Inaugurazione dell'anno accademico 2015-2016

La lectio magistralis della Prof.ssa Anna Falcioni, docente di Storia Medievale presso l'Università degli Studi "Carlo Bo" di Urbino, su I conti e i duchi di Urbino. Le lettere inedite dell’Archivio della Cattedrale di Cagli” ha avuto anche quest'anno come cornice lo splendido Salone degli Stemmi del Palazzo Comunale di Cagli. L'argomento ricco di riferimenti documentali e di contenuti storici è stato trattato dalla relatrice con estrema sinteticità e chiarezza destando vivo interesse da parte del numeroso pubblico presente.
La lezione è stata preceduta dalla cerimonia inaugurale dell'anno accademico alla presenza del Sindaco di Cagli Alberto Alessandri, del Magnifico Rettore dell'Università degli Studi di Urbino Vilberto Stocchi e del Presidente Provinciale UNILIT Sergio Pretelli, sotto il coordinamento del Prof. Valentino Ambrosini, responsabile per la sede UNILIT di Cagli.
Al termine della cerimonia è stata presentata l'opera grafica ispirata al Giubileo che il Maestro Carlo Migani ha realizzato per l'UNILIT di Cagli.

Segue una carrellata di immagini dell'evento realizzate dal fotografo Luigi Gazzetta.














Accenti di scuola giottesca e senese nelle pitture di Cagli

di Tersicore Paioncini

1
INTRODUZIONE
Giotto (1267 -1337): novità rivoluzionaria rispetto all’arte bizantina.

Nella pittura italiana del Duecento prima di Giotto dominava ancora l’influenza bizantina, solo nella seconda metà del secolo si avvertirono i primi segni di un rinnovamento stilistico.
Le figure, solenni ed immobili, erano spesso di oggetto sacro ed erano inserite in un contesto di vita terrena.1
Francescani e Domenicani concorsero a dare un volto nuovo alla Chiesa ed ebbero una grande influenza sia nel campo intellettuale che in quello spirituale, contribuendo allo sviluppo di una devozione più vicina al popolo, onde partecipare più intensamente all’atto della preghiera.
Porre l’accento su quest’ultimo aspetto significa voler portare l’immagine ad una dimensione più umana. La Predicazione francescana determinò quindi nella pittura un mutamento radicale nei modi e nelle formule dell’iconografia sacra.
Nelle croci dipinte al Cristus Triumphans si sostituì il Cristus Patiens, non più regale e distaccato, ma doloroso e provato.
Con Cenno di Pepo, detto Cimabue (nato verso il 1240) si compie un passo decisivo verso la realizzazione di un linguaggio pittorico propriamente occidentale.


Cimabue, Madonna in trono (1280 circa).
Tempera su tavola. Parigi, Museo del Louvre

Le sue figure, ancora rigide, con il corpo senza peso e tridimensionalità, sono apparentemente lontane dalla realtà, ma i corpi incominciano ad avere un accenno di rilievo plastico ed una certa profondità dello spazio, accentuando i caratteri volumetrici con le forme ad esedra del trono e dalla disposizione circolare degli angeli.
Nonostante questo il fondo oro con il suo splendore e la sua preziosità simboleggiava uno spazio divino ed irreale.
Ciamabue era stato il maestro di Giotto da Bondone, ma Giotto diverrà il suo antagonista e lo supererà. Credette Cimabue nella pittura /tener lo campo e ora ha Giotto il grido /sì che la fama di colui oscura. Così dice Dante Alighieri nell’ XI canto del Purgatorio riconoscendo la novità dell’arte giottesca.
Verso la fine del Duecento Giotto è a capo di un rinnovamento che ricorda gli inizi della letteratura italiana con il Cantico delle Creature e predomina di passo l’esperienza giottesca e il movimento francescano; egli porta a compimento il lungo processo di rinnovamento della pittura italiana stabilendo una modernità formidabile e, - come disse di lui il letterato Cellino Cellini nel suo Trattato d’arte in volgare alla fine del Trecento- avrà il merito di trasformare il linguaggio greco (i modelli bizantini) in latino, cioè in un linguaggio moderno che si riallaccia direttamente alla classicità del mondo occidentale e si propone di esprimere i contenuti della cultura contemporanea, aprendo un nuovo capitolo nell’arte.
Giotto è il primo pittore che rappresenta la realtà come si vede. Nelle pitture ad affresco della Basilica Superiore ad Assisi c’è la natura con gli arredi che non sono simbolici, ma reali: ci sono le rocce, gli alberi, c’è il racconto con le figure che stanno entro certi e misurabili spazi architettonici ed ognuna di esse ha una dinamica che corrisponde ai tempi delle azioni e delle esperienze quotidiane.
Giotto ha dunque scoperto la fisicità ed il realismo. Lo stesso San Francesco è presentato come una figura reale, calato all’interno della realtà che si muove ed agisce in uno spazio verosimile, profondo e concreto; non è presentato come il Poverello di Assisi avvolto in un alone leggendario, ma come uomo le cui azioni sono fatti storici che rivelano la volontà divina e possono essere un esempio di dignità morale per tutti quelli che si avvicinano agli affreschi.
Tutti i corpi per Giotto hanno concretezza, le forme piatte si mutano in mosse articolate, dove nella plasticità predomina il senso dello spazio reale. La corposità è data attraverso la luce e le ombre che creano il chiaroscuro.
Le figure danno dunque profondità e rilievo, ma anche immagine ed espressione al sentimento con una volontà di caratterizzazione umana e drammaticità dei personaggi che soffrono o gioiscono con la naturalezza vivace ed espressiva di una eloquente gestualità.


Giotto. Compianto del Cristo morto. (1303-1305) affresco.
Padova. Cappella degli Scrovegni

Ecco che l’ arte è messa più vicina al cuore dell’uomo.2
Una testimonianza fondamentale della immediata fortuna di Giotto è la serrata sequenza di incarichi importantissimi affidatigli da committenze di primo piano da Nord a Sud dell’Italia, così da meritare un ruolo preminente per la diffusione della nuova concezione figurativa.
Papa Nicolò III e Papa Nicolò IV (primo papa francescano) lo impegnarono tra il 1285-1290 a far decorare il ciclo delle Storie di San Francesco nella Basilica di Assisi, quella che era considerata una delle chiese più importanti della cristianità.
In questa opera Giotto, già pienamente sicuro e padrone dei nuovi mezzi, pone le basi di quello che diventerà il modello ed il punto di riferimento per la pittura del Trecento; per questo la sua è un’operazione rivoluzionaria.
Questo approfondimento della ricerca dei valori spaziali e plastici segnerà la maturazione del linguaggio giottesco da Assisi a Padova dove Giotto segnerà la successiva e ben più evidente tappa della sua ricerca.
Grande maestro di concretezza e di realismo, Giotto è divenuto il modello, seppure ancora in modo empirico di quei pittori rinascimentali che come Masaccio, cercheranno di avvicinare le immagini dipinte alla realtà delle cose, secondo le regole della Prospettiva sperimentale fissata da artisti qualificati quali F. Brunelleschi e Leon Battista Alberti nei primi anni del 1400.

La Vergine in Trono, in Maestà, aveva una figura frontale, il manto sul capo aveva la forma di rigida calotta e scendeva compatto sulle spalle, il viso aveva come caratteristiche fisionomiche gli occhi oblunghi ed il naso aquilino. Gesù Bambino in braccio alla Madre, anch’egli perfettamente frontale, compiva con regalità il gesto della benedizione ai fedeli, secondo la tipica iconografia dell’infante con fisionomia da adulto: era un piccolo uomo in miniatura.
Le figure dei Santi mantennero a lungo la presentazione schematica frontale, tipicamente bizantina di immagine (ICONA).
A questo proposito è da tener presente il Compianto del Cristo Morto nella Cappella degli Scrovegni a Padova dove si vede bene sottolineata la drammaticità del volto piangente del giovane apostolo Giovanni che sembra voler collegare la disperazione degli angeli sullo sfondo del cielo azzurro, che ne acuiscono la drammaticità, con la partecipazione all’evento. Un altro esempio è lo sguardo eccezionalmente intenso di Cristo nel Bacio di Giuda: è un concentrato di dolore e di accusa.

I pittori giotteschi e le botteghe

Giotto fu capofila di una serie di pittori, alcuni suoi collaboratori e contemporanei, altri appartenenti a generazioni successive che contribuirono a rendere grande il Trecento Italiano.
Questi artisti hanno guardato sicuramente alle ricerche e ai risultati ottenuti da Giotto, ma furono anche in grado di operare revisioni personali ed autonome secondo il proprio temperamento, per esprimere contenuti diversi a volte in forme esplicitamente gotiche.3
In Firenze agli inizi del Trecento il nuovo linguaggio di Giotto si era imposto come un modello di prestigio sociale giacchè il lavoro aveva un carattere collettivo e la scuola diventava dominante nella città, tanto da non lasciare spazio ad alcuna alternativa: vigeva una specie di monopolio.
Più tardi è scoppiata la crisi con il fallimento dei grandi banchieri fiorentini in coincidenza con la peste del 1348 che causò diversi morti e la città fu travagliata da violente lotte sociali.
Tutto questo era poco favorevole allo sviluppo di nuovi fermenti culturali e di innovazioni, poche erano le committenze. Nonostante questo ci si rivolge all’artista
famoso (la firma serve a garantire la qualità del prodotto) quindi ai seguaci o allievi o agli imitatori di Giotto per conto della ricca borghesia.
Tra questi ricordiamo Taddeo Gaddi che fu il primo e il più diretto allievo e collaboratore di Giotto; si distinse come collaboratore sensibile ed efficace, ma non era portato al tono monumentale del suo Maestro. Le sue figure sono un po’ allungate e le architetture sono arricchite da numerosi particolari.
Maso di Banco è indicato anche lui come l’allievo ed il collaboratore più fedele di Giotto. Nelle sue opere introduce una meravigliosa sottigliezza coloristica con piani di colore molto luminoso, dando alle figure un’ ambientazione sospesa e magica.

La bottega giottesca a Firenze, descritta da C. Cennini, era come una maestranza artigiana, una imprenditoria, diremmo noi, in grado di assumere incarichi per i più svariati lavori: “lavori di vetro e mosaico miniare e metter d’oro in carta, lavorare in seta e in tela……..”.

La scuola riminese:
caratteristiche e riflessi nelle Marche

La diffusione del linguaggio giottesco è determinata innanzitutto dai frequenti spostamenti di Giotto nei luoghi in cui lavorò per periodi più o meno lunghi, lasciando sue opere ed impiantando botteghe.
In queste tappe si possono verificare gli esiti degli stimoli forniti dalla sua attività e dalle singole situazioni locali che non hanno creato dipendenza completa alla sua opera, ma hanno creato, come diremo per la scuola riminese, aspetti autonomi nella loro elaborazione, anche perché sono da mettere in relazione con le diverse fasi della maturazione del suo linguaggio.
E’ il momento di considerare che In Umbria i riflessi delle prime attività di Giotto, compresi quelli dell’opera dei seguaci, si trovano in Assisi e nelle vicinanze: nelle Marche in genere, ci sono due punti fermi di questa cultura; Fabriano e Rimini.
Nel nostro caso, lungo l’Appennino umbro marchigiano, nascono quindi riflessi provenienti da Assisi, ma anche dalla vicina Rimini dove è testimoniata la presenza di Giotto stesso all’apertura del Trecento.
Tutto questo creò i presupposti per lo sviluppo di una scuola pittorica giottesca di grande interesse, ricca di personalità e vitale per tutta la prima metà del secolo: la Scuola riminese. Infatti agli inizi del Trecento (1300-03) Giotto fu chiamato a Rimini dove dipinse il Crocifisso per il Tempio Malatestiano.
Il Cristo rappresentato su tavola è animato da una tensione scattante della muscolatura e dal disegno tracciato nella carne dalla cassa toracica. Anche gli effetti di trasparenza sono evidenti nel perizoma cesellato e una luminosità soffusa avvolge il suo corpo, con caratteri decisamente umani.
L’opera costituisce una preziosa testimonianza dell’attività riminese del pittore che in seguito eseguì per la locale chiesa di San Francesco intorno al 1313 anche un ciclo di affreschi andati perduti nel 1450 durante la costruzione del Tempio Malatestiano.
La presenza del pittore fiorentino incise profondamente nella tradizione pittorica locale intrisa di cultura bizantina e dette impulso allo sviluppo di una scuola di pittori e miniatori fiorentissima nel corso del Trecento.
La scuola riminese era formata da artisti che avevano creato delle botteghe anche itineranti e da personalità che spesso erano legate da vincoli di parentela lasciando prodotti di rilievo nelle Marche e nell’Italia centrale.
A Giotto, come al più grande dei maestri moderni, tutti i pittori della scuola riminese hanno guardato con interesse, ma sviluppando il loro linguaggio soprattutto in senso pittorico: c’è infatti nei loro lavori un accordo insolito tra le forme di Giotto e l’accoglienza delle suggestioni cromatiche derivanti dalla tradizione bizantina dei mosaici di Ravenna (Federico Zeri).
Il loro punto di forza è il colore, a volte tenero e dolcissimo, a volte smagliante e carico, grazie al quale essi compongono scene bellissime e di grande espressività, pur dimostrando di utilizzare molto liberamente e con naturalezza anche gli schemi della iconografia tradizionale.
La particolarità dunque di questa scuola è quella di assestarsi via via sotto impulsi diversi. Ad essi si univano gli echi orientali, meridionali, settentrionali che penetravano tramite le antiche vie dei mercanti e dei pellegrini.
E pensare che proprio i Riminesi avevano, per così dire, colonizzato con nuovissimo verbo giottesco il nostro territorio marchigiano confinante, proprio agli inizi del secolo (1300), complici appunto I Francescani.
A questo punto potremmo ripetere succintamente le caratteristiche di questa scuola che riconosceremo di fronte alle pitture locali di cui parleremo:
1°-La narrazione vivace e ricca di particolari decorativi e miniaturistici (aureole)
2°-Il colorismo acceso e raffinato
3°-Le accentuazioni espressive
4°-Le disinvolte soluzioni spaziali con la plasticità delle figure.
Tra gli artisti e all’origine, si distinsero Giovanni da Rimini e suo fratello Giuliano di cui conosciamo opere firmate; probabilmente avevano appreso l’arte di Giotto stesso in Assisi e si posero alla base per i successivi sviluppi della scuola riminese.
Grande pittore e protagonista tra i Riminesi di seconda generazione si colloca Pietro da Rimini.


