccio bambini uccisi con
allusione alla “Strage degli Innocenti”. Sul lato destro è Santa Caterina
d’Alessandria (Vergine martire del IV sec.) in ginocchio, regge una palma,
simbolo del martirio e un libro, simbolo della scienza filosofica. Sotto le sue
ginocchia sta la ruota chiodata ed a terra giace la spada: strumenti del
martirio. Ha la corona in testa ed il vestito damascato perché di stirpe regale[14].
Il dipinto nel
complesso contiene un soggetto singolare, certamente estraneo alla tradizione
iconografica cappuccina, anche perché non vi è raffigurato nessun Santo
francescano.
L’autore del dipinto,
Gerolamo Cialdieri, fu allievo e poi collaboratore paritario del pittore
Claudio Ridolfi da cui apprese vari spunti artistici; spesso si sostituiva agli
impegni del maestro stesso durante le sue assenze. Reggeva una bottega in
Urbino, ma lavorò molto anche a Cagli e dipinse in vari palazzi e chiese della
città.
Di Gerolamo
Cialdieri ricordiamo a Cagli nella
chiesa di Santa Maria della Misericordia una piccola tela, una predella, del 1634 ”La strage degli
innocenti”. Recentemente da una ricevuta di pagamento rilasciata dalla Confraternita annessa e
ritrovata da Ermes Maidani, è stato riconfermato l’autore e la data di
esecuzione del lavoro.
Dello stesso autore
sono due affreschi nella chiesa di San Giuseppe
posti ai lati dell’altare
maggiore e datati intorno al 1634, assieme ai numerosi dipinti nel soffitto a
botte sovrastante . Nella chiesa di S. Domenico è la piccola tela
riproducente “l’Incoronazione della
Vergine “. Nella chiesa di S. Andrea
degli Zoccolanti è la “Madonna
con Santi”” di recente attribuzione e in Acqualagna (al Pelingo) è la tela dell
“Madonna del Rosario”.
A Palazzo Benamati
il Cialdieri stuccò e dipinse il
soffitto di una stanza con scene della “ Gerusalemme Liberata “ con data 1635. Anche
a Palazzo Zamperoli, da parte di alcuni critici d’arte, non è esclusa la sua presenza o quella dei suoi allievi di bottega, con
dipinti e stucchi molto interessanti.
Madonna in gloria con Bambino e Santi
Nel coro dietro
l’altare maggiore, è il dipinto intitolato “Madonna in gloria con Bambino e
Santi”, opera datata da Lorenza
Mochi-Onori intorno al 1611.
San Geronzio regge in mano un modelletto della città di
Cagli in atto di offrirlo alla Madonna, che documenta in
maniera precisa i vari
monumenti esistenti allora; vi è San Michele Arcangelo in alto, San Carlo
Borromeo, San Francesco d’Assisi, San Domenico di Guzman, Sant’Antonio da
Padova e San Bernardino da Siena.
Il dipinto fino a poco
tempo fa era considerato di autore ignoto. La firma dell’autore “Fr. Cosmas cap. pinxit”, venuta fuori dopo il restauro, indica
quindi il nome di Fra Cosimo (o Cosma)
da Castelfranco Veneto, al secolo Paolo Piazza (1560-1620); è possibile
leggerla a sinistra in basso, sul fondo esterno della calzatura di San
Bernardino.
L’autore, prima di
entrare nel 1598 nell’Ordine dei
Cappuccini con il nome di Padre Cosimo, fece un apprendistato presso il pittore Paolo
Veronese. La stessa intonazione coloristica, con gli azzurri dominanti,
riconduce alla Scuola Veneta, specie nella interpretazione del tutto personale
di Palma il Giovane che fu anche lui suo maestro e che ebbe rapporti con i Duchi di Urbino presso i quali
soggiornò.
Paolo Piazza dopo aver
lavorato a Praga per il sovrano Rodolfo II nei primi anni del 1600, rientrò a
Venezia nel 1608[16].
Il dipinto, come detto
, è stato individuato e studiato da Lorenza Mochi Onori nel 1992, la quale
afferma che: “le figure sembrano galleggiare assieme a sferiche teste di
cherubini…, la scena è proiettata in un vuoto irreale…”. Ella ravvisa strette
analogie tra questa pala e quella dello stesso autore conservata nella chiesa
di San Giovanni a Rimini del 1611 ed ambedue mostrano un certo influsso
manieristico degli artisti attivi presso la Corte praghese[17].
