26 novembre 2009 DON FRANCESCO PIERPAOLI

"L'Agorà dei giovani del mediterraneo": a Loreto un'esperienza che da otto anni favorisce l'integrazione europea e rinsalda le comuni radici dell'Europa, partendo dai giovani.

Finalità, Storia
FinalitàL’Agorà dei Giovani del Mediterraneo è un progetto che si propone di creare delle relazioni significative e durature tra giovani cattolici dei diversi Paesi del Mediterraneo, nella prospettiva dell’apertura al dialogo con i giovani di altre confessioni, religioni e culture. Tali relazioni vanno costruite soprattutto favorendo la circolazione di informazioni ed esperienze tra le comunità giovanili dei Paesi coinvolti, in modo da poter stimolare nei giovani una crescita nella sensibilità culturale, sociale e politica, in vista del mutuo sostegno di tutte le Chiese e le Società che si affacciano sul Mediterraneo. L’Agorà si propone anche di stimolare una seria e documentata riflessione sull’importanza delle comuni radici cristiane e culturali dell’unione Europea e del Mediterraneo.
Il progetto si articola quindi in una serie di iniziative che coprono i settori più vari. Tra i più importanti legati al bene comune mettiamo in risalto: lo studio e l’approfondimento del patrimonio culturale che ha come obiettivo il riconoscimento delle reciproche tradizioni e lo sviluppo del dialogo culturale e lo sforzo verso una zona di pace e stabilità attraverso l'identificazione di un certo numero di principi da rispettare e di obiettivi ai quali mirare.

StoriaIl Progetto Agorà nasce a seguito delle riflessioni fatte, a partire dal 2001, durante gli incontri internazionali tenutisi a Loreto, presso il Centro di pastorale giovanile Giovanni Paolo II. Tali incontri, tradizionalmente svoltisi nel mese di settembre, hanno visto protagonisti giovani leader di pastorale giovanile e pastorale missionaria dei Paesi del Mediterraneo, che si sono confrontati su tematiche attuali, quali fede, etica, economia e politica, aiutati da esperti di fama nazionale ed internazionale. Nel 2001 il Centro Giovanni Paolo II organizza il primo Meeting Internazionale tra i giovani delle due sponde dell’Adriatico (vedi allegato). Si tratta di un’iniziativa che mira non soltanto alla solidarietà nei confronti dei paesi dell’ Est; il suo intento specifico è un altro, e consiste nell’approfondire il comune patrimonio di fede in Gesù Cristo. Questa esperienza dà il via a ciò che sarà l’Agorà dei Giovani del Mediterraneo.
Dall’anno successivo (settembre 2002), infatti Il Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile e l’Ufficio Nazionale per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese della Conferenza Episcopale Italiana, in collaborazione con il Centro Giovanni Paolo II di Loreto, hanno dato inizio ad una iniziativa intitolata Sulle acque passerà la Sua via - Agorà dei Giovani del Mediterraneo.
L’Agorà si rivolge a giovani cattolici provenienti da tutti i Paesi del Mediterraneo, allo scopo di far nascere e cementare relazioni significative e durature tra i giovani appartenenti ad associazioni cristiane dei diversi Paesi del Mediterraneo, favorendo l’incontro, la circolazione delle informazioni e delle esperienze tra le comunità giovanili dei Paesi coinvolti. Un ulteriore obiettivo riguarda la crescita della consapevolezza e della partecipazione in ambito politico e sociale. L’Agorà intende dare voce ai giovani e ai loro ideali nei confronti del mondo adulto, della politica, del sociale, per stimolare il coinvolgimento maturo e consapevole dei giovani nella vita pubblica, alla luce dei principi cristiani (a partire soprattutto dalla relazione con l’Unione Europea e alle sue politiche giovanili nell’area Euromediterranea). La riflessione sulle comuni radici cristiane dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo occupa un posto centrale: sulla base della fede comune è possibile riconoscersi chiamati ad una medesima missione e costruire una cultura di pace e di condivisione.
L’Agorà dei giovani del Mediterraneo dà un suo originale contributo alla riflessione e all’impegno delle Chiese europee per la valorizzazione delle radici cristiane del Continente e per la promozione di un’azione di dialogo e di pace in tutta l’area del bacino del Mediterraneo. Il santuario di Loreto è il suo «contenitore» ideale: è luogo europeo, consacrato da milioni di pellegrini di ogni parte del continente; è luogo mediterraneo, perché collocato in una regione che da sempre è ponte tra nord e sud, tra est e ovest. La presenza della reliquia della Santa Casa fa di Loreto il simbolo di ogni tentativo dell’uomo di edificare «dimore comuni», fondate sui valori cristiani dell’accoglienza, della condivisione, della donazione di sé per amore del fratello.
La prima edizione, con il relativo tema (Beati coloro che sono poveri di fronte a Dio: Dio darà a loro il suo Regno), è stato il primo passo di un percorso che porterà, anno dopo anno, a confrontare con il messaggio delle Beatitudini evangeliche il progetto per la costruzione dell’Europa e la promozione della comunione tra i popoli dell’area mediterranea.
Volendo dare il massimo risalto all’Agorà, è stata offerta a due giovani di ogni Paese del Mediterraneo e di ogni Regione italiana, la possibilità di partecipare gratuitamente. Ne è nata un’esperienza di grandissimo valore umano, culturale e spirituale. La permanenza dei legami e dei contatti a più di tre mesi della conclusione dell’incontro è un segno della forza di quanto vissuto a Loreto.
La speranza è quella di aiutare il sorgere di quella generazione di «nuovi costruttori» capace (per motivazione e per competenza) di costruire la civiltà dell’amore anche in un luogo (il Mediterraneo) che rischia di assomigliare più ad una frontiera che ad una Via.
Anche la Regione Marche, la Provincia di Ancona, l’ANCI Marche e le realtà imprenditoriali della regione, hanno immediatamente accolto l’invito ad essere coinvolte nella realizzazione di un evento così significativo per la conoscenza e l’integrazione delle diverse etnie. Si decide che ogni anno l’incontro dovrà assumere come tema una diversa beatitudine, con l’intento-sfida di affrontare tematiche attuali alla luce del modello datoci da Cristo. Gli incontri di Loreto sono diventati ben presto spunti per la realizzazione di varie iniziative nei Paesi dei partecipanti: da qui, il desiderio di trasformare l’Agorà da evento a progetto, dandogli una dimensione più ampia e continuativa nel tempo, per poter così realizzare una rete di collegamento tra i giovani delle Chiese del Mediterraneo. Questa finalità è stata poi raggiunta attraverso viaggi di due tipi: uno più istituzionale, volto a rinsaldare i rapporti con i responsabili di istituzioni civili e religiose dei paesi invitati; l’altro attraverso viaggi in cui i protagonisti sono proprio i giovani che visitano i loro coetanei in altri paesi.
PROGETTO
AGORÀ DEI GIOVANI DEL MEDITERRANEO
«Sulle acque passerà la Sua via»


L’Agorà dei Giovani del Mediterraneo si sta trasformando, a seguito delle riflessioni di questi anni, da evento a progetto: un percorso che vive durante l’intero anno e che trova un momento di forte significato nella celebrazione dell’evento Agorà, il quale si svolge sempre nel mese di settembre al Centro Giovanni Paolo II di Loreto.

1. Finalità del progetto
L’Agorà dei Giovani del Mediterraneo si propone di:
- creare relazioni significative e durature tra giovani cattolici dei diversi Paesi del Mediterraneo (nella prospettiva dell’apertura al dialogo con i giovani di altre confessioni e religioni);
- favorire la circolazione di informazioni ed esperienze tra le comunità giovanili dei Paesi coinvolti;
- stimolare nei giovani una crescita nella sensibilità culturale, sociale e politica, in vista del mutuo sostegno di tutte le Chiese che si affacciano sul Mediterraneo;
- stimolare una seria e documentata riflessione sull’importanza delle comuni radici cristiane per l’assetto dell’unione Europea ed il suo ruolo nel Mediterraneo.

2. Articolazione del progetto
L’Agorà dei Giovani del Mediterraneo è un progetto che si articola in:
- attività di studio sul passato, presente e futuro della cooperazione tra diverse culture, popolazioni, religioni e Chiese del Mediterraneo;
- una settimana di incontro internazionale giovanile a Loreto (Italia), presso il Centro Giovanni Paolo II, tra giovani leader cattolici dell’area mediterranea;
- una rete di collegamento permanente tra i partecipanti e le rispettive realtà giovanili, da realizzare in particolare mediante un sito internet plurilingue;
- incontri di programmazione e verifica tra i responsabili della pastorale per i giovani e per le missioni dei Paesi coinvolti nel Progetto (soprattutto dei Paesi partner e dei Paesi aderenti);
- iniziative di monitoraggio della condizione giovanile dei Paesi del bacino del Mediterraneo (con eventuale redazione di un Rapporto annuale).

3. Contenuti del progetto
I contenuti che sostanziano il progetto Agorà sono:
- storia del Mediterraneo e dei rapporti tra i diversi popoli e culture;
- storia del cristianesimo nei Paesi del Mediterraneo e dei rapporti con le altre tradizioni religiose;
- contenuti spirituali, dottrinali ed etici della fede cattolica in ordine alla responsabilità politica e culturale dei cristiani, al rapporto con le altre confessioni cristiane (ecumenismo) e fedi religiose (dialogo interreligioso);
- condizione e cultura giovanile nei Paesi del Mediterraneo;
- una delle beatitudini evangeliche (Mt 5, 1-12) è di anno in anno titolo e “tema generatore” della settimana a Loreto.

4. Soggetti del progetto
Per il progetto Agorà dei Giovani del Mediterraneo è stato redatto un testo di accordo (convenzione, statuto…), approvato e ratificato da parte dei membri del Comitato italiano e del Comitato internazionale: esso precisa e sviluppa le indicazioni sopra riportate, stabilendo il tipo di coinvolgimento e di impegno di ciascuno dei soggetti interessati.

Il Centro Giovanni Paolo II di Loreto
· ha la direzione (insieme al Comitato italiano) del Progetto;
· cura la segreteria organizzativa del Progetto;
· ospita la segreteria di redazione e il webmaster del sito internet.

Il Comitato Italiano è composto da:
- il direttore del Centro Giovanni Paolo II di Loreto;
- il responsabile del Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile (o suo delegato);
- il direttore dell’Ufficio nazionale per la Cooperazione missionaria tra le Chiese (o suo delegato);
- il presidente dell’Associazione Amici del Centro Giovanni Paolo II (o suo delegato);
- un rappresentante della Delegazione Pontificia della Santa Casa di Loreto.
· Ha la direzione del Progetto (insieme al Centro Giovanni Paolo II);
· predispone il programma annuale e cura la sua attuazione;
· predispone un piano di finanziamento annuale, da sottoporre alla Conferenza Episcopale Italiana;
· predispone i progetti da presentare all’Unione Europea per il finanziamento e il patrocinio;
· si riunisce almeno tre volte l’anno.

Il Comitato internazionale è composto da:
- i direttori degli organismi nazionali per la pastorale dei giovani e per la pastorale delle missioni delle Conferenze Episcopali del Paesi partner (o loro delegati);
- il direttore del Centro Giovanni Paolo II di Loreto;
· stabilisce annualmente le linee di indirizzo del progetto;
· indica le attività principali della programmazione annuale;
· si riunisce almeno una volta all’anno.