Pietro da Rimini. Crocifissione, particolare. (1315-1320).
Urbania. Cattedrale S. Cristoforo.

Egli rivela la sua derivazione giottesca, ma carica la scena di una particolare intensità drammatica ed espressiva dimostrando uno stile più maturo.4

In questa seconda fase di pittori riminesi si colloca anche Giovanni Baronzio, forse l’ultimo della scuola giottesca riminese. Di lui ricordiamo il polittico, tempera e oro su tavola, dipinto tra il 1345-1350 e che si trova al Museo Civico Ecclesiastico di Mercatello sul Metauro.
Si conclude così la breve attività riminese, il fenomeno artistico durato appena un cinquantennio, la cui fine coincide con il sopraggiungere della peste del 1348.
Solo nel 1935,grazie ad una grande mostra diretta da Cesare Brandi, fu chiarita l’importanza della pittura riminese del Trecento, da considerare, egli diceva, “tra le scuole pittoriche italiane del XIV secolo, quella che merita il terzo posto dopo la fiorentina e la senese per la bellezza di opere e vastità d’influssi”.
A questo valente critico d’arte il merito di aver utilizzato ufficialmente il termine scuola con cui si indica un insieme di artisti che operano contemporaneamente e secondo un sistema figurativo omogeneo.

La più antica opera di Giovanni da Rimini in nostro possesso risale al 1300 ed è Il Crocifisso di Talamello, opera palesemente ispirata alla Croce giottesca del Tempio Malatestiano di Rimini, già chiesa di San Francesco.
In questa città Giovanni e Giuliano lavorarono assieme attorno al 1303, affrescando la cappella e l’abside della chiesa di Sant’Agostino. Nel 1307 Giuliano firmò e datò il dossale su tavola con Madonna con Bambino e Santi, già in Urbania nella chiesa dell’Oratorio del Carmine ed ora a Boston.
Due anni più tardi nel 1309, Giovanni firmava il Crocifisso di Mercatello sul Metauro nella chiesa di San Francesco.
Nel 1320 i due fratelli realizzarono il Crocifisso di Sassoferrato.
Di Pietro da Rimini ricordiamo il Crocifisso che sovrasta oggi l’altare maggiore della Cattedrale di S. Cristoforo in Urbania. Tale Crocifisso è legato all’ambiente senese e allo stile di Pietro Lorenzetti; lo storico Cavalcaselle nel XIX secolo ne lodava la morbidezza del chiaro-scuro composto di luci e di ombre e la decorazione del perizoma: Tutti agganci ed elementi tipici e stilistici che dovettero intercorrere trai pittori riminesi e quelli senesi nel grande Cantiere di Assisi. Il dipinto risale tra il 1315-1320, poco prima degli affreschi di Pomposa e quelli del ciclo di San Nicola nel cappellone a Tolentino (1322).

La pittura senese:
caratteristiche e pittori

Fra fine del Duecento e la metà del Trecento Siena vive il suo momento del massimo splendore.
I magistrati che governavano la Repubblica danno grande importanza al decoro della città: il tessuto urbano è reso armonioso ed adatto alle necessità dei cittadini, si edificano chiese e palazzi; le opere d’arte sono commissionate ai migliori artisti senesi. La città è oggetto di continui miglioramenti che rivelano un cuore ed un amore particolare per la raffinatezza e per i dettagli preziosi.
L’arte senese privilegia il perfezionamento dello stile nel solco di una gloriosa tradizione. La morbidezza e la fluidità delle linee, la precisione del disegno, la leggerezza delle figure, l’equilibrio e la gradualità dei colori, sono i caratteri principali del gusto senese.
Duccio di Boninsegna (1250 circa-1317) è il capofila della pittura senese; egli parte da una rimeditazione della pittura bizantina, ma il superamento di quella tradizione avviene nella direzione di un aggiornamento fondato sulla conoscenza delle eleganti correnti gotiche d’oltralpe e quindi sulla brillantezza e sulla preziosità delle decorazioni a fondo oro delle miniature e degli avori francesi contemporanei, pervenuti tramite la via Francigena.
Simone Martini (1280/85 – Avignone 1344 ) anche lui nato a Siena si formò nella bottega di Duccio e da lui imparò a padroneggiare le linee con eleganza ed armoniosità di colori, ma in modo più moderno e gotico: è l’interprete più raffinato del gusto senese. Con la sua Maestà esprime lo splendore di una corte terrena attorniata da angeli e da santi.5
Pietro ed Ambrogio Lorenzetti contemporanei a Simone Martini furono personalità di grande rilievo nel panorama della pittura della prima metà del Trecento a Siena. Avevano personalità ben distinte; comuni ad entrambi erano però l’attenzione per il lavoro elegante di Simone Martini e la consapevolezza dell’importanza dell’arte di Giotto nella sua monumentalità.
La conoscenza dell’opera di Giotto dovette quindi agire sul linguaggio di Pietro (1280/85-1348) prima che egli si recasse a lavorare nella Basilica di Assisi Le storie della Passione di Cristo (1320 circa).
Questo dimostra quanto una diretta e convinta adesione al linguaggio giottesco abbia influito sui risultati di forza drammatica e di sapienza compositiva che qui Pietro raggiunge (espressività intensa che potrebbe derivare dalla scultura di Giovanni Pisano). Le figure hanno quindi una forte emotività che viene trasmessa dai gesti e dagli atteggiamenti e non trascurano affatto la ricercatezza del colore di matrice senese, sottolineato e ingentilito da un raffinato e caldo cromatismo.
Ambrogio è attivo a Firenze già dal 1321 e poi è a Siena. In lui confluiscono il senso del colore tipicamente senese con una vena fantasiosa e leggera, ricca di particolari narrativi e di annotazioni curiose (vedi Allegorie del Buono e Cattivo Governo di Siena).


Ambrogio Lorenzetti. Allegoria del Buon Governo, 
particolare. (1338-1340) affresco. Siena, Palazzo Pubblico.

La peste nera del 1348 segnerà il declinio della vita di Siena e della sua arte. Muoiono i grandi pittori, forse anche i Lorenzetti perché dopo il 1348 non si hanno più di loro notizie.

Da Giotto, Simone attinse il tema della profondità spaziale e gli atteggiamenti articolati delle figure e la consistenza dei corpi, ma il pittore senese divergeva profondamente da Giotto nella sensibilità estetica, segnata da una forte, irrinunciabile aspirazione alla bellezza e alla grazia delle figure. Egli era, infatti, attratto dalle vesti e dagli apparati cortesi di eleganza con i motivi di oreficeria dei tessuti, degli smalti e degli ornamenti. Tutto questo rappresentava la realtà di Siena, della corte angioina di Napoli e della corte papale di Avignone che aveva assunto il ruolo di capitale europea.

Pittori anonimi del Trecento

Tra il quarto e il quinto decennio del XIV secolo tra l’Umbria e le Marche ci fu una fioritura di pittori per lo più anonimi e locali. Non possiamo pensare al fatto che i pittori anonimi siano meno importanti di quelli riferibili ad un nome, perché con le loro caratteristiche e le loro particolarità hanno influito comunque nella storia pittorica del Trecento.
Ne citeremo alcuni, quelli che in un certo modo non esulano dal nostro oggetto di studio riferito alle pitture cagliesi di quel periodo, anzi ne sono parte integrante in quanto a loro volta hanno concorso alla formazione di altri pittori che hanno operato in ambito locale e fanno quindi parte della stessa cultura appenninica del tempo.
Possiamo allora nominare il Maestro di Sant’Emiliano, che dipinse ad affresco nella chiesa dell’abbazia di Sant’Emiliano in Congiuntoli, vicino a Scheggia, e quindi a poca distanza dai nostri confini con l’Umbria, la grande Maestà nel secondo decennio del XIV secolo.6
Possiamo citare tra i maestri anonimi della zona il Maestro di San Ginesio, il Maestro d’Offida, il Maestro dell’Incoronazione di Urbino, il Maestro di Verucchio, il Maestro del Petriccio e altri minori.
Citeremo a parte il Maestro di Campodonico, quello che più degli altri è veramente emerso e che ha avuto riflessi non da poco nel locale Maestro di Montemartello.
Nel corso della visita guidata alle pitture trecentesche della nostra città riemergerà la figura di Mello da Gubbio con i bellissimi affreschi di filiazione senese nel catino dell’abside di San Francesco.

Questa pittura staccata nel 1907 per scongiurare la rovina, ora si trova nella Pinacoteca Civica Bruno Molajoli di Fabriano; è molto bella perché grandiosa nella sua architettura e i colori sono fatti di terra e di succhi vegetali. Le figure dei santi laterali sono allungate, quasi anch’essi monumentali e aristocratici. Emerge una contaminazione giottesca per quello che riguarda le intuizioni spaziali, ma anche una possibile vicinanza con la pittura riminese e l’arte di Giuliano da Rimini, tanto da poter ipotizzare una sua formazione presso di lui.

Il Maestro di Campodonico

Sempre riferendoci al secolo XIV irrompe nella ribalta artistica fabrianese un protagonista di straordinaria personalità, senza nome, il più grande di tutti, autore degli affreschi staccati nel 1962 dalla parete absidale della chiesa della Badia di San Biagio in Caprile, nei pressi di Campodonico (Fabriano).


Maestro di Campodonico. Crocifissione. (1345) affresco staccato. 
Urbino. Galleria Nazionale delle Marche.

Gli affreschi restaurati su pannelli, rappresentanti la Crocifissione, sono stati acquistati dallo Stato italiano e sono esposti dal 1964 nella Galleria Nazionale di Urbino. Sono datati al 1345. Il pittore prende il nome di Maestro di Campodonico ed è rappresentativo della cultura assisiate, fabrianese e riminese.
Secondo un’ipotesi recente dello studioso Fabio Marcelli, confermata da altri come il critico storico dell’arte Alessandro Marchi, sembra che il pittore possa essere identificato in Bartoluccio di Fabriano, nome di miniatore presente in un corale coevo. Il ductus dell’epigrafe sottostante alla grande Crocifissione, per la finezza disegnativa ed il colore, sembra che sia stato tracciato da un esperto calligrafo, forse dallo stesso pittore miniatore.
Per quello che riguarda lo stile dell’anonimo Maestro, è probabile che nella vicina città di Fabriano ci siano in quel periodo opere pittoriche che potrebbero essere state influenzate dalla scuola riminese. In ogni caso la linea e la fisicità del Maestro di Campodonico sono senz’altro l’esito di una contaminazione verificatasi in Umbria, tra la pittura assisiate e quella senese. Il pathos sovraccarico degli Umbri dovette sicuramente commuoverlo, ma dopo questa importante frequentazione, è nei Lorenzetti, in Pietro, ma soprattutto in Ambrogio, che egli troverà la condizione per accordare con essi intuizioni plastiche e spaziali.7
Se osserviamo infatti la bellissima “Crocifissione” del Maestro di Campodonico notiamo che tanto è intensa e spirituale la scena superiore, quanto è drammatica e terrena la scena inferiore; egli infatti è in grado di esprimere nello stesso tempo beatitudine e drammaticità.
Approfondiremo i raffronti, i riferimenti culturali ed iconografici tra il Maestro di Campodonico, Mello da Gubbio e il Maestro di Montemartello quando tratteremo dei dipinti trecenteschi degli artisti operanti nelle chiese di Cagli e del circondario.



I rimandi iconografici e lo stile del Maestro di Campodonico sono quindi ravvisabili in Assisi, nei superbi murali della Basilica francescana attribuiti a Pietro Lorenzetti, dove ad esempio lo svenimento della Vergine nel gruppo delle tre persone ai piedi della Croce si ritrova nella Crocifissione della badia di San Biagio in Caprile.

La cultura appenninica nel Trecento

Secondo il critico dell’arte Giampiero Donnini, seguito anche da altri studiosi come Alessandro Marchi, Ettore Sannipoli (tutti a noi contemporanei), tra il quarto ed il sesto decennio del Trecento, nella nostra zona appenninica e nei due versanti, sembra di potere intravvedere uno scambio dialettico culturale tra alcune delle personalità artistiche che furono protagoniste sulla ribalta umbro-marchigiana. Quindi in quel triangolo geografico compreso tra Fabriano - Gubbio – Cagli ci potevano essere strette relazioni culturali che coinvolgevano rispettivamente il Maestro di Campodonico, Mello da Gubbio e il Maestro di Montemartello.
Da queste relazioni è emerso un vero e proprio focolaio di cultura appenninica; una cultura figurativa che si distingue nettamente dalle altre per alcuni caratteri specifici di forma e di contenuto. Tali caratteri si rifanno alla drammaticità umbra, alla cultura decorativa senese e a quella riminese con le sue caratteristiche coloristiche e miniatorie.