A Roma il Piazza lavorerà
per i Borghese e a contatto con l’articolata cultura romana, supererà
“l’esasperato manierismo rudolfiano” presente nelle opere eseguite tra il 1608
e il 1611.
Va notato che San
Carlo Borromeo, presente nel dipinto, fu canonizzato il primo novembre 1610 e
proprio in quell’anno fu portato a termine la ricostruzione del Convento e
della chiesa. Era costume infatti raffigurare santi beatificati e canonizzati
nell’anno in cui si compivano lavori significativi.
Questa è da
considerare rara opera presente in terra marchigiana perché il dipinto è un
interessante documento del patrimonio artistico dei Cappuccini marchigiani in
considerazione anche della grande fama, nell’Ordine e fuori, goduta
dall’autore. Padre Cosma è considerato uno dei pittori cappuccini di più vasta
risonanza per la qualità ed il numero delle sue opere in parte perdute e in
parte conservate in Austria (Innsbruk) in Germania (Monaco), in Boemia, in
Italia (a Roma per Paolo V, a Venezia per il Doge), a Castefranco Veneto, a
Rimini, a Cupramontana, a Borgo San Sepolcro ed altrove.
Questo recupero
cagliese può costituire un’altra tessera nel ricco mosaico delle sue attività e
confermare talune caratteristiche del pittore.
Il coro ligneo è
quantomai semplice, senza braccioli che suddividono gli stalli. L’alzata è in
legno povero.
Alcuni dipinti nel
corridoio del convento sono del 1800.
REFETTORIO
Nel 1976, durante i
lavori per un nuovo impianto elettrico nel refettorio del Convento, fu rimossa
un’ampia tela raffigurante “ L’Ultima Cena” che occupava l’intera parete di fondo del locale.
Al di sotto di questa
venne alla luce un dipinto murale ad olio ugualmente esteso a tutta la parete,
raffigurante la “Lavanda dei Piedi”. Ai lati Sant’Antonio da Padova e San
Francesco d’Assisi. Le pareti di lato poco dopo rilevarono altri dipinti murali
raffiguranti santi a mezza figura ed un soggetto allegorico cristologico.
La tela che copriva il
grande affresco della Lavanda dei piedi fu dipinta nel 1833 e dal 1993 si trova
nel Convento dei frati Cappuccini di
Macerata. Il sottostante dipinto murale, restò nascosto per circa 143 anni.
E’ possibile che
questi affreschi più antichi siano stati ricoperti fin dai secoli XVI e XVII
giacchè i Cappuccini avevano esigenza di austerità e semplicità.
Il dipinto ad olio
della “Lavanda dei Piedi” è stato restaurato nel 1977 con il finanziamento
della Soprintendenza. Dallo stile, si desume che quasi sicuramente la scena
principale sia stata dipinta nella seconda metà del 1500 e così le due figure
di santi fuori della cornice: a destra Sant’ Antonio da Padova con il giglio e
a sinistra San Francesco d’Assisi con il libro. Di epoca posteriore dovrebbe
essere l’immagine della ”Vergine coronata di dodici stelle” a mezza figura
entro una cornice ovale[18].
Questa figura infatti, stando ad alcuni indizi stilistici, dovrebbe risalire
alla seconda metà del 1600 o la prima metà del 1700, così anche l’ornamento
della cornice. (da Santarelli)
L’affresco raffigura dunque
Gesù mentre lava i piedi a Pietro con una corona di apostoli e discepoli. La
scena è debolmente illuminata da una lampada soprastante. Non esistono
documenti che indicano l’epoca e l’autore della scena. La data cosiddetta post quem dovrebbe essere il 1567, anno
in cui i Cappuccini presero possesso del Convento. Inoltre l’analisi stilistica
ce la pone entro l’ultimo trentennio del 1500.
Quanto all’autore,
conferma il Santarelli, ci fa venire in mente il cosiddetto “manierismo metaurense” tra Luzio Dolci,
Giustino Episcopi e Giorgio Picchi: tutti e tre di Urbania ed operosi
protagonisti.
Come già detto,si
tratta di quel fenomeno artistico della fine Cinquecento e inizio Seicento che
si presenta anche nell’entroterra urbinate, di confine tra le Marche e la
Toscana.
