23 gennaio 2012 Graziella PICCHI

Terra per l'accoglienza. I saperi locali per la gestione e conservazione del territorio.

L’abbandono del territorio da parte di uomini e animali ha avuto conseguenze negative sull’equilibrio idrogeologico, sulla vegetazione, sulla qualità, quantità delle derrate alimentari, sulla perdita della biodiversità. Attraverso esempi concreti, rilevati nella nostra ed altre regioni, con l’ausilio di studi tecnici specializzati nell’osservazione delle dinamiche ecologiche dei sistemi agricoli e forestali, si evidenzieranno come i guasti causati dal venir meno del ruolo svolto da uomini e animali, specie nelle zone montane, non si possano rimediare con le moderne tecnologie ma che invece occorre ridare “…valore a quelle pratiche, quei saperi, quelle istituzioni (Usi Civici) che hanno dimostrato di saper mantenere e trasmettere nel tempo risorse ambientali e sociali di qualità”.

Paesaggio è natura modificata
dall’uomo nel corso della storia

Massimo Venturi Ferriolo[1]


Sono molti gli studi effettuati in questi ultimi tempi sulle pratiche colturali tradizionali della montagna e, più in generale, sulla conduzione della terra (Buone pratiche agricole), al fine di comprendere come il loro abbandono si ripercuote: a) sulla modifica del paesaggio; b) sull’assetto vegetazionale; c) sulla quantità/qualità delle derrate alimentari prodotte, vegetali ed animali; d) sulle tecniche di trasformazione e conservazione degli alimenti; e) sulla perdita della biodiversità.
L’assetto idrogeologico:
i divieti di intervento nelle zone umide, hanno trasformato i laghetti usati per abbeverare il bestiame o per scopi irrigui, in pantani inospitali per gli uomini e gli animali. L’abbandono dei territori montani hanno coinvolto anche le strutture che irreggimentavano le acque, determinando l’interramento delle acque piovane che causano oggi enormi disastri; la inesistente manutenzione del letto di fiumi e ruscelli, dove non è possibile - senza permessi - togliere qualsiasi materiale che possa ostacolare lo scorrere delle acque, è causa di immani esondazioni, come dimostrano gli eventi drammatici della Liguria
[2] e della Toscana verificatesi di recente, per tacere di quelle avvenute in passato.

L’assetto vegetazionale: l’abbandono dell’uso delle foglie per alimentare il bestiame e per la lettiera, l’usanza di rastrellare le foglie dai prati, perché se questi non vengono né ripuliti né sfalciati la vita per le leguminose foraggiere diventa ostile e non nascono più, così che dai pascoli è pressoché scomparsa l’Onobrychis viciifolia
[3], tanto per fare un nome, che conferiva qualità organolettiche al latte e al formaggio di molte zone appenniniche. Il divieto di raccogliere legna secca nel bosco, i rimboschimenti con le conifere, rendono difficile i controlli degli incendi, mentre il fuoco controllato, diffuso e permesso un tempo per mantenere vitali le zone paludose e le radure di alta quota oggi non è più permesso. I boschi cedui stanno diventando foreste impenetrabili, a ridosso delle case, rendendo la vita, a chi ancora vive in prossimità di questi, sempre più difficile.

La quantità/qualità alimentare: la quantità è decisamente migliorata ma la qualità, con i moderni sistemi produttivi è di basso profilo nutrizionale: l’abbandono della concimazione organica, i trattamenti antiparassitari con sostanze chimiche di sintesi, la sostituzione delle varietà locali con quelle di importazione ad alto rendimento, meno resistenti alle patologie che costringono gli agricoltori a massicci trattamenti fitosanitari, nocivi all’uomo e all’ambiente, i disumani allevamenti intensivi stanno mettendo a dura prova la salubrità ambientale e il nostro sistema immunitario.

Le tecniche di trasformazione/conservazione degli alimenti: l’abbandono della lievitazione acido-lattica del pane, la caseificazione effettuata non più con il latte appena munto, l’immissione sul mercato di razze bovine, come le Frisone, che nel breve spazio di qualche decennio sono passate da una produzione di 12 litri di latte agli attuali 60/100 litri al giorno di dubbia qualità, l’obbligo della pastorizzazione del latte, l’abbandono dei cagli vegetali che rendono la parte proteica e lipidica del formaggio più digeribile, l’uso dei nitrati, cancerogeni, per la conservazione dei salumi, sono i veri responsabili delle gravi patologie degenerative che affliggono l’uomo contemporaneo.

