Sostruzioni romane. |
Architrave del portale |
Facciata della chiesa. |
Cripta |
Madonna del latte |
Bellissima panoramica dell'interno della chiesa: al centro l'altare e l'abside, con le
adiacenti estremità del transetto ed ai lati le due pareti laterali della sottostante navata.
(Foto di Carlo Fabbri da Panoramio.com - cliccare per ingrandire)
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Introduzione
L’Abbazia camaldolese di San Vincenzo al Furlo, sorta nell’area della distrutta città romana di Pitinum Mergens, occupava una posizione strategica lungo il percorso della via Flaminia, a controllo del valico del Furlo, dove l’imperatore Vespasiano nel 76 d.C. fece scavare nella roccia una galleria da cui il nome di Petra Pertusa.
Per questo il Monastero benedettino era conosciuto anche con il nome “ad Petram Pertusam”.
Storia
Sulle rovine di un piccolo tempio pagano, l’Abbazia è la più antica della provincia di Pesaro-Urbino e di quest’area appenninica; risalirebbe infatti al VI sec., ai primi anni cioè del monachesimo benedettino.
Secondo la tesi del prof. Luigi Michelini Tocci, grande storico e letterato, cagliese e anche studioso del nostro territorio, l’Abbazia potrebbe essere stata fondata quando popolazioni umbre profughe, davanti agli orrori della guerra gotica e dopo la battaglia di Tagina del 552 d.C., prese dal fervore benedettino, si rifugiarono entro il potente sistema fortificato bizantino, arroccato intorno all’imprendibile valico.
La chiesa fu dedicata a San Vincenzo vescovo e martire, di Bevagna (Umbria), il cui corpo sarebbe stato ivi trasportato attorno al 571, dopo la distruzione della città per opera dei Longobardi.
Tuttavia per altri studiosi il Santo dell’Abbazia sarebbe San Vincenzo di Saragozza, protettore dei vignaioli, morto attorno al 304, sempre durante le persecuzioni di Diocleziano.
La prima notizia certa della chiesa si ha da un documento del 970 che informa della vendita delle reliquie di San Vincenzo al vescovo di Metz (città francese vicino alla Lorena) Deodorico I, accanito collezionista di reliquie. Questo fatto attesta che l’Abbazia era già in quella data in stato di decadenza economica e spirituale.
ll Monastero, fondato dunque molto tempo prima, si arricchì in poco tempo, anche grazie alle offerte dei viandanti che vi trovavano rifugio e che dovevano attraversare il Furlo. Pagavano una specie di “dogana” per avere la protezione o per ringraziamento pecuniario a Dio. Nonostante fosse spesso saccheggiata dai briganti che effettuavano le loro scorribande sulla via Flaminia, l’Abbazia ebbe alcuni secoli di prosperità dominando un vasto feudo (abate feudatario) con diversi castelli e con vari possedimenti che si estendevano oltre 50 Kmq e con decine di chiese alle sue dipendenze; i monaci tenevano il “presidio” del luogo ed erano potenti ed anche corrotti.
Fortunatamente alla fine del sec. X e poi nel 1011, vi soggiornò e ne fu abbate San Romualdo; aveva al tempo la veneranda età di 104 anni (la tradizione attribuisce a San Romualdo 120 anni di vita); qui mise a punto la sua “Riforma” con la speranza di riportare i monaci alla stretta osservanza delle regole di San Benedetto, imponendo forti penitenze e digiuni .
Più tardi, intorno al 1040, nell’abbazia di San Vincenzo soggiornò San Pier Damiani (o Damiano) anch’egli ravennate, grande esponente del monachesimo riformato, che già godeva di ottimo prestigio; l’Abbazia ebbe così un momento di maggior calma, i monaci ricominciarono ad indossare l’abito bianco e tornò ad essere un luogo di pace e di serenità. Proprio qui egli incominciò a scrivere la biografia del suo predecessore, interrogando i testimoni che lo conobbero. Più che una biografia, dice lo storico Michelini, si tratta di un programma di vita, tratto dai lineamenti di una personalità esemplare, rappresentativa di tutto un movimento spirituale: umiltà profonda, necessità della solitudine per comunicare con Cristo, semplicità ed obbedienza assoluta. L’esempio di Romualdo, descritto come un meraviglioso maestro di vita, sarà motivo di fertili vocazioni. Solo dopo la sua morte la famiglia Romualdina, all’inizio del sec. XII, si chiamerà camaldolese.
