Federico da Montefeltro è un assassino ?
E’ un interrogativo sconcertante, inquietante ed ancora imbarazzante, per chi “vive” ogni giorno nel suo Palazzo urbinate. Eppure il professor Bernd Roeck ha scritto un denso volumetto in proposito, orgomentando con prove incalzanti l’assunto.
La “scena del crimine” è ancora una volta la Flagellazione di Piero della Francesca, oramai abituale fondale di innumerevoli orchestrazioni letterarie e storiche, volte a scoprire il ‘vero’ significato del famoso dipinto.
Perché la Flagellazione di Cristo –il soggetto della tavola dipinta- è raffigurata in secondo piano ?
Chi sono i tre personaggi che discutono in primo piano fuori il portico di Pilato, nelle splendida piazza quattrocentesca ?
Cari amici di Cagli, verrò a raccontare queste ed altre cose, intorno al capolavoro della Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, non so però se tornerete a casa con più risposte o più domande.
E’ un interrogativo sconcertante, inquietante ed ancora imbarazzante, per chi “vive” ogni giorno nel suo Palazzo urbinate. Eppure il professor Bernd Roeck ha scritto un denso volumetto in proposito, orgomentando con prove incalzanti l’assunto.
La “scena del crimine” è ancora una volta la Flagellazione di Piero della Francesca, oramai abituale fondale di innumerevoli orchestrazioni letterarie e storiche, volte a scoprire il ‘vero’ significato del famoso dipinto.
Perché la Flagellazione di Cristo –il soggetto della tavola dipinta- è raffigurata in secondo piano ?
Chi sono i tre personaggi che discutono in primo piano fuori il portico di Pilato, nelle splendida piazza quattrocentesca ?
Cari amici di Cagli, verrò a raccontare queste ed altre cose, intorno al capolavoro della Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, non so però se tornerete a casa con più risposte o più domande.
Il mistero della Flagellazione
La storia, molto spesso, si rivela più affascinante e avvincente dei romanzi. Molto più che i voli pindarici della letteratura "usa e getta" alla Codice Da Vinci - quella che insegue misteri e complotti attraverso l'interpretazione forzata di alcuni dipinti sacri - gli avvenimenti reali possono riservare autentici colpi di scena. La storia della Flagellazione di Cristo, capolavoro pittorico realizzato da Piero della Francesca tra il 1455 e il 1460 (tempera su tavola, cm 59 X 81,5) e conservato oggi nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino nasconde, ad esempio, significati simbolici e riferimenti storici di assoluto rilievo. Un'opera mirabile per bellezza e armonia, quella dell'artista di Borgo Sansepolcro, unica nel suo genere, che si trasforma in una sorta di porta spazio-temporale verso gli avvenimenti drammatici occorsi nella città di Urbino, intorno alle metà del XV secolo. Storie di rivalità, odi covati nell'oscurità, giochi di potere. Storie di omicidi politici. Come scrive Brend Roeck, esperto di storia del Rinascimento e "specialista" di Piero della Francesca, «La Flagellazione è [...] un'opera grande ed enigmatica che si è finora ostinatamente sottratta a tutti gli sforzi di interpretarla in maniera convincente». Il vero problema di quest'opera risiede nel rapporto iconografico tra la flagellazione di Cristo raffigurata sullo sfondo, nella parte sinistra del dipinto, e i tre uomini (abbigliati in vesti contemporanee a quelle dell'autore) in primo piano, sulla destra.Non esistono esempi analoghi a questa composizione: la Flagellazione è stata letta come rappresentazione votiva, come opera di propaganda e di appello a una crociata contro i turchi, come monito religioso all'unità dei cristiani e, infine come documento di auto-legittimazione dinastica da parte dei Montefeltro. Eppure, come lo stesso Roeck racconta nel suo libro Piero della Francesca e l'assassino, da quella tavola di legno di 67,5 per 91 centimetri - tra le poche ad essere inequivocabilmente firmate dall'artista ("Opus Petri Deburgo Sci. Sepulcri") e la cui realizzazione si ritiene compresa tra il 1444 e il 1478 - emerge un racconto appassionante di un evento storico fondamentale nello scenario politico rinascimentale: la presa del potere a Urbino da parte di Federico da Montefeltro, personaggio celebre, scaltro statista, raffinato mecenate ma, a quanto pare, anche astuto regista di omicidi politici.