Il Maestro di Montemartello

I primi studi su alcuni affreschi staccati nella Chiesa della Misericordia li fece, poco dopo il loro ritrovamento, il prof. Luigi Michelini Tocci, studioso appassionato di storia locale. Egli fin dagli anni sessanta del secolo scorso fu tra i primi studiosi dell’arte ad attribuirli al pittore trecentesco anonimo e locale Maestro di Montemartello, già annoverato nel catalogo dei Pittori Marchigiani del Trecento. Nei suoi scritti il Michelini afferma che questo valente pittore risente notevolmente della Scuola riminese d’impronta giottesca; egli ha eseguito nelle chiese di Cagli diversi affreschi (ora porzioni o lacerti) che sono facilmente riconducibili alla sua mano perché hanno lo stesso stile e le stesse caratteristiche ( vedi ad esempio le aureole ).
Negli ultimi decenni del secolo scorso il critico d’arte Pietro Zampetti nel IV volume della sua “Pittura marchigiana” a proposito dei pittori locali del Trecento menziona tra gli altri pittori del tempo, anche il Maestro di Montemartello: “una personalità ben distinta” egli dice.
Zampetti infatti ci conferma che nel XIV secolo nella cultura dei pittori locali delle Marche, il nuovo verbo giottesco penetrava sia con la mediazione della Scuola riminese in presa diretta (vedi ad esempio i fratelli Giovanni e Giuliano, Pietro da Rimini e Giovanni Baronzio), sia con la sovrapposizione di opere di pittori fecondate dal grande impegno pittorico assisiate.
Ne consegui quindi, egli dice, che i pittori locali (compreso il nostro Maestro) ebbero a incrociare le loro opere con i pittori riminesi e quelli assisiati, creando quindi una pittura “composita” e di “mediazione”, sempre di origine giottesca.
Ai nostri giorni e con i nuovi studi, si potrebbe dire che il Maestro di Montemartello è una “creatura” dello storico dell’arte Giampiero Donnini.
Egli ne aveva già iniziato gli studi sin dal 1974 e ci dice che “nulla è dato sapere dalle fonti locali (cagliesi) di questa figura di pittore anonimo così importante, ma la sua voce si leva altissima tra coloro che animarono il movimento proscenico della pittura regionale del Trecento……..”
Egli definisce le pitture di questo Maestro dei capolavori e di alta qualità.


Maestro di Montemartello. Angeli a schiera (1350 circa), 
particolare di affresco nella volta dell’edicola di 
Santa Maria delle Stelle a Montemartello presso Cagli.

Diversi sono i richiami ai modelli di Mello da Gubbio, anche se certe convergenze di stile si ridurrebbero al solo elemento iconografico, ma lo stesso Mello potrebbe aver fatto da tramite per l’influenza senese che traspare nelle sue opere.8
E’ veramente palese, prosegue il Donnini, come il nostro Maestro sia riuscito a spaziare richiamando il linguaggio del Maestro di Campodonico. E’ proprio a lui che egli deve aver guardato nel dipingere le figure degli otto Santi rappresentati attorno alla bellissima Madonna delle Stelle nello stesso Santuario già citato. I Santi infatti, pur nella loro maestosa frontalità, sono ritratti con solida e severa eleganza (ad esempio San Pietro); alcuni hanno un aspetto aggressivo e selvatico (San Giovanni Battista), altri un vigore plastico e psicologico (San Benedetto e Sant’Orsola in cui traspare una delicatezza di sentimenti, di linea e di forma).9
Il critico Alessandro Marchi, rifacendosi al Donnini, vede anche lui nel nostro Maestro l’influsso di Mello da Gubbio, intrecciato con il linguaggio stilistico del Maestro di Campodonico; ma a suo parere egli vi trova un grande riscontro con la Scuola riminese, specie nella persona del Maestro di Verucchio (cioè Francesco da Rimini).
Vorrei riassumere quello che possiamo vedere nello stile del Maestro di Montemartello:
 Una certa vivacità espressiva
 Una drammaticità quasi teatrale che fa capo all’Umbria, al Maestro di Campodonico e alla scuola senese (Lorenzetti).
 Una caratteristica di particolarietà decorativa di Scuola riminese.


Vedi affreschi della “celletta “ o “ maestadella “ del Santuario di Santa Maria delle Stelle a Montemartello dove sia il viso del Redentore al centro della volta, sia il profilo caratteristico degli angeli che lo circondano serrati a schiera come in una parata militare, rammentano la pittura lorenzettiana.

Il Santuario è molto interessante sia dal punto di vista storico-religioso e sia dal punto di vista architettonico e pittorico.
La Chiesa è stata costruita dal Comune di Cagli nel 1495, ha una bellissima architettura in pietra a croce greca; recentemente è stata attribuita ad un probabile disegno di Giuliano Sangallo; è stata costruita sopraelevata alla “maestadella” dove appunto sono le bellissime pitture del Maestro di Montemartello.
Lungo le pareti della Chiesa sono state ravvisate sotto l’intonaco e soffocate da scansie e da altari, porzioni di pitture cinquecentesche che andrebbero recuperate e studiate. L’intero edificio comprendente chiesa e canonica ( ex alloggio dei pellegrini) è di proprietà Comunale.

Chiesa di Santa Maria della Misericordia
(Fraternita)

La Confraternita
La chiesa è sede di una Confraternita omonima antichissima che alcuni storici fanno risalire all’anno 1262, ma la sua esistenza è documentata dal 1347 e gli Statuti più antichi che regolavano la vita e l’attività della Compagnia risalgono al 1352.
L’archivio, un tempo particolarmente ricco, risulta in parte disperso a seguito della confisca dei beni della Confraternita avvenuta dopo l’Unità d’Italia (1861).10

10 A Cagli nel Medioevo vi erano diverse confraternite; lo storico Gucci (1596-1678) specifica che dentro la città, nel medesimo tempo (1300) ve n’erano quattro ed erano: “l’Ospidale di Santa Maria della Misericordia, quello di Sant’Angelo, quello di San Giovanni Battista e quello di Sant’Antonio”.
Fra queste quella di Santa Maria della Misericordia fu forse la prima ad istallarsi ed avrebbe potuto avere inizio, secondo alcuni storici, nel Duecento con la Compagnia dei Flagellanti, già esistente nella vicinissima Umbria.
La Confraternita della Misericordia nasce comunque come associazione laica di fedeli, con scopi caritativi e per opere pie, ma gestiva anche un Ospizio con l’assistenza agli ammalati ed ai pellegrini. Visti gli scopi caritativi che andava perseguendo, essa riceveva molti lasciti testamentari dai privati benestanti, dai confratelli stessi e dal Comune.
Era convinzione in quel tempo che l’uomo dovesse arrivare a Dio preparato per la fine del mondo (che sembrava imminente) e per questo avrebbe dovuto elargire elemosina ai poveri per guadagnarsi il Paradiso e raggiungere la salvezza, dopo la morte.
La ricchezza dei beni accumulati della Confraternita era notevole, per cui risultava la più ricca fra quelle esistenti in Cagli; non mancava la benevolenza della Santa Sede e da questa direttamente i fratelli laici dipendevano, sottraendosi al controllo del Vescovo diocesano.
Nel 1500 essa poteva convertire le rendite in dote per maritare zitelle povere o per quelle che entravano in Convento.
Nel 1574 la Confraternita risultava anche ricovero degli esposti (Infantium expositorium) cioè dei bambini abbandonati. Inoltre tra le opere pie era stata introdotta l’usanza di una distribuzione di pane e di carne ai bisognosi.
Tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento comincia il declinio delle Associazioni e dei Conventi che decadono con le confische di Napoleone; queste riprenderanno poi di nuovo a seguito dell’Unità d’Italia con l’applicazione del decreto Valerio, dopo il 1861. I beni della pia istituzione verranno demaniati e poi convertiti in altre forme caritative come la Congregazione di Carità. La stessa, a sua volta, verrà assorbita dal Comune e alla nostra Confraternita rimarrà la proprietà e la custodia della chiesa con altri pochissimi beni.

Architetture e vicende storiche della chiesa
La chiesa in origine era in stile romanico ad aula unica; era più piccola e posta trasversalmente con l’entrata a occidente (verso l’odierna via Bencivenne Paganucci) e l’altare maggiore a oriente come dimostrano le due piccole monofore con l’archetto a tutto sesto (ora murate) e situate a est, dalla parte della vecchia via Flaminia.
Più tardi, nel 1300, la chiesa, avendo annessa la Confraternita e l’Hospitale, venne ingrandita, si aprirono nuove finestre e venne girata di 90° nel verso in cui noi oggi la vediamo e decorata con altri affreschi.
Il tetto era quindi più alto, a capanna ed era sorretto da capriate lignee a vista; le pareti vennero dipinte da bellissimi affreschi trecenteschi fino a toccare le stesse capriate: questo spiega il taglio obliquo che essi conservano.
Vi lavoravano, come vedremo, pittori dell’area Umbro-Marchigiana.
Nel 1500 venne costruita una volta più bassa e lunettata da grandi conchiglie a rilievo sui quattro angoli della chiesa con varie insegne e colori araldici riferibili ai Montefeltro – Della Rovere. Di conseguenza le pitture medievali dei muri laterali vennero ricoperte da intonaco e distrutte; una parte di tali cicli pittorici, fortunatamente, rimase relegata e celata per molti secoli in alto, nelle soffitte, fino alla seconda metà del secolo scorso.
In quel tempo, stoltamente e senza un’adeguata preparazione tecnica, molti lacerti di affreschi (ora in sagrestia) furono staccati dal soffitto della chiesa facendo un vero scempio. Così che oggi si trovano lassù figure incomplete e cospicue porzioni di pitture che meriterebbero di essere in qualche modo recuperate.

Gli affreschi staccati: La Crocifissione e la Deposizione
I grandi frammenti di affreschi che vediamo lungo le pareti della chiesa appesi ai pannelli, facevano parte di un ciclo di affreschi o più cicli che coprivano le pareti della chiesa medievale. Sono stati staccati, recuperati e sistemati così dalla Sopraintendenza di Urbino (arrivata aihmè in ritardo) dopo gli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso.
Gli affreschi sono stati attribuiti negli anni Settanta ad un maestro anonimo, personalità riconosciuta come il Maestro di Montemartello, il cui nome si deve alla serie di pitture che lo stesso ha lasciato nel Santuario di Santa Maria delle Stelle di Montemartello, località presso Cagli.
Sono stati datati intorno al 1350.
Gli stessi pannelli sono stati esposti recentemente per la Mostra tenutasi a Fabriano dal titolo: “Da Giotto a Gentile da Fabriano” diretta da Vittorio Sgarbi e da altri studiosi; sono ritornati in questa chiesa poco tempo fa, dopo essere stati oggetto di nuovi studi da parte dei collaboratori della mostra, nonché da critici e storici dell’arte. Sono nate di conseguenza nuove ipotesi circa le attribuzioni dell’artista che vi ha operato.
E a proposito di attribuzioni possiamo aggiungere che “in arte non c’è mai nulla di definitivo,ma tutto può essere rimesso in discussione; si fa un punto e si va a capo”. (Donnini)

La Crocifissione
Descrizione:
La Croce è formata da due tronchi di legno leggero, sbozzati e messi insieme; quest’idea era sia nella cultura senese che in quella riminese, ma forse è di origine gotica e proviene dal Nord- europa. In Italia per primo la rappresenta Giovanni Pisano, alla fine del 1200 in una scultura molto bella che è a Siena, poi verrà ripresa in ambito riminese dal Maestro di Verucchio, alias Francesco da Rimini, nei primi anni del 1300.
Il nostro Maestro di Montemartello ripropone quindi questo elemento di legno di Croce ad albero.


Maestro di Montemartello. Crocifissione.(Intorno al 1350) affresco staccato. 
Cagli, chiesa di Santa Maria della Misericordia.
Inquietante è la figura di Cristo, sottolineato da un colore verdastro e da un’anatomia disarticolata; il suo corpo pesante pare che si “schianti “ dalla Croce: il bacino torna all’indietro ed è il contrario della più elegante curva gotica e bizantina che caratterizzava i pittori duecenteschi.
E’ un Cristo naturalistico, molto sofferente; il torace è a botte con le costole ben evidenti. Nelle braccia tese, si notano le nervature per lo sforzo: è proprio il momento dello schianto.
La Madonna è coperta con il suo manto blu ed esprime l’immenso dolore; pare che in questo momento sia avvenuto anche il suo svenimento perché ha preso una colorazione terrea, grigiastra, quasi da morta e priva di linfa vitale. Anche una delle Marie ha un’espressione tragica, teatrale; la Maddalena è avvinghiata ai piedi della Croce con uno sguardo disperato verso l’alto.
La figura di Giovanni presenta una lacuna al posto della testa, probabilmente dovuta ad una asportazione.
Lo sfondo dell’affresco è di colore molto scuro e pare sottolineare la tragicità dell’evento; la parte esterna del dipinto è sottolineata da una cornice verde rossiccia e bianca con decorazioni particolari che ricordano (assieme allo sfondo) quelle della Crocifissione del Maestro di Campodonico. Tale cornice accompagna l’inclinazione del tetto originale della Chiesa a capriate.