San Pier Damiani, pur avendo fissato la sua dimora a Fonte Avellana, ebbe sempre a cuore le sorti del monastero di San Vincenzo, per il quale non esitò ad invocare il patrocinio imperiale. A Fonte Avellana scrisse la maggior parte delle sue opere, comprese le “invettive” e le “lettere infuocate” contro il clero simoniaco e corrotto dell’epoca che lo fecero famoso presso i posteri, fino all’ammirazione incondizionata di Dante Alighieri, il quale celebrò Damiano nel XXI canto del Paradiso.
Ma la sua opera riformatrice pare giovasse ben poco anche per i monaci benedettini di San Vincenzo al Furlo che continuarono la loro vita agiata, finché nel 1246 l’Abbazia fu saccheggiata ed incendiata dagli abitanti di Cagli.
Per il “controllo” di alcuni castelli, nel XIII sec. infatti l’Abbazia venne in forte conflitto con il Comune di Cagli. Nel 1216 i castelli di Drogo, di Monte Varco, insieme a quello di Sanguineto, dichiararono di non riconoscere altra autorità se non quella dell’abbate di San Vincenzo, il quale a sua volta ne rivendicava la giurisdizione. Con il ricorso alle armi, il Comune otteneva tuttavia la sottomissione, tanto dai castelli quanto dall’Abbate. Circa tre anni dopo nuovamente il Comune muoveva contro Drogo distruggendo e facendo prigionieri gli abitanti. Risultando vano il ricorso al legato apostolico, l’Abbate provocava l’intervento di Urbino affinché si giungesse ad una risoluzione a lui vantaggiosa. Il lodo dei consoli urbinati concedeva così alla Badia di ricostruire e di possedere il castello di Drogo con i rispettivi uomini, i quali ultimi avrebbero però versato a Cagli una tassa annua (che invece non verrà rispettata).
Ciò non pone tuttavia fine alla contesa fra l’Abbate di San Vincenzo ed il Comune, visto che nel 1246, come già accennato, l’Abbazia venne saccheggiata ed incendiata dagli uomini di Cagli (probabilmente distruggendo la navata destra che non venne più ricostruita) e le mura del castello di Drogo nel 1247 vengono nuovamente abbattute.
Nel 1271 l’abbate Bonaventura diede avvio ai restauri, come testimonia la scritta gotica incisa sull’architrave del portale: “ecclesia vacante et imperio nullo existente” alludendo al periodo di interregno per la morte del papa Clemente IV e quella dell’imperatore Corrado IV (figlio dell’imperatore Federico II di Svevia).
Fino alla fine del Duecento l’Abbadia godette grande prestigio, sia dal punto vista spirituale, avendo ospitato i due Santi, sia da quello economico, possedendo numerosi beni nel territorio.
Nel secolo XIV cominciò la sua decadenza e la sua storia indipendente termina con la Bolla del papa Eugenio IV del 1439 con la quale l’Abbazia, quasi priva di monaci, veniva annessa assieme a tutte le sue rendite residue al Capitolo della Cattedrale di Urbino per il mantenimento di dodici “pueri cantores”.
L’Abbazia resistette per quasi mille anni, ma poi seguirono lunghi secoli di abbandono.
Nel 1631 il Furlo, con il Ducato di Urbino, sarà incorporato nello Stato Pontificio. Nel 1861 entrerà a far parte del Regno d’Italia. I locali del monastero ospiteranno i parroci del vicino Pelingo e poi verranno venduti, assieme ai poderi, ai privati della zona (fino ad arrivare alla famiglia Mochi Gregori di Cagli).
Solo nel 1929 lo Stato riacquisirà la chiesa che in seguito verrà restaurata, mentre i resti del monastero rimarranno ai privati.
Nel 1964 l’arcivescovo di Urbino, mons. Anacleto Cazzaniga promosse il primo consistente recupero-restauro dei nostri giorni.
Oggi la chiesa è dichiarata Monumento Nazionale.
Descrizione della chiesa
Introduzione
Lo spirito ascetico che anima le nuove correnti monastiche sorte dopo il Mille, non può non avere riflessi sulla tipologia delle rispettive chiese.
L’organismo architettonico, in armonia con lo spirito ascetico della riforma romualdina accolta da San Pier Damiani, tende alla semplificazione, alla eliminazione del superfluo e della decorazione scultorea (non più tre navate né tre absidi né cupole).