La perdita della biodiversità: “Quando l’uomo lascia la montagna la montagna lo segue”, recita un proverbio cinese. Le piante da frutto invecchiate e non sostituite per via della uscita di scena di uomini e animali, hanno determinato la scomparsa della stragrande maggioranza di piante da frutto, ortaggi, cereali e legumi tradizionali. Queste varietà avevano il pregio di contenere sostanze nutrizionali come vitamine, acidi organici e sostanze farmacologicamente attive di grande efficacia per il nostro benessere fisico, abbellendo nel contempo il nostro paesaggio. Inoltre erano resistenti a tante patologie che invece colpiscono le moderne cultivar, curate con composti chimici, pericolosi per l’uomo e l’ambiente.

Una volta invece…
[4]

“Fino a 40/50 anni fa, l’uomo che viveva nelle zone montane soddisfaceva i suoi bisogni alimentari e quelli degli animali dal bosco: bovini da trasporto, da lavoro, animali da cavalcatura come asini, muli, cavalli. L’asino era il mezzo da trasporto delle famiglie più modeste, il mulo era l’animale da soma e da traino più diffuso, il cavallo era solo da traino e poteva tirare un carretto a due o a quattro ruote per andare al mercato caricando merci o per trasportare le persone. Per questi animali occorreva foraggio ottenibile da una attenta gestione della risorsa bosco.

In alto, sugli altipiani c'erano i seminativi “da vicenda”, un anno i cereali, l'anno dopo il riposo pascolativo. Nel fondovalle le "cese"
[5], zona disboscata per l'impianto del vigneto o per l’ arboratura vitata. Infine i boschi cedui, con un taglio autunnale e quello definitivo invernale. Per esempio, i tagli dei boschi, erano un modo per liberarli dalle ramaglie secondarie, destinate alle fascine "fronzute" per l'alimentazione invernale della capra, dell'asino e altri animali.

Nella zona dei Sibillini, ma in tutti i paesini di montagna, dove il foraggio scarseggiava, al posto del pagliaio, c'era il "frondaiolo" composto accatastando in posizione verticale le fascine fronzute. Con abile sistemazione alternata della base e dell'apice, si costituiva un cono, coperto da fascine che aveva un cappello ricoperto di paglia e terriccio per renderlo impermeabile alla pioggia. Per svolgere queste attività, garantite dai Diritti Civici essenziali, occorreva rispettare delle regole, che consentivano di fruire dei pascoli di montagna, dei seminativi degli altipiani, del legname da forno e da camino.

Queste risorse, oculatamente gestite, consentivano alle singole famiglie residenti di mantenere una ventina di pecore da "frutto"
[6], due agnelli da rimonta, un montone, una o due capre, una "cavalcatura". Le fascine fronzute si ottenevano anche dalla "sgamollatura" (tagliare i rami di una pianta per usi domestici e l'alimentazione del bestiame) delle piante, e tra queste, oltre il pioppo, l'ornello, il carpino, nelle Marche, si usava anche l'olmo e le foglie di ciliegio, dopo la raccolta dei frutti.

L'anno successivo al prelievo del ramo fronzuto, nascevano i polloni, che venivano "sfogliati" e destinati all'alimentazione del vitello. L'anno dopo il ramo aveva due anni e non si sfrondava più, ma si tagliava per fare le fascine fronzute. Per nutrire i bovini si usavano anche le ramaglie di faggio e di quercia. La carenza foraggiera, tipica delle aree montane, è stata la molla che ha stimolato l'uso di risorse alternative, compensata con la pastorizia itinerante che consentiva di utilizzare i pascoli d'alto monte.

Fu il bestiame, stazionario e transumante che determinava il ciclo della sostanza organica, fondamentale per la buona copertura vegetale del suolo, con presenza d'essenze pregiate come le leguminose, che si potevano riprodurre, grazie all'apparato digestivo degli armenti. Si lasciavano in montagna il 30% dei capi transumanti improduttivi, le sode
[7], pecore che restavano fino alla prima neve "andando a biada", cioè si nutrivano dei semi delle piante erbacee presenti nei pascoli.

La permanenza di questi animali s'imponeva per una migliore conservazione e composizione della copertura vegetale d'alto monte. Teniamo conto che nel frattempo era stata ridotta la presenza degli animali nocivi, compresa quella del lupo, il cui ruolo era quello di spazzino. Per più di quattro secoli i comuni hanno pagato il "luparo", il quale non avrebbe mai distrutto i lupi, visto che ci campava.