Le tre figure in primo piano
L'identità delle tre figure in primo piano è la chiave di interpretazione del dipinto: ad esse viene assegnato un ruolo, a seconda del contesto storico in cui il dipinto viene collocato. Di conseguenza, l'uomo con la barba e il cappello nero sulla sinistra può essere un ambasciatore greco, un cardinale, un profeta, un uomo di stato o addirittura il duca di Urbino. L'elegante personaggio sulla destra, vestito di un abito di broccato, può essere a sua volta duca o capitano di ventura. Infine, il personaggio centrale, un giovane scalzo e dalla folta capigliatura a riccioli biondi: angelo, figura allegorica, un figlio illegittimo di Federico di Montefeltro o, come si vedrà nell'analisi che segue, il nobile Oddantonio da Montefeltro, primo duca di Urbino.Attorno all'identificazione di quest'ultimo personaggio ruota tutto l'impianto accusatorio nei confronti di Federico da Montefeltro. Un indizio importante su questa identificazione viene da una miniatura realizzata intorno al 1580 per la collezione di ritratti dell'arciduca Ferdinando del Tirolo nel castello di Ambras: il quadretto porta una didascalia che recita "Otto Antonius Urbini Dux I". In esso, la somiglianza tra l'Oddantonio di Ambras (oggi al Kunsthistoriches Museum di Vienna) e il giovane nel dipinto di Piero della Francesca è evidente. Di Oddantonio si sono conservati tre ritratti: una pittura ad olio custodita nella Biblioteca di Urbania, un'incisione su rame, e infine un ritratto dipinto da Camilla Guerrieri nel 1858 circa, oggi "sepolto" nei magazzini dei Musei Civici di Pesaro.
Oddantonio di Montelfetro nacque il 18 gennaio 1427, dal conte Guidantonio e Caterina Colonna: il padre si assicurò da subito che al figlio andasse per successione la carica di vicario apostolico di Urbino e dei domini circostanti. Carica che ad Oddantonio fu ufficializzata il 17 febbraio 1443, con una bolla papale firmata da Papa Eugenio IV. Due giorni dopo, Guidantonio riunì i propri dignitari, cinquanta, e il figlio Oddantonio, impartì a quest'ultimo la benedizione paterna e, poco dopo, morì. Dal testamento Oddantonio risultava erede universale: tutte le «possessione e terre e case e cose [...] e voglio sia signore, rettore, governatore generale di tutto quello che possiedo e possiederò al tempo della mia morte, oltre ai lasciti che ho fatto». Infine, un passaggio fondamentale: «E quando di me non rimanesse nessun figliolo maschio legittimo e naturale, né niun figliolo dei miei figlioli legittimi e naturali, lascio al mio erede universale Federico mio figliolo legittimato universalmente».
Lo stesso giorno della sepoltura di Guidantonio, Oddantonio prese il potere: tutte le signorie e i comuni confinanti ne ebbero notizia, e altrettanto rapidamente il papa conferì al giovane sedicenne il titolo di duca. Il ducato di Urbino era fondamentale per le strategie politiche e militari pontificie, e l'ultima tentazione in cui papa Eugenio IV avrebbe potuto indulgere era la perdita di tempo nel rendere saldo e fuori di ogni discussione il potere nella fida città marchigiana.
Il 26 aprile 1443, nel Duomo di Siena, ebbe luogo l'investitura di Oddantonio: il nuovo duca prestò giuramento di fedeltà alla Santa Sede, al papa e ai suoi discendenti, baciò i piedi del pontefice e giurò di difendere la Chiesa e i suoi possedimenti. Poco dopo Oddantonio fece ingresso trionfale ad Urbino, e nel luglio dello stesso anno si fidanzò con Isotta d'Este, sorella di Leonello, marchese di Ferrara: questo legame con una casata potentissima dell'Italia centrale si rivelava strategica. Insomma, la posizione e il ruolo di Oddantonio erano - in quell'estate del 1443 - indiscutibili.
