18 gennaio 2010 DOM SALVATORE FRIGERIO

L’ATTUALITA’ DELL’ESPERIENZA MONASTICA DI S.ROMUALDO

Nell’odierna riflessione sia nell’ambito della Chiesa, sia in quello degli studi storiografici sul Medioevo, la figura di Romualdo (e conseguentemente di coloro che ne hanno raccolto l’eredità) si ripropone con nuovo interesse per l’ormai indiscussa originalità con la quale ha vissuto l’esperienza monastica. .
L’esperienza di Romualdo rende decisamente impossibile catalogarlo, definirlo, circoscriverlo all’interno di una struttura, di una modalità, di un tipo di monachesimo. La sua personalissima tensione carismatica – ripeto “tensione carismatica” più che formulazione culturale – ne ha fatto una esperienza di sintesi armonica tra l’eremitismo bizantino, il cenobitismo benedettino, l’anacoretismo antoniano e l’itineranza irlandese. Il suo essere “sterilitatis impatiens”- insofferente della sterilità, come lo definirà S.Pier Damiano[1] - lo rende aperto in modo sorprendente all’azione dello Spirito, così che Questi, “risiedendo nel suo petto”[2], lo rende vero discepolo della Parola e maestro di coloro che della Parola si mettono in ascolto, incarnandola nell’oggi della propria storia.
La molteplicità della sua prassi monastica fa sì che da essa nascano più forme di contemplazione tra loro diverse quanto lo possono essere le varie scelte monastiche, dall’anacoretica all’itinerante, eppure tutte in grado di considerarlo loro Padre e Maestro. Una dimensione, questa, che lo radica nella tradizione bizantina il cui afflato “pneumatico” (magistero dello Spirito santo) è oggi fortemente avvertita quale necessità di rinnovamento ecclesiale, rinnovamento fondato sulla comunionalità che non è omologazione ma concertazione di diversità.
Riflettendo sulla sua agiografia così complessa, così fascinosa, così satura di riferimenti biblici che ci ha lasciato Pier Damiano, e che è stata sottoposta a esame da moltissimi autori, dai giorni del Petrarca fino ai nostri giorni, credo di potervi cogliere la ragione fondante tanta fecondità. Per Romualdo “contemplare” significa “entrare in comunione con Dio”, significa raggiungere l’obbedienza intesa come comunione delle scelte, dei progetti, delle decisioni divine che sono orientate ad un solo obiettivo: l’Uomo e il di lui compimento. Dunque, se contemplare significa raggiungere la condivisione degli intenti divini, e questi conducono al servizio dell’Uomo, la contemplazione di Romualdo non può che sfociare nell’”evangelium paganorum”[3]. Il suo ardente amore per il Cristo[4] non può che tradursi in impaziente servizio agli uomini. Quanto questo è lontano dall’idea tarda di “fuga” e quanto è vicino all’attuale bisogno di condivisione delle impellenti domande dell’uomo di oggi! Cento anni più tardi S.Bernardo di Chiaravalle (+1153), commentando ai suoi monaci il Cantico dei Cantici[5], dirà che “l’ascolto della Parola è coito con lo Spirito, che rende gravidi di opere, partorite dentro o fuori del chiostro, dove l’imprevedibile Spirito vuole”.
E’ l’imprevedibilità dello Spirito (“che soffia dove e come vuole”) che possiede Romualdo e lo ingravida di frutti di contemplazione tra loro diversi eppure tra loro fortemente articolati dall’unico anelito verso Colui che invoca ”Care Jesu, dulce Jesu, mel meum dulce, desiderium ineffabilis, dulcedo sanctorum, suavitas angelorum!”. “Parole, scrive Pier Damiano, che, sotto il dettato dello Spirito santo, gli si tramutavano in canti di giubilo e che noi non sapremmo rendere compiutamente mediante concetti umani”[6]. Possiamo considerare questo una forma di glossolalia. “Sotto il dettato dello Spirito santo” Romualdo vive la sua originalissima e fecondissima sintesi monastica.