Spesso la planimetria è a croce “patibulata”, a forma di T (vedi Fonte Avellana e la vicina abbazia di Santa Maria di Sitria) ad unica navata absidata, con volta a botte, rafforzata e spezzettata da due o tre sottarchi, transetto con gradini.
Stile
La costruzione attuale della chiesa di San Vincenzo è del sec. X e XI. Del monastero e del chiostro sono restate tracce appena leggibili nell’ala superstite a destra della chiesa stessa.
È in “stile romanico”, semplice e mostra un impianto un tempo forse a due navate absidate, di cui la minore in gran parte distrutta.
Il fronte principale appare come un parallelepipedo di calcare bianco rosato (è la pietra corniola locale o del Furlo), orientato, come le chiese antiche, da est a ovest, secondo il moto solare, simbolo di Cristo nato ad illuminare ogni giorno la Terra e gli uomini. L’elemento architettonico che vi predomina è la volta a botte in pietra, con crociere appena accennate. La facciata è a capanna, con due soli spioventi, l’arco “a tutto sesto”, la prevalenza dei pieni suoi vuoti, le mura spesse e quasi prive di aperture con un effetto di scarsa luminosità, le finestre monofore a strombo o a sguancio, le lesene nella parete esterna leggermente aggettanti, il campanile, sul dietro, a vela.
Non c’è protiro, né rosone, né galleria pensile, né la decorazione ad archetti ciechi: è uno stile romanico semplice, essenziale.
La facciata esterna, ripetiamo, con il tetto a capanna, si presenta priva di articolazioni, è abbellita da un portale romanico, con l’arco “a tutto sesto” e la lunetta probabilmente una volta affrescata.
L’arco è a doppio rincasso ed è sostenuto da un architrave scolpito a motivi geometrico-vegetali simbolici. Secondo Fabio Mariano è reimpiegato un segmento di cornice romana. In alto fanno da cornice un po’ aggettante decorazioni classiche a piumette, a ovuli e dardi, a dentelli.
Nel portale si nota anche una scritta gotica (di epoca successiva) di dedicazione che ricorda i restauri per opera dell’abbate Bonaventura nel 1271 e di cui abbiamo già accennato nella storia.
A questo periodo sono forse da ricondurre sostanziosi interventi di ristrutturazione come ad esempio la volta a crociera, l’apertura della “bifora” nella parete sinistra del presbiterio e l’ingresso di destra alla cripta.
Al di sopra della porta principale è un’ampia monofora che addolcisce l’imponente facciata, probabilmente anche questa di epoca successiva.
Entrando, si scendono alcuni scalini che conducono all’alta ed unica navata centrale rimasta, la cui pavimentazione è costituita da ampie e spesse lastre di pietra reimpiegate, che possono risalire ad un periodo preromanico o paleocristiano. Ci sono inoltre dei frammenti scultorei che risalgono al IX secolo ed altri ad un periodo ancora anteriore.
La volta, a botte, ha le crociere appena accennate, sempre in pietra locale del Furlo, divisa in tre campate a mezzo di archi diaframma a pieno centro, impostati nei pilastri addossati alle pareti della chiesa.
Il primo tratto della copertura è stato ripristinato a capriate in legno perché distrutto da una bomba durante l’ultimo conflitto. La chiesa, al tempo, era sede del comando tedesco.
L’interno colpisce per l’assoluta sobrietà, per la purezza delle sue linee architettoniche in coerenza con gli ideali monastici del tempo, non devastate da posteriori rimaneggiamenti: Spiritualità e mestizia invadono l’animo del visitatore.
Bibliografia chiesa
Fabio Mariano “Architettura nelle Marche” – Nardini ed., Fiesole 1995
Luigi Michelini Tocci “Eremi e Cenobi del Catria” – Cassa di Risparmio di Pesaro, 1972
Alberto Mazzacchera “Il forestiere in Cagli” - Dolcini, Pesaro 1997
Alberto Mazzacchera “Catria e Nerone” – Melchiorri, Pesaro 1996
Pellegrini, Ferretti, Fiorani “La Gola del Furlo – Urbania 2003
Luciano Baffioni Venturi “I monaci bianchi a Pesaro” – Metauro ed., Pesaro 2005
Bibliografia viadotto
Mario Luni “Archeologia nelle Marche” – Nardini ed., Fiesole 2003
Mario Luni “La media vallata del Metauro nell’antichità”- Quattro Venti, Urbino 1993
Pier Luigi Montecchini “La strada Flaminia” a cura di Mario Luni – Fondazione Cassa di Risparmio Pesaro, 1993
Mario Luni “Quaderni di archeologia” e schede varie.