La Segreteria di coordinamento:
· cura l’organizzazione delle iniziative previste nella programmazione annuale;
· organizza le riunioni del Comitato italiano e del Comitato internazionale;
· organizza i viaggi di scambio con i Paesi del Mediterraneo;
· progetta e gestisce il sito internet del Progetto.

Per essere Paese partner del Progetto è necessario garantire:
- la partecipazione all’incontro annuale del Comitato internazionale;
- la presenza dei responsabili degli uffici (o di loro delegati) alla settimana di Loreto e alle altre iniziative internazionali;
- la disponibilità di due giovani (uno designato dalla pastorale giovanile e l’altro dalla pastorale delle missioni) che siano referenti stabili del Progetto: essi potrebbero essere i medesimi che partecipano all’incontro di Loreto;
- la partecipazione all’incontro di Loreto (oltre ai due giovani invitati dalla CEI) di una un delegazione nazionale inviata a proprie spese;
- la disponibilità di interpreti per il servizio di traduzione durante le iniziative dell’Agorà e all’interno del sito internet;
- la produzione e la condivisione di documenti e progetti riguardanti le tematiche dell’Agorà;
- la promozione, tra i giovani e le associazioni giovanili del proprio Paese, della riflessione intorno alle tematiche del Progetto (attraverso incontri, pubblicazioni, media…);
- diffondere nel proprio Paese la conoscenza del Progetto e dei suoi contenuti.

Per essere Paese aderente al Progetto è necessario garantire:
- la disponibilità di due giovani (uno designato dalla pastorale giovanile e l’altro dalla pastorale delle missioni) che siano referenti stabili del Progetto: essi potrebbero essere i medesimi che partecipano all’incontro di Loreto;
- la disponibilità di interpreti per il servizio di traduzione durante le iniziative dell’Agorà e all’interno del sito internet;
- la produzione e la condivisione di documenti e progetti riguardanti le tematiche dell’Agorà;
- la promozione, tra i giovani e le associazioni giovanili del proprio Paese, della riflessione intorno alle tematiche del Progetto (attraverso incontri, pubblicazioni, media…);
- diffondere nel proprio Paese la conoscenza del Progetto e dei suoi contenuti.

I giovani vengono coinvolti a diversi livelli nel Progetto:
· Alla settimana internazionale di Loreto partecipano due delegati per ciascun Paese del Mediterraneo (inviati dalle rispettive Conferenze Episcopali); sono inoltre presenti le delegazioni dei Paesi partner.
· I Viaggi internazionali di scambio vanno a contattare alcune tra le realtà giovanili più significative del Paesi visitati.
· Le diverse iniziative di studio e di comunicazione attuate dai Paesi partner e dai Paesi aderenti permettono di coinvolgere un numero rilevanti di giovani nei rispettivi territorio (con prevalenza dei giovani associati);
· Il sito internet plurilingue si rivolge a tutti i giovani dell’Area euromediterranea.

5. Appendice: principali luoghi del progetto
Il Santuario di Loreto
Loreto, come scriveva Giovanni Paolo II il 15 agosto 1993 nella sua prima lettera per il VII centenario laureano, ospita nel suo cuore il primo santuario di portata internazionale dedicato alla Vergine e per diversi secoli è stata il vero cuore mariano della cristianità. Verso Loreto da secoli converge e si dirama una rete di pellegrinaggi viva e multiculturale. Qui confluiscono le radiali di una planimetria mediterranea e soprattutto europea. Si pensi solo alle lapidi in più lingue che, dal 1500 in avanti, descrivono ai pellegrini la storia del Santuario; si pensi alla presenza in basilica delle sei cappelle nazionali. L’Europa si rende presente a Loreto attraverso le figure più grandi della santità, dell’arte, della letteratura, della scienza e della politica.
Per la sua collocazione geografica e per la storia che lo caratterizza, sin dallo stesso racconto di fondazione, il santuario di Loreto si pone in relazione con le opposte sponde del Mediterraneo (la Palestina, da cui la Reliquia proviene) e dell’Adriatico, costituendo un luogo di altissimo valore simbolico in riferimento all’unità dei popoli d’Europa e del Mediterraneo.
A pochi chilometri da Loreto è ubicato il porto di Ancona, da cui partì San Francesco per portare la pace in Oriente.

Il Centro “Giovanni Paolo II”
Nel 1995 Loreto è stata teatro di un grande incontro europeo dei giovani con il Papa (EurHope): negli anni della guerra in Ex-Yugoslavia, quell’evento ha indicato, per la costruzione della Casa comune Europea, il cammino irreversibile della pace e della concordia tra i popoli, le culture e le religioni.
Il Centro è sorto nel 2000 sul medesimo luogo. A tale evento esso intende riallacciarsi, nel perseguire le proprie finalità formative. Il Centro si propone di offrire spazi di forte esperienza religiosa, occasioni di scambio spirituale e culturale, incontri di studio, ai giovani italiani ed europei, con particolare attenzione all’area adriatica e mediterranea. Il Centro è un’opera della Prelatura di Loreto, animato da un’equipe di sacerdoti e dalle suore Oblate di Maria Vergine di Fatima. Esso si avvale della collaborazione del Servizio per la Pastorale Giovanile della Conferenza Episcopale Italiana e dell’apporto dell’Associazione Amici del Centro Giovanni Paolo II e del santuario della Santa Casa.
Centro Giovanni Paolo II
Via Montorso, 3 60025 Loreto – 071.7501552; fax 071.7504305
www.giovaniloreto.it - centrogiovannipaolo2@loreto.191.it


Presentazione

Il Centro Giovanni Paolo II si trova a Montorso, a tre chilometri da Loreto (AN). Inaugurato nel mese di dicembre 2000, il Centro, di proprietà della Delegazione Pontificia ma in stretto rapporto con le realtà pastorali locali e nazionali della Chiesa italiana, vuole essere un punto d’incontro per i giovani d’Europa e del Mediterraneo; un luogo in cui approfondire nel dialogo e nella conoscenza reciproca le radici della comune fede cristiana vuol dire mettersi al servizio del bene comune e della pace. Ogni anno passano per Centro 15.000 persone.

Un po’ di storia

L’idea di un Centro rivolto ai giovani nasce dal desiderio di Giovanni Paolo II, espresso durante le giornate di “EurHope”, nel settembre del 1995. In quell’occasione giunsero a Loreto più di 400.000 persone. Ecco le sue parole: «Europa e speranza. Avete voluto dare questo titolo all’odierna suggestiva veglia. Nel termine “EurHope” le parole Europa e Speranza si intrecciano inscindibilmente. È un’intuizione bella, ma anche singolarmente impegnativa. Essa esige che voi siate uomini e donne di speranza: persone che credono nel Dio della vita e dell’amore, e proclamano con salda fiducia che c’è futuro per l’uomo … A tutti dico : ecco la vostra Casa, la Casa di Cristo e di Maria, la Casa di Dio e dell’uomo» (Giovanni Paolo II, Montorso, 1995).

Il Centro Giovanni Paolo II, nell’ideale prosecuzione delle parole del Papa, è stato costruito per dare ai giovani una risposta concreta alle loro domande di senso e al loro diffuso bisogno di spiritualità. È questo uno spazio in cui è possibile vivere un’esperienza umana e religiosa forte e appassionante, in sintonia con il messaggio che da sette secoli s’irradia nel mondo dal vicino Santuario di Loreto, meta di 4.500.000 di pellegrini ogni anno. Il Centro, inoltre, vuole diventare sempre di più “casa accogliente” per i giovani, luogo d’amicizia e di scambio tra le diverse etnie ed espressioni della pastorale giovanile italiana, europea e mediterranea per contribuire alla crescita di una civiltà fondato sulla pace, sulla giustizia e sulla solidarietà facendo dei giovani i «profeti di una nuova era» (Benedetto XVI, Sydney, 2008).

Nel settembre 2004 il Centro è stato ancora vistato da Giovanni Paolo II che ha convocato nella collina di Montorso i laici di Azione Cattolica: erano oltre 200.000.

Nel settembre 2007 in continuità con il suo predecessore, anche Benedetto XVI ha voluto incontrare sulla nostra collina 500.000 giovani, tra cui molti rappresentanti di tutti i paesi d’Europa e del Mediterraneo, durante l’Agorà dei Giovani Italiani.

Tutti questi eventi sono stati occasione di grande collaborazione in primo luogo con il Servizio Nazionale per la Pastorale Giovanile della Conferenza Episcopale Italiana e allo stesso tempo di rapporti con le associazioni di volontariato locale e nazionale oltre che di sinergia con le istituzioni civili e militari a livello locale, e nazionale.

Attualmente il Centro è guidato da una comunità di preti diocesani e suore Oblate di Maria Vergine di Fatima.

23 novembre 2009 ERMINIA MICHELINI TOCCI

Ricordo di Luigi Michelini Tocci, umanista e letterato


Luigi Michelini Tocci, nato a Cagli il 28 Aprile 1910, morto a Roma il 15 Febbraio 2000.
Scrittore di vasta cultura classica si esprimeva con un linguaggio letterario semplice, chiaro e poetico; come umanista si è occupato soprattutto del Rinascimento Urbinate.
Dopo che le vicissitudini politiche lo costrinsero a lasciare il suo paese amatissimo, Cagli, si trasferì a Roma con tutta la famiglia, dove trovò lavoro nella Biblioteca Vaticana (vi lavorò dal 1944 al 1990 circa).

Attraverso il suo lavoro di Scrittore, Conservatore del Gabinetto Numismatico, Professore di Biblioteconomia e di Epigrafia, ha conosciuto i Papi: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II.


Inoltre ha avuto contatti con i più grandi studiosi ed eruditi di tutto il mondo ed è stato insignito dell’onorificenza pontificia della Commenda di S.Gregorio Magno, oltre che di tanti altri riconoscimenti, tra i quali: Grande Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Socio della Pontificia Accademia Romana di Archeologia.

Voglio ringraziare di cuore questa bella organizzazione dell’UNILIT per avermi dato la possibilità di ricordare mio padre, non già perché io non lo ricordi sempre, ma perché in questa occasione lo posso fare con un pubblico che a lui sarebbe carissimo, in quanto è formato dai suoi amatissimi compaesani, e perché è di gente curiosa di sapere e quindi colta.
Io sono Erminia Michelini Tocci, seconda figlia del qui ricordato Luigi; mio fratello primogenito si chiama Franco, per ricordare nostro zio, eroe cagliese della prima Guerra Mondiale, la terzogenita figlia, mia sorella, si chiama Anna. Siamo tutti e tre orgogliosi di avere avuto un padre come quello che abbiamo avuto ed al quale ci rendiamo conto di dovere alcune qualità preziose come l’onestà, la noncuranza per la ricchezza materiale e la valorizzazione delle qualità spirituali. Nostro padre non ce le ha imposte con l’educazione o con le parole ma ce le ha trasmesse soprattutto con l’esempio e con la sua grande umanità e noi speriamo di essere all’altezza del suo insegnamento.
“La famiglia discendeva da quella dei Tocci, uniti nel 1859 ai Michelini (col matrimonio di Domenico Michelini con Francesca Tocci). Un Tocci, l’Abate Antonio, nato a Serravalle di Carda nel 1734, trasferitosi in seguito a Cagli dove visse e morì nel 1814 fu singolare figura di pensatore e filantropo, autore di una voluminosa opera su La felicità di tutti, nota negli studi sull’Illuminismo italiano, nella quale veniva codificata dal punto di vista sociale, economico, giuridico e politico l’«esatta pratica del Cristianesimo» mostrando come essa fosse la base unica della possibile felicità umana” (bibliografia di LMT di Paolo Vian).
Luigi era figlio dell’Avv. Agostino Michelini Tocci, noto per avere ricoperto varie cariche pubbliche, che, come si legge anche sull’epigrafe che lo ricorda nel cimitero di Cagli, veniva chiamato “l’avvocato dei poveri” perché non si faceva retribuire da coloro che, pur rivolgendosi a lui per avere giustizia, non avevano la possibilità di pagare.
Anche la sua mamma, Antonietta Mochi, era una donna esemplare, d’altri tempi, dedita alla famiglia, a fare del bene a chi ne aveva bisogno (orfanelli, monasteri, ospedali ecc), e, come allora facevano molte signore, si dedicava alle così dette “arti nobili” (disegno, musica e pittura).