La Deposizione
ovvero Il Compianto del Cristo morto
Descrizione
La Deposizione rappresenta il Cristo deposto dalla Croce adagiato in terra e si distingue solo una parte del suo corpo. La Vergine è vestita di nero (blu scuro) e si appresta china a baciarlo; intorno sono altri astanti. La Maddalena, disperata, con il suo grido di dolore alza le braccia in alto, ha i capelli biondi disciolti sulle spalle e il vestito rosso. E’ una figura bellissima.11


Maestro di Montemartello. Deposizione. (Intorno al 1350) affresco staccato. 
Cagli, chiesa di Santa Maria della Misericordia.

Se guardiamo le sue mani vediamo che le dita sembrano degli artigli, un po’ “animalesche” quindi. Elementi questi che si possono ritrovare in certe rappresentazioni un po’ “aspre” del Maestro di Campodonico e del Maestro di Verucchio.
Inoltre notiamo che le mani della Maddalena “sforano” superando la linea della cornice e sembrano rimpicciolite; il nostro Maestro ha l’intenzione qui di accentuare l’intuizione spaziale e diremmo prospettica, anche se in forma empirica con evidente origine giottesca e di scuola riminese.
San Giovanni, inginocchiato davanti al corpo del Cristo morto, è anche lui disperato e s’intravvede mentre nasconde il suo viso dietro la mano del Cristo.
Gli altri personaggi esprimono il loro dolore attraverso gli sguardi.
Ambedue gli affreschi, commissionati al Maestro di Montemartello sicuramente dalla Confraternita della Misericordia, ci conducono con la loro espressività ad un clima di esaltazione e di disperazione mistica come nelle Laudi duecentesche e a quella fonte iconografica allora rappresentata dal Cantiere di Assisi.12
In queste pitture si nota bene che tutto concorre ad esprimere la partecipazione al dramma o meglio al melodramma che si sta compiendo. I personaggi infatti agiscono mossi da passioni e da sentimenti umani e le immagini sono rivolte a suscitare il massimo della commozione nel visitatore.
Questo sentimento avrà largo seguito nella cultura umbro-marchigiana, dando vita ad immagini dipinte o scolpite che proprio per la loro espressività indurranno a classificare le correnti figurative tardo-medievali sotto la suggestiva definizione di “Passione degli Umbri”.


11 Il colore rosso vorrebbe significare il legame che lei ha avuto con il mondo terreno; è l’espressione simbolica della sua condizione e della sua fragilità umana. E’ quasi una figura “profana” dice Donnini.

12 Le Laudi nel periodo Medievale erano dei componimenti letterari di modulo religioso – popolareggiante che si esprimevano in modo teatrale attraverso le Sacre Rappresentazioni; queste avvenivano in certi periodi dell’anno ( perlopiù a Natale e a Pasqua) sui sagrati delle chiese o all’interno.
Rievocavano, con drammatizzazione e gesti, episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento ed avevano quindi funzione liturgica; erano promosse dalla Confraternita con azione drammatica, narrativa e didascalica.
Nacquero in Umbria con Jacopone da Todi (1230-1306), grande personalità della nostra storia letteraria prima di Dante. Egli, dopo la morte improvvisa della moglie si convertì, vestì l’abito francescano, si diede per dieci anni alla penitenza ed entrò infine nell’Ordine dei Frati Minori.


Per le sue idee fu avverso al Papa Bonifacio VIII che gli diede la scomunica e lo imprigionò a Castel San Pietro sino alla sua morte. Papa Benedetto XI lo liberò sia dalla scomunica che dalla prigione. Fu autore di circa 90 Laudi di argomento religioso. Tra i suoi capolavori sono la lauda del Pianto della Madonna e lo Stabat Mater.

Santo domenicano
e lacerti di affreschi in sagrestia
Il Santo domenicano qui rappresentato con il mantello nero potrebbe essere San Domenico.


Maestro di Montemartello. Santo Domenicano. (Intorno al 1350) affresco staccato. 
Cagli, sagrestia della chiesa di Santa Maria della Misericordia.

Dal Donnini l’affresco è stato attribuito al Maestro di Montemartello. Anche questo è stato esposto alla Mostra di Fabriano 2014-2015.
È un lacerto di affresco staccato sempre dal soffitto posto al di sopra della presente volta cinquecentesca della chiesa di Santa Maria della Misericordia e potrebbe aver fatto parte di un intero ciclo di affreschi. E’ datato intorno al 1350.
La figura del Santo è rappresentata in una specie di nicchia che ha la cornice dipinta come quella dei due affreschi appesi alle pareti della chiesa. L’aureola si distingue appena nella sua punzonatura.
E’ una pittura molto interessante che evidenzia raffinatezza ed espressività; il Santo ha uno sguardo intenso e profondo.
Sempre in sagrestia ci sono molti altri lacerti di affreschi tra cui un bel viso in profilo di una Santa ignota dove ben si distingue la punzonatura a tondini dell’aureola alla maniera del nostro Maestro.
Fra gli altri lacerti di affreschi ridotti in modo quasi illeggibile, si distingue la Strage degli innocenti, tema caro alla Confraternita della Misericordia che accoglieva, come già detto anche i “trovatelli”. Questi potrebbero essere attribuiti al folignate Giovanni di Corraduccio, attivo tra la fine del 1300 e gli inizi del 1400.
Sotto un leggero strato di imbiancatura, dietro un robusto mobile, s’intravvedono figure e paesaggi (forse questi di epoca successiva) che meriterebbero di essere portati in luce come gli altri affreschi trecenteschi più importanti che sono rimasti ancora celati nel soffitto medievale della Chiesa.

I Santi a lato del Ciborio
I Santi raffigurati rappresentati a sinistra e a destra del Ciborio rinascimentale della chiesa della Misericordia provengono anche loro dal soffitto medievale e sono affreschi staccati; dopo il restauro sono stati attribuiti dal critico Adamo Rossi al già citato Giovanni di Corraduccio.
A sinistra è S.Onofrio eremita del IV secolo vissuto nel deserto egiziano per circa sessant’anni; è vestito con una specie di pelliccia e porta un bastone. In basso si legge il suo nome.
A destra è raffigurato un monaco con un libro in mano.
Sono due affreschi tardo trecenteschi di scuola umbra; l’artista è di un certo spessore.13

Chiesa di San Francesco

Architettura e vicende storiche
Dall’XI al XIII secolo, ma anche oltre, maestranze lombarde (perlopiù comasche), si snodano nella Italia centrale e negli Appennini portando con sè lo stile romanico europeo usando materiali trovati sul posto: pietra, spesso ciottoli di fiume.14
La chiesa di San Francesco come costruzione venne iniziata nel 1234 (otto anni dopo la morte di San Francesco avvenuta nel 1226), così pure il Convento annesso nel pianoro del Mercatale detto anche di Sant’Angelo “extra muros” di Cale, quasi a ridosso della consolare Flaminia.
I Conventuali vennero ad abitarvi stabilmente dall’anno 1240.
Alla costruzione contribuirono il libero Comune ed anche la collaborazione di un Berardi che personalmente aveva anticipato le competenze di Mastro Simone Lombardo addetto alle murature (dal Gucci e dal Buroni, storici cagliesi).
L’edificio ecclesiale corrisponde alla cosiddetta chiesa-fienile, ad unica navata con il tetto a capriate lignee, poiché la ricercatezza e l’abbondanza erano assolutamente contrarie alla povertà. Così erano anche le leggi severissime, determinate dalle Costituzioni generali di Narbona (Francia) del 1260 promulgate da Bonaventura da Bagnoregio per l’Ordine francescano o dei mendicanti.
A vederla dal basso, dalla piazza sottostante, la chiesa di San Francesco appare altissima, quasi inaccessibile con la sua abside poligonale gotica, segnata da arcate molto alte e cieche, forata da monofore lunghe con profonda svasatura e il fastigio trilobato; queste, assieme ad altre recentemente ripristinate, hanno contribuito a sottolineare ancor più il suo aspetto medievale.
Il paramento murario, composto da conci di bianca pietra corniola e marmarone, conferma anche lo stile romanico con prevalenza dei pieni sui vuoti, nonché una costruzione solida e massiccia rimarcata nei fianchi da lesene aggettanti congiunte in alto da grandi archi. La rifinitura finale è costituita da archetti pensili realizzati in cotto e intrecciati, posti proprio sotto il cornicione del tetto e sorretti da esili colonnine.
Per questo è evidente nella costruzione uno stile romanico con influsso gotico ed è un raro esempio di transizione tra questi due stili.
Da Francesco Maria Lombardi la chiesa è stata definita nel 1986 “emblema del gotico medio appenninico” ed appartiene a quelle tipologie di chiese francescane dette “complesse”; nelle Marche di questo tipo di chiese se ne incontrano numerosi esempi.
La facciata a capanna è rivestita in basso da una pietra biancastra che è il travertino di Piobbico, precisamente squadrato e lievigato, sormontato da un calcare lavorato in maniera più sommaria composto di conci di pietra corniola e di marmarone locale . Al centro della facciata è un occhio circolare privo di rosone che sormonta un elegante portale strombato con l’arco romanico a tutto sesto rimarcato da una ghiera.15
Ai lati del portale sono le colonnine tortili di pietra rossa (rosso ammonitico) e quelle lanceolate (a resta di pesce) di marmo cipollino. Queste sono sormontate da capitelli a mensola in pietra finemente forgiati di bellissime foglie d’acanto spinoso come se l’acanto fosse stato pettinato e si fosse improvvisamente fossilizzato, meglio, tramutato in marmo.
Fra i portali francescani della provincia, quello cagliese è certamente uno dei più belli e pregiati. Alberto Mazzacchera, noto storico contemporaneo cagliese, riporta la sua realizzazione alla data del 1348 desunta dal manoscritto secentesco del Gucci.
Questa potrebbe essere anche la data della decorazione pittorica della lunetta sovrastante attribuita, come diremo, a Mello da Gubbio.
Nella sua varietà, il nostro sacro edificio costituisce un esempio eccellente anche sotto il profilo della conservazione; infatti nonostante i ripetuti “riammodernamenti” superficialmente intrapresi nel tempo secondo l’estetica e le esigenze liturgiche, la struttura principale appare, come vedremo, ben conservata e pienamente comprensibile. La chiesa però nel suo interno ha subito una serie di notevoli deturpazioni a partire dalla scialbatura e imbiancatura del 1579.16
Inoltre vennero chiuse o modificate le monofore trilobate e vennero costruiti nuovi altari e nuove pitture sia in periodo rinascimentale che in quello barocco.
Ma le maggiori trasformazioni della Chiesa si incentrarono sull’abside.
Il restauro interno di gusto neoclassico avvenuto tra Sette e Ottocento, limitandosi ad una specie di “maquillage” superficiale, ha intaccato solo parzialmente le strutture architettoniche, consentendo il recupero degli affreschi trecenteschi che commenteremo. Infatti i medesimi si sono conservati poiché al di sotto della volta medievale era stata ricostruita una seconda calotta più bassa - in legno ed incannucciato - creando un’ intercapedine. Questa era diventata praticabile attraverso un’apertura comunicante con l’edificio conventuale diventato poi edificio scolastico; la stessa apertura ha permesso, nonostante la scialbatura, lo stacco e l’asportazione di alcune teste degli apostoli (come vedremo).
Proseguendo il nostro percorso, varcando la porta esterna della Chiesa, diamo una visione generale alla grande aula che ci accoglie con le sue numerose opere d’arte.17

13 Giovanni di Corraduccio è autore degli affreschi della cappella di Santa Croce nella Cattedrale di San Venanzio di Fabriano. E’ autore degli affreschi di Palazzo Trinci a Foligno e di alcuni affreschi nella chiesa di San Francesco a Montefalco (Umbria).
Dice il Donnini che l’artista è di “trapasso tra il gotico ed il gotico internazionale o cortese, dopo la partenza di Gentile da Fabriano per Venezia”.

14 Le famose maestranze erano costituite da maestri comacini che erano artigiani specializzati, operai edili quali muratori, carpentieri, stuccatori, scalpellini; questi avevano le macchine (“cum macinis”) consistenti in carrucole, squadre che determinavano la loro qualifica.

15 L’arco a tutto sesto è così detto da “sei” che indica i lati dell’esagono regolare inscritto in un cerchio, il cui raggio è della misura del lato dell’esagono stesso; (qui il diametro indica la metà del cerchio).
La ghiera marca la parte frontale dell’arco e ne sottolinea lo spessore.
L’arco è sostenuto da un architrave dentato (allo stile romanico) di marmo cipollino con tredici cunei ad incastro; si nota il concio in chiave d’arco a forma di tronco a piramide rovesciata.

16 Decisione dovuta oltre alle pressanti motivazioni sanitarie legate in quell’anno al dilagare della peste e dovuta anche ai dettami del Concilio di Trento in tema di raffigurazioni di soggetti sacri. E’ da considerare in ultimo anche la motivazione per cui a quel tempo non era concepito il restauro come lo è ora e molte pitture antiche vennero stoltamente ricoperte o rifatte.

17 La chiesa di San Francesco è ricca di opere d’arte, ne ricordiamo alcune:
La bellissima tela di Raffaellino del Colle Madonna con Bambino e Santi (1540-41), considerata dal critico Dal Poggetto una delle più alte espressioni del Manierismo Metaurense.
Il Crocifisso ligneo processionale del XV sec.
La tela Il miracolo della neve, opera giovanile del pittore cagliese G. Lapis (1730).
L’organo con cantoria, considerato ilpiù antico della Marche, risalente alla seconda metà del XVI sec., opera dell’emiliano Baldassare Malamini.
Il bellissimo Polittico di Cagli, tempera su tavola (1465) di Nicolò di Liberatore detto L’Alunno, non è più esistente perché asportato da Napoleone ed ora si trova alla Pinacoteca di Brera.
Anche la tela di Federico Barocci o, per alcuni, della sua bottega, rappresentante la Madonna con Bambino, Santi e devoti (1590), dopo essere stata coinvolta nelle espoliazioni napoleoniche, non è più presente perché acquistata dal Pio Sodalizio dei Piceni di Roma, dove ora risiede.