I pittori metaurensi
rielaborano quindi dati di cultura del manierismo tosco-romano (Pontormo, Giulio
Romano) mediati come dice la Mochi Onori, dall’opera di Raffaellino del Colle, attraverso
la conoscenza di “testi della cultura figurativa nordica”.
Il Santarelli
confronta questo affresco con la “ Pentecoste” eseguita da Giustino Episcopi e
Luzio Dolci nel 1560 per la chiesa abbaziale di Urbania .
Se si osservano alcune
figure di apostoli troviamo incidenze della maniera romana da un lato, come il
personaggio raffaellesco in piedi, e dall’altro taluni accenti nordici (vedi
riflessi sulla testa del Cristo biondo), che sembrano ricondurre proprio al
manierismo metaurense . Il Dolci, fra l’altro , nel 1572 , firmava la “Natività
di Maria” per la chiesa di S. Chiara
proprio a Cagli, mentre l’Episcopi, a
Piobbico, realizzava affreschi nel Castello Brancaleoni subito dopo il 1574.
L’opera potrebbe essere attribuita o all’uno o all’altro, oppure eseguita in
collaborazione giacché talora essi operavano assieme.
Nel 1993 , ripresi i
lavori di restauro del refettorio sotto la sorveglianza della Soprintendenza ai
Beni Artistici e Storici delle Marche nella persona della dottoressa Benedetta Montevecchi e finanziati dalla
Provincia dei Cappuccini delle Marche, sono emersi altri affreschi sulle pareti
laterali. Sono dodici dipinti di santi a
tempera più una figura allegorica di Cristo a mezzo busto.
Iniziando dalla parte
destra:
1° Riquadro.
Forse rappresenta Salomone o un profeta .
2 ° Riquadro. E’ indecifrabile perché quasi
del tutto abraso.
3° Riquadro. E’
illeggibile perché quasi del tutto perduto.
4° Riquadro. Vi s’intravede
una figura di santo il cui volto, iconograficamente, sembra richiamare quello
di San Pietro.
5° Riquadro. In un
cartiglio si legge la parola “Agni” da cui si deduce che possa trattarsi della
figura di San Giovanni Battista, del quale s’intravede metà del volto .
6° Riquadro:
Personaggio ignoto.
7° Riquadro. La pittura
sulla parete di fondo è stata deturpata da una traccia di cemento nel 1976,
durante i lavori del nuovo impianto elettrico: dovrebbe trattarsi di un “santo
martire” come suggerisce una palma verde sul lato sinistro.
8° Riquadro. Vi si
scorge un personaggio con la corona sul capo, forse il “Cristo regale” e sopra,
a monocromo, la figura allegorica della “ Morte” con la falce, con sopra un
cartiglio recante la scritta : “Omnia
mihi subdita “ (tutto è a me sottomesso). La immagine della morte sembra
più antica di quella del Cristo.
9° Riquadro. Figura di
Santo con palma del martirio, forse un apostolo (San Giacomo Maggiore).
10° Riquadro: Figura
di uomo di cui si scorgono due terzi del capo. Non è identificabile, ma appare
di buona esecuzione per l’espressione degli occhi.
11° Riquadro: Figura
di santo o di santa avente bandiera con croce ( forse S. Giorgio o S. Orsola).
12° Riquadro: Figura
di santo, dovrebbe identificarsi con S. Sebastiano per le frecce che vi si
scorgono.
13° Riquadro. E’ una
figura intera corrispondente forse al re David come fa supporre la corona in
capo. Fa “pendant” con la figura di fronte, forse Salomone.
Questi affreschi sono
uniti da festoni che corrono tutt’intorno e che includendo anche la parte
inferiore della strombatura della finestra; sembrano risalire ad una stessa
epoca, forse, dice il Santarelli, potrebbero risalire a poco dopo la prima metà
del secolo XVI. Allora viene da domandarsi: questi affreschi furono eseguiti
prima che i Cappuccini nel 1576 si insediassero nel loro convento costruito
sull’antica Rocca feltresca? I soggetti non sono francescani. La Rocca al tempo
della fondazione del Convento era proprietà di Bernardino Benedetti il quale
può averla anche utilizzata per sé o per altri. Quindi potrebbe essere
possibile che i Cappuccini abbiano adattato a refettorio un precedente locale
della Rocca già decorato con figure di santi, poi coperte o subito in ossequio
all’austerità e semplicità cappuccina, o dopo, in proseguo di tempo, in data
sconosciuta.