Le persone che ricordano i miei nonni, ahimè ormai ben poche sopravvissute nel tempo, dicono tuttora un gran bene di loro.
Io non so se sono la persona più adatta a formulare un giudizio obiettivo su mio padre, tuttavia cercherò di farlo nel migliore dei modi.
Luigi Michelini Tocci, dunque, nacque a Cagli il 28 Aprile 1910 nella grande casa dove tuttora vivono i suoi figli, come ho già detto, dall’Avv. Agostino e da Antonietta Mochi: egli era l’ultimo dei loro quattro figli (Vera, Valentina, Franco e Luigi) nato ben 11 anni dopo il terzo: Franco Michelini Tocci, medaglia d’oro al Valor Militare, morto sul Valderoa il 27 ottobre del 1918, pochi giorni prima della vittoria.

A questo proposito non posso fare a meno di riportare qui di seguito un suo pensiero, da lui scritto dal fronte (due anni precisi prima che lui stesso morisse) per la morte di suo cugino Sesto Mochi, tenente dei bersaglieri, caduto sul Carso il 13 ottobre 1916:


Se beati sono quelli che più hanno, perché più possono dare, più possono ardere, beata deve essere l’anima di lui che sull’altare della Patria ha fatto offerta di tutti i suoi affetti e del suo bello e giovane corpo (aveva 23 anni). Il suo spirito, nella cui immortalità egli aveva fede, vigila ora sul suo battaglione di prodi ed esulterà di gioia il giorno non lontano in cui Trieste non sarà più la città del nostro sogno, ma la nostra città liberata” (giorno che neppure lui vide mai).
La morte del fratello Franco ha segnato in maniera determinante la giovinezza di Luigi, come d’altronde quella di tutta la famiglia (la madre vestì di nero per tutto il resto della vita), infatti egli crebbe un po’ appartato, modesto e schivo, rifugiandosi sempre di più nei suoi interessi umanistici, storici e artistici, che comparvero in lui fin da giovanissimo, e nella grande amicizia coi suoi cugini Mochi: Max, Manuzio, Sandrino, Onesto e Umberto coi quali, come raccontava, faceva delle bellissime passeggiate sui monti circostanti Cagli: il Petrano, il Nerone, l’Acuto e il Catria, dove aveva imparato ad apprezzare la bellezza, la natura, il fascino del silenzio: ricordo per sempre che negli ultimi tempi della sua vita, quando non camminava più, alla Torre di Acquaviva, nella casa di campagna, voleva essere posto in un punto particolare del giardino dal quale potere ammirare “i suoi monti”, come li chiamava lui.
Cito da un suo scritto del 1970 a proposito di Novilara: Crebbe così nella “provincia onusta di storia e di cultura, una terra pregna di fermenti, colta e civile più ancora che coltivata, perché coltivata ed abitata da sempre, dall’era dei miti, quando la storia scritta dagli uomini non era ancora nata, ove non sai se l’uomo ne abbia fatto uno dei suoi primi insediamenti perché l’ha trovata felice, accogliente e ferace a sua misura o sia stata invece la presenza perenne ed intensa dei nostri simili a fare questa terra com’è, naturalmente bella e civile in misura suprema e quasi ineffabile, senza una leziosità e insieme senza un’asprezza, inconsapevole capolavoro dell’uomo, il quale, nonostante tutto, resta il capolavoro della Creazione” .
Da giovanissimo fece l’incontro più importante della sua vita: quello con Lidia Liguori, sua lontana parente, che lo accompagnò per sempre con affetto e dedizione, essendo poi divenuta la sua amata moglie, tuttora vivente, dalla quale ebbe noi tre figli: Franco, Erminia ed Anna.


Per i suoi studi, si formò a Roma, nel prestigioso Liceo dell’Istituto Massimo dei Gesuiti, dove fu compagno del fisico Enrico Medi e di altri importanti studiosi del tempo. Iscrittosi all’Università, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, poco dopo vinse una borsa di studio di un anno per Budapest, dove si recò con il suo più caro amico, il poeta Francesco Nicosia, al quale restò sempre legato, fino a pubblicarne un volume di poesie, uscito postumo, con una bellissima e significativa prefazione (negli anni ‘80). Per il resto della sua lunga vita (90 anni), egli non viaggiò mai: la sua esistenza si è svolta fra Cagli, Pesaro e Roma non per caso, ma per scelta perché sosteneva caparbiamente che si viaggia molto meglio con lo studio e la fantasia e che ogni cosa si apprezza maggiormente conoscendone i particolari, le riproduzioni e la storia.
Educato all’amore per la Patria, all’onestà, al rispetto dei principi morali, come molti a quei tempi, aderì al Fascismo, dove ricoprì anche qualche carica politica, perché sembrava rispettare meglio i valori nei quali credeva, per poi allontanarsene totalmente quando furono promulgate le leggi razziali e tutto il resto. A quell’epoca infatti dirigeva il giornale politico “L’Ora” di Pesaro e, appena venne a conoscenza della scelta fatta dal governo Mussolini delle leggi razziali, si dimise immediatamente non solo dalla direzione del giornale, ma addirittura non vi mise più piede, motivando chiaramente la sua decisione e non si occupò mai più di politica. Questo suo atteggiamento è confermato dal fatto che ospitò sia un tedesco, Herbert Schmit, che un ebreo, Ausonio Colorni, che per ovvi motivi doveva nascondersi.
L.M.T si era dunque laureato a Roma in Letteratura Francese con il Prof. Pietro Paolo Trompeo, grande suo estimatore, e non perse mai di vista l’interesse per questa affascinante materia, anche se poi spaziò in molti altri campi dello scibile, tanto è vero che pubblicò nel 1947 e nel ‘49 due opere importanti: una su Tocqueville e Gobineau e l’altra sui Racconti Merovingi che incontrarono tanto il favore del pubblico, da essere ripubblicate molti anni dopo (negli anni novanta) con il suo benestare e la sua soddisfazione. Ma su questo ritorneremo in seguito.
La sua prima esperienza lavorativa riguardò la Biblioteca di Cagli, dopo di che, vinto il concorso, fu chiamato a dirigere la Biblioteca Oliveriana di Pesaro ed i Musei della stessa città, cui ridiede vita e splendore, facendo perfino ricostruire ex novo dal bravissimo artigiano di Cagli, Ezio Paioncini tutti gli scaffali completamente rovinati o inesistenti. Ricoprì questo posto dal 1934 al ‘44, anno in cui gli morì il padre. Nel 1946 subì un processo di epurazione per la sua trascorsa appartenenza politica, le cui accuse più tardi risultarono del tutto infondate ma che allora gli costarono gran parte dello stipendio e tutta la liquidazione dovutagli.
Tornato dunque a Cagli con tutta la famiglia composta ormai di madre, moglie e tre bambini, sempre per i già menzionati motivi politici, dovette sfollare in un posto che io ancora ricordo come bellissimo: la Casellina, un podere sul Montenerone. Ma anche lì fu trovato e preso dai Partigiani insieme a suo cognato, il Colonnello Giuseppe Liguori (anche lui sfollato in quel luogo con la sua famiglia) e trasferito a “Col del Grillo” per essere giustiziato. Fortunatamente fu liberato nottetempo dalla coraggiosa moglie Lidia, che con una corsa rocambolesca attraverso i monti e l’aiuto di un influente agente americano di nome Foster (che a sua volta era stato beneficato in precedenza dal nonno Agostino), lo sottrasse insieme al proprio fratello da morte certa.
Rimasto senza lavoro e non potendo restare nel proprio paese per non incorrere in altri gravi pericoli, mio padre si recò in cerca di fortuna. Partì a piedi, accompagnato dalla moglie, fino al monastero di “Fonte Avellana” dove venne accolto fraternamente dal Priore dei Camaldolesi, don Bernardo Ignesti, al quale restò legato per grande riconoscenza e affetto per tanti anni. Proseguì poi da solo, dirigendosi verso Roma perché almeno lì avrebbe potuto trovare un punto di appoggio presso le sorelle sposate in quella città,che per altro conosceva bene avendoci passato molti anni della sua gioventù per i suoi studi. Nel lungo viaggio si è fermato in diversi posti: come ad Assisi, dove venne ospitato dai suoi cugini Castracane-Pranzetti, infine giunse a Roma, dove fu accolto dalla sorella Valentina Fea. Finalmente, nella Città Eterna che lo aveva visto crescere, trovò lavoro nella Biblioteca Vaticana, essendovi stato presentato, fra gli altri, dal Priore don Bernardo Ignesti, e dal Prof. Ernesto Rinaldi, preside dell’Istituto Massimo che aveva frequentato. Mi fa piacere ricordare a questo proposito quello che papà scrisse a mia madre nella prima lettera che poté scriverle da Roma: parlava del ricordo vivo e velato dalle lacrime della sua figuretta snella stagliata contro il cielo alla fine di un curvone mentre lo salutava e poi le raccomandava di parlare spesso di lui a noi bambini perché non lo dimenticassimo e di educarci nel modo che lei sapeva e lui voleva, infine si augurava di poterci riabbracciare presto... E fu così che nel novembre 1945 trasferì a Roma tutta la sua famiglia e lì restò fino alla fine dei suoi giorni (15 febbraio 2000), amando sempre in modo indicibile e nostalgico la casa di famiglia, il suo paese e le sue montagne, dove per tutta la vita aveva continuato a recarsi esclusivamente durante il periodo estivo delle vacanze.
La maggior parte della sua vita la trascorse quindi a Roma, ed in particolare nella Biblioteca Vaticana, dove ricoprì l’importante ruolo di Scrittore, quello di Conservatore del Gabinetto Numismatico, oltre che quello di professore di Biblioteconomia e di Epigrafia (molti studiosi anche sacerdoti ricordano ancora le sue lezioni). Egli ricoprì questi incarichi prestigiosi e di responsabilità dal 1945 al 1980 e poi, anche da pensionato, fino al 1997, venendo spesso a contatto con i più grandi studiosi di tutto il mondo, per essere consultato su ricerche di tipo umanistico e numismatico e ricevendo di volta in volta quelli che venivano di persona. Gli fu chiesto inoltre, come ho accennato, da parte dei responsabili della Biblioteca (come Padre Ruiyscaert ed altri) di restare anche dopo che aveva già maturato il diritto alla pensione, per fare crescere in cultura e conoscenza coloro che lo avevano sostituito. È rilevante il fatto che egli non si sia mai tirato indietro di fronte alle numerose richiese di aiuto da parte dei suoi conterranei di Cagli o Pesaro per i quali si è sempre prodigato nel fare ottenere loro il permesso di accesso alla Biblioteca Vaticana, nell’indirizzarli nelle loro ricerche, avendo sempre il piacere e la soddisfazione di aiutare i “suoi amici”, come soleva chiamarli; ne è una testimonianza, come lei amabilmente mi ha ricordato, la gratitudine che ancora conserva in animo il prof. Ubaldelli, figlio della Sig.ra Paioncini per essere stato introdotto da mio padre alla Vaticana, quando preparava la tesi di laurea.
In tutti questi anni (52 per esattezza) di lavoro e di ricerca, egli non perse mai di vista il suo paese di origine, perciò si annoverano fra le sue opere le pubblicazioni che fece per la Cassa di Risparmio di Pesaro e gli studi sul Ducato di Urbino, sui castelli della valle del Foglia, sul manoscritto urbinate della Divina Commedia, su Piobbico, Montenerone, Catria e perfino sulla Cronaca di Giovanni Santi, padre di Raffaello.
Però, per elencare in ordine cronologico le sue opere principali, bisogna rifarsi al 1930. Aveva allora solo 20 anni, quando pubblicò su “Rassegna marchigiana” un articolo su un Codice umanistico dell’Eneide trovato nella Biblioteca Comunale di Cagli; in quegli anni collaborò con il “Corriere Adriatico” di Ancona, curò la Prima mostra bibliografica marchigiana nella biblioteca Oliveriana di Pesaro, diresse il settimanale politico “L’Ora” (dal quale si dimise appena seppe delle leggi razziali, come ho detto).
Fra il 1947 e il 1959, quando era già stato assunto alla Biblioteca Vaticana, si è occupato, come ho accennato, della Corrispondenza tra Alexis de Toqueville e Arthur de Gobineau, autori francesi dell’800 molto importanti per le notizie particolareggiate sull’Ancien Régime e la Revolution; dopo due anni (1949) pubblicò I Racconti del tempo dei Merovingi di A. Thierry che trattano appunto la storia dei Merovingi (561-580 circa) in sette racconti, con riferimenti interessanti a Clotario I, alle guerre civili, a Meroveo, Hilperico teologo, al poeta Venanzio Fortunato ecc.
In questo periodo collaborò con l’Enciclopedia Cattolica, la Rivista di Storia della Chiesa in Italia, Studi Riminesi bibliografici in onore di Carlo Lucchesi, Studi e ricerche negli Archivi Vaticani in onore del Cardinal Mercati, Studi sulla Letteratura dell’Ottocento in onore di Pietro Paolo Trompeo, “L’Osservatore Romano” ecc.
Nel 1959 cominciò a pubblicare per la Cassa di Risparmio di Pesaro calendari, agende e monografie, cosa che continuò a fare fino agli anni ‘70, impegnandosi, con riconosciuto apprezzamento, a diffondere presso un largo pubblico la conoscenza dei luoghi dell’Urbinate e del Montefeltro, legata al loro valore artistico e storico, con la scrittura semplice ed elegante che gli era propria.