Luciano de Sanctis “Quattro passi lungo la Flaminia” – Grapho5, Fano 2010
Lungo il fianco destro si osservano tracce di poderose arcate di valico “a tutto sesto”, tamponate, che mettevano in comunicazione le due navate. Vi si notano resti di affreschi tardo-rinascimentali come quello raffigurante San Gregorio Magno ed altri.
L’abside centrale, spaziosa e semicircolare, è affiancata da una “absidiola”, cioè una piccola abside, segno di una scomparsa navata laterale destra sormontata da un campanile a vela.
Questa, secondo alcuni studiosi, assieme alla piccola cripta sottostante, potrebbe essere l’elemento più antico del complesso monumentale e risalirebbe al VI secolo d.C.. Forse era in origine una piccola cappella che ospitava, fino al 970 le reliquie di San Vincenzo. Accanto e sopra la piccola cappella, nel IX secolo i monaci benedettini avrebbero iniziato a edificare l’attuale basilica, completata tra il X - XI secolo in stile romanico.
La cripta.
Le chiese romaniche avevano la cripta ed il presbiterio rialzato,quindi la cripta è l’elemento caratterizzante delle chiese romanico-gotiche delle Marche. E lo è a tal punto, da essere presente in tutti i tipi di chiese, dalle cattedrali alle abbaziali.
Della quarantina abbondante di abbazie che si sono integralmente o parzialmente conservate, ben trenta sono provviste di cripta. Tra queste ricordiamo la cripta dell’abbazia di S. Pietro di Massa dove i sostegni, come qui a S. Vincenzo, sono costituiti da “rocchi marmorei romani”
Si scende nella cripta sottostante attraverso i due brevi corridoi a botte, situati ai lati della ripida scalinata centrale che conduce al presbiterio e all’abside. Notiamo le due aperture che immettono nella cripta, una è romanica ad arco leggermente ribassato e l’altra , dalla forma ogivale, forse posteriore, quindi gotica.
Il suggestivo ambiente, mostra caratteristiche che riconducono agli inizi dell’XI secolo come la stesura delle tre sezioni con volte a “navatelle”, sostenenti le crociere prive di sottarchi e poggianti su sei colonne cilindriche di recupero (rocchi marmorei romani) di diverse dimensioni e di fattura irregolare.
Anche la semplice fattura dei capitelli a forma di piramide tronca rovesciata, decorati in stile bizantino e quindi d’influenza ravennate, è molto interessante per il simbolismo dei bassorilievi con enigmatiche figure zoomorfe e vegetali, dal carattere primitivo.
La cripta a “navatelle“ è il tipo più comune di cripta nelle Marche, qui le tre sezioni corrispondono all’ampiezza del presbiterio e della campata laterale; ai lati è corsa da un “seditoio” in pietra e ci sono anche della finestre “feritoie”.
Pertanto, si può ipotizzare una ristrutturazione del primitivo insediamento al tempo di S. Romualdo (primi anni del XI secolo), di cui la cripta risulta la parte superstite.
Ma qui si trova anche un’ara pagana del VI secolo (testimonianza di un antichissimo tempietto pagano) a forma di parallelepipedo ed arricchita da un simbolo cristiano. C’è un antico altare, i cui stipiti sono scolpiti con ornati a treccia; questi sorreggono una lastra di marmo con incisi simboli cristiani primitivi (come la croce e il simbolo delle sacre reliquie), andando a formare un ampio sarcofago dove fino al 970 venivano custodite le sacre reliquie si San Vincenzo di Bevagna.
Nella forma attuale il piano di appoggio è stato sostituito con un monolite del secolo XVI che funge da mensa, l’altro, più antico, è appoggiato alla parete di fronte all’ara.
E’ da qui che si dettero forma e corpo alle riforme di San Pier Damiani e all’eremo di Fonte Avellana.
Si notano altri reperti archeologici di epoca romana, sicuramente trasportati lì dal vicino municipio di Pitino Mergente .