Dipinto parietale. (8° riquadro)
Altri critici invece
preferiscono collocare gli affreschi laterali in un momento successivo, cioè
all’epoca della ristrutturazione del 1605-10 da parte del facoltoso e generoso
cagliese Ettore Berardi.
In questi affreschi
sono forti i richiami stilistici rinvenibili nei dipinti seicenteschi presenti
nelle lunette della volta della sagrestia della chiesa di San Francesco in
Pergola.
Il dibattito rimane
aperto.
Tersicore
Paioncini
Bibliografia
Giovanni Mangaroni-Brancuti “Il
Cenobio benedettino di San Geronzio” – E.Balloni & figlio editori. 1905
Sac. A.Tarducci “Dizionarietto
biografico cagliese” – Casa editrice Balloni. Cagli 1909
Sac. Prof.Gottardo Buroni “Cagli,
monumenti e pitture” – Scuola tipografica “Orfanelli del Sacro Cuore” – Città
di Castello 1927
Sac. Prof.Gottardo Buroni “La
diocesi di Cagli” – Scuola tipografica “Bramante” – Urbania 1943
Luigi Michelini Tocci “Eremi e
Cenobi del Catria” – Cassa di Risparmio di Pesaro. 1972
A.Mazzacchera “Catria e Nerone, un
itinerario da scoprire” – Comunità montana del Catria e del Nerone. 1990
Giuseppe Santarelli “I Cappuccini
a Cagli”- Provincia Picena Frati Cappuccini. Ancona 1996
A.Mazzacchera “Il forestiere in
Cagli”- Pro Loco Cagli. 1997
James Hall “Dizionario dei
soggetti e dei simboli nell’arte” – Longanesi. Varese 2001
L.B.Venturi”I monaci bianchi di
Pesaro” – Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro. Ed. Villa Verucchio Rimini
2005
E Baldetti “Documenti del Comune
di Cagli. La città antica 1115-1287” – Comune di Cagli. Urbania 2006
Giuseppe Palazzini, Pietro
Palazzini, Ernesto Paleani “Pievi, parrocchie, chiese, oratori, nella diocesi
storica di Cagli dalle origini ai nostri giorni” E.Paleani Editore, 2008
Marco Reali “Cagli: la mutatio, il
vicus, la civitas altomedievale” - 2014
Notizie dall’Archivio della
famiglia Agnese Mochi di Cagli.
[1] In genere, il tempio romano poteva essere prostilo, ovvero
di forma rettangolare, con le colonne normalmente di ordine italico o corinzio
sulla parte anteriore; custodiva l’immagine della divinità cui il tempio stesso
era dedicato. La cella era senza finestre, con una sola porta e non accessibile
ai fedeli. Il pronao, in epoca romanica, poteva essere utilizzato come
l’entrata di una chiesa.
[2] Dopo la guerra
gotico-bizantina del VI e VII sec., molte città scomparvero, le campagne
rimaste da molto tempo abbandonate si trasformarono in terre incolte e foreste;
la popolazione sparsa nelle campagne, priva di guida amministrativa, moriva di
fame; le vie di comunicazione da tempo abbandonate, senza più manutenzione,
degradarono e i commerci si fermarono, delineando un’economia chiusa. Questo
tragico quadro veniva poi ulteriormente aggravato dalla”peste bubbonica”. La
popolazione si riprese nella seconda metà del VII sec.: In questo contesto soltanto
la Chiesa sembrava capace di supplire alle carenze del potere civile e al
disordine della società.
[3]
Il Cenobio dal greco koinos e bios = vita in comune, è quindi un luogo dove i
monaci o i religiosi fanno vita in comune. In molti casi, come dice Luigi
Michelini Tocci nel suo libro “Eremi e Cenobi del Catria”, gli eremi si
trasformano in Cenobi; hanno un oratorio o una chiesa e un gruppo di celle
annesse ad un piccolo chiostro, o talvolta sparse per la campagna. Attorno al Mille,
nella nostra dorsale appenninica del Catria-Nerone e Petrano, soggiornò
(secondo anche quanto dice il suo biografo “San Pier Damiani”) San Romualdo.