Il “luparo”, si premurava di conservare le famiglie in funzione della mortalità estiva delle pecore dell'armento, la cui percentuale era del 1,5%. In tutti i monti Sibillini, e le altre zone montane della regione, il numero di lupi era in funzione delle necessità della montagna, e nei Sibillini era calcolato in una quarantina d'esemplari. Non solo eliminavano le carogne di pecore morte accidentalmente, ma seguivano l'armento e ripulivano gli stazzi dei tratturi dai feti degli aborti spontanei.

L’abbandono di queste pratiche e la scomparsa degli animali al pascolo stanno facendo morire la terra alla vita vegetale, già stimata da Giovanni Haussmann ed altri studiosi, tra il 1940 e il 1950 nei Sibillini, in 50/70 ettari annui, e le relazioni ponevano già in evidenza la grande agonia delle pendici del monte Vettore. Stime sommarie relative alla “desertificazione” dei Sibillini, mettono in evidenza come l'assenza del bestiame, la spaventosa azione demolitrice dei pascoli dovuta all'incontrollabile presenza del cinghiale e al fenomeno del "soliflusso", cioè il lento movimento superficiale del terreno causato dal gelo che trasforma il pendio uniforme in pendii gradonati sempre più fitti e più larghi fino alla decorticazione estesa del terreno, stanno modificando in peggio molte zone montane, un tempo fertili.

La presenza del bestiame nei pascoli d'alta quota limitava dunque i danni perché sui gradoni gli animali lasciavano sostanza organica che conteneva i semi delle piante di cui si erano nutrite. I semi di falasco e delle festuche erano ruminati, limitandone la disseminazione, ma quelli dei trifogli, del ginestrino, dei vari medicago, del meliloto, ecc., passavano indigesti. In primavera inerivano, germinavano, ricostituendo così il manto erboso negli spazi aperti, frenandone il degrado.

Le norme d'uso dei pascoli oggi vietano la permanenza degli animali in alta quota, oltre i mille metri, dopo il primo settembre, salvo autorizzazioni particolari rilasciate di volta in volta dal corpo forestale dello stato per singola richiesta dell'interessato. In passato, fino al 1935, come già accennato, nei pascoli alti restavano le pecore sode fino all'arrivo delle prime nevi. Era questa pratica che manteneva in vita le
migliori essenze foraggiere negli altipiani erbosi e questo compito di disseminatrici naturali era affidato alle pecore a fine carriera, per questo i pastori le consideravano preziose.

Quando a settembre diminuiva la pastura, le pecore "andavano a biada" cioè mangiavano i semi delle piante. Come ho già detto i semi grossi come quelli del falasco, della festuca ovina, forma Levis, detta erba tirante, venivano ruminati, mentre quelli piccoli passavano indigeriti. Nei monti di Ussita, Bolognola, Sarnano e Amandola la copertura vegetale è molto ridotta e la percentuale delle leguminose foraggiere pregiate, pare, non superi il 5 per mille. La costituzione dei Parchi Naturali non contribuisce a frenare il degrado e nemmeno a ripristinare un po’ dell'equilibrio perduto.


Il Parco a tutt'oggi non ha effettuato mai un'accurata indagine d'ambiente per rilevare il conseguente degrado dei pascoli, né ha incoraggiato l'ammodernamento del sistema di allevamento stazionario del bestiame. Disposizioni rigorose, applicate dal corpo forestale dello stato, contribuirono al rapido ridursi dell'armento, al conseguente accentuarsi del soliflusso, e, con la protezione del cinghiale, alla distruzione della prateria di alto monte e di essenze pregiate come le bulbillifere, le varie orchidee montane, tutte mangiate dai cinghiali.

Inoltre non è stato ancora fatto un rilevamento botanico, zoologico e perciò non hanno ancora rilevato quali sono le carenze per salvare l'ambiente e soprattutto come salvare la presenza umana e le attività legate al territorio. Il rapporto bosco-pascolo-seminativo andava conservato e tutelato onde salvare la flora e la fauna preesistenti. L'aver voluto riportare specie animali che da 2.000 anni non c'erano più ha significato rompere un equilibrio millenario.