L'identità delle tre figure in primo piano è la chiave di interpretazione del dipinto: ad esse viene assegnato un ruolo, a seconda del contesto storico in cui il dipinto viene collocato. Di conseguenza, l'uomo con la barba e il cappello nero sulla sinistra può essere un ambasciatore greco, un cardinale, un profeta, un uomo di stato o addirittura il duca di Urbino. L'elegante personaggio sulla destra, vestito di un abito di broccato, può essere a sua volta duca o capitano di ventura. Infine, il personaggio centrale, un giovane scalzo e dalla folta capigliatura a riccioli biondi: angelo, figura allegorica, un figlio illegittimo di Federico di Montefeltro o, come si vedrà nell'analisi che segue, il nobile Oddantonio da Montefeltro, primo duca di Urbino.Attorno all'identificazione di quest'ultimo personaggio ruota tutto l'impianto accusatorio nei confronti di Federico da Montefeltro. Un indizio importante su questa identificazione viene da una miniatura realizzata intorno al 1580 per la collezione di ritratti dell'arciduca Ferdinando del Tirolo nel castello di Ambras: il quadretto porta una didascalia che recita "Otto Antonius Urbini Dux I". In esso, la somiglianza tra l'Oddantonio di Ambras (oggi al Kunsthistoriches Museum di Vienna) e il giovane nel dipinto di Piero della Francesca è evidente. Di Oddantonio si sono conservati tre ritratti: una pittura ad olio custodita nella Biblioteca di Urbania, un'incisione su rame, e infine un ritratto dipinto da Camilla Guerrieri nel 1858 circa, oggi "sepolto" nei magazzini dei Musei Civici di Pesaro.
Oddantonio di Montelfetro nacque il 18 gennaio 1427, dal conte Guidantonio e Caterina Colonna: il padre si assicurò da subito che al figlio andasse per successione la carica di vicario apostolico di Urbino e dei domini circostanti. Carica che ad Oddantonio fu ufficializzata il 17 febbraio 1443, con una bolla papale firmata da Papa Eugenio IV. Due giorni dopo, Guidantonio riunì i propri dignitari, cinquanta, e il figlio Oddantonio, impartì a quest'ultimo la benedizione paterna e, poco dopo, morì. Dal testamento Oddantonio risultava erede universale: tutte le «possessione e terre e case e cose [...] e voglio sia signore, rettore, governatore generale di tutto quello che possiedo e possiederò al tempo della mia morte, oltre ai lasciti che ho fatto». Infine, un passaggio fondamentale: «E quando di me non rimanesse nessun figliolo maschio legittimo e naturale, né niun figliolo dei miei figlioli legittimi e naturali, lascio al mio erede universale Federico mio figliolo legittimato universalmente».
Lo stesso giorno della sepoltura di Guidantonio, Oddantonio prese il potere: tutte le signorie e i comuni confinanti ne ebbero notizia, e altrettanto rapidamente il papa conferì al giovane sedicenne il titolo di duca. Il ducato di Urbino era fondamentale per le strategie politiche e militari pontificie, e l'ultima tentazione in cui papa Eugenio IV avrebbe potuto indulgere era la perdita di tempo nel rendere saldo e fuori di ogni discussione il potere nella fida città marchigiana.
Il 26 aprile 1443, nel Duomo di Siena, ebbe luogo l'investitura di Oddantonio: il nuovo duca prestò giuramento di fedeltà alla Santa Sede, al papa e ai suoi discendenti, baciò i piedi del pontefice e giurò di difendere la Chiesa e i suoi possedimenti. Poco dopo Oddantonio fece ingresso trionfale ad Urbino, e nel luglio dello stesso anno si fidanzò con Isotta d'Este, sorella di Leonello, marchese di Ferrara: questo legame con una casata potentissima dell'Italia centrale si rivelava strategica. Insomma, la posizione e il ruolo di Oddantonio erano - in quell'estate del 1443 - indiscutibili.
