Noi
tutti siamo consapevoli, e più o meno informati, di essere testimoni di una
“crisi” che coinvolge tutto il nostro Pianeta, proiettandolo in un esodo la cui
meta futura appare lontana e molto incerta. Siamo abitatori di un’epoca travagliata e di transizione, epoca in cui la
parola “crisi” emerge con tutta la sua forza significativa di “scelta” che
esige una progettazione del futuro. Dunque una parola che da una dimensione
negativa vuole farci scorgere la positività di nuovi assetti sociali, politici,
religiosi, ma anzitutto “culturali”, senza i quali non saranno possibili i
suddetti.
Però tutto questo comporta conoscenze,
fatiche, creatività, alleanze capaci di instaurare rapporti assolutamente
nuovi, assolutamente “altri” da quelli attuali. Ecco perché dobbiamo parlare di
transizione, ecco perché dobbiamo considerarci civiltà in esodo epocale. Siamo
protagonisti e non spettatori, come ci vorrebbero i sistemi che credono di
difendersi avvolgendo se stessi e noi nelle paure che producono difese
violente, rifiuti xenofobi, rifugi individualistici, sospettosi e denunciatori
di ogni diversità. E’ necessario saper progettare il futuro, ripeto, e per far
questo, per poter fare “un salto in avanti” occorre “prendere la rincorsa”,
vale a dire prestare ascolto alla storia che già ha vissuto esodi epocali e li
ha superati non soffocandoli ma aprendoli a nuovi orizzonti. Pensiamo alle
“Tribù del mare” che nel 1200
a .C. hanno invaso dall’Asia del Sud tutto l’arco
orientale del Mediterraneo, modificandone tutti gli assetti sociali e
culturali, creando una possibilità di comunicazione assolutamente nuova e
straordinaria con la scrittura alfabetica; ponendo i semi di quelle che saranno
le nuove civiltà Abramitiche; insediando Semiti, Camiti e Japeti i cui rapporti
avrebbero condizionato lungo la storia le civiltà e le dinamiche che
conosciamo.
Ma ora pensiamo a quanto è avvenuto nel
VI secolo dell’era cristiana.
Gregorio
Magno (540-604)
Da alcuni secoli era in atto un profondo
cambiamento. Avevano iniziato a muoversi i popoli che vivevano ai confini
dell’Impero Romano fortemente intaccato dalla corruzione sociale e politica.
Erano popolazioni germaniche, slave, turche e più tardi finniche. Dal loro
incontro con i popoli dell’Occidente e dalla fusione di diverse tradizioni e
concezioni di vita – quelle che noi oggi chiamiamo “etiche” – sarebbe nato un
mondo nuovo. Con le loro incursioni e spedizioni si erano spinti un po’
dovunque nelle terre dell’Impero. Non erano mai solo spedizioni militari, ma
spostamenti di tribù. Popoli in cammino, guerrieri, donne, bambini, cavalli,
carri, con il loro bagaglio culturale e le loro credenze religiose. Il flusso
migratorio si diresse da Nord-Est a Sud-Ovest, passando attraverso la Gallia e
la Spagna e poi anche in Italia. L’Impero Romano d’Occidente ne subì tutta la
violenza e andò in frantumi, travolgendo tutto il mondo antico. La caduta e il
sacco di Roma per mano di Alarico nel 410 era stato un avvenimento inatteso,
doloroso e simbolico, tanto che Agostino e Girolamo ne furono sconvolti e
pensarono alla “fine del mondo”. Ma la capitale del mondo doveva ancora subire
ben altre dure prove. Inviato dall’imperatore d’Oriente, Zenone, per
riconquistare l’Italia, il re ostrogoto Teodorico vi creò invece un proprio
regno e tentò di ricostruire una civiltà in cui potessero convivere Romani e
Goti. Il filosofo Severino Boezio contribuì a mantenere accesa la fiaccola della cultura nel buio di quel
tempo. Il papa Agapito e il suo amico monaco Cassiodoro idearono a Roma un
centro di alti studi religiosi, programma che Cassiodoro cercherà di realizzare
per conto suo, una volta ritiratosi dalla vita pubblica, nel suo monastero
calabrese. Questi uomini lavoravano per i posteri. Anche Giustiniano, diventato
padrone delle province occidentali, si preoccupò di ripristinare le scuole
perdute.