Il cervo, il daino sono animali che danneggiano il bosco più della capra; questa era molto funzionale al benessere del bosco, soprattutto quando brucava i rami laterali delle piante, favorendo, per esempio, il rapporto simbionte dell'apparato radicale con il tartufo. Non solo. E' notizia recente un'ordinanza regionale che consente l'alpeggio oltre i mille metri dal 12 di maggio, quando in passato non si poteva salire prima del 10 giugno, in attesa dello sviluppo dell'erba e della maturazione dei semi.

L'armento che sfiorettava cioè che saliva per mangiare i fiori era condannato al chiuso della rete per trenta giorni e, in caso di violazione della norma, al pagamento della multa o trasferimento del gregge. Il non rispetto di questa ordinanza in anni recenti ha consentito la distruzione di circa 1200 ettari di pascolo di alto monte, sempre nella zona dei Sibillini.


Anche la disposizione regionale per la trasformazione dei cedui in fustaie è stata stravolta rispetto a quello che si faceva in passato.
I nostri antenati, nei boschi cedui d'essenze pregiate, lasciavano, al momento del taglio, le "matricine" da seme, ovvero i teneri virgulti, in modo da avere una trentina di piante d'alto fusto, lasciando un sottobosco attivo che oltre assicurare la copertura vegetale dell'intera superficie, garantiva la produzione di legna ad uso casalingo (fuoco, forno, ecc).

Solo nelle aree protette e marginali si lasciava crescere la vegetazione curandone il diradamento. Il buon governo del bosco è cessato così come l’utilizzo del pascolo caprino, permesso solo al quarto e al sesto anno dal taglio, giacché le capre si nutrivano delle foglie laterali, e quindi realizzavano una potatura naturale, utile alla crescita della pianta; anche il pascolo bovino era fondamentale, e i buoi si mandavano nei boschi al decimo e al dodicesimo anno dal taglio.

Il ruolo che avevano gli animali nel liberare i cespugli dalla vegetazione bassa e laterale lasciando intatti gli astoni centrali era fondamentale, insostituibile. Il valdaro, cioè l'esperto dei boschi e dei pascoli, stabiliva il carico zootecnico, la stabbiatura e la sospensione del pascolamento per garantire la massima copertura vegetale del suolo. Oggi è tutta una proibizione persino raccogliere legni secchi.

Gli animali partecipavano assiduamente al mantenimento della fertilità del suolo, attraverso le deiezioni e col pascolamento. Fino all'inizio del 1900 le pecore sostavano nelle pendici più scomode; i montanari con un capo per metro quadrato per due notti, occupavano le pendici meno ripide con stazzi turnari degli agnelli; le aree più comode, i prati falciabili naturali, erano destinate alle pecore, con turni di due notti per evitare l'acidificazione del suolo e lo sviluppo di piante nitrofile.

I pastori di "sode" (pecore vecchie), nel tardo autunno, sfalciavano ed estirpavano le essenze infestanti lasciando la falasca, la festuca ovina, che avevano lo scopo del mantenimento superficiale dei ripidi pendii e fossati pietrosi. La scomparsa diffusa di queste pratiche sta letteralmente facendo crollare i versanti ripidi delle nostre montagne e colline, specie in presenza di eventi meteorologici violenti che, in questi ultimi anni, si manifestano con una frequenza mai vista prima.

I prati d'alto monte si falciavano prima del quindici d'agosto, tempo massimo del "Riguardo del diritto privato", quando scattava l'uso del pascolo civico. Nello sfalcio di questi prati si lasciava un ciuffo d'erba detta "quaglietta" a difesa del nido della quaglia. I piccoli greggi sostavano nei pascoli di mezza montagna, in attesa delle piogge autunnali della Maremma dove svernavano gli armenti grandi e piccoli dei Sibillini.

In sintesi il venir meno del buon governo dei boschi, dei pascoli e dei seminativi per l'assenza dell'uomo e del bestiame, cioè del buon governo, sta determinato la desertificazione dei Sibillini, rendendo ogni giorno più difficile la vita degli animali selvatici e dell'uomo. Non si vedono più infatti le schiere dei passeri, delle quaglie, delle palombe legate alle attività zootecniche del passato.

Sono bastati solo tre anni di seminativi sull'altopiano di Macereto, per vedere invaso dai passeri Cupi di Visso, quaglie sugli erbai, e decine di palombe vagare sui rilievi boscosi.
Se il Parco desse il contributo per mantenere attiva la produttività umana, zootecnica, agronomica e forestale del passato si potrebbe difendere l'ambiente, la flora e la fauna. Il lavoro che ci attende contempla la sostituzione delle conifere con piante caduche come il faggio, perché se il pino brucia va fatto il rimboschimento, se brucia il faggio ricresce.