Negli stessi anni curò alcune mostre di cui fece le note descrittive nei cataloghi: Miniature del Rinascimento, Libri esposti nella Mostra permanente dei cimeli della Biblioteca Vaticana, la Mostra dei codici miniati del Rinascimento. Tra le sue opere di questo periodo dunque vanno ricordate quelle artistiche che vanno dagli Affreschi dei Fratelli Salimbeni nell’oratorio di S. Giovanni Battista in Urbino (1959) alle Opere di Giovanni Santi, padre di Raffaello (1961), ai Pittori Urbinati nell’adolescenza di Raffaello (1962) che, come è noto, è stato l’oggetto della mostra che da qualche mese si è tenuta al Palazzo Ducale di Urbino, ai Disegni ed appunti di Francesco di Giorgio Martini. Sono degne anche di speciale menzione Le Pitture di Pesaro, la Leggenda dell’Ostia profanata di Paolo Uccello (dove si racconta per immagini la storia di un blasfemo che cuoce in padella una ostia consacrata, dalla quale per miracolo esce tanto sangue che non solo invade la stanza, ma addirittura esce dalla porta in modo che alcuni passanti se ne possano accorgere, quando poi il profanatore dell’ostia morirà, nella lotta fra l’angelo e il diavolo per impossessarsi della sua anima, vincerà quest’ultimo).









Nel 1962 pubblicò uno studio sulla Insurrezione di Pergola e il Risorgimento delle Marche, nel centenario dell’unità d’Italia, affidatogli dal Comitato pergolese presieduto dal Govannelli poiché mio padre era socio ordinario della Deputazione di Storia Patria per le Marche. Nello stesso periodo si occupò di studi umanistici riguardanti il Duca di Montefeltro (Federico da Montefeltro, Duca di Urbino nel 1474 è stato uno dei più celebri condottieri del 400, uomo di stato acuto, duttile e saggio, che divenne con Lorenzo il Magnifico uno dei principali elementi di equilibrio della politica italiana del suo tempo); dello studioso Agapito nella biblioteca urbinate del 400, del Manoscritto di Baldassarre Castiglione su Guidubaldo Duca di Urbino, degli Incunaboli sconosciuti o mal conosciuti della Biblioteca Vaticana, di Ottaviano Ubaldini della Carda ecc.
Nel 1965 ha pubblicato uno studio su Piero della Francesca, un altro sui Pittori del 400 a Urbino e Pesaro, e un terzo sul Dante Urbinate, il più bel codice urbinate della Divina Commedia conservato nella Biblioteca Vaticana, commentato da mio padre, con la riproduzione fototipica fatta dalla casa editrice Fratelli Fabbri. Questa opera gli ha fatto ottenere una delle onorificenze più importanti del Santo Uffizio: la Commenda di S.Gregorio Magno. A questo alto riconoscimento se ne sono aggiunti altri, quali quelli di Socio della Pontificia Accademia Romana di Archeologia e di Grande Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Dal 1967 al l970 si è occupato delle Rocche di Francesco di Giorgio Martini (Torrione), delle Tarsie dello Studiolo di Urbino, di un codice vaticano delle Olimpiadi di Pindaro (in greco), di Monete romane e contorniati, delle Monete della Stipe di Vicarello, di Maioliche del Rinascimento del museo di Pesaro, di miniature, di legature di manoscritti nella Biblioteca Vaticana ecc.
Dal l970 al l980 ha pubblicato i seguenti lavori: Pesaro sforzesca nelle tarsie del Coro di S.Agostino, Eremi e cenobi del Catria (Eremi del 1000, fra i quali si annoverano quelli situati nel Comune di Cagli: San Nicolò di Bosso, San Bartolo al Monte Petrano e San Salvatore della foce, -il ritrovamento di un concio che apparteneva alla sua costruzione è stato ritrovato in compagnia del cugino Max Mochi- In questa opera mio padre parla soprattutto di S. Romualdo, S.Pier Damiani, S.Croce di Fonte Avellana, S.Maria di Sitria) dedicato a Don Bernardo Ignesti. dove, fra l’altro, rievoca la brigata dei suoi amici di Pesaro negli anni prima della guerra: fra di essi lo scrittore Fabio Tombari, il musicista Cencio Michetti, l’attore Annibale Ninchi, il commediografo Antonio Conti, tutti accomunati dal grande amore per la poesia.... e ancora Castelli pesaresi sulla riva destra del Foglia (Candelara, Ginestreto, Montelabbate). Inoltre si è occupato di mostre ed esposizioni di Manoscritti vaticani dal IV al XV sec., di un Manoscritto gotico italiano (tradotto in francese, inglese, tedesco e fiammingo) della Bibbia di Gutenberg, di Gradara e i castelli a sinistra del Foglia , di Montenerone e Piobbico ( “dedicato alle popolazioni delle montagne, specialmente a quelle di Piobbico e di Serravalle di Carda, dalle quali derivano i due rami del mio sangue montanaro” p. 5) e di una riproduzione del Codice Palatino latino del Cantico dei Cantici.









Infine, dall’1980 al 1990 ha prodotto parecchi altri lavori: Bernini nelle medaglie e nelle monete,
Lettera di Jacopo Bracciolini a Federico di Montefeltro, il poema in terza rima di Giovanni Santi La vita e le gesta di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, opera in XXIII libri contenuta in un manoscritto della Vaticana, Storia di un Mago e di cento castelli, riferito ad Ottaviano Ubaldini della Carda del quale ha studiato anche il rapporto con Federico da Montefeltro e la formazione della biblioteca di quest’ultimo.
Mi sembra di avere dato un quadro abbastanza completo della vita e dell’attività costante e puntuale di mio padre, volta sempre alla ricerca della bellezza e della verità, che poi alla fine sono la stessa cosa.
Ora egli riposa nel cimitero di Cagli, nella tomba di famiglia.

Erminia Michelini Tocci



Erminia Michelini Tocci in Gnoli, nata a Pesaro il 13 agosto 1938, vissuta a Roma dall’età di 7 anni, dove ha compiuto gli studi classici e si è laureata in Lettere e Filosofia preparando dapprima una tesi di Laurea in Latino Medievale col prof. Gustavo Vinay, sulla Historia Ecclesiastica del Venerabile Beda, e presentando poi una tesi in Storia Medievale, sulla Leggenda di Barlam e Giosafat, col Prof. Raoul Manselli. È moglie di Gherardo Gnoli, Accademico dei Lincei, Presidente dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e della Società Italiana di Storia delle Religioni, ed è madre di due figli: Tommaso, Professore di Storia Romana all’Università di Bologna e Andrea, Fisico della Materia, che lavora al Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma. Ha insegnato per 30 anni nelle scuole superiori di Roma e dintorni (Velletri e Civitavecchia).

19 novembre 2009 PAOLO BURONI


"La comunicazione emozionale dei contenuti storici e artistici attraverso i nuovi sistemi interattivi".
Paolo Buroni vive a Cagli in provincia di Pesaro dove è nato nel 1954. Lavora nella sua casa-studio, sulle colline tra Gubbio ed Urbino. Inizia come fotografo di reportage free-lance collabora dal 1980 per circa 10 anni con l'agenzia fotografica Grazia Neri e Focus Team.

Per Grazia Neri realizza numerosi reportage per riviste nazionali ed estere partecipando a mostre e manifestazioni fotografiche. Sue immagini sono esposte al Museo della Fotografia di Losanna.Dalla fotografia, applicando le prime elaborazioni digitali, passa alla computer art e poi ai primi montaggi in multivisione fino a realizzare grandi installazioni multimediali dove musica immagini e architettura si fondono in un unico linguaggio.
Dal 1990 si dedica esclusivamente all'arte multimediale proiettata realizzando numerose installazioni nei festival internazionali di multivisione artistica e multiproiezioni architettoniche tra cui ricordiamo "Mutazioni" installazione con 25 proiettori nel cortile di palazzo Vicenti Mareri al festival internazionale di Rieti, e realizzata con immaginicompletamente elaborate al computer.
Le sue "multiproiezioni" sono state rappresentate in manifestazioni in vari paesi tra cui "Mediale" di Norimberga - Germania, Linz - Austria, Budapest - Ungheria, Istanbul, Parigi, Seoul.Nel 1995 al Festival Internazionale di Arte Multimediale di Budapest vince il premio F.I.A.P. (Fédération Intérnational de l'Art Photographique).
Un critico americano lo ha definito "the urban invader", per l'impulso che ha di invadere con le immagini lo spazio urbano, gli edifici, le piazze
E questo obbiettivo non è poi così irraggiungibile se pensiamo che a San Siro per il Derby Inter-Milan, ha ideato uno dei più grandiosi spettacoli di multivisione mai realizzati in uno stadio con 10.000 mq di immagini.