L'assassinio di Oddantonio
Solo un anno dopo, invece, l'Italia delle corti veniva sconvolta dalla notizia che Oddantonio era stato assassinato insieme a due fidi consiglieri, e che il fratellastro Federico da Montefeltro ne aveva preso il posto, il giorno esatto dopo la tragedia. La presa del potere a Urbino, infatti, aveva dell'insolito: Federico era a Pesaro, dove ricopriva un comando militare; il 23 luglio 1444 era con ogni probabilità già sotto le mura di Urbino. E a quei tempi le notizie non è che viaggiassero a tale velocità: da Pesaro a Urbino ci sono circa trentacinque chilometri, percorribili, al tempo, in non meno di cinque ore.
Nella notte tra il 22 e il 23 luglio 1444, in una Urbino attanagliata dal caldo, una squadra di sicari - almeno una dozzina - penetrano le Palazzo ducale. La mezzanotte è passata da poco. Aiutandosi con una trave sfondano la porta degli appartamenti di Oddantonio e si scagliano su lui e i suoi fidi: il consigliere Manfredo dei Pii e Ser Tommaso di Manfredo. Il primo cerca di difendersi con una spada, ma viene trucidato, il secondo cerca di nascondersi sotto il letto, ma viene spinto fuori e pugnalato senza pietà. Oddantonio, svegliato dal trambusto, cerca di nascondersi: i sicari, però, ci mettono poco a trovarlo. Si dice che il giovane duca cadesse in ginocchio davanti a un crocifisso e chiedesse clemenza. Ovviamente, questa non venne concessa dagli uomini armati che - con due pugnalate e un colpo di scure alla testa - finiscono Oddantonio.
A quel punto, i cadaveri dei tre uomini vengono gettati dalla finestra del Palazzo ducale e trascinati in piazza. Alcune cronache (I Commentarii di Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II) si spingono a dire che Oddantonio subì persino l'evirazione, e che il membro reciso gli venne infilato in bocca. Questo a simboleggiare una vita dissoluta del duca, traviato da cattivi consiglieri come per l'appunto Manfredo dei Pii.
Ovviamente, le testimonianze successive non potevano tenere conto del fatto che il nuovo potere in città sarebbe andato a Federico da Montefeltro: la versione del vincitore, dunque, avrebbe dovuto prevalere. I primi nomi dei sicari cominciarono a filtrare: tra di essi, quel Serafino dei Serafini, medico urbinate, assetato di vendetta perché "offeso nell'onore": il consigliere Manfredo dei Pii, infatti, avrebbe violentato la moglie di questo illustre cittadino. Per questa ragione il complotto del luglio 1444 viene anche definito la "congiura dei Serafini". Tra gli altri sicari Piero Antonio de Mess, Andrea de Paltroni (cancelliere di Oddantonio, che guarda caso farà una fulminante carriera sotto Federico da Montefeltro), Piero da Fabriano, Cristofano della Massa, Bartolomeo di Mastro Andrea e persino un contadino, tale Antonio di Paolo da Petralta. I congiurati presentarono subito a Federico un documento composto da ventuno articoli, che il nuovo duca approvò lo stesso giorno della morte di Oddantonio: questa "costituzione" annullava molti dei provvedimenti del deposto signore, a cominciare dall'aumento delle tasse e dei tributi. Ovviamente il testo prevedeva l'amnistia per i congiurati. Quanto alla "leggenda nera" sulla dissolutezza di Oddantonio, i pochi documenti lasciati da lui stesso fanno emerge solo una passione smodata per i cavalli "belli e veloci". Un netto contrasto con le cronache locali, inauditamente cupe: Oddantonio avrebbe imitato per molti versi gli eccessi dell'imperatore romano Caligola, come ad esempio far cospargere di pece un paggio e dargli fuoco solo per puro divertimento. Testimonianze scritte molti anni dopo la morte del legittimo duca di Urbino.Tra i motivi dell'assassinio di Oddantonio, comunque, non vi era solo un'invidia di stampo famigliare, o la semplice sete di potere: Federico da Montefeltro trovava sul "terreno cittadino" materiale, come dire, fertile: Oddantonio si era circondato da consiglierei della cerchia di Sigismondo Malatesta da Rimini, nemico giurato di Federico e delle vecchie èlite urbinati. Il rischio che Urbino finisse nella sfera di influenza dei Malatesta era, di conseguenza, troppo elevato.