Nel 546 (17 dicembre) il re Totila sconfisse
gli Ostrogoti e si impossessò di Roma e decise di deportarne tutta la
popolazione in Campania; per quaranta giorni Roma rimase quasi spopolata e
deserta. Un bambino di sei anni, nato appunto nel 540, fu testimone di quegli
orrori dell’invasione e della deportazione. Si chiamava Gregorio. Proprio lui
scriverà, nel suo libro dei Dialoghi,
che Benedetto da Norcia aveva detto: “Roma non sarà distrutta dai barbari,
ma…andrà disfacendosi da sola: in
semetipsa marcescet”.
Nel 560-561 le campagne romane erano a
tal punto devastate che il papa Pelagio I scriveva: “Dopo le continue
devastazioni della guerra che sono state inflitte alla regione dell’Italia per
venticinque e più anni, e che soltanto ora sono cessate, solamente dalle
isole…la Chiesa di Roma riceve qualche provento, del resto insufficiente, per
il clero e per i poveri”. La popolazione era ridotta a mangiare ghiande. Ed
ecco profilarsi dal Nord una nuova grande minaccia: l’invasione longobarda.
L’intero popolo Longobardo passò le Alpi e
si fermò in Italia, dove iniziò una nuova vita in comune con le popolazioni
della penisola, ancora sbandate e indebolite dopo la caduta dell’Impero e le
invasioni subite. Questo popolo di guerrieri non poteva prevedere che si
sarebbe fermato proprio in questa penisola e che avrebbe dato il nome a una
regione, la Lombardia. Tacito ha scritto che all’epoca di Cristo si trovavano
alle foci del fiume Elba. Lì furono sottomassi dai Romani all’Impero. Poi
scesero nelle regioni della Pannonia e infine, come sospinti dall’ondata di
altri popoli, passarono le Alpi. Erano un popolo ben organizzato e abile nel
combattimento. Alla loro guida c’era il re Alboino, attorniato da una serie di
altri capi chiamati duchi. Appena al di qua delle Alpi, a Cividale, nacque il
primo ducato. Una parte scese nel sud Italia, senza attaccare né essere
ostacolati da Ravenna. Nel Sud si formarono i ducati di Spoleto e Benevento.
L’altra parte invase la pianura padana. Qui una sola città resistette
all’assedio per tre anni: Pavia. Conquistata diventò la capitale. Poi i
Longobardi puntarono su Roma.
Intanto Gregorio cresceva, attingendo
dalla madre Silvia un grande fervore religioso, e dal padre Gordiano, senatore,
l’amore e il servizio alla città. Nel 573 gli fu affidata la più alta carica
civile di Roma, quella di “prefetto dell’urbe“ che esercitò fino al 578,
allorché decise di dedicarsi totalmente al servizio di Dio. Egli affrontò gli
studi classici e quelli biblici con la stessa intensità speculativa, affermandone
la necessaria interazione. Ha esaltato la cultura profana di Mosè, di Isaia e
di S. Paolo, affermando: “Mosè, che ci procurò gli inizi della Parola di Dio,
non imparò prima le cose divine, ma, per comprendere ed esprimere le cose
divine, formò l’anima rozza nella sapienza degli Egizi. Isaia, a sua volta, fu
più eloquente degli altri profeti, perché ricevette una distinta formazione
umanistica. E anche Paolo, strumento eletto, prima di essere rapito in paradiso
e di esser sollevato al terzo cielo, viene istruito ai piedi di Gamaliele; e
forse superò per dottrina gli altri apostoli, appunto perché destinato a raggiungere
le cose celesti, imparò dapprima con impegno le cose terrestri”. E’ però
necessario chiederci quale considerazione Gregorio avesse della “cultura” del
suo tempo, quella che si insegnava nelle scuole di Stato e che in definitiva
era l’arte di far carriera e di primeggiare, appunto la “sapienza di questo
mondo”. Ecco come la descrive: “E’ proprio della sapienza di questo mondo coprire
il cuore con i sotterfugi, nascondere ciò che si pensa, dimostrare vero il