"Invasore urbano" perché la caratteristica costante e significativa del Multivision Image Designer Paolo Buroni è il coinvolgimento delle tre dimensioni spaziali e l'interazione tra immagini proiettate e le strutture architettoniche che divengono parte integrante dell'evento.
"Fin da subito il mio percorso artistico è stato quello di far uscire le immagini dallo schermo e di invadere gli spazi architettonici circostanti".
Tra le collaborazioni artistiche ricordiamo quella con Pier Paolo Calzolari all'atelier Calder in Francia e con gli artisti Arnaldo Pomodoro, Gaslini, Juri Cane, e Marco Paolini a Carsulae (sito archeologico con rovine romane nei pressi di Terni), con una multivisione scenografica proiettata interamente e per la prima volta sugli alberi circostanti il sito archeologico.
Oggi gli vengono affidate le più importanti ed impegnative regie internazionali in esterni basate su immagini in multivisione: dalla nave del G8 a San Pietro a Roma, dal Coex Center di Seoul agli stadi di Istanbul e Milano, dalla Ferrari ai più importanti show della RAI come la scenografia del Festival di Sanremo 2003 e Miss Italia nel Mondo.





Per il mondo dello sport citiamo la presentazione ufficiale del nuovo marchio del CONI, gli eventi realizzati per l’Audi Sports Awards ed i multivisions shows durante il Gran Premio F1 di Montecarlo 2004 per il Team Ferrari-Marlboro.Nel 2004 ha messo in scena un’altra difficile realizzazione artistica, proiettando una multivisione sulla Cascata delle Marmore durante il concerto di Archie Shepp.
La Biennale di Venezia, gli ha comissionato una serie di multivisoni, proiettate sulla facciata del Casinò, durante la 61° edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.

http://www.paoloburoni.com/PB.GB/PB%20il%20designer.htm


16 novembre 2009 AUGUSTO TOCCI

Dall'orto alla tavola.

Trasferta a Badia Tedalda presso l'agriturismo "Il Casalone" per assistere alla lezione di gastronomia del Prof. Augusto Tocci e per gustare le sue proposte.

Quella di cui si parla è una prelibata e particolarissima gastronomia forestale, frutto di un lavoro ventennale di ricerca e sperimentazione condotto dal Dr. Augusto Verando Tocci (Direttore dell Istituto Sperimentale per la Selvicoltura di Arezzo) assieme alla moglie Luisa ed alle figlie Cristiana e Maria Teresa (titolare quest’ultima dell’Agriturismo “Il Casalone” ).

Precursore, nelle trasmissioni di Linea Verde, dell’impiego dei prodotti secondari del bosco in cucina, il Dr. Tocci ha nel tempo elaborato e pubblicato centinaia di ricette di cui oggi è possibile la degustazione.


Queste innumerevoli ed originalissime ricette hanno tutte quante in comune alcuni caratteri fondamentali, estremamente significativi per comprendere appieno la particolarità della cucina, che possono essere così sintetizzati:



a) genuinità: provenendo dalle coltivazioni biologiche dell’azienda e dai boschi aziendali i prodotti che utilizzati non conoscono concimazioni, né antiparassitari o pesticidi;

b) nostralità: fatta eccezione per olio e vini - comunque rigorosamente di origine toscana - tutti i prodotti adoperati in cucina sono veramente nostrali e tipicamente locali, ossia provengono dalla nostra terra in senso stretto. Difatti la particolarissima zona di Badia Tedalda - ove non attecchiscono vite, ulivo né castagno - è eccezionalmente provvida dei più preziosi gioielli gastronomici, essendo al contempo, zona di produzione del tartufo bianco pregiato (tuber magnatum pico), dei suoi fratelli minori , dei funghi porcini e prugnòli, nonché della rinomata carne bovina di razza chianina, la quale è addirittura prodotta, macellata e commercializzata in loco;



c) stagionalità: è ovvio come una gastronomia forestale debba adeguarsi al ciclo delle stagioni, caratterizzando i menù in funzione di quelle che sono le periodiche produzioni del bosco, del sottobosco e delle coltivazioni aziendali;



d) recupero delle tradizioni: la cucina non trascura mai, anzi riscopre e valorizza le antiche tradizioni gastronomiche di Badia Tedalda e dell’Alta Valmarecchia con le tipiche paste (tagliatelle, gnocchi e ravioli) fatte rigorosamente a mano e riproponendo tipici piatti medievali quali ad es. l’agliata, il pancristiano ed il migliaccio al latte;


e) fantasia e creatività: muovendo da una solida base di conoscenza ed esperienza, sono la fantasia e la creatività gli elementi che rendono veramente uniche le proposte. Così, ad esempio, un comunissimo fiore, il tarassaco (detto anche “pisciacane”) si trasforma in un appetitosa salsa per crostini; allo stesso modo i frutti delle produzioni aziendali di kiwi selvatico ed olivello spinoso si combinano alchemicamente in una bevanda ottima al palato, naturalissima ed altamente energetica.



In conclusione, questa è una gastronomia originale, genuina, semplice e per certi versi povera... ma molto apprezzata.



E questo è stato il menù gustato dagli ospiti dell'UNILIT di Cagli:








12 novembre 2009 LAURA MUNCACIU E ALESSANDRO PETROLATI

Gorge Enescu. Permanenza della musica Romena



Il Salone d’Onore del Castello della Porta ha accolto nuovamente la prima lezione itinerante dell’UNILIT di Cagli, ospite dell’ Amministrazione Comunale e della Pro Loco di Frontone. Ed anche questa volta per ascoltare il soprano Laura Muncaciu, accompagnata dal marito, il pianista Alessandro Petrolati. Per parlare di Gorge Enescu e della musica romena. Ma soprattutto per parlare della Romania, che Laura Muncaciu ama al pari di quanto, ormai, ama l’Italia. Lì sono le sue radici, e coglie questa occasione per ringraziare i suoi maestri connazionali dai quali ha avuto modo di apprendere qualcosa. Qualcosa che oggi rappresenta il fondamento della sua cultura. Questa occasione offertale dall’UNILIT di Cagli di ripensare alla sua terra ha risvegliato in lei il forte legame con le sue tradizioni.
Da quando ha iniziato a pensare a questo appuntamento ha scoperto un nuovo sentimento: la fierezza dell’appartenenza alla sua terra di origine. Questo è un fatto straordinario.
Poi la cantante ha parlato di Gorge Enescu e della musica romena, fortemente permeata di tradizione e di folklore. E dell’origine dacia della tradizione romena, che si coglie anche nella musica e nel lessico della doina, il canto tradizionale romeno.



Nel corso della esposizione, oltre a motivi popolari e folkloristici della tradizione romena, sono stati ascoltati brani di Enescu, accompagnati dalla visione di immagini molto suggestive del territorio romeno, una “ballata per violino” di Ciprian Porumbescu, il famoso compositore patriottico rivoluzionario romeno del primo novecento. Si sono potute ascoltare alcune doine, canzoni popolari, interpretata dalla cantante Maria Tanase. Ed ancora una rapsodia romena eseguita da musicisti contemporanei , registrata in occasione del Festival Enescu che si tiene a Bucarest. Poi una rapsodia eseguita da un’orchestra diretta da Sergiu Celibidache, del quale il maestro Petrolati ha ricordato la figura straordinaria ed eccentrica.



E non è mancata la esibizione della protagonista, la bellissima Laura Muncaciu che, vestita con un abito tradizionale romeno, con il capo adorno di una corona floreale, ha eseguito prima una doina, poi un brano dalla ballata per violino di Enescu, un brano di Dinu Lipatti e 5 brani di Enescu tratti da “Sept chansons de Clement Marau”. Infine, per concludere allegramente, un brano dal titolo “Je te veux” di Erik Satie.




Un personaggio eccezionale questa Muncaciu, lo abbiamo già detto, che oltre alla bravura ed alla bellezza possiede anche la sensibilità, la cultura e l’amore per ciò che fa.



9 novembre 2009 - IVANA BALDASSARRI

Cronache pesaresi della “Belle Époque”.

L’espressione “Belle Époque” non può essere tradotta, ma è stata per l’Europa di fine ‘800 e inizi ‘900 un brivido, un’eccitazione, un risveglio, un sogno, una musica, una danza, una maliziosa e improvvisa voglia collettiva di vivere e di godere.
Vienna e Parigi ne furono totalmente travolte per circa 40 anni da alterare perfino le loro strutture urbane e architettoniche con la costruzione di grandi monumenti al progresso e alla delirante consapevolezza di vivere un momento storico esaltante che aveva introdotto l’uso della corrente elettrica, utilizzato grandi strutture in acciaio, che aveva fatto correre treni, solcare i fiumi da battelli a vapore e promosso le ultime novità industriali con la diffusione de “les affliches” che, con la nuova tecnica della cromo-lito-grafia, riempiva i muri delle città con invitanti manifesti pubblicitari suscitatori di affioranti desideri.
La “Belle Époque” fu chiamata così in Francia quando quei 40 eccitanti e spensierati anni stavano per finire: con uno sguardo fra il nostalgico e il progressista gli europei si accorsero che assieme al cabaret, al cancan, alle operette e al cinema, nuove invenzioni avevano reso la vita più facile a molti ceti sociali: la scena culturale prosperava e l’arte elaborava nuove forme con l’Impressionismo e l’Art Nouveau; la borghesia celebrava eccitata i risultati raggiunti in pochi anni di egemonia, con “Esposizioni Universali” in cui si esibivano le ultime strabilianti meraviglie della scienza e della tecnica.
L’informazione sociale cominciò a diffondersi e dilagare come una fiaba meravigliosa attraverso i giornali ma anche diffondendo gli incontri pubblici con gli esploratori, i missionari e gli ufficiali che raccontavano le grandezze e le miserie di mondi lontani, il cui contrasto con l’Occidente inorgogliva gli ascoltatori, confermandoli nella certezza di appartenere a un mondo superiore che nulla avrebbe mai potuto esautorare. I politici confermavano questa diffusa sensazione con miopi e sussiegose previsioni di pace, di prosperità e di progresso; la crescita demografica, l’aumento della produzione industriale, la diffusione della rete ferroviaria, la costruzione di nuovi, enormi e sfarzosi transatlantici, la riduzione della mortalità infantile, sembrò dal loro ragione.
Le guerre, se c’erano, erano lontane e in tutta Europa non si sentiva che il suono dei Valzer di mille orchestrine nei teatri, nei caffè, nei giardini e nelle sale da ballo.
Affrontare la vita con questo spirito significava caratterizzarla in modo spensierato e positivo. Gli abitanti delle città e delle metropoli avevano scoperto il piacere di uscire, anche e soprattutto la sera, dopo cena, grazie anche alla pubblica illuminazione, per andare a chiacchierare nei caffè o assistere a spettacoli teatrali o addirittura a ballare in ritrovi più o meno mondani. Le strade cittadine erano piene di colori e di luci; i manifesti pubblicitari ingigantivano le merci che occhieggiavano nei grandi “Magazzini”.
In tutta Europa si erano sviluppate una serie di correnti artistiche che sostenevano perfino che ogni produzione umana poteva diventare un’espressione artistica: utopia e gioco, creatività e divertimento impressero anche ai settori produttivi una ricchezza e un’euforia di segni propagandistici, vicini alla spettacolarità.
Ogni oggetto e ogni luogo si trasformò in elegante decorazione, in motivo floreale, in linee curve e arabescate.
Sono proprio questi i caratteri che connotarono molte correnti artistiche, assumendo nomi diversi a seconda degli stati in cui fiorirono: Liberty o Floreale in Italia, Art Nouveau in Francia, Modern Style in Inghilterra, Jugendstil in Germania e Sezession in Austria.
Con le linee melodiose e ondeggianti del Liberty si configurano gli splendori del benessere di una nuova società che assapora un’ebbrezza estetica declinata nelle atmosfere abbaglianti di uno stile di vita mondano, inebriato dall’euforia degli acquisti nei grandi magazzini, degli ascolti di musica nei teatri e nei cabaret alla moda, dalle frequentazioni intellettuali nei caffè e nei circoli culturali e dall’entusiasmo di una avventurosa mobilità facilitata dalla rete ferroviaria e dai battelli a vapore che poteva permettere villeggiature sia in località balneari che in stazioni di montagna.
La “Belle Époque” diventa il racconto del mito della modernità pur racchiudendo e sviluppando in sé numerose contraddizioni, dall’assetto della borghesia all’incombente decadenza dell’aristocrazia, dalle rivendicazioni sociali al perdurante conservatorismo, dall’affermazioni divistiche maniacali di grandi attrici di teatro, alla nascita di un femminismo emancipato e aggressivo, che elabora per la donna, il binomio “angelo e demone” metafora dell’immaginario simbolista. Al centro della “Belle Époque” si assesta proprio lei, la donna, che tra vanità e seduzione, tra l’autoreferenzialità del lusso, della fantasia e dell’eleganza e della scarsa attenzione alla sua intelligenza, diventa lo specchio di un tempo nel quale l’obbligo della visibilità e della felicità diventa anche catena e tormento.
Intanto un diffuso “dandismo” controcorrente elogia i paradisi artificiali che facilitano la fuga dalla realtà attraverso un sogno malato e perverso, sollecitato e scandito dall’oppio e dalla morfina.