La Santa Sede, prima di riconoscere legittimamente Federico come signore di Urbino, ci mise ben trent'anni: solo nel 1474 papa Sisto V gli concedette l'investitura solenne di duca. Mentre Oddantonio duca lo era diventato subito, nello stesso anno della morte del padre.
L'accusa nel dipinto
Il personaggio centrale della Flagellazione, dunque, sarebbe a tutti gli effetti Oddantonio. Rappresentato in camicia o tunica rossa (quella stessa "camixa" con cui le cronache lo narrarono al momento di aprire la porta ai sicari), il personaggio evoca - secondo una facile simbologia - il concetto del martirio. Anche la raffigurazione a piedi nudi della figura centrale evoca, secondo un'altra ben nota simbologia, un morto. L'essere scalzi evocava anche la disposizione alla penitenza, alla santità e al pellegrinaggio. Gli accenni all'accusa di Piero della Francesca nei confronti di Federico da Montefeltro emergono dall'interpretazione di un testo fondamentale come la Legenda aurea di Jacopo da Varagine, una raccolta di storie esemplari e vite leggendarie dei santi. In essa vi è un'efficace descrizione di Ponzio Pilato, troneggiante e impassibile durante la flagellazione di Gesù. Tra le righe, la Legenda dipinge anche le origini di Pilato, sostenendo che il governatore romano discendesse, come figlio illegittimo, dall'unione di un re di nome Tyrus e di un'umile ragazza di nome Pyla, figlia di un mugnaio di nome Atus (Pyla+Atus: Pylatus). All'età di tre anni Pilato venne mandato dal re, che però aveva avuto un altro figlio, legittimo e, dunque, migliore in tutto e per tutto. Pilato fu dunque colto da invidia e odio nei confronti del fratellastro più dotato, tanto da ucciderlo. Per punirlo, il re inviò Pilato a Roma come ostaggio, al posto del tributo che doveva annualmente pagare all'Impero. La perfidia e spietatezza di Pilato negli anni a venire convinse Roma ad affidare a quest'uomo compiti governativi nelle provincie più difficili, come il Ponto e la Giudea.Questa leggenda avrebbe dovuto evocare - nel dipinto di Piero della Francesca - la carriera ambiziosa e spietata di Federico da Montefeltro. Proprio come quel Pilato, Federico era passato in secondo piano alla nascita di Oddantonio. E proprio come il Pilato della leggenda, Federico aveva trascorso un periodo come ostaggio in una città straniera: dalla primavera del 1433 all'autunno del 1434, a Venezia, "ospite" della Serenissima.Un osservatore mediamente istruito del XV secolo non poteva che guardare alla Flagellazione e afferrare immediatamente il messaggio in codice ivi contenuto.
La Legenda aurea (scritto del 1270) era, in quel tempo, un "bestseller", nonché una delle prime opere medioevali ad essere stampate in un numero di edizioni che superava addirittura la Bibbia. Piero della Francesca, dunque, senza dubbio conosceva la Legenda, anche perché tale racconto ispirò il suo capolavoro assoluto: le Storie della Croce nel coro di San Francesco ad Arezzo.