Un tempo i boschi vicini ai villaggi erano privi di materiale secco in virtù del diritto civico delle fascine per usi domestici e del "cioccare", il colletto legnoso del cespuglio ceduo di cui oggi è vietata la raccolta. Perché? Se si toglie il secco il bosco non prende fuoco. Salvaguardare la natura vuol dire tutelare nel miglior modo possibile l’uomo che ci vive.

La montagna è una delle più grandi ricchezze del nostro paese, una sana risorsa per un domani migliore. I montanari costituiscono il millenario insostituibile presidio a protezione, difesa e guardia del territorio. Ad essi dovrebbero essere offerti dalle pubbliche amministrazioni condizioni di vita tali da invogliarli a restare per continuare a tutelare il territorio così come hanno fatto per secoli, trasmettendo ai posteri la loro cultura e il loro modo di gestire l’economia montana senza comprometterne il delicato equilibrio ecologico. Invece leggi miopi, fatte da incompetenti, li hanno costretti a cercare altrove migliori condizioni di vita e di lavoro. Sono rimasti così in pochi che le loro braccia non sono bastate a tenere a bada il dissesto idrogeologico.

L'agonia della montagna non può essere affrontata contando solo su taluni organismi imposti o preposti per legge, ma solo attraverso la valorizzazione delle norme tradizionali sviluppate nel corso del tempo da chi in montagna ci viveva e sapeva quali strategie mettere in atto per riparare i danni eventualmente causati da usi impropri, nel rispetto e grazie all'aggiornamento degli ordinamenti territoriali del passato (vedi Usi Civici e Proprietà Collettive). Tutto perché al montanaro fossero garantite adeguate condizioni di vita”. Quanto detto per questa zona dell’Italia Centrale vale anche per il resto del paese, come ci dimostra una ricerca effettuata da Roberta Cevasco, nell’appennino ligure-tosco-emiliano, che, con analisi comparate con casi di studio norvegesi, inglesi e francesi, suggerisce di considerare il verde come un “manufatto” da sottoporre ad analisi storica
[8]. Il suo testo Memoria verde[9] “…insegna a ritrovare nella “memoria”, che conserva la copertura vegetale, le tracce e i documenti di questa storia geografica”. Così comparando alcuni aspetti di questo studio con alcune tematiche di gestione territoriale dei Monti Sibillini, emerse nell’intervista, ci sentiamo più legittimati nell’affermare con più convinzione l’importanza della presenza di uomini e animali per mantenere produttivi i nostri territori montani, la cui complessità è anche causa della loro grande vulnerabilità. I disastri di questo abbandono sono sotto gli occhi di tutti.

Così come non si dovrebbero ignorare i risultati degli studi di Elinor Ostrom, che gli sono valsi il Nobel per l’Economia nel 2009, per aver studiato a fondo l’uso dei beni collettivi, denunciando con forza che “... l’illusione di poter raggiungere attraverso l’ecologismo burocratico, obiettivi di migliore uso e conservazione e che non c’è un solo esempio, (su 12 milioni di foreste collettive in Giappone) che abbia subito una distruzione ecologica mentre era ancora Proprietà Comune”
[10].
Nella stragrande maggioranza dei casi, chi amministra un territorio poco e male conosce le problematiche che lo affliggono, mentre risulta che in Parlamento sono state presentate numerose proposte di legge per sottrarre i territori soggetti a Uso Civico ai vincoli ancora esistenti.
Esempi concreti…
In Liguria
[11] la scomparsa di molte essenze pregiate è collegata con l’abbandono delle attività di sfalcio e di pascolo e a Nave Chiapparino, dove queste attività non sono mai state abbandonate nei pascoli oggetto di sfalcio (da luglio a ottobre) si può ancora ammirare la Genzianella che trova, nella primavera successiva [12], le condizioni giuste per la sua vita vegetativa, per cui si può affermare che nell’Appennino la sopravvivenza della Gentiana acaulis, alle quote appenniniche, Sibillini compresi, dipende dalla presenza consistente degli erbivori. “Pertanto, almeno sull'Appennino, con il venir meno dell'attività umana, esce di scena anche una rarità botanica[13]”. Stessa sorte è toccata ad altre essenze erbacee come ad esempio l’Onobrychis viicifolia[14], una leguminose foraggiera, ricca di aminoacidi essenziali, che caratterizzava la qualità dei pascoli e dunque di carni, latte e formaggio[15], così come nel pescarese, per gli stessi motivi, era apprezzata dai pastori l’erba caciolina, Medicago lupolina L., oggi scarsamente presente.