Percorrendo egli le nostre valli e le nostre montagne, fondò e perfezionò con
strutture più sicure le dimore di diversi eremi che vivevano in condizioni
pietose. Gli eremi fondati si pensa siano stati tre, quali:
San
Bartolo di Monte Petrano
San
Salvatore della Foce
Eremo
poi Cenobio di San Nicolò di Bosso
Ma è importante sottolineare, secondo anche come ci
riferisce il Buroni, che nella nostra zona erano già esistenti tre monasteri
benedettini:
il Monastero benedettino di San Geronzio del VII sec. (già
citato ed in parte oggetto del nostro studio), avente patrimoni, ricchezza e
potenza.
Il Monastero Benedettino di
San Pietro di Massa risalente all’830 (Bricchi e Palazzini) che ebbe momenti di
splendore e di grande influenza politica nella lotta contro il Comune di Cagli,
specialmente per lo spregiudicato ardimento dei suoi monaci che non esitarono a
prendere le armi e a ribattere “offesa contro offesa”.
Il Monastero Benedettino di
San Vincenzo del Furlo di cui il primo documento risale al 970, ma la sua
fondazione potrebbe essere anteriore per la presenza di alcuni materiali di
recupero con elementi decorativi preromanici e bizantini.
[4]
L’enfiteusi era il diritto di godere
per almeno 20 anni (o fino alla terza generazione maschile) dei benefici di un
fondo senza esserne proprietario, con il dovere di migliorarlo e di
corrispondere periodicamente un canone annuo di pagamento prestabilito o fisso,
in denari o in natura (focacce, ciambelle, candele…..).
[5]
La decima era una tassa obbligatoria da versare al Vescovo per il mantenimento
della diocesi ed era costituita dalla decima parte dei proventi che potevano
essere in denaro o in natura.
Il censo era una tassa che
comprendeva pochi denari “lucenses” (pecunia di Lucca) da pagare in una sola
volta.
[6] Sia il Mangaroni
Brancuti che il Buroni riportano molte notizie dall’Archivio Capitolare e da
alcuni documenti del Comune di Cagli, riguardanti i privilegi. In una pergamena
del 1132 si legge: ”Benedetto, priore e rettore di S. Croce dell’Avellana
concedeva a Bernardino, abbate di S. Geronzio ed ai suoi successori in perpetuo
tutti i beni appartenenti a detta Avellana situati nel contado di Cagli nel luogo chiamato S. Nicolò
di Bosso con tutti gli arredi sacri, i
libri, i calici,…oltre la terra e la vigna”. Detti beni avevano per confine da
un lato il fiume Bosso fino al Candigliano; dallo stesso Candigliano fino alla
sommità del monte Petrano e monte Nerone. In permuta Benedetto di Fonte
Avellana riceveva dall’abbate di S. Geronzio le terre, compreso il castello di Fenigli, che
giungevano fino al fiume Cesano. Da questa pergamena lo storico Bricchi
deduceva che il Monastero di San Geronzio fosse stato più nobile di quello dell’Avellana
perché decorato di abbate ”con molta opulenza “, quando Santa Croce di Fonte
Avellana aveva solo il priore. In una “Bolla” del 1170 di Papa Alessandro III,
diretta ad Allorico abbate di San Geronzio, si viene a sapere del privilegio
che stabiliva: “Tutti i beni posseduti dal detto Monastero e quelli che in
futuro gli donassero i pontefici o i re o i principi o i fedeli, restassero in
pacifico godimento al monastero”. Inoltre il Papa proibiva al Vescovo di Cagli
di “recare molestie” allo stesso contro l’antica ragione e consetudine. Né
altri, lo facessero.
[7] Nel luogo dove
venne costruita la chiesa dei cosiddetti Zoccolanti si trovava il “patibolo”.
Di conseguenza questo venne spostato dal 1620 nella zona fuori Porta Massara.
Durante il Governo dello Stato Pontificio, nella Legazione Apostolica di
Urbino, l’esecuzione dei condannati a morte per decapitazione avveniva tramite
la ghigliottina e a Cagli avveniva nel piazzale fuori Porta Massara. L’ultimo
condannato cagliese fu nel 1843 Vincenzo Cini soprannominato “Spigarino” e
“Mignola” di anni 25, di professione calligaro, ammogliato e con figli. Venne
condannato per l’omicidio di Paolo Gregorini, detto “Fontetta”, nella notte tra
il 23 e 24 giugno 1839, che lo aveva sorpreso a rubare la lana nei magazzini di
Sante Mochi, allora commerciante, situato negli ambienti della chiesa di Santa
Chiara. La sentenza venne emessa in nome di Sua Santità Papa Gregorio XVI. Dopo
un lungo processo il Cini venne ghigliottinato il 21 febbraio 1843 alle ore 9
antimeridiane. La salma del giustiziato venne tumulata in un loculo all’interno
della ex chiesa di San Rocco, nella via Pian del Vescovo in Cagli. Quando nel
1977 l’edificio venne in mano a dei privati, la salma fu rimossa e tumulata
definitivamente nel cimitero di Cagli.