L'incredibile intuizione di Piero della Francesca è quella di avvicinare, nel dipinto, due epoche e due mondi differenti, quello a lui contemporaneo e quello del Nuovo Testamento, per evocare un unico messaggio. E per rimarcare che si tratta di due mondi diversi - un evento avvenuto nel passato remoto ma assurto a momento "eterno", e cioè la Flagellazione del Cristo, e un fatto di cronaca nera e politica contemporanea - il geniale pittore ricorre a due usi differenti della luce: la scena della Flagellazione è infatti illuminata da destra, mentre i tre uomini in primo piano sono illuminati da sinistra. Il soffitto a cassettoni sopra il Cristo flagellato riceve un'illuminazione supplementare innaturale, quindi si suppone di natura "divina". La luce "eterna" del santuario sullo sfondo contrasterebbe quindi con la luce naturale e terrena dello scenario esterno.Quanto alle analogie tra i due "mondi" presenti nel dipinto, si possono riscontrare delle simmetrie formali: l'uomo con il turbante (di schiena) nella scena della flagellazione sembra accennare, con la mano sinistra, lo stesso gesto della figura in primo piano a sinistra; la postura delle gambe di Gesù Cristo sullo sfondo, inoltre, è assolutamente analoga a quella di Oddantonio in primo piano, con il piede sinistro più avanzato rispetto a quello destro. La distanza che divide le due figure - Cristo e Oddantonio - dalla colonna centrale che fa da confine ai due "mondi" del dipinto è la stessa.
Il personaggio centrale della Flagellazione, dunque, sarebbe a tutti gli effetti Oddantonio. Rappresentato in camicia o tunica rossa (quella stessa "camixa" con cui le cronache lo narrarono al momento di aprire la porta ai sicari), il personaggio evoca - secondo una facile simbologia - il concetto del martirio. Anche la raffigurazione a piedi nudi della figura centrale evoca, secondo un'altra ben nota simbologia, un morto. L'essere scalzi evocava anche la disposizione alla penitenza, alla santità e al pellegrinaggio. Gli accenni all'accusa di Piero della Francesca nei confronti di Federico da Montefeltro emergono dall'interpretazione di un testo fondamentale come la Legenda aurea di Jacopo da Varagine, una raccolta di storie esemplari e vite leggendarie dei santi. In essa vi è un'efficace descrizione di Ponzio Pilato, troneggiante e impassibile durante la flagellazione di Gesù. Tra le righe, la Legenda dipinge anche le origini di Pilato, sostenendo che il governatore romano discendesse, come figlio illegittimo, dall'unione di un re di nome Tyrus e di un'umile ragazza di nome Pyla, figlia di un mugnaio di nome Atus (Pyla+Atus: Pylatus). All'età di tre anni Pilato venne mandato dal re, che però aveva avuto un altro figlio, legittimo e, dunque, migliore in tutto e per tutto. Pilato fu dunque colto da invidia e odio nei confronti del fratellastro più dotato, tanto da ucciderlo. Per punirlo, il re inviò Pilato a Roma come ostaggio, al posto del tributo che doveva annualmente pagare all'Impero. La perfidia e spietatezza di Pilato negli anni a venire convinse Roma ad affidare a quest'uomo compiti governativi nelle provincie più difficili, come il Ponto e la Giudea.Questa leggenda avrebbe dovuto evocare - nel dipinto di Piero della Francesca - la carriera ambiziosa e spietata di Federico da Montefeltro. Proprio come quel Pilato, Federico era passato in secondo piano alla nascita di Oddantonio. E proprio come il Pilato della leggenda, Federico aveva trascorso un periodo come ostaggio in una città straniera: dalla primavera del 1433 all'autunno del 1434, a Venezia, "ospite" della Serenissima.Un osservatore mediamente istruito del XV secolo non poteva che guardare alla Flagellazione e afferrare immediatamente il messaggio in codice ivi contenuto.
La Legenda aurea (scritto del 1270) era, in quel tempo, un "bestseller", nonché una delle prime opere medioevali ad essere stampate in un numero di edizioni che superava addirittura la Bibbia. Piero della Francesca, dunque, senza dubbio conosceva la Legenda, anche perché tale racconto ispirò il suo capolavoro assoluto: le Storie della Croce nel coro di San Francesco ad Arezzo.