falso e falso il vero. E’ questa prudenza mondana che di solito i giovani
apprendono, è questa che si insegna a pagamento ai ragazzi nelle scuole, e
quelli che l’apprendono ne vanno orgogliosi e disprezzano gli altri.(….) A
quanti la seguono, essa insegna a far carriera, a essere soddisfatti quando raggiungono
la vanagloria temporale, a ricambiare con usura il male ricevuto, a non cedere
mai quando sono forti, e quando sono deboli, a simulare come pacifica bontà ciò
che la malizia non riesce a effettuare”. Al contrario: “la sapienza dei giusti,
contrariamente a quella del mondo, insegna a non fingere nulla per
ostentazione, a manifestare con le parole il proprio pensiero, ad amare la
verità delle cose, a compiere il bene disinteressatamente, a essere disposti a
soffrire il male piuttosto che farlo, a non
vendicarsi mai dei torti ricevuti e considerare un guadagno quando si è
disprezzati per amore della verità (….) E infatti cosa c’è di più stolto per il
mondo che manifestare con la parola ciò che si pensa, non simulare nulla con
astuti sotterfugi, non ricambiare gli insulti, pregare per chi ti maledice,
cercare la povertà, rinunciare ai propri averi, non opporre resistenza a chi ti
porta via il mantello e presentare l’altra guancia a chi ti percuote?”.
E’
tutto questo un eco fedele al Discorso della Montagna, che Gregorio ha posto a
fondamento della propria vita.
L’incontro con il monachesimo regolato da
Benedetto da Norcia determinò la sua scelta esistenziale, sostituendo la
porpora del prefetto con il saio monastico.
Trasformò il suo palazzo al Celio in monastero intitolandolo a S. Andrea.
Fondò altri sei monasteri in Sicilia, dotandoli con le rendite dei possedimenti
che la sua famiglia aveva nell’Isola, e distribuì il resto dei suoi averi ai
poveri. Si ritirò nel monastero del Celio con altri compagni che si erano uniti
a lui, iniziando una vita nuova, attingendo largamente e avidamente alla Parola
di Dio. Paolo Diacono ci informa che “Già allora attingeva con animo assetato
ai fiumi della Parola di Dio, che poi a suo tempo effuse con bocca melliflua”.
Nel 577 i Longobardi distrussero il
Monastero di Montecassino e quei monaci si rifugiarono nel monastero del
Laterano, non lontano da quello del Celio. Da essi apprese quanto riguardava la
vita di Benedetto da Norcia e ne scrisse di essa nei Dialoghi che costituiscono ancora la prima agiografia di San
Benedetto.
L’anno seguente venne raggiunto dalla
decisione di Papa Benedetto I di ordinarlo diacono e di affidargli una delle
Regioni , la VII, in cui era divisa la città. La sua vita fu ricacciata, come
una barca in balia delle onde, tra gli affari secolari.
Nel 579 Papa Pelagio II pensò di affidare
al Diacono Gregorio una delicata missione diplomatica che lo costrinse ad
abbandonare non solo il monastero del Celio, ma anche Roma, per raggiungere
Costantinopoli, come nunzio presso l’imperatore d’Oriente, Giustiniano.
Gregorio entrò nel sontuoso palazzo di Galla Placidia creandovi clima e stile
monastico. Non era solo: lo avevano seguito “molti” fratelli, tra i quali
Massimiano, futuro vescovo di Siracusa, per dedicarsi con lui alla meditazione
della Parola di Dio come nel monastero del Celio. Da quelle meditazioni nascerà
il commento al libro di Giobbe. La missione diplomatica, tutta intesa come
servizio, vissuta alla luce della Parola di Dio, assunse una dimensione
profetica. Strinse amicizia profonda e durevole con la cerchia familiare
dell’imperatore, con attenzione a ogni singola persona, e frequentò gli
ambienti monastici traendone grande profitto nella conoscenza delle tradizioni
spirituali d’Oriente.