Affreschi nella controfacciata della chiesa di San Francesco
attribuiti al Maestro di Montemartello (1350 circa):
Lo Sposalizio mistico di Santa Caterina
La Madonna con Bambino e Sant’Antonio Abate
I due tabelloni devozionali sono stati celati alla vista sino all’Ottocento, quando venne rimossa la scialbatura voluta probabilmente per motivi sanitari dai Frati francescani nel 1579.
Prima del 1500 la chiesa di San Francesco aveva le pareti affrescate come testimoniano i presenti affreschi della controfacciata, quelli trecenteschi del catino dell’abside ed altri risalenti al 1400.
Piccoli lacerti di pitture ancora più antiche, forse dell’epoca della costruzione della chiesa o subito dopo, sono stati individuati recentemente nello sguancio delle finestre monofore e lungo le pareti della chiesa, consistenti in strisce decorate in forma geometrica.18
Il presente restauro ai due affreschi è avvenuto dopo la mostra Arte Francescana tra Montefeltro e Papato 1234-1528 del 2007.
Vediamo che il restauro ha restituito l’originaria qualità pittorica, seppure deturpata e resa mutila dal trascorrere del tempo e dall’incuria umana. Gli affreschi trovano le loro radici nella permeabilità culturale dell’area appenninica tra Umbria e Marche di cui abbiamo già parlato e sono quindi attribuibili alle suggestioni espressionistiche di quell’abile pittore locale che è il nostro Maestro di Montemartello o (per alcuni) alla sua cerchia, realizzati intorno al 1350.
L’affresco a destra dell’entrata alla chiesa è lo Sposalizio mistico di Santa Caterina nell’atto di ricevere l’anello nuziale che Gesù Bambino le porge al dito. Gesù Bambino è posto sulle ginocchia della Vergine in Trono; quest’ultime figure sono poco visibili perché sono mancanti di varie parti, ma si delinea bene la figura della Santa che appare tutta nella sua eleganza gotica e l’affresco potrebbe essere leggermente posteriore all’altro di sinistra.19

Maestro di Montemartello. Lo sposalizio mistico di Santa Caterina. (Intorno al 1350). 
Cagli, controfacciata della chiesa di San Francesco.


Maestro di Montemartello. Madonna con Bambino e Sant’Antonio Abate. (Intorno al 1350). 
Cagli, controfacciata della chiesa di San Francesco


Il secondo affresco a sinistra dell’entrata rappresenta la Madonna con Bambino e Sant’Antonio Abate e parrebbe più antico dell’altro.
Sant’Antonio (251-356 d.C.) è raffigurato molto anziano con la lunga barba e il mantello da frate con il cappuccio, il bastone a tau e in atteggiamento pensieroso.20
La Madonna in trono ha in braccio il Bambino Gesù che affettuosamente è alla moda lorenzettiana: appoggia la sua mano al seno di Maria.21
La qualità e lo stile del Maestro di Montemartello mostrano in questi due affreschi forti rimandi alla pittura eugubina e, attraverso gli insegnamenti di Mello da Gubbio, a una marcata propensione verso le forme senesi dei Lorenzetti e di Simone Martini (al quale è accostabile il volto della Vergine).
E’ facile osservare che queste figure, seppure sempre nella loro frontalità, dimostrano una fase più avanzata, diremmo un po’ più gotica rispetto alle figure di Mello; le aureole sono rivestite in oro (non più visibile), ma lasciano intravvedere una decorazione miniatoria a punzoni, con tondini a rilievo di maggiore consistenza volumetrica e a stella, come ben facevano i pittori di scuola riminese a cui il Maestro ha sempre guardato con interesse.

18 Nel periodo medievale era in voga fissare nelle chiese immagini di momenti di vita religiosa o il rifarsi a modelli di vita a mo’ di fumetto, riproducendo un’iconografia narrativa.
Lo scopo era quello di istruire le genti con una comunicazione per immagini, già chiamata “Biblia pauperum” secondo le indicazioni fornite da papa Gregorio Magno nel VI secolo; tale decorazione era anche detta strategia delle immagini ed era un repertorio figurativo popolare molto incisivo.
San Tommaso d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theologica elenca tre ragioni per giustificare la presenza delle pitture nelle chiese: 1° istruire le genti, 2° imprimere nella memoria di tutti le storie sacre, 3° suscitare il sentimento della devozione.

19 Santa Caterina di Alessandria d’Egitto, vergine martire del IV secolo, secondo la Legenda Aurea, durante una visione si unì in nozze mistiche con Cristo. Era figlia di un re e si rifiutò di sposare l’imperatore Massenzio. Per questo fu martirizzata su di una ruota dentata e poi decapitata con una spada. Si dice che il suo corpo sia stato trasportato da alcuni angeli in un monastero sul monte Sinai. Santa Caterina è protettrice degli studenti e della cultura in genere; una volta si diceva protettrice delle sartine.
20 Egli è considerato l’iniziatore del Monachesimo orientale ed è una delle più grandi figure del Cristianesimo. Dopo aver girato in diversi luoghi dell’Europa, visse fino a 105 anni e molti anni da eremita nel deserto egiziano, superando ogni genere di tentazione. Porta il bastone con il manico a forma di tau o croce egizia perché questa era considerata simbolo della immortalità e nell’antico Egitto fu adottata anche come simbolo dei Cristiani alessandrini. Il tau di Sant’Antonio abate è letto anche come riferimento alla stampella d’appoggio dell’infermo.

21 La mano del Bambino Gesù la possiamo riallacciare per la forma delle dita un po’ a “uncino” alla mano della “disperata” Maddalena raffigurata nell’affresco staccato della chiesa della Misericordia, e a quella del Bambino Gesù nel lacerto di affresco a San Domenico in Cagli: dipinti dello stesso Maestro di Montemartello.


Il Ciclo di affreschi nel catino medievale della chiesa di San Francesco.
Attribuzione a Mello da Gubbio (1340-1348)

Avvenimenti storici dell’abside
E’ il caso di dire che “non tutti i mali vengono per nuocere”. Ed è accaduto proprio così quando, dopo il terremoto dell’Umbria del 1997, in questa stessa chiesa di San Francesco di Cagli è caduta una parte della seconda volta absidale più bassa, costruita in legno ed incannucciato, come già detto, tra il Sette e l’Ottocento.
Lo squarcio provocato dal crollo ha lasciato intravvedere un lembo della volta gotica sottostante più antica dove si distingueva la figura di una testa di angelo ed altre forme.
Grande fu lo stupore degli storici dell’arte che già pensavano “a qualcosa di bello” e – siccome nel 2003 per il lavori di ristrutturazione e di consolidamento si doveva rimuovere questa seconda volta già mal ridotta – si sono rese ben visibili le strutture gotiche più antiche e le decorazioni che vediamo ora, coperte naturalmente di uno strato leggero di calce.

Affreschi rinvenuti
I lavori di recupero e di restauro dell’intera struttura e degli affreschi rinvenuti sono iniziati quasi subito e sono durati appena due anni. In breve tempo si sono adoperate le Istituzioni Comunali, Regionali e della Sopraintendenza che hanno incoraggiato l’operare con vari studi e ricerche e – soprattutto – con le sollecitazioni dello spirito zelante dell’allora Assessore esterno ai Beni Culturali – Monumentali di Cagli, Alberto Mazzacchera.
Nello stesso tempo si diede inizio al consolidamento dell’edificio e delle coperture del tetto della chiesa con tecnici specializzati che utilizzarono proprio le ultime novità tecnologiche del settore da poco sperimentate altrove.
Gli affreschi rinvenuti nel catino dell’abside ricoprono una superficie di circa 100 mq. Noi possiamo vederli con gli stessi occhi del visitatore cinquecentesco perché vennero scialbati, come detto, nel 1579 e possiamo dire risparmiati, rimanendo celati per più di 400 anni fino al sisma del 1997.
Senz’altro essi rappresentano la parte superiore di una più vasta campagna di affreschi che probabilmente, come da saggi effettuati, dovevano estendersi anche lungo il cilindro dell’abside, poi ricoperti dallo spessore dello stucco sovrapposto.
Gli affreschi sono risultati quindi, da vari competenti studiosi, di gran pregio e di finissima qualità pittorica; attraverso gli studi e le ricerche dello storico e critico d’arte Alessandro Marchi, sono stati attribuiti all’opera più completa e rifinita di Mello da Gubbio che li ha realizzati negli anni quaranta del Trecento. Alessandro Marchi, come vedremo, ha motivato l’attribuzione, la datazione e lo stile di questo pittore con massima precisione e competenza e per questo dobbiamo a lui riconoscenza.
Ma, come si sa, gli studi sono sempre aperti.

Costruzione della volta gotica
Dal punto di vista della costruzione architettonica si vede subito, nella volta medievale, la laboriosità della spartizione che è ben precisa, ben proporzionata nelle sue parti attraverso nove costoloni (o nervature) in muratura; questi sono dipinti alla cosmatesca come funzionava nel Trecento, partono da terra e dividono la volta in nove spicchi o vele quasi ad ombrello con sei lunettoni.

Mello da Gubbio. Costruzione della volta gotica con affreschi. 
Particolare. (1340 circa) Cagli, chiesa di San Francesco.

E’ una spartizione particolare. E questo ci dice che San Francesco è una chiesa importante: è la prima (o fra le prime) ad essere costruita nelle Marche. Come abbiamo già detto, è una raffinata realizzazione dello stile gotico anche per l’esterno con gli archetti in cotto ed intrecciati, in un intento di differenziazione cromatica.
Le chiese francescane erano chiamate “chiese a fienile” con una sola navata e le coperture a capriate, potevano avere solo l’abside voltata.
Questa abside quindi, anche internamente si presenta molto forte nella sua struttura architettonica, è altissima e la si nota subito entrando in chiesa.

Iconografia pittorica
Per quello che riguarda la decorazione pittorica notiamo che anche questa è molto rigorosa e ben proporzionata nelle sue parti ed è solenne per la presenza iconografica dei personaggi dipinti.
I lunettoni ospitano sei coppie di apostoli (due per ogni vela) seduti in troni bicuspidati in una sorta di disputa e pare siano come in un Concilio celeste a simboleggiare la Chiesa docente, riuniti in un consesso, in una riunione di persone importanti. Ma noi non ne conosciamo il motivo e dovevano certamente presupporre un denso contenuto teologico che ci spiace non poter più ammirare nella sua interezza. Noi possiamo notare che siamo alla fine del ciclo che è però anche l’inizio per quello che riguarda l’esecuzione, dato che gli affreschi venivano eseguiti dall’alto verso il basso.
Ogni coppia di apostoli è sormontata da un angelo in volo tra le nuvole che regge due corone, una corona per ogni apostolo, come investitura ufficiale.
Le vele sovrastanti ospitano sei figure di profeti racchiusi in ampi oculi trilobati.
La lunetta centrale, quella che ha avuto un’apertura con l’edificio conventuale, mostra la decorazione frammentaria di una ghiera a sesto ribassato sormontata da due angeli a braccia conserte.
Prima di proseguire nella descrizione delle due vele corrispondenti all’apertura dell’arco trionfale, proviamo a decifrare l’iconografia degli apostoli che si prospettano di fronte e dei quali abbiamo qualche elemento circa l’identificazione.
Partendo dal centro verso destra incontriamo:
 Pietro, che con chiarezza è vestito come canonicamente è vestito Pietro: di giallo e di verde; il gesto che fa con la mano destra pare indicare la presenza della Madonna; nell’altra mano ci sono le tracce delle due chiavi che senz’altro erano realizzate con lastre metalliche (probabilmente d’argento).
 Paolo con la sua spada (non più esistente); se ne vedono tracce incise nell’intonaco; la spada potrebbe essere stata realizzata anche questa all’origine con lastra metallica applicata a secco nell’affresco già dipinto.
 Filippo è riconoscibile nel secondo trono perché è giovane e glabro, come nell’affresco dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci.
 L’apostolo vestito di rosso non sappiamo chi sia.
 Anche dell’apostolo di fianco, che nasconde la mano sotto il manto, non conosciamo il nome.
 L’apostolo successivo potrebbe essere Taddeo, Giuda Taddeo con l’indice rivolto in alto. La sua iscrizione riportata nell’antica pittura italiana è “Qui tollis peccata mundi”. È quindi giudice e “patrono delle cause perse”, potrebbe indicare una intercessione per qualche fatto… Forse per la Maddalena pentita ritratta nelle vele del sovrastante arcone principale.
Sempre partendo dal centro e andando verso sinistra incontriamo:
 l’apostolo Giovanni evangelista con la sua veste rosa che regge oltre il libro la palma. Possiamo supporre che la testa di questa figura sia stata asportata volutamente in tempi non molto remoti.22
 A fianco, proseguendo verso sinistra, è rappresentata la bella figura di Giacomo Maggiore, il suo volto ha grande espressività: imponenza e cipiglio, alla moda del Maestro di Campodonico e di certe figure aspre e severe del Maestro di Montemartello.
 Quello che volge le spalle ed ha un aspetto giovanile dovrebbe essere Giacomo Minore.
 Quello seguente non sappiamo chi sia (forse Luca ?).
 Mentre l’altro ancora dovrebbe essere l’apostolo Matteo con il libro aperto (il Vangelo).
 L’ultimo con la veste fiorita è sicuramente Bartolomeo; la veste fa parte della sua iconografia. Così dipinta - con il decoro composto da tre palline fogliate in blu anziché rosse – è infatti quella del Santo nella Maestà di Palazzo dei Consoli (1336) a Gubbio, dello stesso Mello.