E c’è un altro aspetto che vorrei fosse maggiormente approfondito dell’esperienza di Romualdo. Possiamo veramente chiamarlo “fondatore” nel senso che oggi, o meglio dalla nascita degli ordini mendicanti e moderni, diamo a questo termine? Credo, leggendo quanto lo riguarda, che egli abbia solo anelato a vivere in totale disponibilità ai moti dello Spirito, coinvolgendo gli altri, i molti altri, con la sua contagiosa fecondità, desideroso solo di dare un nuovo respiro pneumatico al mondo monastico, ma non di “ipotecare il futuro” fondando una congregazione propria. Sappiamo come nulla di diverso dalla Sacra Scrittura e dalla Regola di S.Benedetto abbia consegnato ai suoi compagni di vita. E leggiamo come non si preoccupasse di abbandonare i luoghi dai quali partiva senza più tornarvi; luoghi da lui avviati e ben presto esauriti con l’estinguersi della presenza dei loro abitatori. Non a caso, tra tutti questi luoghi nati dalle sua presenza o dall’influsso del suo magistero, due soli sono sopravissuti arrivando fino a noi: Camaldoli e Fonte Avellana.
In entrambe questi luoghi due legislatori, Rodolfo nel primo e Pier Damiano nel secondo, ispirandosi al carisma di Romualdo, ne hanno codificato l’insegnamento consegnando a esperienze monastiche diverse quello spirito originalissimo dell’intuizione romualdina che faranno di Camaldoli e di Fonte Avellana due centri, due congregazioni diverse eppure “sorelle”, alunne e figlie dell’unico ma poliedrico Maestro e Padre.
Le Marche, a cominciare dal Camerinese, sono la regione che ha goduto del periodo più fecondo della sua avventura monastica. Nel 1005, esattamente mille anni or sono, giunge in Val di Castro, proveniente da Biforco di Romagna, dove, sempre libero dal rischio di “sacralizzare le strutture”, dimostra che “l’eremo non significa tanto lo stare soli (solitudine = privacy ), quanto il vivere nella più completa semplicità e umiltà, per darsi alla preghiera del cuore. A Biforco Romualdo aveva tentato di far osservare dagli eremiti le norme fondamentali della vita benedettina, ma senza riuscirci”[7]. Perciò se ne è andato e, recita la Vita Romualdi nel cap.35, “non rassegnandosi a vivere nella sterilità e ansioso di fare del bene, partì in cerca di una terra che gli consentisse di portare frutto di anime”. Giunge così in terra marchigiana e si ferma in Val di Castro, tra Fabriano e Cingoli, presso quel colle che sarà chiamato Poggio S.Romualdo. Qui erige il piccolo monastero e l’eremo ora in corso di restauro, e si dedica alla predicazione con grande frutto e alla lotta contro la simonia, convertendo i chierici ed educandoli alla vita comunitaria. Anche questa sua intuizione la possiamo definire profetica: ancora oggi, a distanza di un millennio, in un contesto diverso ma altrettanto pressante anche per mancanza di presbiteri, questi non sono ancora educati a vivere in comunità … “E il beato era come una dei serafini: ardeva in se stesso di amore divino oltre ogni paragone e, dovunque si recasse, ne accendeva gli altri mediante le torce della sua santa predicazione”[8]
Da quegli anni le Marche diventano il campo della vita di Romualdo, fatte salve le sue presenze in Umbria (Orvieto, dove nascono ben sei comunità romualdine), in Toscana (Lucca e poi Arezzo dove su insistenza del vescovo Teodaldo costruisce l’Eremo di Campo Amabile e avvia la gestione dell’Hospitium di Fonte Bona, poi Camaldoli).