[8] Questi frati,
della feconda matrice francescana e della cui riforma si fece promotore nel
1528 Padre Matteo da Bascio nella città di Camerino, venivano richiesti per
motivi essenzialmente spirituali. A Cagli l’idea nasceva dalla volontà del Vescovo
Torleoni (1565-67) e trova piena adesione tra i Consiglieri comunali ed i
Cagliesi stessi. I Cappuccini della Marche in genere prediligevano i siti
sopraelevati rispetto alla città ospitante.
[9] Nel 1858 la biblioteca poteva essere indicata
come una delle tre esistenti in Cagli, regolarmente aperta al pubblico.
[10] Il Beato nacque
in Urbino nel 1560 dalla nobile famiglia dei conti Passionei ed ebbe il nome di
Marco. Ben presto rimase orfano di padre e di madre e fu condotto a Cagli dove
risiedeva lo zio paterno, Paolo, e dimorò fino al 1577 nel Palazzo
Luperti-Passionei in via Lapis nella cui facciata si trova una lapide che lo
ricorda. Gli fu dato un maestro di casa secondo il costume dei nobili del tempo
e compì gli studi. Studiò ancora a Perugia, poi a Padova frequentando
l’Università e conseguendo il dottorato in legge. Da Padova tornò a Cagli e poi
a Fossombrone dove la sua famiglia nel frattempo aveva preso dimora. Nacque qui
la sua vocazione religiosa cappuccina. Ordinato sacerdote si dedicò alla
predicazione nelle Marche tra le popolazioni di umili borgate e anche fuori
d’Italia. Con Cagli mantenne sempre buoni rapporti tanto che venne eletto padre
guardiano del Convento dei Cappuccini. Ritornò a Fossombrone e poi di nuovo a
Cagli fino a pochi anni dalla sua morte. Morì a Fossombrone.
[11] Digiunò a pane
ed acqua tre volte la settimana; afflisse il suo corpo con modi estremi con
asperrimi cilici e lo flagellò con catenelle di ferro per un’ora al giorno in
memoria della Passione di Cristo. Dormì sulle nude tavole e per sole quattro
ore per notte con continue preghiere, meditazioni e contemplazioni.
[12]
Il soggetto rappresentato nel quadro di destra è San Michele Arcangelo che
sconfigge il Diavolo con accanto San Giovanni Battista. Il culto michelitico
era molto diffuso a Cagli e nel territorio circostante anche prima del 1287-89,
quando la città assunse per breve tempo il nome di Sant’Angelo Papale in onore
al Papa Niccolò IV. A questo proposito è interessante ricordare che, secondo
l’ipotesi di Maddalena Scoccianti, l’impianto urbanistico ad assi ortogonali
sia attribuito all’architetto Arnolfo di Cambio, allora al servizio dello
stesso Papa. Varie chiese del territorio erano già dedicate all’Arcangelo:
Sant’Angelo Minore, Sant’Angelo Maggiore (oggi San Giuseppe), Sant’Angelo di
Cerreto, Sant’Angelo in Maiano, Sant’Angelo in Sorticoli. Fin dal 1184 venne
ricordato un oratorio dedicato a San Michele Arcangelo ai piedi del monte di
San Geronzio, non lontano dal luogo dove sorge il Convento dei Cappuccini. Si
può aggiungere che San Michele Arcangelo è uno dei patroni minori della diocesi
di Cagli. Sullo sfondo del quadro, infatti, a destra si profila una città che
sembra proprio riferibile e Cagli (Torrione, campanile di San Francesco). L’immagine
di San Giovanni Battista è ricorrente nell’iconografia cappuccina, anche
perché, nella Costituzione dell’Ordine (1536), viene indicato come modello di
vita austera e di predicazione penitenziale.