I toni, i ritmi, i colori, i suoni e i bagliori della “Belle Époque” raggiungono, pur con espressioni meno dirompenti, anche i piccoli centri e le cittadine di provincia come Pesaro.
Nel grigiore della vita rallentata e ripetitiva, retaggio di una civiltà agricola e “sparagnina”, improvvisamente si avverte un vento nuovo.
Non tutti se ne accorgono, ma c’è.
Soffia sulle piccole cose, spira dai comportamenti di molti, influenza la moda, modifica i gusti, accendendo la consapevolezza di aver il diritto di soddisfare alcuni desideri: anche se non sei ricco, puoi andare a teatro, fare i bagni di mare, leggere libri, ballare, prendere il tram a cavalli di “Bucon” fra la Piazza e il Kursaal; ci si può permettere di sostituire ai decori tradizionali delle ceramiche le volute del Liberty, di organizzare nelle case borghesi feste danzanti “con premi e cotillon” e valorizzare, con un diffuso consenso, le arti figurative e la musica.
Pesaro è ancora cinta dalle sue belle mura pentagonali, ma le spinte progressiste vedono, ahimè, proprio in quelle mura roveresche di cotto marchigiano, l’ostacolo all’ampliamento e alla moderniz-zazione della città.
Ma già alla fine del ‘800 anche Pesaro aveva accelerato e sviluppato il progresso di industrializzazione: la Fonderia Frezza-Albani, l’opificio meccanico Briganti, la Fornace “Hoffman” di Gaudenzi, quella degli “Sponza-Serafini”, quella dei Mancini-Ceccolini stavano offrendo una nuova visione della città.
Private emozioni per pubbliche mutazioni aderivano con naturalezza e stupore insieme, a quelle novità del progresso che stavano sostituendo il tedio cristallizzato del vivere con la fiaba ansiosa e scintillante che gli uomini avrebbero poi chiamato “Belle Époque”.
Il 10 Settembre 1882 per iniziativa dei Signori Ottone Hoz e Cesare Sponza, faceva la sua comparsa in città l’illuminazione a Gas in sostituzione di quella a petrolio: il 23 Gennaio 1887 il Teatro Rossini può sfoggiare il primo impianto di illuminazione elettrica - limitato al solo teatro - con la beneaugurante coincidenza della prima rappresentazione a Pesaro de “Il Conte Ory” di Rossini.
La prima installazione di corrente elettrica definitiva al Teatro Rossini avverrà per la Stagione di Carnevale 1901-1902 con 12 rappresentazioni di Boheme e 12 di Rigoletto: i pesaresi impazzirono di felicità affluendo a Teatro in massa ad ogni serata: le signore sfoggiarono abiti eleganti, gioielli e decolté, elettrizzate anche dal fatto che lo sfolgorio delle luci assicurate dalla cittadina “Società Anonima del Gas”, avrebbe offerto loro maggiore visibilità. Nonostante l’entusiasmo della partecipazione, i pesaresi furono molto critici sulla compagnia di canto: solo il Maestro Icilio Nini-Bellucci, direttore d’orchestra riscosse un successo incondizionato, mentre per Mimì il cronista chiosò: di Mimì è meglio tacere!
Nel 1905 per iniziativa della ditta “Liverani” entrava in funzione la prima centrale telefonica con apparecchi a manovella, centrale sistemata in Piazzetta Mamiani; il numero telefonico N° 1 sarà dell’Avv. Ettore Mancini, il 2 della “Casa Penale”, il 3 della “Carceri Giudiziarie”, il 4 della “Maison de Blanc – Mode”, il 5 dell’Istituto Tecnico, il 6 dell’Avv. Angelo Recchi e il 7, l’8 e il 9 del fornaio Roberto Pennacchi che aveva tre rivendite di pane una in via dell’Abbondanza, una per il Corso e l’altra in Via Branca. Il nuovo “status simbol” interessa proprio tutte le categorie. Un’audace cartolina celebra l’evento telefono: una donnina in deshabillé, con ricca gonna di voile, ma a seno nudo, sta telefonando come colta di sorpresa, ma nel posare occhieggia, invitante e consapevole della sua emancipazione.
Ma solo nel 1911 entrerà in funzione a Pesaro il primo tronco del nuovo acquedotto progettato dall’Ing. Ferruccio Briganti a sollevamento meccanico azionato elettricamente, dovrà passare ancora del tempo prima che tutte le abitazioni possano usufruire dell’acqua: per Valeriano, il celebre acquaiolo della città, vero confidente di tutte le casalinghe pesaresi, c’era ancora lavoro e le donne lo avrebbero aspettato ancora, con piacere, sull’uscio di casa per riempire gli orci, ma anche per parlare, come sempre, del più e del meno.
Ma è proprio il centro della città, proprio il suo cuore antico di vecchi e sontuosi palazzi che ospiterà nell’ottobre del 1882, grazie alla volontà testamentaria di Gioachino Rossini, il Liceo Musicale che da lui prenderà il nome.
É una vera scossa culturale che accende orgogli e progetti: il Liceo Rossini dimostra da subito una rilevante vitalità grazie all’alto numero di allievi che affluiscono da ogni parte d’Italia, dalla celebrità dei suoi docenti e dal fervore intelligente e appassionato del suo primo Direttore, quell’infelice Carlo Pedrotti che progetterà e farà costruire il grande auditorium dalla acustica perfetta, annesso a Palazzo Olivieri che ancora porta il suo nome.
Le attività musicali del Liceo Rossini si armonizzano proprio con quella spinta che i cittadini sentono, a partecipare e godere dei concerti, delle esibizioni canore e delle serate cultural-mondane.
L’arrivo a Pesaro nel 1896 di Pietro Mascagni come Direttore del Liceo Rossini non fa che amplificare e vivacizzare entusiasmi e notorietà. Mascagni è giovane, bello, seducentissimo: gli allievi per ragioni musicali e tutte le signore pesaresi si invaghiscono di lui: non bada a spese quando si tratta di promuovere il Liceo e quando passa per la strada tutti lo guardano.
Sa indossare con disinvolta sicurezza sia il frac che “sortù“ corti e coloratissimi (i sortù erano soprabiti di mezza stagione), gilet sgargianti, e camicie aperte; si pettina senza scriminatura e senza brillantina, lasciando liberi i capelli di arricciarsi in larghe onde ribelli; fuma il sigaro e sa fare complimenti galanti alla toscana, fra rispetto e impudenza.
Ma quando è sul podio è un vero trascinatore, tanto che l’orchestra del Liceo Rossini diventa in pochissimo tempo così celebre e qualificata da rappresentare l’Italia musicale perfino in manifestazioni internazionali.

Un’altra moda travolgente, frutto di elaborazione tecnica, è il cinematografo che diventa l’evento degli stupori modernisti, il riscatto democratico dai balli aristocratici in case e circoli privati, dagli spettacoli costosi nei teatri, nelle arene e nei locali notturni: tutti al cinema a vedere, una, due e anche tre volte di seguito quelle immagini, pur mute e traballanti, che riproducono avventure, amori e drammi.
Il cinema diventa una vera mania!
Il primo cinematografo pesarese si chiamò “IDEAL”, fu aperto dalla Ditta Della Chiara–Sgarzini il 31 Ottobre 1907 che era un giovedì, in un locale di Via Barignani angolo Corso XI Sett. Il cinema rimaneva aperto tutti i giorni dalle 17,30 alle 22: la domenica e i giorni festivi gli spettacoli venivano proiettati anche il mattino dalle 10,30 alle 12.
Anche al Teatro Rossini, seguendo l’entusiastica moda del “cine”, si eseguono proiezioni: sono le famosissime “serate osé” che hanno poco di artistico, ma che riflettono quel brivido di eccitata trasgressione che insieme ai valzer, ai cappelli di paglietta, alle grandi Kenzie negli androni delle case aristocratiche e degli alberghi, la “Belle Époque” aveva portato anche da noi.
Si chiamavano “Serate nere” durante le quali il “Real Cinematografo “Volta” del Cav. Majeroni” proiettava una serie di “quadri piccanti” per soli uomini, provocando, assieme ai deliri trasgressivi dei pesaresi, i risentiti commenti della stampa cattolica locale, che vedeva in quei “pienoni indecenti” del pubblico maschile una “selvaggia gazzarra di gente da bordello”!
É anche l’idea progressista del cinematografo a rendere ancora più interessanti queste proiezioni, che univano il progresso tecnologico alla vecchia consolidatissima licenziosità maschile.

Ma il vero riverbero artistico, culturale e sociale della “Belle Époque”, Pesaro lo identificò in un personaggio straordinario che continua a emanare il suo fascino di intelligenza e creatività anche oggi a più di cent’anni di distanza: il suo nome è Oreste Ruggeri, il re dei glomeruli, l’ideatore della “reclame” di moderna concezione, il mecenate e l’ispiratore per l’indirizzo artistico delle sue botteghe di ceramiche, l’editore progressista dei suoi numerosi giornali, colui che avrebbe influenzato con inventiva inesauribile e avanguardistica, tutti i settori delle arti applicate e che promosse quel progetto “futurista” di città balneare e turistica attraverso la costruzione di sette villini (uno per ognuno dei suoi sei figli e uno per sua moglie Olga) a ridosso di una spiaggia ancora selvaggia e poco accogliente.
Oreste Ruggeri aveva intuito che nonostante Pesaro fosse una città sonnolenta, conservatrice e tradizionalista si sarebbe potuta risvegliare con la scossa inarrestabile di una tripla azione: quella della produttività, dell’arte e della ricchezza.
Oreste Ruggeri torna da Parigi, dove era stato nel 1896 a respirare aria di “Belle Époque”, con i disegni liberty di alcune costruzioni della Esposizione Universale e col triciclo a motore De Dion Buton col quale gira per la città suscitando nei cittadini morbose curiosità: “Chel matt del Sor Orest” dicono i pesaresi fra ironia e compiacimento.
Dalla via Sabbatini dove Ruggeri ha installato nel palazzo appartenuto ai Conti della Torre il suo laboratorio farmaceutico che sforna “glomeruli” miracolosi per tutto il mondo, “el Sor Orest” col suo triciclo motorizzato, fra gioco ed esibizionismo, va in piazza, si ferma al Gambrinus, il Caffè alla moda nel gran loggiato del Palazzo Ducale, chiacchiera con tutti, poi si dirige verso quell’unico grande viale che, dopo la cinta muraria, porta al mare, dove lui ha deciso di costruire le sue ville compreso quel suo Villino di fiaba di gusto Liberty che, come scrisse Zampetti sarà “una sfida o meglio una testimonianza ai suoi concittadini di come si dovesse agire per vivere in piena adesione alla civiltà del proprio tempo”.