L'incredibile intuizione di Piero della Francesca è quella di avvicinare, nel dipinto, due epoche e due mondi differenti, quello a lui contemporaneo e quello del Nuovo Testamento, per evocare un unico messaggio. E per rimarcare che si tratta di due mondi diversi - un evento avvenuto nel passato remoto ma assurto a momento "eterno", e cioè la Flagellazione del Cristo, e un fatto di cronaca nera e politica contemporanea - il geniale pittore ricorre a due usi differenti della luce: la scena della Flagellazione è infatti illuminata da destra, mentre i tre uomini in primo piano sono illuminati da sinistra. Il soffitto a cassettoni sopra il Cristo flagellato riceve un'illuminazione supplementare innaturale, quindi si suppone di natura "divina". La luce "eterna" del santuario sullo sfondo contrasterebbe quindi con la luce naturale e terrena dello scenario esterno.Quanto alle analogie tra i due "mondi" presenti nel dipinto, si possono riscontrare delle simmetrie formali: l'uomo con il turbante (di schiena) nella scena della flagellazione sembra accennare, con la mano sinistra, lo stesso gesto della figura in primo piano a sinistra; la postura delle gambe di Gesù Cristo sullo sfondo, inoltre, è assolutamente analoga a quella di Oddantonio in primo piano, con il piede sinistro più avanzato rispetto a quello destro. La distanza che divide le due figure - Cristo e Oddantonio - dalla colonna centrale che fa da confine ai due "mondi" del dipinto è la stessa.
Federico come Giuda
Un'altra ipotesi interpretativa sicuramente suggestiva è quella relativa al personaggio in primo piano sulla sinistra, l'uomo con la barba: c'è infatti chi - come il noto critico e storico dell'arte Ernst H. Gombrich - ha visto nel personaggio barbuto nientemeno che Giuda Iscariota, il traditore di Gesù, e nella scena rappresenta l'esatto momento in cui l'uomo restituisce i trenta sporchi denari del tradimento ai sacerdoti.
Anche in questo caso, riferendosi a una storia "apocrifa" legata a Giuda, tornerebbe in scena il tema del fratellastro meno dotato e dunque invidioso di un figlio legittimo: secondo alcune storie "apocrife", infatti, Giuda sarebbe stato abbandonato dai genitori naturali. Galleggiando su un fiume all'interno di una cesta, il neonato Giuda avrebbe raggiunto l'isola di Scarioth (da qui il termine Iscariota), raccolto dalla regina del luogo - una donna senza eredi al trono - e allevato. Dopodiché, la nascita di un figlio legittimo aveva tagliato fuori Giuda che, una volta saputo di essere illegittimo, per vendetta avrebbe ucciso il fratello. La storia non faceva che ribadire l'analogia con il destino di Federico da Montefeltro e Oddantonio.Oggi ci si avvicina alla storia di Federico da Montefeltro con la freddezza scientifica delle analisi storiche, ma a quel tempo le "cronache" e le dicerie popolari si facevano sostanza. Basti pensare a come questi sospetti segnarono la vita di Federico da Montefeltro.Il dipinto di Piero della Francesca sembra collocarsi simbolicamente proprio al centro della contesa spietata tra Federico e il rivale di Rimini, Sigismondo Malatesta (il quale, tra l'altro, nel giro di due anni, avrebbe organizzato un fallimentare complotto per assassinare Federico, durante il Carnevale del 1446). Basti considerare questi "amorevoli scambi" tra i due signori del Centro Italia: nel gennaio 1445 Sigismondo aveva offeso gravemente Federico ("vigliacco e assassino") in presenza di un tale ser Luca, cancelliere del cardinale Trevisan, definendo il rivale anche "figlio illegittimo di Bernardo Ubaldini". Federico ci mise poco a ribattere che il signore di Rimini non era nient'altri che un figlio di nobili di seconda categoria. "marchesini" e zotici del Bergamasco. A sua volta, Malatesta aveva replicato che la natura di Federico fosse quella di un traditore ed empio stupratore ("di un'ebrea a Pesaro", figuriamoci) nonché dissoluto potente che aveva trasformato il monastero di Fano in un bordello personale, ingravidando contemporaneamente la bellezza di undici suore. Federico, dal canto suo, aveva ribattuto accusando Sigismondo di fratricidio (del fratello Galeotto Roberto), aggiungendo il carico da novanta che, se Dante fosse stato ancora vivo, avrebbe inserito Sigismondo nell'Inferno al posto del conte Ugolino. Per oltre due decenni, Federico e Sigismondo si scambiarono parole di fuoco, organizzarono vicendevoli attentati e complotti e non mancarono di realizzare alleanze di ogni tipo pur di contenere il potere del vicino rivale: la posta in palio era, ovviamente, il dominio di una regione strategica tra l'Adriatico e l'Appennino.