Divenne famoso in Oriente anche come
autore della Regola Pastorale, che,
subito tradotta in greco da Anastasio, patriarca d’Antiochia, arrivò ben presto
al monastero del Sinai, dove l’abate Giovanni Climaco la utilizzò nella sua Scala del Paradiso.
Nella primavera del 586 Pelagio II
richiamò Gregorio a Roma, come suo consigliere. La ritrovata pace del Celio
durò poco. Nell’autunno del 589 l’Adige a Verona e il Tevere a Roma
strariparono devastando gli edifici e i depositi di grano conservato. Seguì una
pestilenza che colpì anche papa Pelagio, a metà di febbraio, con una grande
mortalità tra il popolo. La popolazione vide la necessità di provvedersi subito
di un nuovo pastore. La scelta unanime cadde su Gregorio. Il popolo accorse al
Celio per acclamarlo e reclamarlo Papa. Gregorio cercò in tutti i modi di
sottrarsi. Finì per accettare e fu consacrato vescovo di Roma il 3 settembre
590 nella basilica di S. Pietro. Riuscì subito a creare anche in quel palazzo
del Laterano l’atmosfera austera e serena di un monastero, conducendo con sé
alcuni monaci del Celio. Agli occhi del nuovo Papa Roma apparve subito in tutta
la sua tragica realtà. Logorata dal peso degli anni, decaduta e corrosa nelle
sue istituzioni, desolata dalla peste, sembrava disfarsi in se stessa, come
Benedetto aveva detto di essa: in
semetipsa marcescet. Anche il mondo intero, colpito da tante calamità,
sembrava anch’esso votato alla distruzione. Questo tema era ricorrente nelle
omelie che il nuovo Papa teneva nelle basiliche romane al popolo vittima di
tanti mali. Ma Gregorio aveva occhi
profetici che sapevano guardare la storia con quelli del Vangelo e vedevano,
nei sintomi dell’agonia, i segni del parto. E il parto è sì sofferenza, ma
soprattutto è speranza di vita. Diceva al suo popolo riunito in S. Pietro nella
II Domenica di Avvento: “…mentre sta per finire il mondo di cui non avete
subìto il fascino, si avvicina la salvezza da voi desiderata…Come dai frutti
degli alberi si conosce l’avvicinarsi dell’estate, così dalla catastrofe del
mondo si intuisce che sta per venire il regno di Dio”. E ancora diceva: ”Le rovine che constatiamo sono
eloquenti. Il mondo colpito da tante sventure, ha perso ormai ogni fascino è
già ci mostra il regno nuovo che ormai sta per formarsi”.
Certo Gregorio pianse sulla Città Eterna
che andava disfacendosi sotto i suoi occhi, ma come profeta di tempi nuovi,
vedeva già sorgere dalla fusione dei Romani e dei Longobardi un popolo più
vicino al Regno. Così Gregorio accettò di essere vescovo dei Romani e dei
Longobardi, e li andava nutrendo col pane della Parola di Dio e col pane
materiale, li difendeva, li proteggeva, li amava. L’Impero Bizantino considerava
i Longobardi predoni da sottomettere o sterminare, Gregorio invece come popolo
da guadagnare alla fede e alla causa della pace. Coerente con il suo principio,
che “i vescovi non devono mischiarsi nella politica se non per difendere gli
oppressi”, i suoi interventi erano volti unicamente alla difesa dei deboli e
alla promozione della pace, attraverso l’arte del negoziato e l’umiltà del
cedere, disposto ad accettare insuccessi e umiliazioni, serbandosi sempre
estraneo a ogni intrigo di politica machiavellica.