Nel 1010 organizza un monastero presso l’Esino e uno presso Ascoli[9]. Poi, scrive Pier Damiano senza ulteriori precisazioni, costruisce un eremo fra i monti del Catria e del Petrano. Dopo un suo ritorno a Val di Castro, si stabilisce in “Acquabella, non lontano dal monte Appennino”[10] e poi, finalmente, a Sitria, in terra umbra ai confini con le Marche e oggi Diocesi di Gubbio, dove l’attendono prove dolorose ed esperienze mistiche altissime. Sitria è la sua “esperienza pasquale”, esperienza di morte e di risurrezione, come fa intendere il racconto teologico di Pier Damiano.[11]
Qui viene accusato di sodomia dal monaco Romano che aveva comperato simoniacamente l’ordinazione presbiterale e che Romualdo voleva correggere. Egli viene scomunicato da quella comunità e rinchiuso in reclusione. Lì egli, nel silenzio, vive le esperienze mistiche della comprensione profonda delle S.Scritture e dell’estasi paradisiaca. Liberato dalla scomunica, costruisce accanto alla chiesa un piccolo monastero di cui oggi rimane solo un troncone comprendente l’aula capitolare ridotta dai proprietari a deposito, e tutta la popolazione è coinvolta dalla preghiera dei monaci convertiti dalla testimonianza del Maestro[12].
Anche in questa sua esperienza “pasquale”, nel cui corso è evidenziata da S.Pier Damiano la dimensione liturgica della sua vita fondata sulla Parola di Dio, Romualdo ci richiama alla riscoperta vitale della Liturgia quale “fons et culmen” della vita della Chiesa, come il Concilio Vaticano II ha riproposto con una forza che noi non abbiamo ancora saputo cogliere. La vita monastica di Romualdo nasce “nella liturgia” di S.Apollinare in Classe di Ravenna e trova il suo nutrimento nella liturgia salmodica ed eucaristica.
Dopo un viaggio a Lucca (1022) per incontrarsi con l’Imperatore Enrico II di Lussemburgo che gli affida il monastero di S.Salvatore sul Monte Amiata, e dopo aver creato lì l’eremo Del Vivo, ritorna a Sitria e poi, nel 1024/25, crea, come detto sopra, l’Eremo di Camaldoli su insistenza del Vescovo Teodaldo di Arezzo. Anche questa comunione con i Vescovi dei territori da lui abitati ci ripropone l’importanza delle Chiese locali, segno concreto e propedeutico della comunione universale.
Rientra finalmente nelle Marche e si ritira in Val di Castro dove il 19 giugno 1027 si conclude la sua avventura terrena.
Nel corso dei secoli successivi la pluralità carismatica romualdina si dovrà confrontare con la struttura: nel 1032 Papa Pasquale II erige l’esperienza dei discepoli di Romualdo a Congregazione con sede giuridica all’Eremo di Camaldoli. La duplice presenza di Eremo e Monastero andrà creando dibattiti sempre più vivaci, fino a divenire conflittuali, ponendo in discussione ora la vita cenobitica, ora l’eremitica, ora la missionaria. Saranno proprio questi conflitti congregazionali che condurranno a divisioni ora a favore del solo eremo, ora del solo monastero e riducendo sempre più l’impegno nell’ambito socio-ecclesiale. Nel 1524 Paolo Giustiniani, patrizio veneziano divenuto Maggiore dell’Eremo di Camaldoli e fautore dell’unicità dell’Eremo, abbandona Camaldoli dove il Priore Generale Pietro Delfino è strenuo difensore della pluralità romualdina, e crea la Congregazione che definisce Compagnia dei Frati di S.Romualdo, dettando in Monte Corona la nuova Regola. Da questo i nuovi aderenti saranno chiamati “Coronesi”. Nel 1569 sarà la volta del Monastero di S.Michele in Isola di Venezia a dichiarare la propria autonomia da Camaldoli, prediligendo la sola vita cenobitica e definendosi Congregazione dei Monaci Cenobiti di S.Romualdo. Dunque S.Romualdo viene presentato o solo eremita, senza l’abito monastico proprio del mondo benedettino (la cocolla), o solo cenobita. Sembra proprio che le pluralità sia difficile da gestire…