“Tram de Bucon” di Vildi
Forse “el Sor Orest” superava col suo scoppiettante “De Dion Buton” il tram a cavalli di “Bucon“ con le tendine al vento, unico mezzo cittadino che affrontasse lo scomodo viaggio, per arrivare, dopo una vasta distesa di orti, attraverso il dritto viale alberato chiamato “Via dei bagni”, sul selvaggio arenile diviso in due settori, quello maschile a levante e quello femminile a ponente.
La fantasia e l’entusiastico consenso alle idee progressiste che si illudevano di rendere possibili tutti i sogni di bellezza e di ricchezza, fecero di Oreste Ruggeri il personaggio chiave perché Pesaro riflettesse più di altre piccole città adriatiche i bagliori della “Belle Époque”.

ceramica Liberty

Anche l’arte, e in particolare la ceramica, ebbe per suo merito un’impennata di novità e di diffusione: alle raffaellesche e agli istoriati tradizionali si affiancano, con il brivido della novità, che è come dice Musil “febbre vivificante”, le ceramiche di Stile Liberty, che trovano i loro poli generatori nelle linee sinusoidali, nei colori inconsueti e variamente cangianti e nel fitomorfismo che, nel dettaglio e nella astrazione naturalistica, risveglia magie, emozioni e fantasticherie erotiche.
Gli oggetti ceramici di nuova produzione trovano proprio nel cromatismo sontuoso, nello slancio e nel movimento curvilineo dell’ornato il trionfo della nuova fase stilistica che aderisce alla modernità, trasmette palpiti e slanci d’eccitazione, affermando quell’iconografia Liberty che era la metafora stessa della “Belle Époque”.
Oreste Ruggeri è un accentratore, ma ha anche l’intelligenza di scegliere collaboratori di straordinaria capacità: il suo collaboratore più illuminato e fantasioso sarà un urbinate come lui, Giuseppe Brega, disegnatore stellare di virtuosistica capacità e


Villino Ruggeri

geniale sensibilità, che saprà configurare proprio nel “Villino” con gradevole e melodiosa fantasia i festoni floreali, i rampicanti flessuosi, le grosse aragoste, le ninfee aggettanti, le volute asimmetriche e li saprà coniugare con materiali di assoluta novità come il “cemento alluminoso idraulico” usato per la prima volta in un edificio italiano proprio a Pesaro.


particolare del Villino
L’uso del cemento armato nella decorazione è un fatto straordinario e qualificante che ha permesso ai polimorfismi e agli ornamenti esterni di funzione decorativa, di resistere alla particolare aggressività, in prossimità del mare, degli agenti atmosferici.
Scrissero anche “che Brega fosse il consulente tecnico, l’ingegnere delegato all’impostazione statica e Ruggeri il disegnatore e l’ideatore della decorazione”, non era vero, ma era la prova che i due lavorarono veramente in concerto, tanto che a volte sfugge dove comincia la genialità dell’uno e dove continua quella dell’altro.
Quindi “el Sor Orest” non sarà solo il ricco mecenate, lo spregiudicato industriale, ma sarà l’ispiratore e l’esecutore di un indirizzo artistico, l’intelligente e fantasioso apripista di una strada nuova e quasi scandalosa nell’aria stagnante che caratterizza la vita sociale e artistica della provincia. Con Giuseppe Brega che ne disegnerà veramente ogni particolare, ogni struttura, ogni ornamento nasce così a Pesaro il “Villino Ruggeri” che ancora oggi, dopo più di 100 anni connota, con un tocco di raffinata originalità, un protagonismo cittadino fra magia ed esotismo.
Nel mese di maggio del 1902 furono gettate le fondamenta del Villino: quasi ammiccando furbescamente, “el Sor Orest” fa gettare dalla sua bella moglie Olga, nello scavo delle fondamenta una scatola di glomeruli, certo che le sue pillole avrebbero potuto determinare anche la “miracolosa” fioritura di altre ville attorno al suo “Villino Liberty”. Sembra che la cosa abbia funzionato, perfino troppo se è vero, come è vero, che oggi la zona mare soffre di sovraffollamento edilizio, purtroppo non più in stile Liberty.
Anche la bellezza di sua moglie Olga, che quando andava a teatro era addobbata come una vera regina, migliaia di perle comprese, anche i suoi sei figli dai nomi mitici e altisonanti - Osiride, Elio, Trittolemo, Anteo Iolinda, Iside – e ora anche il suo Villino Liberty saranno i “testimonial” delle sue mille fortunate imprese. La sua vita e quella di tutta la sua famiglia diventeranno una quotidiana campagna pubblicitaria di cui lui stesso si servirà, con sorridente avanguardistica spregiudicatezza.
Da questo concetto di “reclame” che è una delle cifre che caratterizzano la novella comunicazione, prende vigore, sospinta dalla lucidità, dall’inesauribile curiosità e dall’entusiasmo che animano Oreste Ruggeri, anche la sua grafica pubblicitaria - che nasce nelle tipografie pesaresi di Gualtiero Federici - con la quale Ruggeri riempirà le stazioni, le linee ferroviarie, i punti nevralgici dei più importanti snodi stradali sia in Italia che all’estero.

Grafica di Ruggeri

Ovunque fioriscono le immagini dei suoi “Glomeruli” antianemia, accarezzati e ammorbiditi da caratteri liberty asimmetricamente bombati, che suggeriscono sottili richiami sensuali per maliziose e segrete immaginazioni, stimolate da visi e corpi femminili belli e fiorenti.

Oreste Ruggeri sente che l’illustrazione rappresentativa può diventare il gioioso tapis-roulant sul quale far scorrere i suoi progetti, i suoi miracoli e i suoi prodotti e che il convincimento collettivo sarebbe stato più vero e più sentito se ogni oggetto e ogni luogo, scelto per la promozione, fossero diventati un’elegante decorazione, un dolce motivo floreale, una gradevole curva arabescata: così sarebbe stato più facile credere al poter magico dei glomeruli, all’espansione economica, al trionfo della pace, al piacere nella musica, dei viaggi, dell’eleganza e alla speranza di poter raggiungere la ricchezza.

Sono proprio questi i motivi della Belle Époque che si riverberano anche fra il San Bartolo e l’Ardizio creando una breve e fuggitiva illusione di felicità.
É fatale che Oreste Ruggeri e Pietro Mascagni si attraggano: sono quasi coetanei: Ruggeri è del 1857 e Mascagni del 1863: sono ambedue estroversi e avventurosi e diventeranno amici. Spesso Ruggeri invita il Maestro a cena tanto che farà modellare proprio per queste occasioni un servizio di piatti che ricordi i loro incontri conviviali. Mascagni si trova bene con lui, parlano con entusiasmo di tutto perché i loro discorsi vibrano di successi, di applausi, di progetti che non riguardano solo le loro persone, ma coinvolgono giovani artisti, ambienti speciali come il Liceo e le botteghe ceramiche e i luoghi della città:
“Ruggeri, io e te abbiamo fatto conoscere Pesaro in Italia e nel mondo” dice Mascagni col suo vibrante accento toscano al suo ospite che ride sotto i baffi dandogli ragione senza tanti falsi ritegni.



Ingresso Rossini illuminato di Vildi

La musica possiede più che mai in questo periodo elettrizzato e elettrizzante un grande potere di comunicazione culturale e sa favorire la capacità di una sociale frequentazione e i pesaresi si ritrovano con orgoglio agli entusiasmanti concerti sinfonici eseguiti dai docenti e dagli allievi del Liceo sotto la guida del loro travolgente direttore che proponeva programmi insoliti e ancora sconosciuti con musiche di Beethoven e Wagner, alle opere liriche allestite in Teatro e alla Arena al Lido e, d’estate tutti, ricchi e poveri,


nella piattaforma a mare a godere delle orchestrine che, a ritmo di valzer e di “boston”, proponevano ballabili di gran voga.
Le signore pesaresi, ancora obbedienti ai concetti sparagnini legati alla civiltà contadina che condizionavano anche i padroni, hanno un gran da fare per “rimodernare” e “rinfrescare” abiti e cappellini, con balze ricamate a punto inglese, con i pizzi valencienne, con fiocchi, penne di struzzo, drappeggi e ruches d’ogni genere, perché oltre alle opere, alle operette e ai concerti ci sono anche i Veglioni a Teatro, le feste in casa o nei giardini e quelle passeggiate nella zona mare, fino alla Piattaforma dove si può ballare fino a notte.