L’ambiente della piccola cripta, a destra, è in corrispondenza alla “absidiola” sovrastante e assieme a questa, come detto, potrebbe risalire quindi al primo nucleo di stanziamento cristiano dei monaci. È d’interesse unico per la vetusta e robusta piccola volta a botte in pietra grezza, sorretta da grossi archivolti romanici: l’orizzontale ha la prevalenza assoluta sul verticale. Osserviamo la feritoia e la rozza lavorazione delle pietre e del cordolo parietale, nonché la curiosa porticina di comunicazione al primitivo monastero, ora murata.
Il presbiterio o tribuna
Il presbiterio è fortemente rialzato, è congiunto da una stretta e ripida scala di 14 scalini, allo spazio destinato all’assemblea dei monaci, ove corre un lungo seditoio in pietra e una pavimentazione composta da grossi lastroni dello stesso materiale.
Il presbiterio è il segno di un tempo in cui netta era la scissione con la casta sacerdotale che celebrava funzioni liturgiche sempre più ritualizzate .
Il presbiterio è munito sul davanti da un parapetto a muretto detto anche “pontile“ “sì che dalla zona anteriore della chiesa non si poteva scorgere l’ufficiante e si veniva a formare del corpo come un santuario”( Serra, 1929) Prosegue il Serra che il tipo più frequente nell’architettura romanica delle Marche, con tribuna notevolmente elevata, assume qui una nota profondamente mistica che risalta ancor più a cagione della rozzezza costruttiva.
In questa parte dell’abside fortemente convessa ed illuminata da una monofora gotica a strombo, sono rimasti alcuni affreschi di epoca rinascimentale appartenenti ad un più vasto ciclo andato distrutto. Sono di scuola umbro-marchigiana. Vi si legge sul lato destro l’immagine della Vergine con il Bambino, la così detta “Madonna del latte”; dallo stile pare sia la prima e la più vetusta iconografia della Badia .
Dal lato sinistro è rappresentato un S. Rocco che reca la scritta dell’anno 1525 e un S. Sebastiano; ambedue protettori delle calamità e della peste.
È da ammirare una raffigurazione della “Vergine Madonna” e del suo Bambino situata nell’ultima navata sul fianco destro della chiesa che, seppure nella completa decadenza per l’usura del tempo, esprime dolcezza sia per il tono pacato del dipinto, sia per lo sguardo fisso e rassicurante della Madonna stessa.
Uscendo dalla chiesa e portandoci al centro del piazzale, verso l’antico pozzo (ora di proprietà privata), è possibile notare sulla parete destra la serie dei quattro archi tamponati. Potrebbero essere, dice Fabio Mariano, le testimonianze residuali della esistenza della navata minore destra della chiesa.
Sulla facciata della casa colonica adiacente, ora “Locanda dell’Abbadia”, si osservano altre aperture gotiche in pietra più interne, recentemente rimesse in luce e sempre appartenenti ai locali dell’ex monastero e del chiostro. Quel che resta a fianco della chiesa è oggi, come accennato, in avanzato recupero e restauro ad uso privato e trasformato in un grazioso Bed & Breakfast.
Verso il fiume, in precario stato di conservazione, è situata “la fortezza”, antico elemento difensivo del complesso. Da ammirare il robusto apparato murario e le “finestre feritoie” sul retro, verso il fiume Candigliano; questa parte di costruzione, secondo alcuni, potrebbe essere antecedente al Mille, mentre la parte di fortezza sul davanti, con un elegantissimo e lineare portale a sesto acuto, ha un’impronta più gotica. Ci auguriamo un bellissimo recupero.
Conclusione
Il periodo più luminoso dell’abbazia di San Vincenzo risulta essere attorno al Mille, quando ospitava personalità di assoluto rilievo come San Romualdo (1011) e San Pier Damiani (1040).
Per tutto il Medioevo essa fu indicata con l’appellativo “ad Petram Pertusam”, poi dal Cinquecento, come attesta l’umanista Flavio Biondo, con quello “al Furlo” (da “Forulus”) a sottolineare la stretta vicinanza con il sito dei trafori all’interno della Gola che così veniva chiamata all’epoca.