22 Secondo i Vangeli apocrifi la palma era stata donata a Giovanni dalla Madonna morente, di cui dunque la stessa palma suggerisce la presenza. La palma nel Medioevo rappresentava la castità ed è l’attributo della Immacolata Concezione. Nel riquadro centrale della volta, che ora mostra una porta murata, potrebbe essere stata dipinta la Vergine in un ruolo importante, ruolo che in qualche modo ci viene suggerito dalla presenza - nei lunettoni dell’arco trionfale - di due “sante caste” come Maria Maddalena e Santa Margherita.


I troni
Gli apostoli sono seduti quindi sui troni bellissimi, di architettura gotica, bicuspidati a triangolo isoscele e decorati lateralmente con foglie arricciate a gattoni che salgono lungo i margini; i fondali sono decorati alla cosmatesca.23
Questa decorazione noi la ritroviamo in diversi dipinti di Mello; qui la ritroviamo oltre che nei fondali dei troni, nelle colonne laterali, nei costoloni in muratura dell’abside gotica, nelle decorazioni al di sopra della lunetta del portale esterno della Chiesa e potrebbe essere una sua caratteristica.

23 Nome derivante da Cosmati, una famiglia di marmorari romani e del Lazio (che probabilmente traggono origine da un tale Cosma) del XII e XIII secolo, i cui membri furono decoratori ed architetti medievali. Questa decorazione, trasformata in pittura, è costituita da minuziosi disegni geometrici: una specie di stella a otto punte infilata dentro una specie di croce quadrata formata da quattro quadratini, cosicchè la stella risulta un ottagono. Lo stesso disegno geometrico può essere ripetuto, ma viene diversificato con il colore. E’ un gusto di decorazione policroma che ha analogie con modi bizantini ed orientali, adoperato sia nella scultura che nella pittura.

Angeli e nuvole
In alto, su fondo blu compatto e di grande effetto, ci sono nuvole sfrangiate, dipinte in modo veloce e con colori cangianti e liquidi; da queste emergono le figure statuarie e straordinarie degli angeli con ali filiformi ed una fisionomia un po’ inquietante; sono rappresentati come figure meravigliose, hanno gli occhi allungati, ma sottolineati solo nella palpebra superiore. Le mani sono molto aggraziate nel modo in cui sorreggono la corona sopra gli apostoli; sono angeli con tono impressionistico, diremmo.

Mello da Gubbio. Troni bicuspidati (1340 circa), particolare della volta absidale. 
Cagli, chiesa di San Francesco.


Mello da Gubbio. Angeli e nuvole (340 circa), particolare della volta absidale. 
Cagli, chiesa di San Francesco.

Quello che viene notato è il loro aspetto fisico sottolineato da vesti fasciate, attillate e quasi di una stoffa elasticizzata, riprese in basso della vita per sborsare e terminanti in una specie di gonnellina; hanno inoltre un’ampia scollatura ovoidale sulle spalle che esprime una notevole eleganza.24
Proseguendo la descrizione della volta notiamo che nella settima lunetta dove c’è il decoro arcuato che sottolinea una ghiera a sesto ribassato, poteva esserci raffigurata l’immagine della Madonna, dato che i Francescani erano detentori del culto della Madonna Immacolata, il cui dogma sarà sancito solo molto più tardi da Pio IX nel 1854.
Al di sopra di questa lunetta, nel trilobo della volta c’è dipinta la figura di San Francesco glabro, rappresentante la purezza spirituale e per questo decorato come un ragazzo senza tempo.25


24 La scollatura ovoidale si differenzia da quella che dipingerà il Maestro di Montemartello negli angeli del Santuario di Santa Maria delle Stelle; questi, pur avendo anche loro le vesti fasciate, hanno infatti la scollatura più grande, tagliata di netto e rimarcata da un profilo quadrangolare, tipica di un periodo successivo.

25 Così glabro è raffigurato San Francesco anche nella Basilica inferiore di Assisi, tutto splendente d’oro.

Trilobi nella volta
Nei trilobi della volta, racchiusi in un triangolo isoscele, ci sono raffigurati i Profeti e i Patriarchi. Si distingue bene il patriarca Enoch con la scritta: “Est Enoch……”. Si tratta di una grande figura della tradizione giudaica, che propone ad esempio la sua pietà; così è citato nel capitolo IV e V della Genesi.


Arcone trionfale
Nelle due vele dell’arcone trionfale sono raffigurate Santa Maria Maddalena e Santa Margherita.

Mello da Gubbio. La Maddalena (1340 circa), 
particolare dell’arcone trionfale della volta. 
Cagli, chiesa di San Francesco.

La Maddalena è rivestita di soli capelli che la ricoprono tutta; di fronte ha un monaco tonsurato che le porge una specie di tonaca.26
Nell’altra vela è riconoscibile, dai colori vivaci, una parte di un dragone affiancato al panneggio di una veste che per alcuni potrebbe essere quella di Santa Margherita di Antiochia vergine martire, tentata dal drago (demonio) che la divorò, ma poi lei si liberò dalle sue viscere. Per altri potrebbe essere Santa Marta perché c’è un lacerto di affresco riferibile ad un suo attributo: l’aspersorio.27
Presunta ipotesi per la motivazione del ciclo di affreschi
Il fatto di trovare nel mezzo dell’arco trionfale, in una posizione quindi di grande importanza, le pitture di queste due presunte sante, ci fa pensare che esse siano legate alle vicende storiche di questo ciclo e quindi a delle motivazioni che per noi sono ancora oscure.
La prima ipotesi potrebbe riferirsi al propagarsi del culto della Maddalena nel XIII secolo dopo il ritrovamento in Francia delle reliquie della Santa.
La seconda ipotesi potrebbe riguardare un fatto religioso, un evento accaduto in ambito francescano.28
Comunque sia non è semplice trovare la motivazione che ha animato la iconografia di questo vasto ciclo, anche se in ambito francescano le due sante Maria Maddalena e Santa Margherita (o Santa Marta) potrebbero rappresentare la castità e la purezza.


26 Secondo la Legenda Aurea scritta da Iacopo da Varazze (1230 – 1298), frate domenicano, si racconta che la Maddalena in età matura e dopo la morte di Gesù, parte dalla Palestina per giungere nella Provenza (Francia) per vivere in una grotta come eremita. Passati trent’anni, un monaco le porta una veste in modo che possa uscire. Gli angeli un giorno la vanno a prendere e la portano in cielo.

27 L’aspersorio era una specie di piumino con setole di un’erba aromatica di origine orientale che serviva per impartire la benedizione e la purificazione ai fedeli con l’acqua santa. Nei Salmi è scritto “aspergimi con l’issòpo”.
Nella Legenda Aurea si narra che Marta sconfisse un drago che terrorizzava gli abitanti di Tarascona in Provenza, calpestandolo e aspergendolo con acqua santa, risultando così vincitrice sul drago (demonio).

28 Una terza ipotesi di motivazione agli affreschi, un po’ provocatoria e quasi bizzarra, la propose scherzosamente, la sopraintendente Lorenza Mochi Onori che tanto si è adoperata per questo recupero. Ella diceva che si potrebbe pensare a qualche penitente “birichina” del tempo che si sia ravveduta da una precedente “vita licenziosa” e abbia commissionato questi affreschi al pittore Mello da Gubbio.


Motivazioni per la datazione degli affreschi dell’abside
Proprio le vesti degli angeli sopra descritti suggerirebbero indizi preziosi per la datazione degli affreschi cagliesi di Mello. Infatti le vesti degli angeli sono indice della moda di un tipo particolare di abito che sicuramente doveva appartenere alla metà del Trecento, meglio si direbbe agli anni quaranta del Trecento, periodo in cui il critico Marchi pensa siano stati dipinti gli affreschi.
Era un periodo in cui era ancora vivo e pressante l’insegnamento giottesco soprattutto nella vicina Umbria.
Allora viene spontanea una riflessione: Mello può benissimo essere stato influenzato dalla pittura del Maestro di Campodonico, proprio attorno a quegli anni (1345) in cui lo stesso dipingeva ad affresco la grande Crocifissione di San Biagio in Caprile contornata nella parte alta da angioletti dipinti con lo stesso tipo di abito.
Sono raffronti di affinità di stile e non di identità, ma possono essere elementi chiave per la datazione dei nostri affreschi.
Anche il manto rosato di Giovanni Evangelista potrebbe essere un elemento chiave per la datazione perché i panneggi sono trattati in modo sintetico con tre pieghe ed una grande trasparenza di colore, quasi metallica, all’altezza del ginocchio: anche questo denota affinità con il Maestro di Campodonico.
Aggiungiamo però che gli affreschi di Mello hanno una calma, una solennità e una monumentalità che è molto distante dalla drammaticità che il Maestro di Campodonico utilizza nella Crocifissione ed in altre opere.

Chi era Mello da Gubbio?
Vittoria Garibaldi, nota studiosa e storica dell’arte, sulla base di documenti indiretti, nel 1981 ipotizza che Mello sia nato intorno al 1285. La sua figura è giovanissima per la storia dell’arte ed è quindi una recentissima acquisizione della storia della pittura trecentesca dove le linee di demarcazione delle opinioni non sono confini geometrici.
Infatti in questi ultimi anni è riemersa la sua figura quando nel 1979 si è scoperta, da parte dello studioso Francesco Santi, la firma “Opus Melli de Eugubio” dietro la tavola rappresentante la Madonna con Bambino e Angeli ovvero “La Tavola di Agnano” del 1337.
In seguito al ritrovamento di questa firma vengono fatte crollare alcune certezze ormai storicizzate: un corpus di opere che prima erano attribuite a Guido Palmerucci (altro pittore contemporaneo eugubino), vengono ridiscusse e, per affinità ed identità di stile, vengono invece attribuite a Mello da Gubbio.
Subito è nata la fama di questo pittore che diventa il primo pittore di Gubbio del periodo trecentesco, salendo così alla ribalta e dando spunti per nuovi studi e riflessioni.
Egli appartiene ad una dinastia di pittori e si potrebbe considerare il capostipite di una genia che va da una generazione all’altra tramandando – dai primi del Trecento fino al Quattrocento – la professione di una possibile bottega cittadina.
Aveva un fratello che faceva il pittore e poi i figli Martino e Mattiolo; quest’ultimo con la qualifica di Magister lapidum, mentre Martino è pittore e, tra l’altro, padre di quel famoso ed elegante Maestro tardogotico, Ottaviano Nelli che nel Quattrocento fu pittore di corte per i Trinci di Foligno e per i Montefeltro in Urbino e a Gubbio. E’ proprio lui che normalizza il patronimico Mello in Nelli.

Circa l’attribuzione a Mello
Nonostante Gubbio possieda numerose opere di Mello, il ciclo di affreschi di Cagli viene ad essere l’impresa più importante e completa del pittore, tanto nella vastità, quanto nella raffinata qualità pittorica e nella sapiente orchestrazione del colore.
E’ la sua punta di diamante operata nella piena maturità e probabilmente in un momento in cui la sua fama aveva oltrepassato i confini cittadini.
Ne consegue quindi, da parte dell’appassionato e studioso critico d’arte Alessandro Marchi nel 2005, l’attribuzione del ciclo di affreschi dell’abside di San Francesco a Mello da Gubbio all’interno della quarta decade del Trecento.29

29 Il critico d’arte fa risalire a Mello da Gubbio l’attribuzione di questi affreschi – per confronto - con valide motivazioni. L’opera in assoluto più vicina agli affreschi di Cagli è certamente la “Maestà della Madonna dei Consoli” nel Palazzo Pubblico di Gubbio 1336 – 1337. Qui infatti possiamo ritrovare le medesime tipologie fisionomiche, ad esempio nella barba a ventaglio di San Giacomo Maggiore composta da filamenti sovrapposti ispidi ed attaccati come se fossero congelati. (In questo si vede che il pittore ha una mano molto raffinata, anche nella grafica). Ritroviamo la stessa tipologia nei capelli a ciocche degli altri santi e nella decorazione del vestito fiorito di San Bartolomeo.
Anche la vicinanza cronologica tra i due fatti pittorici dovette essere anch’essa assai serrata.
Altra conferma immediata per confronto a favore di Mello è nel Polittico della Pinacoteca di Gubbio (1330) dove si nota lo stesso ductus pittorico compresi certi stilemi (meccanicismi nel tracciato del pennello). Medesima conferma di identificazione si ha con la Croce della chiesa di San Francesco di Pergola (1325) e con quella del Duomo nella stessa città, di poco posteriore.