Proprio la Congregazione Coronese nel 1608 fonda l’Eremo del Salvatore Trasfigurato, sul colle fanese di Monte Giove. Il colle è dono della famiglia Gabrielli di Fano e precisamente dei nipoti eredi del Cardinal Gabrielli. La Comunità prospera, molto legata al territorio fanese, fino alla soppressione napoleonica (dal 1810 al 1815), seguita a distanza di cinquant’anni (1866) da quella sabauda. Dopo questa i Coronesi avranno una presenza molto precaria che si concluderà definitivamente nel 1919 con l’abbandono dell’Eremo gestito dal Comune di Fano. La struttura monastica diventa abitazione di contadini e va sempre più degradando. Il Comune non intende affrontare le gravi spese di ristrutturazione e pone il complesso in vendita, offrendo la prelazione alla Comunità dei Monaci di Camaldoli. Il Capitolo presieduto dal Priore Generale D.Timoteo Chimenti decide di rispondere positivamente alla proposta e acquista l’Eremo, avviando un vasto lavoro di restauro. Nel 1925 i monaci di Camaldoli entrano all’Eremo avviando un nuovo rapporto con il territorio. Vicende alterne si susseguono, attraversando la tragedia della guerra mondiale che vede emergere la figura di Don Carlo Ghezzi, morto volontario nel campo nazista di Thor in Polonia.
Varie crisi susseguite dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II hanno causato un progressivo affievolirsi della comunità monastica, portandola a rischio di spegnimento. La volontà del Capitolo Generale del 2005 e del nuovo Priore Generale Dom Bernardino Cozzarini ha permesso di ricreare una nuova comunità operativa, in sintonia con il territorio e alla ricerca di nuove modalità di presenza monastica, ricercate con attenta considerazione delle nuove istanze religiose, sociali e culturali, in osservanza della Regola di S.Benedetto che chiede alla comunità monastica di vivere secondo i tempi e secondo i luoghi, dunque in attento ascolto della Parola di Dio incarnata da coloro che vivono nel tempo e nello spazio della contemporaneità.
L’esperienza e la carismatica testimonianza di S.Romualdo, e dopo di lui di S.Pier Damiano, appassionati operatori profondamente radicati nel loro tempo e perciò capaci di scorgerne profeticamente tutte le provocazioni, guidi la comunità di Monte Giove a non aver paura della storia di oggi ma a coglierne le sfide quanto mai provocanti e ricche di sollecitazioni.

[1] S.PIER DAMIANO, Vita di S.Romualdo, a c.di Thomas Matus, ed Camaldoli 1988, cap.35, pag.72.[2] S.PIER DAMIANO, op.cit., cap.35, pag.72.[3] S.BRUNO DI QUERFURT, Vita dei Cinque Fratelli, ed.Camaldoli MCMLI, CAP.43, PAG.81.[4] S.PIER DAMIANO, op.cit., cap.43, pag.81.[5] SANCTI BERNARDI, Sermones in Canticus Canticorum, PL,E.183, SermoVIII, coll 810-814.[6] S.PIER DAMIANO, op.cit., cap.31, pagg.66-67.[7] S.PIER DAMIANO, op.cit., intr. Cap.34, pag.70.[8] S.PIER DAMIANO, op.cit., cap.35, pagg.72-73.[9] S.PIER DAMIANO, op.cit., cap.39, pag.77.[10] S.PIER DAMIANO, op.cit., cap.46, pag.83.[11] S.PIER DAMIANO, op.cit., capp.49-51, pagg.86-89.[12] S.PIER DAMIANO, op.cit., cap.64, pag.100.

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