Anche in fatto di carità e di giustizia
Gregorio aveva idee chiare: “…qualche volta, mentre si elargiscono con
abbondanza i beni esteriori, è più pronta la mano a elargire il dono che non
l’animo ad assume la sofferenza. Per cui occorre tener presente che dona in
modo più autentico colui che mentre elargisce il dono a chi è nell’afflizione,
ne assume anche lo stato d’animo; prima fa sua la sofferenza di lui e, allora,
lo aiuta soccorrendone il bisogno. Spesso l’abbondanza porta a elargire il
soccorso materiale, ma senza la virtù della compassione. Nelle opere di
misericordia conta più, davanti a Dio, l’animo con cui si agisce che non
l’opera in se stessa”.
Francesco
(Jorge Mario Bergoglio. I936)
Come detto in apertura, il nostro secolo
sta vivendo un nuovo, complesso, quanto drammatico esodo epocale, non più, come
in passato, localizzabile in territori o popolazioni definibili, ma
coinvolgente l’intero Pianeta Terra, nella molteplicità delle sue etnie e
conseguenti culture, strutture sociali, politiche, religiose. Lo possiamo
definire un autentico salto antropologico , teatro di masse di gente in
migrazioni che alcuni definiscono “bibliche”, evocando antiche pagine…Le guerre
si vanno moltiplicando fino ad essere “dimenticate” dai media, e il terrorismo,
non controllabile, semina morti e distruzioni, con una “guerra” non più
“simmetrica”.
In questo nostro contesto storico è
“comparso” (mi permetto di usare questo termine per indicare la sorpresa che ha
suscitato la sua elezione all’episcopato di Roma il 13 marzo 2013) Jorge Mario
Bergoglio, che ha assunto il nome di Francesco dopo la sua elezione al Soglio
di Pietro.
E’ nato in Buenos Aires il 17 dicembre
1936, figlio di emigrati piemontesi, condizione che ha segnato la sua
attenzione ai “migranti” dei nostri giorni. Il padre Mario è ragioniere
impiegato delle ferrovie, la madre Regina si occupa della casa e dei cinque
figli.
Si è diplomato come tecnico chimico, ma
poi è entrato nel seminario diocesano, passando poi al noviziato della
Compagnia di Gesù. Ha completato gli studi umanistici in Cile e nel 1963,
tornato in Argentina, si è laureato in filosofia. Ha insegnato letteratura e
psicologia fino al 1966. Nel 1969 è stato ordinato presbitero. Ha continuato
gli studi in Spagna dal 1970 al 1971. Rientrato in Argentina è stato maestro
dei novizi, professore presso la facoltà teologica, consultore della provincia
della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio. Il 31 luglio del 1973 è stato
eletto Provinciale dei Gesuiti dell’Argentina, e sei anni dopo ha ripreso
l’insegnamento universitario e il ministero di parroco a Sen Miguel. Nel 1986 è
andato in Germania per ultimare la tesi dottorale. Il cardinale Quarracino l’ha
voluto suo stretto collaboratore a Buenos Aires, per cui, nel 1992, è stato
ordinato vescovo dallo stesso Cardinale. Nel 1997 è stato promosso arcivescovo
coadiutore di Buenos Aires e, alla morte del cardinal Quarracino, gli è
succeduto, il 28 febbraio 1998, come vescovo, primate di Argentina, ordinario
per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere
dell’Università Cattolica. Nel Concistoro del 21 febbraio 2001 Giovanni Paolo
II l’ha creato Cardinale e nell’aprile del 2005 ha partecipato al
Conclave che ha eletto Benedetto XVI.
Come arcivescovo di Buenos Aires, diocesi
di tre milioni di abitanti,, pensò a un progetto missionario incentrato sulla
comunione fonte di evangelizzazione: comunità aperte e fraterne; protagonismo
di un laicato consapevole; evangelizzazione rivolta a ogni abitante della
città, assistenza ai poveri e ai malati. Invitava preti e laici a lavorare insieme.
In chiave continentale nutriva forti speranze, dopo il dramma vissuto e
attraversato, anche a proprio rischio, della dittatura, sull’onda del messaggio
della Conferenza di Aparecida nel 2007.