La ricercatrice Giuseppina Poggi, etnobotanica, in una zona della montagna ligure, ha studiato il nesso tra attività umane tradizionali e diversità biologica, dimostrando che dove i modi d’uso sono molto diversificati (ben 11 nella zona di studio), la diversità di specie floristiche si aggira intorno alle 70 unità; nei “prati pingui con elevata diversità biologica”, rilevata dai botanici più ortodossi, se ne sono contate non più di 40. «Le ragioni di questa ricchezza floristica e diversità biologica vanno ricercate nella storia del sito e nelle pratiche di attivazione delle sue risorse»
[16], è la conclusione della ricercatrice.

Nelle zone montane delle Marche, in questo caso dell’Alto pesarese, l’abbandono delle coltivazioni tradizionali e la scomparsa degli animali al pascolo, sta determinando l’uscita di scena definitiva di molte erbe selvatiche consumate un tempo dalle popolazioni locali: Reichardia picroides L.; Chondrilla juncea L.; Scabiosa columbaria L.; Bunias erucago L.; Bunium bulbocastanum L., meglio note con i nomi popolari di caccialepre, ginestrella, gallinelle grasse, ghiffo o erba cupa, casciomaci o pan calciolo o germarello.

La distruzione degli habitat naturali, come quello delle quaglie, ha favorito la scomparsa della fauna di monte; la perdita della stragrande maggioranza degli alberi da frutto, veri e propri patriarchi, sta modificando in peggio la percezione stessa del paesaggio(territorio), tanto che sempre più spesso viene osservato che questo, uno dei più belli del mondo, sta perdendo il suo fascino. In alcune aree il degrado è talmente palese da fiaccare lo spirito dell’uomo, che indebolito e sfiduciato manifestare all’altro da sé ostilità e rifiuto. In altre parole l’uomo, degradato insieme al territorio, ha perso la capacità di aprirsi “in modo ospitale anche al viandante e allo straniero”, percepiti come una minaccia e non come portatori di novità che incuriosivano i locali al punto da fargli dire: “Dove si mangia in tre si può mangiare anche in quattro”
[17].
Conclusioni
La distruzione dell’ambiente, il degrado culturale, e quello delle coscienze che ne deriva, avrebbe forse avuto un decorso più lento se non si fossero persi tutti quei saperi locali e quei valori che tenevano unite le piccole comunità di villaggio sparse sull’Appennino, sulle Alpi ma anche sulle zone collinari: conoscenze relative all’ambiente naturale, agli animali domestici e selvatici, alla manutenzione e coltivazione delle piante, alla manutenzione dei boschi, dei campi, delle acque superficiali, alla produzione e trasformazione del cibo, finché sono stati condivisi da tutti, contrastare gli effetti negativi creati dallo sviluppo stesso, senza mandare in tilt interi ecosistemi, è stato possibile. Oggi, a dispetto del progresso tecnologico di cui disponiamo e che a volte sembra crearci qualche comprensibile ottimismo, tutto sembra ingovernabile e pare che l’uomo non sia più capace, se mai lo è stato, di trarre insegnamenti dagli errori passati e continua imperterrito a ignorare i segnali che arrivano da una natura sempre più sofferente. L’uso turistico del territorio montano sembra mettere tutti d’accordo, tranne qualche voce fuori dal coro come quella
di don Sandro Lagomarsini che sull’uso turistico del territorio appenninico ha un parere che merita attenzione, avendo dedicato la vita a difendere il fragile territorio montano ligure proprio da un uso turistico rivelatosi più dannoso che utile. Egli sostiene che “Lo sguardo turistico è figlio di una vecchia impostazione della salvaguardia ambientale. Dal punto di vista culturale, la visione “idealistica” della realtà agraria e forestale si è diffusa con il lavoro di Emilio Sereni, culminato nella pubblicazione, nel 1961, Storia del paesaggio agrario italiano”. Egli sottolinea come questa visione abbia trovato nella legislazione un valido sopporto per mettere radici (e contaminare soprattutto gli strati sociali più acculturati[18]N.d.R). “L'ambiente” conclude S. Lagomarsini, “si riduce così alla sua “superficie estetica”. Questa “faccia gradevole” del territorio (la cui continuità sarebbe per l'appunto visibile nei capolavori della pittura, specialmente rinascimentale) non viene considerata come il risultato di un dialogo tra le dinamiche “naturali” e l'attività umana, (e la presenza animale N. d. R.), ma è “prodotto naturale”, messo in crisi dalla presenza dell'uomo (contadino N. d. R.) che “opera”[19]. Ed è il sentimento più palese che si respira tra gli ecologisti burocratici, ben posizionati nelle amministrazioni locali, provinciali e regionali. A quanti non hanno ancora compreso l’insostituibile funzione ecologica della presenza (lavoro) umana e animale per la gestione del territorio, consigliamo vivamente la lettura di testi, davvero illuminanti, che dimostrano, oltre ogni ragionevole dubbio, che ciò che noi chiamiamo natura sia in realtà un manufatto del lavoro dell’uomo[20], cioè dei contadini “…ridotti in via di estinzione dalla società industriale e dall’industria verde, che ne è stata parte integrante”[21] e che le Proprietà Collettive e l’Uso Civico, così diffuse nell’entroterra pesarese, rappresentano la principale testimonianza di una gestione sostenibile per l’equilibrio del territorio, malgrado la Regione Marche “…non riconosce in maniera adeguata la realtà degli Usi Civici e Proprietà Collettive impedendo di fatto qualsiasi attività e prospettive di sviluppo e valorizzazione e di conseguenza blocca ogni forma di tutela e prevenzione contro gli incendi, il dissesto idrogeologico e la perdita della biodiversità”[22]. L’approccio botanico alla conoscenza del territorio ci aiuta a capire meglio cosa dobbiamo fare e come intervenire per riportare i nostri territori a un livello di equilibrio funzionale per la vita degli uomini e degli animali. Chiudiamo con un pensiero di un intellettuale scozzese, Patrick Geddes, che già quaranta anni fa suggeriva una maggiore conoscenza delle dinamiche naturali, per capire le quali la conoscenza botanica diventa indispensabile[23]:

Sempre di più scoprirete che la botanica è una chiave che apre molte porte; perfino i grandi libri di storia hanno in gran parte fallito lo scopo per difetto di impostazione scientifica e perché pretendevano di capire i segreti della vita umana, le sue lotte, i suoi progressi, i suoi fallimenti senza studiare la semplice vita che si svolge nel regno della natura…
[24]

E la semplice vita che si svolge nel regno della natura i nostri Contadini Tradizionali la conoscevano bene…





Graziella Picchi










Ogni paesaggio è una realtà etica,



terreno d’azione, spazio della



vita umana associata



Massimo Venturi Ferriolo



[1] Docente di Estetica al Politecnico di Milano.[2] Il fiume Groveglia pare sia esondato perché il suo letto era invaso dalla ghiaia che nessuno ha voluto rimuovere per non entrare in conflitto con l’Ente Parco.[3] Roberta Cevasco, Memoria verde, Nuovi spazi per la geografia, Diabasis, Reggio Emilia 2007, p 129[4] Sintesi di un intervista fatta al Senatore della Repubblica Nicola Rinaldi di Ussita (MC), grande conoscitore dell’ambiente montano dei Sibillini. Troviamo quanto mai utile sottolineare, attraverso questa testimonianza, che per mantenere in equilibrio un territorio non c’è bisogno di grandi tecnologie costose e irraggiungibili, ma basta semplicemente ricordare ciò che facevano quelli che ci hanno preceduto. A loro un doveroso ringraziamento. Se i loro insegnati li abbiamo dimenticati troppo in fretta è solo colpa della nostra fretta di vivere.[5] Termine locale che indica una zona disboscata da destinare a vigneto e/o frutteto.[6] Pecore ancora feconde.[7] Termine di uso locale per indicare le pecore non più produttive.[8] Si veda anche il lavoro di Diego Moreno (Università di Genova), che con il testo Dal documento al terreno, già nel 1990 suggeriva agli addetti ai lavori (naturalisti e scienziati ambientali) “che le osservazioni sul terreno vanno inquadrate in una prospettiva storica attualmente assente, almeno in buona parte degli studi ecologici”. A lui e a quelli di seguito citati il merito di averci fornito nuove chiavi di lettura per capire e affrontare gli enormi problemi ecologici che la nostra scarsa percezione e consapevolezza delle dinamiche territoriali hanno creato.[9] Roberta Cevasco, op. cit.[10] Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio Editore, Bologna, 2010[11] Così don Sandro Lagomarsini nel suo saggio intitolato, Uso comune e appropriazione metropolitana, La Spezia 2000.[12] Gentiana acaulis L. Genzianella, pianta erbacea di cui le praterie alpine ed appenniniche erano un tempo ricche. Nelle Marche era molto diffusa, specialmente nei Sibillini, e si racconta che i pastori raccogliessero la radice per farne commercio con i francesi (che l’usavano per produrre liquori) quando transumavano oltre le alpi, per migliorare le razze locali di ovine.[13] Sandro Lagomarsini, op cit.[14] Questa bella leguminose si è ritagliata una nicchia nella zona di Norcia (PG).[15] Cfr.: Roberta Cevasco, Memoria verde, Diabasis, Reggio Emilia, 2007, p. 129[16] G. Poggi, Pratiche di attivazione: effetti della raccolta tradizionale di vegetali spontanei ed ecologia storica del sito, in «Archeologia postmedioevale», n. 1, Sassari 1997, p. 97.