Un'altra ipotesi interpretativa sicuramente suggestiva è quella relativa al personaggio in primo piano sulla sinistra, l'uomo con la barba: c'è infatti chi - come il noto critico e storico dell'arte Ernst H. Gombrich - ha visto nel personaggio barbuto nientemeno che Giuda Iscariota, il traditore di Gesù, e nella scena rappresenta l'esatto momento in cui l'uomo restituisce i trenta sporchi denari del tradimento ai sacerdoti.
Anche in questo caso, riferendosi a una storia "apocrifa" legata a Giuda, tornerebbe in scena il tema del fratellastro meno dotato e dunque invidioso di un figlio legittimo: secondo alcune storie "apocrife", infatti, Giuda sarebbe stato abbandonato dai genitori naturali. Galleggiando su un fiume all'interno di una cesta, il neonato Giuda avrebbe raggiunto l'isola di Scarioth (da qui il termine Iscariota), raccolto dalla regina del luogo - una donna senza eredi al trono - e allevato. Dopodiché, la nascita di un figlio legittimo aveva tagliato fuori Giuda che, una volta saputo di essere illegittimo, per vendetta avrebbe ucciso il fratello. La storia non faceva che ribadire l'analogia con il destino di Federico da Montefeltro e Oddantonio.Oggi ci si avvicina alla storia di Federico da Montefeltro con la freddezza scientifica delle analisi storiche, ma a quel tempo le "cronache" e le dicerie popolari si facevano sostanza. Basti pensare a come questi sospetti segnarono la vita di Federico da Montefeltro.Il dipinto di Piero della Francesca sembra collocarsi simbolicamente proprio al centro della contesa spietata tra Federico e il rivale di Rimini, Sigismondo Malatesta (il quale, tra l'altro, nel giro di due anni, avrebbe organizzato un fallimentare complotto per assassinare Federico, durante il Carnevale del 1446). Basti considerare questi "amorevoli scambi" tra i due signori del Centro Italia: nel gennaio 1445 Sigismondo aveva offeso gravemente Federico ("vigliacco e assassino") in presenza di un tale ser Luca, cancelliere del cardinale Trevisan, definendo il rivale anche "figlio illegittimo di Bernardo Ubaldini". Federico ci mise poco a ribattere che il signore di Rimini non era nient'altri che un figlio di nobili di seconda categoria. "marchesini" e zotici del Bergamasco. A sua volta, Malatesta aveva replicato che la natura di Federico fosse quella di un traditore ed empio stupratore ("di un'ebrea a Pesaro", figuriamoci) nonché dissoluto potente che aveva trasformato il monastero di Fano in un bordello personale, ingravidando contemporaneamente la bellezza di undici suore. Federico, dal canto suo, aveva ribattuto accusando Sigismondo di fratricidio (del fratello Galeotto Roberto), aggiungendo il carico da novanta che, se Dante fosse stato ancora vivo, avrebbe inserito Sigismondo nell'Inferno al posto del conte Ugolino. Per oltre due decenni, Federico e Sigismondo si scambiarono parole di fuoco, organizzarono vicendevoli attentati e complotti e non mancarono di realizzare alleanze di ogni tipo pur di contenere il potere del vicino rivale: la posta in palio era, ovviamente, il dominio di una regione strategica tra l'Adriatico e l'Appennino.
Interpretazione dei personaggi in primo piano
(clicca sull'immagine sottostante)
Nessun commento:
Posta un commento