Il 13 maggio 2013 è stato eletto Vescovo
di Roma e quindi Sommo Pontefice, con il nome di Francesco.
Ha scelto di abitare in un appartamento e
di prepararsi la cena da solo dicendo: “La mia gente è povera e io sono uno di
loro”. Ai suoi preti raccomanda insistentemente misericordia, coraggio e porte
aperte. Quando cita la giustizia sociale invita a riprendere in mano il
Decalogo e le Beatitudini.
Egli si pone ora come guida pastorale in
una situazione storica di transizione, che per molti aspetti evoca quella di
Gregorio Magno, pur nella diversità contingente dei fenomeni.
L’Europa, il “Vecchio Mondo” sta vivendo
un evidente decadimento culturale e comunitario, eroso da corruzioni e nazionalismi
sempre più emergenti. Le Chiese che hanno avuto il torto di identificarsi con
l’Occidente assumendone tutti i limiti e le arroganze, sono trascinate nella
stessa crisi. L’immigrazione sempre più pressante dai popoli del Sud-Est del
Pianeta sconvolto da guerre, terrorismi e lotte sedicenti religiose, pone
l’Europa impreparata e impaurita, di fronte a una situazione antropologica che
non sa affrontare e dalla quale pensa solo di difendersi anziché di creare
opportunità integrative. Ricordate quanto detto sopra di Papa Gregorio nei
confronti dei Longobardi, in una situazione in cui la realtà “romana” in semetipsa marcescet, egli si definiva
“vescovo dei Romani e dei Longobardi”, vedendo in questi ultimi, pur invasori
violenti, annunciatori di un mondo nuovo: “non
angli sed angeli”.
Papa Francesco, proprio per indicare
all’Europa come gestire questa situazione, proclama il “Giubileo della
misericordia”, per riportare la Chiesa all’originale Kerigma cristiano della misericordia, che ci chiede di
attualizzare la “visceralità” di Dio rivelata da Gesù di Nazaret. Francesco
invita il popolo cristiano a riflettere durante il Giubileo sulle opere di
misericordia corporale e spirituale, tra cui si trova quella di accogliere i
forestieri. E questo senza dimenticare che Cristo stesso è presente tra i
“piccoli”, e che saremo giudicati dalla nostra risposta d’amore”.
“per Francesco la parola giusta è quella
che lui usa sempre più spesso: migranti. Sono popoli che per una quantità di
ragioni si trasferiscono da un continente all’altro, quasi sempre in condizioni
di schiavitù imposte da trafficanti di persone. Popoli che, solo pensando
all’Africa sub-saariana dal Ciad alla Somalia, dalla Nigeria al Sudan,
ammontano a cinque milioni per il 2015-16, ma a 50 milioni entro i prossimi
trent’anni. Ma non è solo in Africa che avviene questo fenomeno: sta
sconvolgendo tutto il Medio Oriente, i Balcani, la Turchia, la Siria, gran
parte dell’Indonesia e della Filippine. Insomma mezzo mondo è in movimento,
individui, comunità e interi popoli. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo
ma nella società globale il fenomeno coinvolge masse imponenti come non era mai
accaduto prima.” (Eugenio Scalfari). E di questo Papa Francesco ne ha piena
consapevolezza e sollecita anche noi ad
averla, partendo sempre dalla Parola di Dio che fonda l’identità del popolo
cristiano.
Molto simile a Gregorio è anche
l’affermazione di Francesco che “il rapporto tra la Chiesa e la politica deve
essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo perché ognuno ha la
sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente soltanto nell’aiutare il
popolo. Quando i rapporti convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene
del popolo, inizia quel connubio con il potere politico che finisce per
imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi. Bisogna procedere paralleli,
ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione.
Convergenti solo nel bene comune. Anche la relazione fra Chiesa e potere
politico può essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune”.