Il Viadotto dell’Abbazia di San Vincenzo al Furlo
Introduzione
Poco più a monte dell’Abbazia, sempre lungo la sponda sinistra del Candigliano, è il lungo viadotto di età augustea (27 a.C.) dell’antica via Flaminia in buon stato di conservazione, scavato e restaurato, in anni abbastanza recenti, da parte della Soprintendenza Archeologica delle Marche. È un altro esempio monumentale dell’importanza strategica e funzionale della via e della straordinaria tecnica dei Romani di costruire le strade e mantenerle in efficienza, in seguito alla romanizzazione del ”Ager Gallicus” avvenuta dopo la battaglia di Sentino del 295 a.C.
Storia
La strada consolare Flaminia fu realizzata (in parte lastricata) attorno al 220 a.C. su di un percorso preromanico per volere di Gaio Flaminio, come collegamento fra Roma e Ariminum.
Era la via più antica e più breve per propiziare la penetrazione romana verso l’Adriatico e questo costituisce un antefatto di importanza decisiva.
In origine era la via degli eserciti: asse portante nel quadro delle conquiste e delle colonizzazioni, la via dei traffici e dei commerci. In età bizantina la via continuò ad essere frequentata ed assunse un determinato valore strategico per collegare Roma a Ravenna e quindi con la Pianura Padana e con l’Europa. Sarà la via dei pellegrini nel Medioevo.
Nel percorso transappenninico essa segue le linee determinate dalla stessa morfologia accidentata del terreno, quindi sono vie naturali di antichi percorsi preromani e di transumanza. Qui nella impervia strettoia della gola del Furlo (tra i monti Pietralata (m. 889) e Paganuccio (m. 976), sono stati addirittura rinvenuti, nella famosa “Grotta del Grano” scoperta nel 1886, tracce di frequentazioni avvenute in epoca preistorica, nell’età del bronzo e del ferro.
Le antiche fonti (Svetonio, Dione Cassio ed altri) ricordano il grande restauro della Flaminia avvenuto nel 27 a.C. per opera di Augusto. La testimonianza più tangibile e completa per questo suo intervento è nel “Monumentum Ancyranum di Ankara”. Questo scritto infatti attribuisce all’imperatore Augusto la ristrutturazione e la monumentalizzazione della Flaminia nel 27 a.C. ed in particolare la costruzione tra Roma e Ariminum di tutti i ponti, tranne due (omnes praeter Mulvium et Minutium).
A testimonianza di questa impegnativa opera augustea e dei successivi numerosi interventi di manutenzione e restauri realizzati dall’uomo per consentire la percorribilità dell’asse viario per più di 2200 anni, sono ancora visibili nelle strette valli appenniniche (nel nostro caso riferibili al versante medio-adriatico che va dal ponte Voragine presso Scheggia fino a Fano), numerose strutture superstiti. Si tratta di un complesso di antichi monumenti di grande importanza anche a causa del loro stato di conservazione, malgrado le perdite dovute all’usura del tempo e agli ultimi eventi bellici. Numerosi sono i ponti integri o parzialmente in elevato, talvolta visibili con difficoltà perché interrati o ricoperti da vegetazione; numerosi sono i viadotti, i muri di terrazzamento per il sostegno della strada ed altro.
Descrizione del viadotto
Il viadotto di San Vincenzo al Furlo, anticamente chiamato “Chiavicotto ad Petram Pertusam” ripetiamo essere di età augustea. La medesima situazione costruttiva, (materiale e tecnica) è riconosciuta anche in altre sostruzioni, terrazzamenti, viadotti e ponti coevi, conservati nella vallata del Burano e del Candigliano; probabilmente appartengono al quadro di un unico programma edilizio, volto a risolvere in modo radicale la percorribilità della Flaminia.
Prende il nome dalla vicina Abbazia romanica costruita tra il IX e il X secolo dai monaci benedettini su di una cripta più antica.
Lo scopo della costruzione era quello di contenimento, di riparare cioè la via Flaminia dalle repentine e pericolose piene del Candigliano che si ripetevano, e che si ripetono periodicamente anche ai nostri giorni, provocando erosione degli argini, formazione di nuove anse ed isolotti; serviva inoltre a far defluire, attraverso due “chiavicotti”, le acque di due fossatelli provenienti dalle pendici del monte Pietralata.
Il viadotto è costituito da muri di “sostruzione” e da due “chiavicotti” detti anche “ponticelli” alla distanza di circa 30 metri e di cui uno più piccolo a ovest; la lunghezza dell’intera struttura supera i 70 metri, attualmente la parte rimasta intatta ha la lunghezza di circa 64,30 metri per un’altezza, escluso il parapetto, di 3 metri.