Stile
Per quanto riguarda le scelte stilistiche di Mello possiamo ribadire che è forte la marca seneggiante ed è forte il richiamo alle fisionomie e tipologie dei fratelli Lorenzetti e a quelli di Simone Martini dipinte in Assisi nel cantiere della Basilica inferiore.
Quindi lui è un propagatore – nelle terre che appartengono all’Umbria nord orientale e alle Marche occidentali – del verbo pittorico senese e in particolare dell’eleganza produttiva di Pietro ed Ambrogio Lorenzetti della prima metà del Trecento, divenendone, a modo suo l’epigono.
Ne è testimonianza il Polittico della Cattedrale di Gubbio (oggi alla Pinacoteca civica) del 1329 – 1330, con la sua grande attinenza allo stile di Pietro che dipinse nello stesso periodo la tavola delle Carmelitane di Siena.
Con Pietro, Mello potrà avere avuto attinenza anche per aver frequentato, come suo allievo, la bottega e soprattutto in quanto collaboratore alla grande “Crocifissione” di Assisi intorno al 1325.
In conclusione quella di Mello è una pittura principalmente di filiazione senese, che si è maturata in quest’area appenninica dove si respirava una stessa cultura proveniente da Assisi, da Siena e dove erano giunte altre contaminazioni come quella dell’anonimo Maestro di Campodonico.
Riallacciandoci alla grande qualità pittorica del ciclo di affreschi, possiamo ancora dire che è una pittura straordinaria perché ha una decorazione tersa, perfetta e raffinata, ma possiamo anche aggiungere che è un’ eccezione in terra marchigiana di quel periodo.
La qualità di esecuzione è data anche dallo stato di conservazione perché questi affreschi hanno avuto, come già detto, circa 400 anni di riposo sotto la scialbatura del 1579 e quindi hanno una “marcia in più” per non aver subito né le vicissitudini del tempo né restauri “inappropriati”; essi, ripetiamo, fanno parte di uno stile più maturo e più perfezionato del pittore.

Orchestrazione del colore
La scelta cromatica di Mello appare di grande qualità ed intensità.
I visi degli apostoli in particolare hanno un incarnato eburneo e sono composti di una pasta molto raffinata, proprio di filiazione senese.
Anche l’accostamento dei colori nelle vesti è molto ricercato: verde con il giallo, rosa con il rosso. E il rosso è meraviglioso perché diventa più cupo nelle parti più nascoste (nelle pieghe) e poi diventa violaceo. Lo stesso colore assume quindi tonalità differenti nello stesso contesto.
C’è poi una grande qualità nel tessere i colori sfumandoli; la sfumatura è realizzata sullo stesso colore e trascolora dove è tesa perché prende luce e diventa più chiara, quasi metallica, assumendo un tono ricercato e raffinato insieme.30

30 In questo modo di tessere i colori Mello s’imparenta con il linguaggio del Maestro di Campodonico che a sua volta è alla base della pittura fiorentina post-giottesca di seconda generazione e soprattutto di quella che è l’opera di Maso di Banco (a cui abbiamo dedicato un breve accenno in un capitolino delle prime pagine). Egli è un grande esperto della manipolazione dei colori, con parti molto terse, nitide che fanno risaltare di più le altre.

Intensità espressiva dei volti
Mello diversifica l’intensità espressiva dei volti con pochi tratti. Gli occhi sono sottolineati solo con il nero sulla parte superiore, ma tutto il volto ha una certa intensità psicologica.
Osseviamo l’espressione del bel viso di San Giacomo Maggiore: c’è una grinta, un certo cipiglio, mentre nello sguardo dell’apostolo con il vestito rosso (di cui non conosciamo il nome) c’è invece una certa calma e dolcezza.
Il profeta del trilobo con i capelli e barba bianca ha un’espressione molto intensa ed ha delle affinità fisionomiche con le realizzazioni sia di Ambrogio che di Pietro Lorenzetti, ma ci sono anche somiglianze con certe opere di Simone Martini, quando tutti assieme questi artisti lavoravano nel cantiere della Basilica inferiore di Assisi.

Confronti specifici con i Lorenzetti
La pittura senese dei Lorenzetti la ritroviamo in Mello nei vari elementi che emergono in questi affreschi cagliesi: non si trovano ovviamente identità con la stessa tipologia, ma vicinanze molto strette, affinità fisionomiche precise.31

31 Nella figura della Maddalena notiamo:
1. Il viso allungato.
2. Il naso lungo ed illuminato.
3. Le labbra un po’ carnose e un po’ serrate con una sorta di “broncio”. Queste sono affinità molto precise con Ambrogio Lorenzetti – nelle pitture del Palazzo Pubblico di Siena – o con la sua bottega.
4. Il personaggio “barbuto” San Giacomo Maggiore (e anche altri) ha la barba filettata quasi a filamenti metallici sovrapposti come alla moda lorenzettiana.
5. Notiamo inoltre che nella figura “dignitosa” del vecchio profeta nel trilobo, le sopracciglia bianche e i capelli bianchi un po’ cotonati alla moda del tempo, hanno riferimento sia ad Ambrogio che a Pietro Lorenzetti, ma anche a Simone Martini.
6. Così la calvizie a tratti del patriarca Enoch e dell’altro profeta ancora più vicino all’arcone trionfale è alla moda senese, in particolare a quella di Pietro Lorenzetti, ma anche a quella di Simone Martini nella grande Maestà del Palazzo Pubblico di Siena.
7. I capelli a ciocche, con andamento un po’ selvatico “a spire”, sono ugualmente alla moda di Pietro Lorenzetti e si notano anche nella figura del profeta più in alto che ha il viso incompleto.

Confronti: Mello e la pittura senese
Diciamo che, rispetto alla pittura senese, in Mello c’è forse una rigorosità maggiore. La sua pittura infatti è meno ornata di quella senese, è più sintetica, e questa è una caratteristica di questo artista.
Qui siamo alla metà del Trecento ed ancora c’è una certa gravità nelle figure e siamo inoltre di fronte agli aspetti più monumentali (per l’autorità degli apostoli) di tutto il ciclo; la narrazione, probabilmente, era nelle scene che stavano nel cilindro dell’abside (rimaste nascoste). Forse avevano un altro tipo di animazione.
Le figure degli apostoli hanno un’aria molto compassata, più intensa, più calata in un ruolo più importante e si nota bene la solennità di questa assemblea.
Nell’apostolo Giuda Taddeo, protettore delle cause perse, che indica con un dito forse un’intercessione, c’è una certa asprezza (a parte la sinopia di un ripensamento).
Importanza di Mello
A questo punto possiamo riassumere che Mello non è solo seguace, ma è anche il propagatore della pittura senese.
Per questo motivo il ciclo di affreschi di Cagli è molto importante – considerata la vastità e la qualità della pittura – ma anche perché restituisce Mello come una personalità chiave del Trecento, non solo eugubino, ma umbro e umbro-marchigiano e costituisce una certissima acquisizione per la storia dell’arte della pittura trecentesca italiana.
È probabile che, con la bottega cagliese di Mello presente in questi affreschi, Cagli sia poi divenuta un centro di azione importante nel suo prosieguo.
C’è infatti una somiglianza di stile tra Mello e il Maestro di Montemartello - che potrebbe essere uno dei figli di Mello sotto questo nome, probabilmente Mattiolo – che stanziatosi a Cagli e dipingendo in diverse chiese cagliesi, ebbe a sua volta un forte influsso riminese nella persona del Maestro di Verucchio e principalmente nel Maestro di Campodonico, come abbiamo già detto.
È probabile quindi che la bottega, o una parte della bottega di Mello che senz’altro si era sdoppiata, sia rimasta a Cagli e di questa il continuatore sia proprio il Maestro di Montemartello in una fase successiva più gotica e più matura dell’arte senese.
Gli affreschi del catino dell’abside di Mello da Gubbio sono quindi la risposta di un artista quasi locale – tra le Marche e l’Umbria – alla grande suggestione dell’arte senese.
È logico che ci sia anche qualcosa di giottesco perché possiamo sinceramente dire che Mello ha visto Assisi e vi ha lavorato.
Probabilmente più assisiate di Mello era Guiduccio di Guido Palmerucci di Gubbio, collaboratore di Giotto. Questa bottega eugubina infatti era orientata sul versante giottesco, nonostante si possa pensare che Mello e Palmerucci all’origine fossero assieme in un’unica bottega; poi nella formazione Mello fu più lorenzettiano (collaborando con Pietro) mentre Palmerucci più giottesco, quando i grandi Maestri prendevano sul posto i collaboratori per completare le loro opere.

Affresco della lunetta del portale di San Francesco.
Attribuito a Mello da Gubbio.
L’affresco della lunetta sopra il portale d’entrata alla chiesa di San Francesco, strappato e riportato su pannello, una volta era attribuito a Guido Palmerucci (Cavalcaselle e Buroni); dopo i recenti restauri vi si scorge la stessa mano del pittore della grandiosa abside gotica, quindi l’opera è attribuibile a Mello da Gubbio.
Potrebbe rappresentare la fine o la conclusione (post quem) dei lavori pittorici da lui eseguiti nella chiesa e quindi il 1348 coinciderebbe, come detto, con la data di costruzione del portale stesso.
Rappresenta la Madonna col Bambino fra i Santi Francesco e Giovanni Battista.
Tutte tre le figure sono modernamente raffigurate secondo una visione che taglia le figure sotto la vita; tutta la pittura è molto consunta e abrasa da permettere povere considerazioni tutt’altro che definitive.
Il Battista ha il volto corrucciato, con espressione intensa ed insieme selvatica, con i caratteristici occhi a forma d cipolla stretti ai lati del naso (cancellato) in forte odore “lorenzettiano”.
Il Bambino sgambettante suggerisce la conoscenza – da parte dell’autore – della scultura di Giovanni Pisano.
Al di sopra della lunetta, in alto, è un tondino rifinito alla cosmatesca, con la figura del Padre Eterno dipinto direttamente sulla pietra a mezzo fresco con i pigmenti legati con latte di calce; tecnica questa più unica che rara di cui sono conservati scarsissimi esempi. Con la medesima tecnica e la stessa decorazione sono state realizzati anche i due tondini laterali con le croci.

Chiesa di San Domenico,
già di San Giovanni Battista

Cenni storici
Originariamente e fino a metà Ottocento, la chiesa di San Domenico era chiamata di San Giovanni Battista. Venne edificata dopo la chiesa di San Francesco, tra la fine del XIII secolo e l’inizio di quello successivo, assieme al Convento omonimo abitato inizialmente dai Padri Celestini. Nel corso del Quattrocento subentrarono i Domenicani Predicatori, che rimasero fino al 1861, già reintegrati dopo l’espulsione napoleonica. A seguito della confisca del Regno d’Italia l’edificio è di proprietà dello Stato e quindi del Comune di Cagli.
La chiesa è costruita in bianca pietra calcarea detta localmente corniola, in stile romanico, l’abside è circolare e la cripta seminterrata.
L’edificio nelle pareti laterali esterne ha le lesene, gli archetti pensili in pietra, le monofore che si notano con profonda svasatura e cornici arcuate aggettanti come ghiere; in una è ancora visibile il fastigio trilobato.
L’abside circolare è posteriore e risale al 1600, come il campanile quadrangolare.
Il bel portale litico, finemente lavorato, è di stile rinascimentale e per tradizione si dice provenga dal disegno del Bramante; porta la data del 1438.
L’interno della chiesa si presenta come una vasta aula ad una sola navata; il tetto è a capanna, sostenuto da capriate in legno.
Internamente la chiesa è ricca di opere d’arte come la Cappella Tiranni dipinta ad affresco da Giovanni Santi nel 1492, oggetto di studio per diversi storici dell’arte e meta di visitatori e turisti fin dall’Ottocento.
Ci sono brevi accenni di pitture gotiche, rinascimentali, cinquecentesche, secentesche, settecentesche di notevole interesse, compresa la Presentazione al Tempio di Gaetano Lapis.
Anche la cripta con architettura ben articolata in pietra, ha le pitture molto interessanti di Antonio Viviani, detto il Sordo, allievo di Federico Barocci che risalgono – secondo Lorenza Mochi Onori – tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.

Madonna con Bambino e Santo Vescovo,
lacerto di affresco rinvenuto da sotto l’intonaco
Quello che è motivo della visita guidata in questa chiesa di San Domenico, dato l’argomento da me proposto, è la Madonna con Bambino e Santo Vescovo.

Maestro di Montemartello. Madonna con Bambino e Santo Vescovo (1350 circa) 
affresco da sotto l’intonaco. Cagli, chiesa di San Domenico.

E’ una piccola pittura ad affresco che s’intravvede da sotto l’intonaco ai lati dell’altare della Madonna del Rosario. In questi ultimi tempi dal critico Alessandro Marchi è stata confermata l’attribuzione al Maestro di Montemartello, operante nella seconda metà del Trecento.
La Madonna non rappresenta più una figura simbolo alla moda bizantina e, seppure nella sua frontalità giottesca, ha una certa espressione di dolcezza; la pittura tende alla narrazione e alla presenza umana secondo i canoni della pittura riminese. Si nota l’influsso del pittore Mello da Gubbio, le aureole sono più decorate e sembrano di maggiore consistenza perché punzonate proprio nello stile del nostro Maestro.
Le pitture potrebbero proseguire anche sotto l’intonaco, lungo le pareti si sono eseguiti infatti diversi “saggi” che lo confermerebbero.
Ancora lacerti di pittura medievale sono evidenti nella nicchia a destra dell’altare maggiore che a causa dell’umidità e dell’incuria, vanno scomparendo.
I molti dipinti trecenteschi di questo pittore in diverse chiese di Cagli, ci confermerebbero ancora una volta che il nostro anonimo pittore Maestro di Montemartello, dovrebbe essere assolutamente locale ed operante, come già detto, con una propria bottega in Cagli.