Gregorio è vissuto in anni in cui le
Chiese cristiane non erano divise ma in comunione pur nelle loro diversità
culturali e liturgiche. Gregorio le conosceva, le condivideva quando stava a
Costantinopoli, ed era attento alle rispettosa conoscenza delle varie culture e
relativi usi religiosi, come dimostrano le sue lettere al monaco Tommaso
inviato dal monastero del Celio in Britannia, con altri monaci della stessa
comunità.
Francesco si trova in situazione di
divisioni delle Chiese, a seguito di tanti errori accumulati nel tempo. Erano
Chiese divise, spesso nemiche, tutte avverse al mondo Ebraico, ma alle quali il
Concilio Vaticano II, vissuto dalla Chiesa di Roma dal 1963 al 1965, ha riproposto un
rapporto nuovo di conoscenza, di rispetto, di dialogo nei confronti non solo
delle Chiese ma di tutte le esperienze religiose vissute da chi vive in
rapporto con il divino. Francesco prosegue con slancio rinnovato, dopo un
periodo piuttosto problematico dei due precedenti pontificati, in una ricerca
di comunione nella diversità che suscita molta attenzione di tutte le aree
religiose, precisando però a tutte, Roma compresa, che non si può, o
addirittura è sacrilego, violentare e uccidere l’uomo in nome di Dio. Grido che
Francesco ha lanciato anche nei confronti dei mafiosi, colpevoli di corruzione
e assassinii.
Non
possiamo certo trascurare le difficoltà e le contestazione che sono riservate a
Francesco come anche a Gregorio. Questi fu giudicato fatuus, sciocco, dall’Imperatore
per il suo atteggiamento con i Longobardi. Francesco, per le sue
preoccupazioni riguardo all’accoglienza negata ai migranti, viene giudicato irresponsabile, con in più l’ipotesi
ingiuriosa o non capisce o ci guadagna,
da un politico. Ma le
contestazioni gli arrivano numerose anche da sedicenti “cattolici” che non
accettano la sua relativizzazione di strutture ormai obsolete e certo in
contrasto con la libertà dello Spirito promulgata dalla Parola di Dio rivelata
in Cristo.
Gregorio e Francesco, eletti al Papato a
distanza di 1423 anni, hanno entrambe sperimentato la decadenza dell’arroganza
di poteri che si definivano centri e capi dei popoli contemporanei: il Primo fu
testimone della fatiscenza dell’Impero Romano minato e indebolito dalla
corruzione, e invaso e “smontato” dai popoli migranti dal Nord; il Secondo è testimone
della progressiva incapacità delle Nazioni Europee di raggiungere un’unità
politica, seppur confederale, arricchita dalle nuove realtà etniche che le
possono offrire quella vitalità culturale, morale, creativa che va perdendo
nelle sue pretese identità autarchiche.
Gregorio e Francesco: il Primo ha
contribuito alla costruzione di un’Europa nuova grazie al suo ministero di
Pastore capace di fare di molte pecore un solo, multiforme gregge, grazie alla
presenza operante di un monachesimo attento e capace di esercitare una preziosa
promozione di alfabetizzazione e integrazione culturale e sociale. Il Secondo
sta operando, anche diplomaticamente, con una pastorale di misericordia che
ridia al popolo cristiano la capacità di “tornare a Cristo”, scoprendo di nuovo
la fratellanza che rende accetta ogni diversità affinché si compia quella
comunione “d’ogni nazione e tribù e
popolo e lingua “ che il libro della Rivelazione proclama (Ap 7,9). Ormai
da quasi tre anni a questa parte, Francesco ci sta proponendo un insegnamento
puntuale e coraggioso sulle sfide che allertano. Tanto la Evangelii Gaudium quanto l’enciclica sulla “casa comune”
rappresentano un serio richiamo su temi “eticamente sensibilissimi”, e nel
discorso rivolto alla Chiesa italiana riunita a Firenze, ai cattolici ha
raccomandato “l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato
nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire
l’amicizia sociale nel Paese, cercando il bene comune”. Anche Papa Gregorio
sarebbe d’accordo. E noi siamo pronti?
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