Il materiale del paramento murario è costituito in blocchi di pietra del Furlo; è la pietra calcarea, detta corniola, ed è stato possibile individuare anche il probabile sito di due antiche cave, al Furlo e alle Foci, da cui proviene il materiale, simile a quello utilizzato dalle maestranze romane. È lavorata in “opus quadratum” a parallelepipedo ed ha una muratura non compatta nella globalità della struttura, ma è limitata al solo paramento esterno, la cui facciata risulta apparentemente non rifinita, quasi a semplice bugnatura; i blocchi sono accuratamente sovrapposti a secco, disposti in filari che variano di altezza. L’ “opus quadratum” trova riscontro nella prima età imperiale.
Internamente i blocchi sono legati da un materiale più povero, da un conglomerato composto da scaglie di pietra e malta, fissato saldamente con il retro dei blocchi di facciata lasciati allo stato grezzo.
Questo duplice muro è in grado di sostenere il riempimento di pietra e breccia che viene a formare il piano stradale, non più così esposto al pericolo delle inondazioni.
La tenuta del paramento murario è rafforzata, anteriormente, da sei “contrafforti” quadrangolari detti anche “speroni”, appena rastremati verso l’alto, conservati solo in parte e testimoniati dalle “ammorsature” alla parete e in fondazione.
Osservando il primo chiavicotto vediamo che esso presenta un’arcata a “tutto sesto”.
L’arco poggia su di un basso cordolo che funziona come pietra di imposta, leggermente aggettante. La pietra della “chiave di volta” a forma di trapezio rovesciato. La tipologia e la messa in opera di ottima tecnica, è riscontrata anche in altri ponti lungo la Flaminia.
Il parapetto è formato da un filare di grossi blocchi e ai suoi piedi è ancora visibile il marciapiede.
Il versante a monte si trova sotto la sede stradale attuale della Flaminia; solo di recente è stata messa in luce l’estremità Ovest, con l’imboccatura del chiavicotto occidentale.
Conclusione
La riscoperta della Flaminia sul versante medio-adriatico può essere fatta coincidere con la pubblicazione nel 1879 del libro di Pier Luigi Montecchini “ La strada Flaminia” .
Negli ultimi trent’anni la documentazione storico-archeologica , anche di rilevanza monumentale della strada stessa, si è notevolmente arricchita sia per i lavori condotti in connessione con la via, sia per i numerosi scavi archeologici diretti dal Prof. Mario Luni effettuati da parte della Università di Urbino e da parte della Soprintendenza della Regione Marche. Inoltre si sono creati o arricchiti nuovi musei archeologici (speriamo presto nell’apertura di quello di Cagli, gli spazi sono in via di completamento) .
Nel 1975 è iniziata la pubblicazione di diversi documenti di archivio inediti, di vecchie carte topografiche da parte degli stessi organismi sopracitati. Tra le varie pubblicazioni che si sono susseguite, vanno sottolineate quelle del Prof. M. Luni dell’Università di Urbino, che hanno fornito una notevole e nuova documentazione sugli ultimi studi di questo percorso marchigiano della Strada Consolare Flaminia.
Tersicore Paioncini
Bibliografia chiesa
Fabio Mariano “Architettura nelle Marche” – Nardini ed., Fiesole 1995
Luigi Michelini Tocci “Eremi e Cenobi del Catria” – Cassa di Risparmio di Pesaro, 1972
Alberto Mazzacchera “Il forestiere in Cagli” - Dolcini, Pesaro 1997
Alberto Mazzacchera “Catria e Nerone” – Melchiorri, Pesaro 1996
Pellegrini, Ferretti, Fiorani “La Gola del Furlo – Urbania 2003
Luciano Baffioni Venturi “I monaci bianchi a Pesaro” – Metauro ed., Pesaro 2005
Bibliografia viadotto
Mario Luni “Archeologia nelle Marche” – Nardini ed., Fiesole 2003
Mario Luni “La media vallata del Metauro nell’antichità”- Quattro Venti, Urbino 1993
Pier Luigi Montecchini “La strada Flaminia” a cura di Mario Luni – Fondazione Cassa di Risparmio Pesaro, 1993
Mario Luni “Quaderni di archeologia” e schede varie.
Luciano de Sanctis “Quattro passi lungo la Flaminia” – Grapho5, Fano 2010
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