Per quello che riguarda
l’iconografia dell’altro quadro di sinistra, la figura di San Geronzio è ovvia
e quella di San Filippo può alludere all’anno della sua beatificazione da parte
del Papa Paolo V che coincide con l’anno in cui furono portati a compimento i
lavori: 1610.
[13]
In questa seconda cappella, come risulta da un documento dell’Archivio della Curia
Vescovile di Cagli e regnante il Papa Pio IX, in data 14 luglio 1851, venne
concesso il permesso di erigere il Sepolcro Gentilizio della famiglia Giuseppe
Mochi, dietro richiesta dei figli: il Proposto don Andrea Mochi e l’Ill.mo Sig.
Cav. Sante Mochi, ambedue patrizi cagliesi. Sulla lapide venne impressa l’Arma
gentilizia della famiglia con la scritta “Famiglia Mochi”. Durente i lavori di
ristrutturazione della Chiesa conventuale avvenuti negli anni ’50 del secolo
scorso, il sepolcro pare sia stato smantellato e che non vi sia più nessuna
traccia di questo.
[14] Secondo la
“Legenda Aurea” di Iacopo da Varazze (1255) si dice che il suo corpo fu
trasportato da alcuni angeli nel Monastero di Santa Caterina sul monte Sinai dove
ora si trova anche la sua reliquia. E’ protettrice dell’Università di Parigi,
patrona degli eruditi e della cultura in genere; è protettrice delle ragazze da
marito. Le “Caterinette” erano le donne in età avanzata e le sartine.
Nella iconografia corrente
la Santa viene anche rappresentata con il suo dito indice vicino a quello di
Gesù Bambino in braccio alla Madonna, in segno di “sposalizio mistico”.
[15] Stando a quanto
narra la fantasia e l’incredibile “Passio” del Santo, l’oca potrebbe alludere
alla sua decapitazione avvenuta nelle vicinanze di Cagli, quando il suo corpo
sarebbe stato difeso da alcuni volatili. Se si tratta di un’oca, questa inoltre
potrebbe riferirsi alla tarda vecchiaia di San Geronzio, peraltro favolosa e
descritta dalla “Passio”, giacché l’animale talora veniva assunto a simbolo
dell’età ricca di anni e di sapienza.
[16] Rodolfo II fu
prima re e poi imperatore di Austria, di Ungheria, della Moravia e della
Boemia. Egli aveva avuto un’educazione cattolica in Spagna. Raccolse nel Castello
di Praga una collezione di opere d’arte secondo un prevalente gusto “del bizzarro e
dell’esotico”.
[17] Il Manierismo
era una corrente artistica nata in Italia (Toscana, Roma) nella seconda metà
del Cinquecento; si è poi propagato in Francia e in Europa in genere.
Quest’arte, rompendo gli schemi del Rinascimento, tendeva ad esorcizzare cioè a rimuovere dalla
mente, il perfezionismo classico di Raffaello e Michelangelo con espressioni
che determinavano negli artisti sgomenti e “licenze” di esagerazione nella
forma, nel colore e nel nostro caso nel “bizzarro”. Queste licenze divennero
poi regole e determinarono uno stile, appunto, manieristico (vedi Parmigianino,
Giulio Romano, Pontormo, Rosso Fiorentino…e Raffaellin del Colle con il suo “manierismo
metaurense”).
[18]
L’iconografia della Vergine Maria coronata di 12 stelle doveva rappresentare
l’Immacolata Concezione e nasce dal nuovo impulso dato al culto della Vergine
durante la Controriforma creando appunto un nuovo tipo dell’Immacolata
Concezione nell’arte seicentesca, soprattutto in Spagna al tempo della
Inquisizione. I caratteri essenziali erano infatti quelli della “donna incinta
dell’Apocalisse” di San Giovanni evangelista che aveva sul capo una corona di
12 stelle. Questa figura di donna verrà quindi collegata alla Vergine Maria,
così la figura dell’Immacolata Concezione assumerà una funzione centrale nelle
raffigurazioni artistiche, nel tentativo di contrastare le eresie luterane e
calviniste. Per il numero 12 è da considerare inoltre il significato dei numeri
nella Bibbia: 12 erano le tribù di Israele, 12 erano gli Apostoli, 12 le stelle
che coronavano il capo della Vergine Maria, 12 i santi riprodotti nel
refettorio del convento.
Convento dei Padri Cappuccini di Cagli.
Cortile interno e “professorio” (1894)
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