[17] Sandro Lagomarsini, op. cit. Questo termine, reciprocità conviviale, è stato preso in prestito, dall’autore del saggio, da Ivan Illich, titolo originale: La convivialité, Edition du Seuil, Paris 1973; Edizione italiana: La Convivialità, Mondadori, Milano 1974, che ci ricorda il piacere di vivere facendo le cose insieme e di amare il nostro prossimo.[18] Queste le normative relative alla salvaguardia e tutela ambientale. Nel 1939 viene emanata la legge n° 1947, sulla salvaguardia del paesaggio; il comma 2 dell’Art. 9 della Costituzione stabilisce che “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione”; infine la legge n° 431 del 1985 (legge Galasso), detta dei “piani paesistici” ispirata sempre dall’art. 9 della Costituzione. 19 anni dopo con il Decreto Legislativo n° 42 del 2004 oltre alla tutela dei beni paesaggisti è prevista la delega alle Regioni le quali delegano ad Enti competenti la tutela del paesaggio. Quattro anni dopo, nel 2008, la legge Regionale n. 34 del 27/11 da la possibilità ai comuni che hanno più di un funzionario la facoltà di costituire la Commissione, mentre nei comuni più piccoli la delega viene data alle Comunità Montane, o alla provincia nel caso non ci siano le condizioni previste dalla legge. Il Decreto Ministeriale 139 del 2010 semplificherà poi gli adempimenti previsti, ma in buona misura gli addetti ai lavori dicono che tutti rispondono alle stesse commissioni e tra un operatore e l’altro ci possono essere delle lievi variazioni dipendenti dalla soggettività o dalla preparazione o diversa sensibilità dei soggetti preposti alla tutela del paesaggio.[19] Sandro Lagomarsini, op. cit.[20] Gli autori ai quali ci riferiamo sono: Diego Moreno, op. cit.; Roberta Cevasco, op. cit.; Elinor Ostrom, op. cit.; Giuseppina Poggi, op. cit.; Sandro Lagomarsini, op. cit.;[21] Presentazione di Alberto Magnaghi del testo di R. Cevasco Memoria verde, op. cit.[22] Andrea Montresor, Vice Presidente di Federforeste (Federazione italiana delle Comunità Forestali ) Sede di Frontone (PU).[23] Ed quello di cui siamo convinti, per esperienza diretta, osservando le dinamiche di rarefazione prima e quasi scomparsa poi di specie erbacee commestibili in territori non più oggetto di lavorazione dei terreni, a motivo dell’assenza umana.[24] Patrick Geddes, Città in evoluzione, Il Saggiatore, Milano, 1970, p. 11.








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Graziella Picchi si è laureata in Sociologia dopo una solida preparazione in scienze agrarie. E' nota ai cultori della ricerca gastronomica per le sue indagini sociologiche sul territorio, in collaborazione con L'Istituto Nazionale di Sociologia Rurale, finalizzate alla redazione dei volumi dell'Atlante dei prodotti tipici dedicati al pane, ai formaggi, ai salumi, alle conserve e alle erbe. Gli studi hanno messo in evidenza il rapporto esistente tra la qualità ambientale e quella dei prodotti agroalimentari con particolare attenzione all'insostituibile ruolo che uomini e animali hanno nella conservazione dell'integrità territoriale.








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