Interno Teatro Rossini Feste di Carnevale di Vildi
Una festa da ballo che fece scalpore fu quella organizzata dalla “Società Operaia Femminile di Mutuo Soccorso” a mezza quaresima del 1904 al Teatro Rossini; per l’occasione fu stampata anche una bella cartolina d’invito con caratteri Liberty e la pubblicità del veglione che suscitò un vero scandalo: essendo organizzato da donne e in più durante il periodo di quaresima, tutti si indignarono perché, come scrisse l’Idea, furono proprio loro, le donne ad elettrizzare la festa con la loro allegria e le loro “sguaiataggini da vere “cocottes e demi-mondaines da città alta e bassa”, tanto che ad un certo momento la festa sembrò “un’orgia, un baccanale” anche se nessuna di loro sapeva ballare il can-can.
Un’altra festa da ballo un po’ straordinaria fu quella a chiusura del Carnevale 1908 al Teatro Rossini. Fu un veglionissimo a tema, dedicato a “Pesaro nel 2000”: un’ampia e bellissima scalea di villa seicentesca – una creazione scenografica di Castaldo-Brega-Ceccarelli – riuniva il parterre al palcoscenico “ottimamente illuminato da 4 grandi lampade elettriche” dove erano rappresentati i Palazzi della Prefettura e delle Poste e il monumento a Mamiani a cui era cresciuta scherzosamente ancora di più la testa. Tutto intorno vivacissime e coloratissime mascherate, quella dei Marziani organizzata dall’astro nascente della ceramica Ferruccio Mengaroni, quella degli aviatori che andavano sulla Luna e quella dei “Cinesi”, il così detto “pericolo giallo”.
Per le feste in casa e per i relativi addobbi che questi avvenimenti domestici prevedevano, venivano chiamati pittori e maestri di disegno: il più gettonato è senz’altro Luciano Castaldini – per il quale gli studiosi locali dovranno pur un giorno o l’altro prestare la loro ondivaga attenzione -.
Castaldini è un raffinato pittore e acquarellista bolognese, che crede con tutta la sua illuministica cultura, nella missione didattica dell’arte. Organizza corsi serali di disegno per gli operai in Via Giordano Bruno – ma si sa che poi questi corsi saranno frequentati con grande interesse e passione anche dai nostri grandi Francesco Carnevali, Fernando Mariotti, Alessandro Gallucci insieme ad Alberto De Cecco, Nando Bertuccioli, Enrico Coli, e un dimenticato Frulla, forse il più grande artista pesarese del ferro battuto - ; Luciano Castaldini, che poi diventerà direttore della Scuola d’arte e che ricoprirà anche la carica di Conservatore dei Musei, è un garbatissimo pittore da cavalletto, disponibile e generoso decoratore di scene per feste borghesi, insegnante di disegno per signorine di buona famiglia e autore di splendidi manifesti per la promozione delle stagioni balneari pesaresi.
Francesco Carnevali che lo ricorda in una testimonianza pubblicata su gli “Studia Oliveriana” del 1991, dice che Castaldini “si mosse fra tardo romanticismo, istanze impressionistiche e riflessi dell’Art Nouveau”: fu una figura amabile, un gioviale signore presente nel costume della città e sempre accolto con grande rispetto, ammirazione e gratitudine.
Manifesto Stagione Balneare
Nel luglio del 1983 il Comune di Pesaro organizza a Villa Ugolini una mostra dal titolo “Stagione balneare 1900 – 1920”: insieme a foto di struggente nostalgia urbana e cittadina, a figurini di moda femminile, a bandi pubblici con disposizioni relative ai bagni di mare, vengono esposti 11 splendidi manifesti di alcune stagioni balneari dal 1903 al 1919. Sono proprio come le “affiches” francesi metafore di una “allure” parigina coniugata con i fermenti artistici, pre-turistici e paesaggistici di una piccola città adriatica invaghita di se stessa.
La promozione ingenua e insieme declamatoria promette alla “colonia bagnante”, a grandi caratteri liberty su manifesti coloratissimi, “Concerti e saggi al Liceo Rossini”, “Corse al trotto nel nuovo ippodromo”, “il Nuovo Teatro al Lido”, “Concorsi ginnici”, “Gare di nuoto”, “Feste da Ballo allo Stabilimento Balneario” e nel 1905 “Grandi Festeggiamenti e Onoranze a G. Mazzini” nel primo centenario della sua nascita. Sembra proprio che il manifesto del 1905


Manifesto 1905 con la moglie di Brega

sia stato disegnato da Giuseppe Brega e che la donnina gentile con cappellino fiorito e ombrellino, che promette bellezza e sorrisi sia proprio sua moglie.
Foto Manifesto 1907 Donnina con paglietta
Ma il più bel manifesto, fra quelli esposti nel 1983, è senz’altro quello della stagione 1907 firmato proprio da Luciano Castaldini, che con la grazia e la perizia rappresentativa che lo connotavano, ferma l’attimo di silenziosa e intima struggenza di una figurina femminile vista di spalle, vestita di una tessuto leggero e frusciante, appena appoggiata alla balaustra della rotonda sul mare dietro il Kursaal.
Piattaforma di Vildi

É notte, fuori scena certo una musica suona e la luna traccia, sull’acqua scura, un lungo tremulo riflesso di luce: sei lanterne giapponesi – altro segno distintivo di esotici arredi ornamentali della “Belle Époque” – appena mosse dal vento, scandiscono il nome di Pesaro contro un paesaggio lontano, dove si immagina il San Bartolo e la città. Il brivido di tenero romanticismo si attenua di fronte a tutto quel mare che gioca col vento, con la luna e con quella paglietta bianca sul capo di lei, tocco giovanile e casual di garbatissimo femminismo
Altro manifesto balneare, questo molto celebre, perché assurto a logo dell’Azienda Autonoma di Soggiorno di Pesaro, è il manifesto del 1910 firmato R. Franzoni: bella e maliziosa la scenetta, vivacissimi i colori, interessante fra le promozioni turistiche, la prima di “Aura” del Maestro Amilcare Zannella, nuovo direttore del Liceo Rossini.
Manifesto 1910 con bambini

Ma lo spettacolo teatral-musicale che connota la “Belle Époque” è senz’altro l’operetta, riflesso di quel roseo e lieve e ottimistico modello di vita europeo che ballava col valzer e col cancan, che impazziva per le prime goffe automobili ma che usava ancora le ultime splendide carrozze, che esaltava lo charme degli ufficialetti che tenevano a bada col piega baffi le appendici pelose e vibranti del loro viso e che spasimava per principi e nobili russi in incognito, rappresentanti di leggendarie ricchezze e affascinanti trasgressioni.
“La vedova allegra”, capolavoro di Lehar, diventa la metafora di un sogno e il simbolo di un genere teatrale leggero, orecchiabile, smemorante. A Pesaro, il sipario del Rossini si alzerà per la prima volta su “La vedova allegra” il 7 Luglio 1909 e sarà un successo travolgente.
Lo spettacolo, allestito dalla “Compagnia Pietro Lombardi & C.” e diretto da Augusto Angelini, un complesso che poteva essere annoverato fra quelli che avevano “aristocratizzato il genere dell’operetta”, colpì per l’eleganza scenica e recitativa, ebbe ottimi interpreti, ottima direzione orchestrale e prolungatissimi entusiastici applausi.
La ressa al botteghino fu tale che furono venduti perfino i posti destinati ai giornalisti che si videro costretti ad assistere allo spettacolo rimanendo in piedi! Al ritmo del valzer viennese l’amore della vedova Glavari e del Conte Danilo trionfò anche a Pesaro: le signore e le signorine presenti, al limite del cardiopalmo, avevano finalmente di che sognare!

In un bradisismo di ricordi e di nostalgie, a distanza di più di mezzo secolo da questi avvenimenti, il pittore pesarese Achille Vildi, detto “Chilen” ripensando con struggenza a quel periodo ormai lontano, ne fa una storia dipinta, che si snoda in 27 quadri presentati a Pesaro, nella sala del Comune nel Dicembre del 1969 col titolo di “Vecchia Pesaro”: è la nostra piccola, dolcissima, minimale rappresentazione di “Belle Époque” con lo sfolgorio di tutte le luci all’ingresso del Teatro Rossini per le feste di Carnevale,
le gite da Muraglia alla marina col “Tram de Bucon”,

Caffè Gambrinus Vildi

è la Piazza Vittorio Emanuele con il Caffè Gambrinus dove si fermavano i signori con cappello e monocolo,


Saltimbanchi Vildi

è il “Viale dei Bagni” con i saltimbanchi, è la democratica piattaforma con la pista da ballo,

Villino Ruggeri di Vildi

è il Villino Ruggeri visto come in sogno; è la città prima della demolizione delle belle mura roveresche dove si giocava a palla al bracciale, è la città dei “personaggi”, delle curiosità e dei giochi infantili, ricordata da un bambino povero, irrequieto e curioso che aveva il dono della fantasia e della creatività.
Non si sa se i quadri di Vildi raccontino un miraggio o la realtà di un passato felice, certo è che nei primi anni del ‘900 anche Pesaro vive l’ebbrezza di avvenimenti nazionali: il passaggio del 1° Giro d’Italia in bicicletta, lo stupore misto a cosmico timore per il passaggio della cometa di Halley, l’atterrare del monoplano Bleriot di Gianni Widmer nella spiaggia di levante, le onoranze funebri per l’esploratore Antonio Cecchi morto a Zanzibar, fino all’arrivo casuale di un festeggiatissimo Guglielmo Marconi che si interessò anche del nostro porto e della stazione degli idrovolanti in corso di allestimento.

Un avvenimento che fece veramente scandalo e che a suo modo segna una mutazione di “stile”, fu quella “Accademia Futurista” del 16 Maggio 1911 al Teatro Rossini: in un clima arroventato Filippo Tommaso Marinetti, chiamato “la caffeina d’Europa”, dopo aver distribuito gratuitamente il suo libro intitolato “ Matarka il futurista” a diverse personalità cittadine, espose con tutta la sua troupe “Pittorica, scultorica e musicale” il folle programma futurista, declamando poesie demenziali insieme a strampalati e anticonformistici proclami di esaltata eccitazione letteraria. Insieme a Marinetti c’erano Carrà, Balilla Pratella, che era stato allievo di Mascagni al Liceo di Pesaro, Russolo, Boccioni e Savini.
La cronaca pesarese, naturalmente, registra invettive, lanci di pomodori, urla, risate, fischi e insolenze; le stesse che in altre città erano spesso finite con qualche testa rotta e l’intervento della polizia.
Ma proprio quando le ebbrezze di un’epoca spensierata a felice si stavano spegnendo sospinte anche da tragici avvenimenti quali il disastro del Titanic, considerato come il più bel sogno infranto della Belle Époque e l’assassinio di Sarajevo il delitto che armava l’Europa, a Pesaro apparve lei, “Francesca da Rimini” di Riccardo Zandonai e Gabriele D’Annunzio.


Manifesto di “Francesca da Rimini” (Ricordi)

“Inghirlandata di violette m’appariste ieri” canta Paolo Malatesta e tutta la città fu in delirio, come per un amore proibito e a lungo atteso: fu come assaporare il piacere sconvolgente di un dolcissimo e fatale peccato.
Francesca da Polenta, annunciata da un manifesto Ricordi di sconvolgente erotismo, aveva perduto tutti i rigori e le severità mistiche di un Medio Evo di maniera, si era inghirlandata di violette proprio come una creatura Liberty, in un giardino carico di rami e di foglie di cangianza polimorfica, in un letto gonfio di rasi e di sete policrome, mentre suo cognato, Paolo il Bello, rapito, le leggeva una storia d’amore!
Una rosa rossa donata in silenzio attraverso una cancello chiuso e l’assolo di lacerante dolcezza della viola pomposa prefigurano già da subito passioni e tragedie!
Il successo tributato al Maestro Riccardo Zandonai in quella prima pesarese del 30 Luglio 1914 fu superiore ad ogni previsione! I pesaresi, all’uscita dal Teatro Rossini, ed erano già le una e trenta di notte, gli staccarono i cavalli dalla carrozza e lo portarono in trionfo per le strade della città come a Parigi facevano con le ballerine del “Moulin Rouge”.
Da quella sera nelle nostre case l’opera di Zandonai vive e palpita di una vita intensa e febbrile: tutti la cantano, c’è chi la suona al pianoforte, chi perfino al mandolino; tutti l’imparano a memoria rinnovando estasi e deliri appassionati.
Irresistibile Francesca! Indimenticabile amore!

É proprio con “Francesca da Rimini” di Zandonai che a Pesaro svapora quello stravagante esaltante capriccio chiamato “Belle Époque”: poi la 1° Guerra Mondiale, la 2° Guerra mondiale, smantellata la piattaforma, demoliti proditoriamente il Kursaal e molti villini, i glomeruli non esistono più, la pubblicità diventa invasiva, arrogante, volgare, dimenticati i cappelli di paglietta, i monocoli, la seta pura, le perle vere, passate di moda le Kenzie, i locali da ballo si chiamano discoteche, le comunicazioni telefoniche si chiamano “SMS”, le ceramiche liberty sono solo al Museo, i viali della “città giardino” sono un garage a cielo aperto:

particolare dal Villino di Vildi

di quel sorprendente breve elettrizzante periodo è rimasto solo il “Villino Ruggeri” miracolosamente salvato dalla furia iconoclasta di irriverenti e avidi costruttori: per fortuna lo possiamo ancora “toccare”, altrimenti penseremmo che sia stato tutto solo un sogno.
IVANA BALDASSARRI