Santuario di Santa Maria delle Stelle
(nei dintorni di Cagli)
Affreschi della celletta
attribuiti al Maestro di Montemartello
(1350 circa)
Già presentati:
 Visita guidata F A I Giornate di Primavera 25-26 Marzo 2006 “Il Santuario di Santa Maria delle Stelle di Montemartello San Severo di Pigno”
 Lezione di Visita guidata UNILIT, 11 Maggio 2009 “La Chiesa Santuario di Santa Maria delle Stelle tra storia – tradizione – arte”




Maestro di Montemartello. Affreschi dell’edicola del Santuario 
di Santa Maria delle Stelledi Montemartello nei pressi di Cagli (1350 circa).


Pitture del Maestro di Montemartello
a Gubbio
Al Maestro di Montemartello è stato attribuito un affresco con San Cristoforo e Santa Caterina in uno dei costoloni della Cattedrale di Gubbio.
In effetti, i contatti tra l’area cagliese e quella eugubina erano senz’altro frequenti ed è più che probabile un’attività del Maestro di Montemartello in Gubbio.

Pitture del Maestro di Montemartello a Fossombrone
Resta il dubbio della presenza di un’artista culturalmente eugubino (o dell’area appenninica) attivo a Fossombrone nella seconda metà del Trecento, nel cui Duomo si conserva, in una cappellina, un affresco staccato con una Madonna del latte e due angeli.
Alcuni studiosi l’attribuirebbero allo stesso Maestro di Montemartello.

Pittura trecentesca all’estero
attribuita al Maestro di Montemartello.
Mercato antiquario di Parigi
Un’altra pittura (una tavola dipinta) attribuibile allo stesso Maestro di Montemartello si trovava nel mercato antiquario di Parigi.
Si tratta, secondo Fabio Marcelli, probabilmente di una composizione di un dossale con le Storie della Vergine; al centro è l’Incoronazione della Vergine, a destra lo Sposalizio e a sinistra Un angelo in volo adorante sopra una capanna.
Le figure sono state ritratte con solida e severa eleganza, ma sono un po’ aspre ed arcigne come alcuni figure dei Santi riprodotti in frontalità nelle pitture della celletta del Santuario di Montemartello, dipinte dallo stesso Maestro.

Museo Nazionale de La Valletta (Malta)
Pittura trecentesca su tavola attribuita al Maestro di Montemartello e ad altri
Al Museo Nazionale de La Valletta (Malta) – da me visitato nell’anno 2000 -, risulterebbe una pittura trecentesca su tavola dipinta dallo stesso Maestro di Montemartello.
La tavola, cuspidata, riproduce il Giudizio Universale, Flagellazione e Santi.
Ricordo di averne visto, allora, con mia sorpresa, l’etichetta in fondo con la scritta dell’attribuzione al Maestro soprannominato.
Detto questo, debbo considerare però che la stessa tavola è stata attribuita dai critici d’arte anche ad altri pittori; tra questi prevale l’attribuzione al Maestro di Campodonico.32

32 Nel 1963 esce l’importantissimo saggio di Federico Zeri in cui si avanza la proposta di attribuzione della tavola maltese al Maestro di Campodonico. “Lo stile – dice Zeri – è tutto sbilanciato in favore di Pietro Lorenzetti”. Il critico poi propone di ravvisare i precedenti del Maestro fra le fonti giottesche più vicine, da identificare nei pittori riminesi.
Nel 1967 esce il primo di una serie di interventi critici di G.Donnini. Lo studioso contrasta l’attribuzione di Zeri riguardo il dipinto de La Valletta, ove è propenso a ravvisare una qualità ed una maniera più congeniale all’ambiente padano - veneto: una vicinanza ai modi di Giusto de Menabuoi.
Nel 1972 Donnini dichiara che ha “ancora delle perplessità circa l’attribuzione del dipinto al Maestro di Campodonico“.
Fabio Marcelli nel suo Saggio del 1998 ripropone l’attribuzione al Maestro di Campodonico:
La Maddalena è seduta a terra (nella Flagellazione), scomposta e sconvolta come la Madonna che guarda attraverso la fessura della porta del Pretorio ed ascolta il lamento del Figlio.
La stravaganza della Flagellazione era già stata spiegata da Zeri con il legame alle Sacre Rappresentazioni. Marcelli ha ritrovato un riscontro letterario nella Lamentazio contenuta nel Laudario della Confraternita assisiate di Santo Stefano.
Una Mostra nel 1999 a Fabriano, con la presenza della preziosa tavola maltese, ha offerto uno studio de visu ad Andrea De Marchi con la possibilità di scoprire “per confronto” il “vero artefice”. Secondo lui potrebbe essere un anonimo pittore ligure.


Altri pittori trecenteschi a Cagli.

Chiesa di Sant’Angelo Maggiore, ovvero San Giuseppe.

Cenni storici della chiesa
La chiesa all’origine era dedicata al culto dell’Arcangelo Michele e nel 1072 risultava soggetta alla vicina Abbazia di Fonte Avellana; ebbe una prima struttura medievale di cui restano pochi segni nella parte esterna in pietra calcarea e delle monofore, mentre all’interno, nelle soffitte sovrastanti la volta cinquecentesca, si notano archi a tutto sesto e a sesto acuto; qualche lacerto di pittura medievale è all’interno della Chiesa.
Nel 1537 vi si stabilì la Confraternita di San Giuseppe in uso perpetuo che cambiò nome alla chiesa e l’abbellì con stucchi cinquecenteschi della bottega di Federico Brandani e affreschi secenteschi della bottega baroccesca del Cialdieri e del Patanazzi.
Nel 1617 la Confraternita di San Giuseppe si unì a quella SS. Crocifisso e da allora nel periodo pasquale (il Venerdì Santo) viene preparata in questa chiesa la tradizionale Processione del Cristo morto che si rifà alla tradizione umbra delle Sacre Rappresentazioni.


Pittura umbra. Madonna del latte (XIV sec.), chiesa di San Giuseppe in Cagli.


Guido Palmerucci (attribuzione). Sant’Antonio Abate (Prima metà del XIV sec.) 
chiesa di San Giuseppe in Cagli.


Madonna del Latte
Lungo la parete sinistra della chiesa e vicino alla porta d’entrata, in una nicchia vi è l’affresco trecentesco rappresentante la Madonna del Latte; è una pittura umbra, ma non si conosce l’autore.
L’ultimo restauro del 1997 ha permesso di rilevare la presenza di altre figure che affiancavano i due lati del trono della Vergine. Il volto del Bambino è invece un rifacimento posteriore non troppo riuscito, mentre il mantello della Vergine, in origine blu, fu dipinto a secco, a giudicare dalle decorazioni a rilievo esistenti.33

33 A differenza dell’affresco, la pittura a secco si eseguiva nella parete asciutta; perciò il colore, non essendo penetrato nell’intonaco bagnato, col tempo si polverizza; la tecnica usata per dipingere era la tempera: i colori venivano macinati e sciolti in acqua poi agglomerati con impasti di colla o gomme organiche, chiara d’uovo, latte…….

Sant’Antonio Abate
Sempre nella stessa chiesa di San Giuseppe, lungo le pareti della scala che portano alle Sagrestie, è raffigurato un Santo eremita identificabile con un Sant’Antonio Abate. Si distingue bene la sua figura sotto il mantello, il bastone tau, la campanella e la barba bipartita.
Anche questa pittura è di scuola umbra e fu scoperta nel 1860 e giudicata di “ buona mano” dal critico d’arte Cavalcaselle che lo rimanda alla prima metà del XIV secolo e forse riferibile a Guido Palmerucci di Gubbio.



Leonardo da Cagli
pittore trecentesco a Udine: torre campanaria

Altro pittore trecentesco locale, sconosciuto alla sua città, nominato dallo storico Carlo Arseni nel suo libro “Immagini di Cagli” 1989, è Leonardo da Cagli.
Nella torre campanaria del Duomo di Udine, si può vedere un frammento di affresco in gran parte rovinato, dal quale emerge con una certa chiarezza il particolare del volto di un Santo barbuto, d’impronta bolognese-romagnola del 1300, come scrive Alberto Rossi nel suo fascicolo del 1974.


Leonardo da Cagli. Santo barbuto (XIV sec.), particolare di affresco. 
Udine, torre campanaria della Cattedrale.

Si tratta dunque di Leonardo da Cagli, di un pittore marchigiano “vagante, omicida e spergiuro” come viene definito da G.B. Corgnali nel 1955 (F.AC.CC. 5.1955).


Affreschi tardo – trecenteschi nei dintorni di Cagli
Affreschi nel portico della chiesa di S. Maria del Petriccio (Acqualagna)

Croficissione, Annunciazione, Madonna dell’Umiltà
Nel portico della chiesa di S. Maria del Petriccio vi sono gli affreschi della Croficissione, Annunciazione e Madonna dell’Umiltà a cui già nel 1925 Luigi Serra aveva proposto l’attribuzione al Maestro marchigiano Hieronymus (Girolamo).


Maestro Hieronymus (Girolamo). Crocifissione (fine del XIV sec.) 
Lacerto di affresco nel portico della chiesa di Santa Maria del Petriccio 
nei pressi di Acqualagna.

Pietro Zampetti li definisce dell’ultima “area riminese” anche se la tradizione pittorica riminese termina drammaticamente nel 1348 causa peste.
Il critico Alessandro Marchi riconferma l’attribuzione dei dipinti allo stesso Maestro e ne definisce il periodo di attuazione intorno al 1360.
Questi affreschi lasciano pensare che Mastro Girolamo sia memore delle esperienze giottesche e che abbia avuto un legame o un approccio con il Maestro di Campodonico e la cultura senese (Pietro Lorenzetti), specialmente per quello che riguarda la luce.
All’inizio del Quattrocento e quindi in un secondo tempo, il pittore dimostrerà di essere partecipe della sensibilità decorativa tardo – gotica aderendo anche alle esigenze prospettiche.34

34 Il Maestro Girolamo dipinse – come ci riporta Bonita Cleri negli “Atti del Convegno Mercatello sul Metauro 18 – 20 settembre 1987” – anche nell’Oratorio San Giacomo di Fermignano un ciclo di affreschi e di sinopie in un periodo più tardo, tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo.
Detto Oratorio funzionava come ospedale (ospizio) per pellegrini che si dirigevano verso i luoghi Santi perché il nodo viario di Fermignano permetteva al viandante di non passare per la gola del Furlo per varie ragioni. Tali affreschi sono stati molto compromessi dal tempo; sono stati staccati, restaurati e conservati in una sala dell’Istituto di Storia dell’Arte presso l’Università di Urbino e nell’Oratorio sono rimaste alcune sinopie.
Sono affreschi posteriori a quelli del Petriccio perché hanno superato l’influsso della Scuola riminese e lasciano intendere, come detto, un rapporto con il tardo gotico.


Conclusione
Ho voluto dedicare ai miei amici ed amiche dell’Unilit di Cagli, in occasione della visita guidata del 7 maggio 2015 con l’argomento “Accenti di scuola giottesca e senese nelle pitture di Cagli” questo mio scritto, affinchè rimangano meglio impresse nella mente le opere d’arte del periodo medievale presenti nella nostra Cagli e nel circondario, in un cammino fatto assieme.
Sono opere – perlopiù frammenti o lacerti di affreschi - già conosciute perché viste da tempo nelle chiese della nostra città, ma che non sempre vengono osservate e considerate di pregio. Eppure sono opere d’arte che dobbiamo amare, apprezzare e soprattutto fare conoscere agli altri perché fanno parte del nostro patrimonio culturale locale; non sono da poco e caratterizzano un’epoca storica ben precisa.
Proseguendo in questa mia ricerca, lo studio si è sviluppato in un contesto che mi si è proposto via via, senza quasi me ne accorgessi e a cui non potevo rinunciare.
Entusiasticamente ho approfondito quindi le mie conoscenze, ho ricercato numerose notizie da scritti di storici locali, nonché da critici d’arte che in questi ultimi tempi sono stati da me conosciuti ed apprezzati.
E’ stata un’occasione, una gioia poter condividere questo mio lavoro con gli amici cagliesi dell’Unilit, ma è stato per me anche un motivo di piacevole crescita culturale.
Perciò, dedico questo scritto alle persone alle quali io mi sento più legata. GRAZIE
Tersicore Paioncini



Bibliografia
Carlo Arseni “Immagini di Cagli”. Cortona, 1989
Autori vari e Bonita Cleri “La pittura fra Romagna e Marche nella prima metà del Trecento” Notizie da Palazzo Albani. Argalia Editore. Urbino, 1988.
Cottino – Dantini – Guastalla “Quintetto d’arte”. Archimede Edizioni, 2000.
Philippe Daverio ”I capolavori dell’arte- Giotto” Edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015.
James Hall “Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte”. Longanesi, 2001.
Fabio Marcelli “Il Maestro di Campodonico. Rapporti artistici fra l’Umbria e le Marche nel Trecento”. Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana. Fabriano, 1998.
Marchi - Mazzacchera “Arte francescana fra Montefeltro e Papato, 1234-1528”. Skira, 2007.
Marrucchi–Gesti–Sirigatti “Il Gotico. Arte”. Edizione Education. Firenze, 2005.
Alberto Mazzacchera “Il forestiere in Cagli”. Pro Loco. Cagli, 1997.
Agnese Piccardini “Pietro da Rimini”. La via Lattea. Centro studi Mazzini. Urbino, 2007.
Vittorio Sgarbi “Da Giotto a Picasso”. Rizzoli libri illustrati, 2002.
Sgarbi – Donnini – Papetti - Marchi “Da Giotto a Gentile”. Catalogo mostra. Mandragola Editore, 2014.
Stefano Zulli “La storia dell’arte. Il Gotico”. Electa 2006.